Archivio del Tag ‘eredità’
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E con Genova franano 40 anni di saccheggio neoliberista
Mentre i soliti media danno il via al cerimoniale di commenti e manifestazioni di sorpresa o di indignazione per il crollo del Viadotto Polcevera, affermiamo senza mezzi termini che la serie di crolli di infrastrutture degli ultimi anni, cui oggi si aggiunge un tragico e luttuoso disastro, è una naturale conseguenza del loro invecchiamento e della consegna del Bel Paese, ben prima del crac del 2007-2008, anzi da almeno quarant’anni, alla logica dell’austerità, che prevede giocoforza ilsilenziamento degli esperti di progettazione, manutenzione e ammodernamento. Il processo non riguarda soltanto l’Italia, bensì tutta la regione transatlantica, come ricordano i lettori a proposito di ponti e di inondazioni negli Stati Uniti, per esempio. Con il “governo del cambiamento” potrebbe in effetti cessare un trentennio di “inglorioso saccheggio”, l’opposto dei “trenta gloriosi”, come i francesi chiamano la fase storica di ricostruzione postbellica. Potrebbe esservi una svolta, dopo questo lungo periodo successivo al crollo del Muro di Berlino e rispetto a un condizionamento politico frutto dell’orchestrazione di Mani Pulite, ma ancora troppi sembrano stare al gioco di chi cade dalle nuvole, per scoprire che il governo eredita interi ambiti della nostra economica nazionale lasciati al declino.Per non parlare di come l’esecutivo si confronti con l’assenza di settori economici previsti dalla lungimiranza di coloro che, come dicevano, furono ridotti al silenzio, affinché i tecnocrati potessero procedere con il saccheggio del capitale nazionale. Casi emblematici delle due categorie? Maltenute sono le infrastrutture di gestione delle acque e disattesi i piani di sviluppo concepiti con le più ampie vedute urbanistiche. Assenti i sistemi di trasporto avveniristici rimasti tra le pagine di fantascienza o al più delle riviste di divulgazione scientifica: il treno a levitazione magnetica, l’aerotreno, gli hovercraft, gli aerei civili supersonici, le navi a propulsione magnetoidrodinamica, ecc.. In gravissimo affanno il settore della ricerca nello sfruttamento per scopi pacifici dell’energia custodita nei nuclei, in primis tramite la fusione nucleare. Quel che si trova alla “fine del ciclo vitale” non è, tuttavia, soltanto il parco composto delle numerosissime infrastrutture (a tal proposito approviamo il riferimento al Piano Marshall nel recente appello del Cnr alla ricostruzione delle opere obsolete), tra le quali i gioielli ingegneristici o di armonizzazione con il paesaggio costruiti anche in anticipo rispetto alle altre grandi potenze occidentali.I candidati sono stati eletti nel “governo del cambiamento” grazie ad animati discorsi sull’urgenza di intaccare la Legge Fornero, di smontare la Buona Scuola, di rivedere il Jobs Act, ma non avrebbero dovuto trascurare che l’inesorabile legge cronologica del “fine vita” vige anche per le opere immateriali: essa si applica ai cicli di vita della società stessa, quelli durante i quali prosperano le nefaste mezze verità dei sofisti. Sotto sforzi eccessivi non sono soltanto le strutture progettate dagli ingegneri, ma anche la capacità demografica della società stessa, che è stata indotta, con la negazione degli appropriati investimenti, a rinunciare di costruire la propria base di futuro progresso dei livelli di vita (lo trovate un caso che la vita media abbia cominciato lievemente a calare?). Altra cosa sarebbe stata, durante la campagna elettorale, se l’attacco alla Fornero fosse stato esteso a tutte le “riforme pensionistiche” risalendo sino a Lamberto Dini; se il male della scuola non fosse stato additato nella sola “riforma” renziana, ma si fosse aperto un dibattito sull’optimum raggiunto nei cento-cinquantanni di scuola pubblica (che in sé sono stati una lunghissima sperimentazione); se sulla questione del lavoro non si fosse sbandierata un’opposizione limitata al Jobs Act, ma fossero stati presentati in modo organico gli argomenti a favore di una rinascita economica, per incidere coordinatamente su altri fattori (moneta unica, parametri non scientifici di Maastricht, pareggio di bilancio in Costituzione, sovranità nella politica economica delle grandi opere, ecc.) anziché perdurare nella dinamica pluridecennale della depressione dei salari.Crollano, assieme ai ponti veri, i castelli fiabeschi di sabbia del sistema venduto come l’unico rimasto a disposizione, quello del liberismo, che in verità è già una concessione chiamare “sistema economico”. Siamo alla fine di un ciclo narrativo di menzogne al servizio degli avvoltoi finanziarii e in questo momento di transizione occorre tener presente che vi è chi ci consegna colpevolmente un paese in più modi fallato (non sono esclusi gli inetti o coloro che hanno preferito credere alla fiabe) e chi rischia di svilire l’impulso degli elettori, non osando essere di radicale cambiamento, ma accontentandosi di far appello alla memoria corta delle masse, invece che alla memoria a lungo termine degli esperti emarginati per decenni. Stiamo parlando di un’epoca che deve andarsene e della necessità di limitare i dolori del travaglio. Non è vero che abbiamo troppe infrastrutture: la rete ferroviaria è poco più di quella di Cavour, mentre la popolazione è nel frattempo triplicata. Ma anche, non fu mai vero che le pensioni fossero insostenibili, quando Dini vi mise mano.Non fu mai vero che la scuola dovesse trasformarsi in bottega e rafforzare la propria deriva con l’autoritarismo sotto la maschera della “autonomia” attenta alle “esigenze del territorio”. Non fu mai vero che il lavoro umano dovesse essere passato nel tritacarne della depressione dei salari. Se questa dolente epoca deve cedere, dobbiamo riconoscere altresì che non fu mai vero che la sovranità monetaria fu mal gestita dal nostro paese. Furono piuttosto certe morti di rilievo politico (Mattei, Moro, ecc.) ad arrestare la nostra corsa verso il progresso materiale e spirituale. Bisogna avere il coraggio di far maturare appieno e in brevissimo tempo il dibattito più strategico, assai mirato sulla necessità di rivedere quei vincoli che hanno determinato il disastro e continuano a legare le mani a chiunque sia chiamato a servire il paese, e non gli speculatori. Questi non staranno a lungo in attesa prima di sferrare qualche colpo.(Flavio Tabanelli, “Ponti, pensioni e altri assetti alla prova del governo del cambiamento”, da “Scenari Economici” del 15 agosto 2018).Mentre i soliti media danno il via al cerimoniale di commenti e manifestazioni di sorpresa o di indignazione per il crollo del Viadotto Polcevera, affermiamo senza mezzi termini che la serie di crolli di infrastrutture degli ultimi anni, cui oggi si aggiunge un tragico e luttuoso disastro, è una naturale conseguenza del loro invecchiamento e della consegna del Bel Paese, ben prima del crac del 2007-2008, anzi da almeno quarant’anni, alla logica dell’austerità, che prevede giocoforza ilsilenziamento degli esperti di progettazione, manutenzione e ammodernamento. Il processo non riguarda soltanto l’Italia, bensì tutta la regione transatlantica, come ricordano i lettori a proposito di ponti e di inondazioni negli Stati Uniti, per esempio. Con il “governo del cambiamento” potrebbe in effetti cessare un trentennio di “inglorioso saccheggio”, l’opposto dei “trenta gloriosi”, come i francesi chiamano la fase storica di ricostruzione postbellica. Potrebbe esservi una svolta, dopo questo lungo periodo successivo al crollo del Muro di Berlino e rispetto a un condizionamento politico frutto dell’orchestrazione di Mani Pulite, ma ancora troppi sembrano stare al gioco di chi cade dalle nuvole, per scoprire che il governo eredita interi ambiti della nostra economica nazionale lasciati al declino.
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Magaldi: ma non ha vinto Macron, e il mondo sta rinascendo
Neppure la vittoria ai mondiali di calcio salverà il povero Macron? «Non scherziamo: nella finale di Mosca non ha vinto Macron, ma la Francia del 14 luglio: per questo ho festeggiato, cantando la Marsigliese». Gioele Magaldi, ovvero: l’ottimismo della volontà, persino in salsa calcistica. “The times they are a-changing”, cantava Bob Dylan. Era il 1964 e alla Casa Bianca sedeva Lyndon Johnson, fautore della Great Society di ispirazione kennediana, aperta alle minoranze e improntata all’estensione dei diritti. Poi è scesa la grande notte del neoliberismo, che ha deturpato il “nuovo mondo” che sarebbe potuto fiorire dopo il crollo dell’Urss, fino a proporre gli orrori di Bush e la nuova guerra fredda di Obama contro Putin. Ma ora le cose – di nuovo – stanno per cambiare, a quanto pare, su tutti i fronti: basta vedere il feeling che avvicina, a Helsinki, il presidente russo (fresco di Mondiali) e il collega americano Trump, reduce dalla storica pace con la Corea del Nord. Gran maestro del Grande Oriente Democratico nonché presidente del Movimento Roosevelt e autore del bestseller “Massoni” che mette in piazza le malefatte dell’oligarchia supermassonica reazionaria, il progressista Magaldi esulta per il trionfo dei “bleus” allo stadio di Mosca, nonostante gli italiani tifassero Croazia. E spiega: «A Parigi come a Washington c’è un humus, un’ideologia che ha dato al mondo democrazia, diritti e libertà, incluso il diritto alla felicità. Sono valori che trasformeranno il pianeta, rendendolo migliore e più giusto».“The times they are a-changing”, sostiene Magaldi nella sua narrazione a puntate, ogni lunedì ai microfoni di “Colors Radio”. Trump e Putin? Appunto: come ampiamente previsto dal presidente del Movimento Roosevelt, l’istrionico Maverick della Casa Bianca sta facendo piazza pulita degli antichi pregiudizi su cui si è fondato il “partito della guerra”, più mercenario che patriottico. Lo Zar del Cremlino? «Non privo di una sua grandezza», riconobbe Magaldi, quando Putin rifiutò di espellere diplomatici americani dopo la cacciata dei funzionari dell’ambasciata russa disposta da Obama. Tutto sta davvero cambiando, giorno per giorno: e infatti ad essere “en marche”, oggi, non è la Francia imbrigliata da Macron, ma l’Italia di Conte: «Il nostro paese – dice Magaldi – potrà tornare a rivestire il suo storico ruolo di “ponte”, con la Russia ma anche con l’Africa e il Medio Oriente: è tempo infatti che vengano archiviate le storiche clausole segrete, connesse a Yalta e ad altri trattati del dopoguerra, che limitavano la nostra libertà d’azione – trattati comunque aggirati, a suo tempo, dalla politica mediterranea dei Mattei e dei Moro».Lo ricorda Giovanni Fasanella in “Colonia Italia”: le superpotenze ci “affidarono” al controllo britannico, a limitare la nostra sovranità. Ora basta, però: «E’ è venuto il tempo di dare all’Italia piena indipendenza e autonomia politica, consentendole di recitare un ruolo di “cerniera di pace” e prima promotrice di un Piano Marshall per l’Africa», dice Magaldi, che – insieme a Patrizia Scanu, neo-segretaria del Movimento Roosevelt – ne riparlerà in autunno a Milano, in un evento dedicato anche all’eredità politica del leader sovranista africano Thomas Sankara. Grande la confusione, intanto, sotto le stelle: restano le sanzioni contro Mosca innescate dalla crisi ucraina, mentre l’Europa «non si capisce cosa voglia e non esiste come soggetto geopolitico». Iperboli: «Trump accusato in casa di “intelligenza col nemico russo” poi rimprovera la Merkel di eccessiva familiarità e connivenza con alcuni interessi russi». E non mancano intrecci personali: «Il “fratello” Putin e la “sorella” Merkel – ricorda Magaldi – furono iniziati già molti anni fa nella stessa Ur-Lodge», la Golden Eurasia. Massoni, appunto: il problema, insiste Magaldi, non è il grembiulino che indossano, ma l’orientamento politico che promuovono.L’ipocrita massonofobia di Di Maio, estesa alla Lega nel “contratto” di governo? I vertici “gialloverdi”, dice Magaldi, temono che i loro elettori (non informati sulla storia patria) scambino la massoneria per un’associazione a delinquere. Magaldi punta il dito contro Elio Lannutti, esponente 5 Stelle, «in passato protagonista di battaglie meritorie». Ora vorrebbe una legge che vietasse ai massoni l’accesso alle cariche statali, sbarrando loro le porte di polizia e magistratura: «Siamo alla follia liberticida, queste cose le hanno fatte i regimi comunisti e fascisti», protesta Magaldi. E attenzione: il tema massoneria (compresa l’avversione ai “grembiulini”) va maneggiato con cura: «Nel 1800 negli Usa sorse un Anti-Masonic Party fondato però da massoni: spesso le campagne antimassoniche, nella storia, sono state progettate da massoni di altro segno, per colpire circuiti massonici opposti ai loro». Non è il caso dell’Italia, dove secondo Magaldi si sconta una semplice ignoranza della materia: si confonde la libera muratoria democratica degli eredi di Garibaldi, Mazzini e Cavour con la P2 di Gelli, braccio operativo della superloggia sovranazionale “Three Eyes”, di natura pericolosamente oligarchica e spesso eversiva. In massoneria, ricorda Magaldi, non possono entrare pregiudicati né possono restarvi soggetti che non rispettino la Costituzione e le leggi. «Aiuteremo gli amici “gialloverdi” a chiarirsi le idee, ma se il pregiudizio antimassonico perdurerà – avverte il gran maestro – faremo i nomi dei massoni progressisti, leghisti e penstastellati, che siedono nel governo Conte e nelle altre istituzioni».Comunque, a parte gli ultimi «untori del culturame antimassonico», nella narrazione magaldiana – massonico-progressista, avversa al lungo dominio della supermassoneria neo-aristocratica – all’indomani dei Mondiali di calcio (e del vertice di Helsinki) c’è posto solo per un cauto ma tenace ottimismo nella riscossa democratica di un mondo globalizzato in modo autoritario. Lo si può vedere, sostiene il presidente del Movimento Roosevelt, a partire dalla cruciale trincea italiana. Al netto delle pretattiche, dice Magaldi, vedrete che arriveranno cambiamenti sostanziali: «E’ vero, in molti sono allarmati perché il ministro Tria insiste troppo sul contenimento del debito pubblico, sul rigore dei conti e sulla rassicurazione dei mercati. Ma si tratta di non fare il gioco degli strumentalizzatori, che a suo tempo hanno infierito su Savona per cercare di impedire la nascita del governo “gialloverde”. Quando però arriveranno misure importanti – pronostica Magaldi – allora sarà chiaro quale paradigma economico si adotterà, rispetto all’Europa e alle voci di spesa. Il povero Tria? E’ stato chiamato per un ruolo in copione che è quello del rassicuratore, ma poi le decisioni non saranno nel senso della continuità. Tant’è che proprio alcune esternazioni di Savona fanno capire qual è la vera sceneggiatura», con un’Italia non più prona ai diktat di Bruxelles.Idem sul capitolo vaccini: non brilla per chiarezza, Giulia Grillo, che infatti non ha sconfessato la legge Lorenzin. «E’ però un passo avanti notevolissimo l’aver eliminato l’odiosa costrizione in stile Gestapo che privava i bambini non vaccinati del diritto all’istruzione». Insomma, si respira un’altra aria, pur in un terreno minato da troppi dogmi – che non la scienza non dovrebbero aver nulla a che fare. Può anche funzionare il concetto dell’immunità di gregge (più vaccinati, meno possibilità di contrarre malattie) ma occorrerebbe un’indagine scientifica molto seria su quanti e quali vaccini vadano somministrati, e se l’eccesso di vaccini non produca effetti controproducenti, come nel caso dei vaccini militari cui il Movimento Roosevelt ha dedicato un convegno a Torino con il vicepresidente della commissione difesa. Non possono mancare libertà e confronto critico, aggiunge Magaldi: «Bisogna denunciare ad alta voce, anzitutto sul piano metodologico, che in Italia – durante il clima plumbeo del governo Gentiloni – chiunque della comunuità scientifica osasse discutere l’idea che andassero propinati 12 vaccini veniva escluso, ghettizzato, calunniato e demonizzato (e parlo di medici anche di grande spessore). Chi osava contrapporsi a quel clima veniva emarginato, se non sanzionato. Sono cose da paese del quarto mondo».Libertà scientifica: chi sostiene la bontà dell’attuale sistema vaccinale, insiste Magaldi, abbia il coraggio e l’onestà di confrontarsi con chi è scettico. «E c’è un problema di mancata sperimentazione: di troppi vaccini non si conoscono gli effetti. Sono tanti gli interrogativi, e solo nell’orizzonte del dubbio (in cui dovrebbe essere connaturata la scienza) il problema si può risolvere». Invece, scontiamo «l’indottrinamento disdicevole da parte di divulgatori come Piero Angela, secondo cui la scienza non è democratica e ha sempre ragione». Per Magaldi, sono «vistosi casi di insipienza storica e ignoranza profonda sulla genesi del metodo scientifico, fondato proprio sul dubbio: la scienza moderna, da cui nasce la nostra tecnologia, è fondata sulla messa in discussione del principio di autorità – che appartiene invece al mondo pre-moderno». Una cosa è vera solo perché lo dicono i detentori di quel sapere? Concezione antica: «Nella comunità scientifica moderna ci devono essere posizioni dissonanti: nessuna ipotesi può essere vera a prescindere». Il nostro paese, aggiunge Magaldi, «è ostaggio anche di cattivi divulgatori di un’idea della scienza che è inconsistente e contraria ai principi della contemporaneità». Ma attenzione: neppure questo “muro” dogmatico resisterà per sempre. Verrà il giorno in cui avremo finalmente «un confronto pacato», che riconosca il ruolo storico di alcuni vaccini per la nostra salute ma, al tempo stesso, valuti – seriamente – l’opportunità e la sicurezza di altri vaccini, nient’affatto scontate.«L’affermazione della democrazia – ricorda Magaldi – è coeva dell’affermazione della scienza moderna: è essenziale la libertà nel valutare le opzioni terapeutiche». Vale per tutto: se si applica il “filtro” della democrazia anche al contesto scientifico, finiscono per crollare miti e verità di fede. Lo stesso principio funziona ovunque si guardi, persino nella polveriera del Medio Oriente: «Credo che verrà il tempo per una pacifica soluzione del conflitto israelo-palestinese», auspica Magaldi, osservando la scena con lucidità: «In fondo l’estremismo di Hamas e quello di Netanyahu si sostengono a vicenda, sono due facce della stessa medaglia: si reggono sull’ostilità reciproca e quindi hanno bisogno l’uno dell’altro. Non a caso ad essere assassinato fu Yitzhak Rabin, il massone progressista che voleva davvero la pace e quindi uno Stato palestinese». Se la ride, Magaldi, pendando agli amici che il 15 luglio davanti al televisore hanno trepidato per la Croazia per avversione nei confronti di Macron. Il capo dell’Eliseo? «Si è reso odioso: è un cicisbeo politico, continuatore delle politiche di Hollande e rappresentante di questo establishment puzzolente dell’attuale Disunione Europea. Con rara ipocrisia e faccia di bronzo ha detto parole inammissibili nei confronti del governo italiano e dell’Italia, nel corso di questa crisi sui migranti». Ma Macron non è la Francia, così come Bush non era l’America: «Guardiamo con amore a questi paesi – chiosa Magaldi – perché tantissimi francesi (come tantissimi statunitensi) insieme a noi cittadini del mondo – italiani, europei, cinesi, giapponesi – dovranno costruire un pianeta più equo, che abbia come faro la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo: diritti non solo civili ma, finalmente, anche economici e sociali».Neppure la vittoria ai mondiali di calcio salverà il povero Macron? «Non scherziamo: nella finale di Mosca non ha vinto Macron, ma la Francia del 14 luglio: per questo ho festeggiato, cantando la Marsigliese». Gioele Magaldi, ovvero: l’ottimismo della volontà, persino in salsa calcistica. “The times they are a-changing”, cantava Bob Dylan. Era il 1964 e alla Casa Bianca sedeva Lyndon Johnson, fautore della Great Society di ispirazione kennediana, aperta alle minoranze e improntata all’estensione dei diritti. Poi è scesa la grande notte del neoliberismo, che ha deturpato il “nuovo mondo” che sarebbe potuto fiorire dopo il crollo dell’Urss, fino a proporre gli orrori di Bush e la nuova guerra fredda di Obama contro Putin. Ma ora le cose – di nuovo – stanno per cambiare, a quanto pare, su tutti i fronti: basta vedere il feeling che avvicina, a Helsinki, il presidente russo (fresco di Mondiali) e il collega americano Trump, reduce dalla storica pace con la Corea del Nord. Gran maestro del Grande Oriente Democratico nonché presidente del Movimento Roosevelt e autore del bestseller “Massoni” che mette in piazza le malefatte dell’oligarchia supermassonica reazionaria, il progressista Magaldi esulta per il trionfo dei “bleus” allo stadio moscovita, nonostante gli italiani tifassero Croazia. E spiega: «A Parigi come a Washington c’è un humus, un’ideologia che ha dato al mondo democrazia, diritti e libertà, incluso il diritto alla felicità. Sono valori che trasformeranno il pianeta, rendendolo migliore e più giusto».
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Nella Terza Repubblica non c’è posto per i finti progressisti
Fine della farsa: siamo nella Terza Repubblica, dove le parole di ieri – per lo più false – non valgono più. Per Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, si apre sotto i migliori auspici una nuova stagione, il ritorno alla democrazia, dopo la Notte della (Seconda) Repubblica fondata sull’equivoco di slogan europeisti snocciolati per mascherare l’inganno di politiche a senso unico – austerity, tagli, privatizzazioni, guerra al deficit – progettate dall’oligarchia finanziaria ai danni dei popoli europei. Ne è la prova il terremoto politico in corso in Italia, che sta gettando nel panico sia i rottami del Pd che i suoi padrini, italiani e non. «Sono forze politiche, economiche, meta-politiche e massoniche europee e internazionali quelle che guardano con paura e avversione a questo governo Conte, che potrebbe avviare un cambiamento epocale, non solo nei rapporti Italia-Europa ma proprio nella rivisitazione politica, economica, sociale di questa Disunione Europea», sostiene Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio”. «Proprio per questo, accanto a Lega e 5 Stelle, conviene pensare ad altri soggetti politici del tutto nuovi, utili per la Terza Repubblica. Ed è con questo spirito – annuncia – che a Roma, il 14 luglio, faremo la prima tavola rotonda sul “partito che serve all’Italia”».Premessa: massimo rispetto dell’asse gialloverde. Salvini? «Lo giudico uno dei politici più interessanti, oggi, per l’Italia e per l’Europa, e continuerò a difenderlo da ogni accusa pretestuosa di razzismo, xenofobia e atteggiamenti fascistoidi: ogni volta che viene attaccato, puntualmente, basta andare oltre i titoli e i lanci sensazionalistici di agenzia per scoprire che ha detto cose spesso condivisibili e comunque pacate, sobrie e ragionevoli». Magaldi parla (anche) a nome dei circuiti massonici progressisti che sostengono il “governo del cambiamento”. Sia chiaro, avverte: «Non faremo sconti, né a Salvini né a Di Maio né al governo Conte, rispetto a quello che ci aspettiamo da loro. Su certi temi, se vi fossero scivoloni di natura illiberale o non democratica saremo i primi a denunciarli». Ma intanto, aggiunge, Salvini è stato soprattutto «oggetto di campagne di odio e disinformazione, da parte di chi vorrebbe che tutto restasse così com’è». La Lega come vettore di cambiamento, che – da Pontida – propone addirittura trent’anni di governo in tandem con i 5 Stelle? «Sono felice del reciproco riconoscimento tra questi due partiti, che l’elettorato ha premiato», dichiara Magaldi. «La Lega si è completamente rinnovata proprio grazie a Salvini e ad altri giovani dirigenti, e anche i 5 Stelle sono in corso di progressiva maturazione».L’elettorato semmai ha bastonato il centrodestra, ridimensionando Forza Italia, e ha sanzionato anche le forze del sedicente centrosinistra, cioè «gli epigoni della Seconda Repubblica, bocciati dagli elettori che hanno invece espresso una fiducia chiarissima alla Lega e ai 5 Stelle». Futuro gialloverde? Ottima prospettiva: «Sarebbe molto utile se Lega e 5 Stelle si presentassero insieme, in future competizioni elettorali», ipotizza Magaldi, impegnato con il Movimento Roosevelt a «supportare e consolidare un futuro asse tra leghisti e pentastellati». E non è tutto: bisogna anche «offrire una occasione di partecipazione politica a quei soggetti, cittadini, gruppi sociali e associazioni che non si riconoscono nella Lega e nei 5 Stelle ma neppure più nel centrodestra e nel centrosinistra, e quindi cercano un nuovo veicolo politico nel quale vedere rappresentata la loro sovranità». Da qui l’assise romana del 14 luglio, anniversario della Presa della Bastiglia, con politologi e sociologi, storici e giuristi: «E’ un modo per festeggiare la democrazia: prima l’idea, poi l’utopia e infine la realtà della democrazia, quella democrazia che noi vogliamo difendere da chi l’ha calpestata, vilipesa e svuotata di sostanza», dice Magaldi. «Lega, 5 Stelle e governo Conte, del resto, nascono proprio per ridare democrazia sostanziale ai cittadini – e quindi diritti, prospettive economiche».Salvini a Pontida annuncia la volontà di negoziare in Europa condizioni economiche che siano a vantaggio dei popoli, mentre Di Maio presenta finalmente iniziative di sviluppo dell’economia. Magaldi non teme di usare parole altisonanti: «Forse è l’avvio di una rivoluzione, la nascita della Terza Repubblica in Italia e l’alba di una nuova Europa», checché ne pensino i reduci del renzismo. A proposito: che dire dell’ex ministro Carlo Calenda e dei suoi ripensamenti “salviniani” sulla politica per i migranti, in linea con il blocco dei porti che avrebbe voluto attuare lo stesso Minniti? Su Calenda, Magaldi è scettico: «E’ un personaggio che potrebbe fare l’interprete di un film, “Renzi 2 – la vendetta”». In fondo, Calenda «è un Renzi aggiornato alla situazione attuale, sgangherata, dove in tanti dicono di voler andare oltre il Pd». Tutte chiacchiere: l’ex ministro già montiano «appartiene allo stesso establishment che ha mal gestito politica ed economia italiana». E poi, cosa propone Calenda? «Non riconosco particolare spessore né a lui né ad altri candidati a ereditare quel che resta di quella forza politica», afferma Magaldi. «Anziché sottoscrivere queste ammissioni di colpa fuori tempo massimo, Calenda e soci dovrebbero dirci cosa vogliono fare, nel presente e nel futuro».Il problema del Pd, aggiunge Magaldi, non sta nella mancata chiusura dei porti, all’epoca di Minniti. Il vero guaio è che «ha preteso di essere l’erede di una tradizione progressista, laddove invece – da molti anni – si è fatto interprete del conservatorismo e della reazione neoliberista più becera, nonostante le aspettative anche di quei ceti popolari che un tempo hanno votato partiti sedicenti progressisti, di cui il Pd è erede». Proposte concrete? Non pervenute. A dire il vero «Nicola Zingaretti qualcosina l’ha detta, ma è anche molto bravo ad arrivare a cose fatte: ai tempi in cui il Pd veniva gestito in una certa direzione, non ricordo uno Zingaretti che si fosse messo a fare un’opposizione dura e pura alla traiettoria renziana. Adesso, certo, arrivano tutti e si accreditano come rinnovatori». Magaldi li esorta a riflettere su un punto chiave: «La scena politica della Terza Repubblica sarà di coloro i quali smetteranno di fingersi quello che non sono, e cercheranno di rappresentare le istanze della sovranità popolare». Istanze che ovviamente «sono molto diverse da quelle linee-guida di governo della politica e dell’economia che hanno caratterizzato la Seconda Repubblica, cioè gli ultimi 25 anni». Per intenderci: «Chi si fa paladino dei diritti civili ha trascurato del tutto quelli sociali ed economici. Avrà la capacità di capire che tutti i diritti vanno saldati insieme? Solo allora ci sarà una speranza, anche per quell’area politica, di rigenerarsi». E dunque porte aperte, nel “partito che serve all’Italia”, anche «ai dirigenti del Pd in crisi di coscienza e di identità, oltre che a tutti gli elettori che sono in crisi di appartenenza e di fiducia».Fine della farsa: siamo nella Terza Repubblica, dove le parole di ieri – per lo più false – non valgono più. Per Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, si apre sotto i migliori auspici una nuova stagione, il ritorno alla democrazia, dopo la Notte della (Seconda) Repubblica fondata sull’equivoco di slogan europeisti snocciolati per mascherare l’inganno di politiche a senso unico – austerity, tagli, privatizzazioni, guerra al deficit – progettate dall’oligarchia finanziaria ai danni dei popoli europei. Ne è la prova il terremoto politico in corso in Italia, che sta gettando nel panico sia i rottami del Pd che i suoi padrini, italiani e non. «Sono forze politiche, economiche, meta-politiche e massoniche europee e internazionali quelle che guardano con paura e avversione a questo governo Conte, che potrebbe avviare un cambiamento epocale, non solo nei rapporti Italia-Europa ma proprio nella rivisitazione politica, economica, sociale di questa Disunione Europea», sostiene Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio”. «Proprio per questo, accanto a Lega e 5 Stelle, conviene pensare ad altri soggetti politici del tutto nuovi, utili per la Terza Repubblica. Ed è con questo spirito – annuncia – che a Roma, il 14 luglio, faremo la prima tavola rotonda sul “partito che serve all’Italia”».
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Gli italiani tifano per il governo, chi ha “rotto” l’Italia lo odia
Che bella cosa, ‘na jurnata ‘e sole (l’aria serena, dopo la tempesta). Chi l’avrebbe mai detto? L’Italia ha un governo italiano, interamente italiano, di cui gli italiani sembrano contenti se non addirittura orgogliosi, quando finalmente risponde a tono a quel villanzone di Macron, l’ex bankster di casa Rothschid che oggi ha la pretesa di parlare a nome dei francesi. Da quanto tempo non accadeva che gli italiani non fossero costretti a tollerare l’incolore governo in carica? All’epoca di Berlusconi, più della metà del paese si vergognava delle sortite quotidiane del primo ministro. Regnante il suo finto antagonista, Romano Prodi, i suoi stessi elettori ingoiavano, rassegnati, la delusione per le mancate riforme di segno progressista, sostituite regolarmente da spiacevolissimi “sacrifici” sempre imposti, con la collaborazione dei sindacati, agli strati più deboli della società. Poi finì anche quel tipo di spettacolo, e dalla commedia si passò alla tragedia (greca) con l’alto commissario Mario Monti, l’inviato speciale della Germania incaricato di mettere in ginocchio l’Italia, obbligandola ad accettare la crisi come condizione naturale, fisiologica, per un paese rappresentato come inguaribilmente latino, cioè corrotto e chiacchierone, incapace di autodiscipina.Era solo una recita, orrenda. Ma durò anche troppo: il tempo di devastare il Pil e azzoppare l’industria, far sparire il lavoro, far chiudere i negozi e massacrare le pensioni. Un terremoto: erosi i risparmi, crollato il valore degli immobili. Il futuro come incertezza e paura. Poi, dopo il macellaio, vennero i leader tipidi. Il loro compito: ripulire le strade dal sangue, e i telegiornali dalle immagini delle mense della Caritas affollate di esodati e disoccupati sessantenni. Il paese svenduto e smembrato, le serrande abbassate al ritmo di migliaia all’anno. Che poteva farci, il povero Enrico Letta – devoto, come il macellaio – alle stesse regole del rigore imposte dai medesimi poteri? E che altro poteva fare, se non chiacchiere, il suo ambiziosissimo ma vacuo pugnalatore Matteo Renzi? Non una parola, ad esempio, per ripulire la Costituzione dalla lordura del pareggio di bilancio, che umilia la democrazia italiana. Non una sillaba neppure sul Fiscal Compact, analoga punizione biblica inflitta all’Italia sempre dal macellaio e dai suoi tenebrosi mandanti europei, gente che non ha esitato a ridurre alla fame un paese come la Grecia, rimasta senza più neppure i medicinali salvavita per i bambini.Renzi? Fidatevi, annunciò con largo anticipo l’ex ministro socialista Rino Formica: al referendum finirà asfaltato dai “no”, e il suo successore a Palazzo Chigi sarà designato dal Vaticano. Ed ecco quindi Paolo Gentiloni, come previsto dal profeta Formica: l’impalpabile Gentiloni, i cui mormorii sono talmente piaciuti, agli elettori, da far dimezzare il consenso del suo partito, oggi completamente smarritosi tra le brume minacciose di un paese caduto tra le fauci dell’orco sovranista, il Moloch populista che turba i sonni degli eurocrati e dei loro patetici valletti nostrani. Hanno letteralmente sfasciato l’Italia, e accusano i 5 Stelle di velleitarismo pasticcione. Hanno spolpato e svenduto il paese, disarticolando la sua capacità produttiva: oggi in Italia i poveri assoluti sono 5 milioni, numero abnorme che racconta alla perfezione la tragedia di una società devastata, flagellata dalla piaga di una disoccupazione che non ha eguali nella storia della repubblica. Eppure, anziché tacere (ed eventualmente sparire per sempre, almeno dalla scena politica e mediatica) hanno la faccia di bronzo di dare del fascista a Matteo Salvini, il ministro che ha chiesto all’Europa di smetterla di accollare alla sola Italia l’immenso onere dell’accoglienza dei migranti mediterranei.Chissà come li avrebbe giudicati, gli sguaiati squadristi televisivi, un grande giornalista indipendente come l’ex partigiano Giorgio Bocca, regolarmenre fuori dal coro e mai allineato, nella sua lunga carriera, a nessun comodo mainstream. Certo, lo spettacolo racconta una dissonanza cognitiva sconcertante: il paese è a pezzi per colpa di un regime appena caduto, e la cosiddetta informazione spara addosso ai politici che si sono assunti l’onere della ricostruzione. L’eredità di Prodi e Berlusconi, Monti e Renzi rappresenta un disastro molto superiore alle capacità riparatorie di Salvini e Di Maio? Ma almeno questi due outsider hanno accettato la sfida: ci stanno provando. Falliranno? Difficile dirlo. Finiranno anch’essi fagocitati e manipolati dal potere-ombra, dal “pilota automatico” che ha sapientemente declassato l’Italia distraendo l’opinione pubblica dai crimini commessi contro la comunità italiana? Tutto, oggi, sembra dire il contrario. Tutto lascia sperare in un impegno serio e coraggioso per il recupero della sovranità perduta. E fa impressione il consenso di cui oggi gode il governo Conte: per la prima volta, dopo secoli, un esecutivo in carica è sostanzialmente incoraggiato dal 70% della popolazione. Al di là di come andrà a finire, non s’era mai vista una simile coesione nazionale, in tutti i 25 anni dell’infelice, ingloriosa, infame Seconda Repubblica.Che bella cosa, ‘na jurnata ‘e sole (l’aria serena, dopo la tempesta). Chi l’avrebbe mai detto? L’Italia ha un governo italiano, interamente italiano, di cui gli italiani sembrano soddisfatti se non addirittura orgogliosi, quando finalmente risponde a tono a quel villanzone di Macron, l’ex bankster di casa Rothschild che oggi ha la pretesa di parlare a nome dei francesi. Da quanto tempo non accadeva che gli italiani non fossero più costretti a tollerare l’incolore governo in carica? All’epoca di Berlusconi, più della metà del paese si vergognava delle sortite quotidiane del primo ministro. Regnante il suo finto antagonista, Romano Prodi, i suoi stessi elettori ingoiavano, rassegnati, la delusione per le mancate riforme di segno progressista, sostituite regolarmente da spiacevolissimi “sacrifici” sempre imposti, con la collaborazione dei sindacati, agli strati più deboli della società. Poi finì anche quel tipo di spettacolo, e dalla commedia si passò alla tragedia (greca) con l’alto commissario Mario Monti, l’inviato speciale della Germania incaricato di mettere in ginocchio l’Italia, obbligandola ad accettare la crisi come condizione naturale, fisiologica, per un paese rappresentato come inguaribilmente latino, cioè corrotto e chiacchierone, incapace di autodisciplina.
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Via la Troika, la Grecia non esiste più: le hanno rubato tutto
E finalmente la Troika lascia la Grecia. Spremuta fino all’osso e dissanguata. Una guerra avrebbe fatto meno danni. Era arrivata perché la Grecia non aveva fatto i compiti e aveva un debito troppo elevato. La Grecia è entrata nel 2010 nel “programma di aiuti” Ue col rapporto debito/Pil al 146%. Tutti a dire “Grecia sprecona”. Oggi è al 180%: gli imperscrutabili successi della Troika. La Grecia è un paese devastato. Neppure una guerra avrebbe prodotto tanti danni. Il potere d’acquisto dei greci è crollato del 28,3% dal 2008 mentre la bolletta fiscale è salita da 49 a 50 milioni. Le famiglie che vivono in estrema povertà sono il 21% (dati Eurostat), il doppio del 2010. L’importo delle pensioni – tagliate 13 volte – è calato in media del 14% e a inizio 2019 è prevista un’altra sforbiciata. Il settore pubblico ha perso 200.000 posti di lavoro in otto anni. Nel 2017 ben 133.000 persone (+333%) hanno rinunciato all’eredità perché non avevano i soldi per pagare le tasse. La Grecia è una entità astratta. Solo geografica. Come un corpo abbandonato in un vicolo dal vampiro che lo ha prosciugato dell’ultima goccia di sangue. Tale e quale.La Grecia impiegherà decenni per riprendersi, perché non ha più beni. Né pubblici né privati. Tutto venduto. Svenduto. Francia e soprattutto Germania hanno acquisito a prezzi da Eurospin. La Grecia ha “goduto” di tre tranche di “aiuti” per un totale di circa 240 miliardi di euro usciti dai bilanci di 19 paesi. Sono serviti esclusivamente a mettere in sicurezza le banche tedesche e francesi dall’esposizione in titoli di Stato greci. Intanto emerge che la Germania è stata un grande beneficiario del “programma di salvataggio” della Grecia e ha guadagnato dal 2010 al 2017 in totale 2,9 miliardi dagli interessi, come è emerso dalla risposta del governo tedesco ad un’interrogazione del partito dei verdi. Evviva! Ma non finisce qui. La Troika lascia la Grecia con l’ultimo monito. Oltre a un ulteriore taglio delle pensioni a partire dal 2019 e a ulteriori privatizzazioni (non si sa cosa ci sia ancora da privatizzare) la Grecia deve mantenersi in avanzo primario. Fino al 2060 (per altri 42 anni!!) deve mantenere un avanzo primario del 2%.(Stefano Alì, “La troika lascia la Grecia: evviva, ma la Grecia non esiste più”, dal blog “Il Cappello Pensatore” del 24 giugno 2018. Mentre i media mainstream salutano la “fine della crisi” per Atene, con la cessazione del commissariamento formale – che la Troika Ue ora affida in esclusiva al governo Tsipras, la Grecia ha perso completamente il controllo su tutte le infrastrutture statali, ha falcidiato salari e pensioni, ha ridotto la popolazione la fame, ha lasciato i bambini senza i necessari medicinali, neppure negli ospedali. Porti e aeroporti non sono più in mani greche, ma straniere. E tutte le reti di servizi, ieri statali, oggi sono private. Tecnicamente, la Grecia “fuori pericolo” non esiste più, come Stato. «Se la Germania avesse dovuto passare ciò che ha passato la Grecia – scrive Efthymis Angeloudis in un post ripreso da “Gli Stati Generali” – una pensione di 1200 euro sarebbe ora ridotta a 750 euro, ad esempio; ci sarebbero 14 milioni di disoccupati, e negli ospedali i pazienti sarebbero costretti a portarsi le bende da casa»).E finalmente la Troika lascia la Grecia. Spremuta fino all’osso e dissanguata. Una guerra avrebbe fatto meno danni. Era arrivata perché la Grecia non aveva fatto i compiti e aveva un debito troppo elevato. La Grecia è entrata nel 2010 nel “programma di aiuti” Ue col rapporto debito/Pil al 146%. Tutti a dire “Grecia sprecona”. Oggi è al 180%: gli imperscrutabili successi della Troika. La Grecia è un paese devastato. Neppure una guerra avrebbe prodotto tanti danni. Il potere d’acquisto dei greci è crollato del 28,3% dal 2008 mentre la bolletta fiscale è salita da 49 a 50 milioni. Le famiglie che vivono in estrema povertà sono il 21% (dati Eurostat), il doppio del 2010. L’importo delle pensioni – tagliate 13 volte – è calato in media del 14% e a inizio 2019 è prevista un’altra sforbiciata. Il settore pubblico ha perso 200.000 posti di lavoro in otto anni. Nel 2017 ben 133.000 persone (+333%) hanno rinunciato all’eredità perché non avevano i soldi per pagare le tasse. La Grecia è una entità astratta. Solo geografica. Come un corpo abbandonato in un vicolo dal vampiro che lo ha prosciugato dell’ultima goccia di sangue. Tale e quale.
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Giorgio Galli: magia, esoterismo e potere. La storia segreta
Il mago in politica? Conta, sì. Ma non ha l’ultima parola. Certo, esiste: anche se i giornali non ne parlano mai. E spesso, proprio con il mondo esoterico sono in contatto i servizi segreti. Lo rivela il professor Giorgio Galli, autorevole politologo, per lunghi anni docente all’università di Milano. Un monumento della cultura italiana contemporanea. Classe 1928, ha all’attivo quasi cento titoli: dal volume d’esordio sulla storia del Pci, risalente al ‘53, fino all’ultimo lavoro, “Il golpe invisibile” (Kaos, 2015), che spiega “come la borghesia finanziario-speculativa e i ceti burocratico-parassitari hanno saccheggiato l’Italia repubblicana fino a vanificare lo Stato di diritto”. Intervistato da Fabio Frabetti e Paolo Franceschetti a “Border Nights” sul ruolo dell’occultismo nella politica, il professore chiarisce: la deriva “magica” dell’esoterismo ha certamente condizionato importanti leader del passato, Hitler in primis. Ma poi il fenomeno si è attenuato. Perché parlarne, allora? Perché non ne parla mai nessuno, a livello di ufficialità, se non per liquidare l’argomento in modo sprezzante, come se il fenomeno non esistesse. Altrettanto sbagliato, secondo Galli, l’atteggiamento iper-complottista di chi considera onnipotenti le società iniziatiche, massoneria compresa: hanno il loro peso, senz’altro, ma non possono decidere tutto.La missione dello studioso: svelare retroscena occulti e, al tempo stesso, demifisticare – con l’occhio razionale dello storico – le tante mitologie connesse al presunto potere di grandi “maghi”, al fianco dei potenti della Terra. Nel mirino innnanzitutto il leader del nazismo. Un fenomeno al quale – tra Himmler e la società Thule – il professor Galli ha dedicato ben tre saggi. Il primo, “Hitler e il nazismo magico” (Rizzoli) risale al 2005. A seguire, “La svastica e le streghe”, una “intervista sul Terzo Reich, la magia e le culture rimosse dell’Occidente”, pubblicata da Hobby & Work nel 2009, quattro anni prima di “Hitler e la cultura occulta”, libro uscito nel 2013, pubblicato ancora da Bur-Rizzoli. Impossibile non notare il potere ipnotico che la retorica del dittatore esercitava su masse immense, durante le celebri adunate oceaniche del nazismo. Disponeva di tecniche occultistiche? «Intanto era nato a Braunau sull’Inn, paese che ha dato i natali a un numero di medium superiore alla norma: c’è chi ritiene che, in determinate zone della Terra, vi siano cariche magnetiche che conferiscano doti particolari, come quelle che caratterizzano i medium e i veggenti». Inoltre, aggiunge Galli, è noto che Hitler prese lezioni da Erik Jan Hanussen, famoso ipnotista austriaco che, «nei teatri, ipnotizzava gli spettatori, facendo creder loro che fossero reali fenomeni che erano solo immaginari».Lo stesso Hanussen, mago e illusionista, fu poi ucciso dai nazisti il 30 giugno del 1934 nella strage passata alla storia come la “notte dei lunghi coltelli”. Una buona occasione «per far sparire le tracce della formazione ipnotistica che Hitler aveva ricevuto». Ma una cosa è ammettere che Hitler credesse nell’occulto e si avvalesse di maghi come Hanussen, un’altra è pensare che il nazismo sia “esploso” in virtù della magia: «Mai, il nazismo, si sarebbe potuto affermare senza la sconfitta della Germania nel primo conflitto mondiale, senza la crisi del dopoguerra e senza la grande crisi del ‘29, tutti fenomeni che hanno determinato il destino del paese sino all’avvento del Terzo Reich». Quindi attenzione: «Io non sostengo che l’esoterismo sia la chiave interpretativa della storia», precisa Galli. «Dico che ne è una delle componenti (e non delle più importanti), che però è stata completamente trascurata». E’ chiaro che a partorire il nazismo è stata la crisi politica, sociale ed economica patita dalla Germania a partire dal 1914. «Le cause che gli storici hanno studiato permettono di capire la vicenda tedesca anche senza bisogno di studiare l’esoterismo. Però, appunto, c’è anche l’esoterismo: e ha avuto un ruolo importante nella formazione culturale di una parte dell’élite nazionalsocialista».La storia politica ed economica spiega tante cose, ribadisce Galli, ma «talvolta, in determinate circostanze, non spiega tutto». Secondo il gollista Maurice Schumann, gruppi esoterici presenti anche in Vaticano hanno influenzato la nascita della stessa Unione Europea: «E’ una componente sin qui trascurata, meno importante di altre, ma che va tenuta presente». Giorgio Galli ha scritto anche un’introduzione al recente saggio “Mussolini e gli Illuminati”, nel quale Enrico Montermini mette in luce il rapporto (rimasto in ombra) tra il fascismo e l’esoterismo, dal ruolo di Giuseppe Cambareri – il mago di tanti ufficiali dell’esercito mussoliniano – all’intervento della massoneria anglosassone agli esordi delle camicie nere, fino al drammatico epilogo di piazzale Loreto, «macabro sacrificio rituale per celebrare simbolicamente la caduta dell’ultimo Cesare». Magia e dittature, ma non solo: «Lo stesso Churchill, che era massone – racconta Galli – si consultò moltissimo con l’ambiente esoterico, prima di decidere l’atteggiamento da assumere con Hitler». Furono alcuni esoteristi a confermargli che occorreva opporsi strenuamente al Terzo Reich: impossibile conviverci, perché avrebbe trasformato l’Europa nel peggiore degli incubi.Esoterismo? «E’ una cultura che ha solide radici nella storia dell’Occidente», spiega Giorgio Galli al pubblico di “Border Nights”. «Bisogna risalire agli astrologi caldei, ai profeti ebraici, fino a personaggi molto recenti come René Guénon e Julius Evola». Si intitola “Occidente misterioso” un saggio del 1987, edito da Rizzoli, in cui Galli indaga tra “baccanti, gnostici, streghe”, ovvero “i vinti della storia e la loro eredità”. «E’ una corrente di pensiero che ha solide radici e si ripresenta anche in periodi di grande avanzamento scientifico». Per dire: erano esoteristi Cartesio e Newton. «Si tratta di una cultura che ha profonde radici nello sforzo umano verso la conoscenza: radici così solide che, dal ‘500 in poi, ha potuto resistere al grande avvento della rivolzione scientifica». Quella dell’esoterismo «è un tipo di conoscenza che prevede approcci diversi da quelli scientifico-razionali». Metodo analogico, pensiero simbolico. Com’è che i politici entrano in contatto col mondo esoterico? «Esistono gruppi e associazioni che mantengono viva questa tendenza». Secondo la cultura esoterica, aggiunge il professore, «sulla Terra sono esistite civiltà molto remote, in genere scomparse per catastrofi naturali: l’esempio più noto sono i riferimenti che Platone fa ad Atlantide».Giorgio Galli segnala un libro come “L’altra Europa”, nel quale l’autore – Paolo Rumor (figlio di Mariano, pluri-minustro Dc) – documenta «la convinzione che siano esistite civiltà terrestri delle quali sono rimaste tracce, e in cui affonderebbe le sue radici la politica che poi ha portato all’Unione Europea». Intorno all’anno Mille, dice Galli, in alcuni ambienti «era maturata quella convinzione», riguardo all’ancestrale discenza da civiltà estinte. E quindi «ci sarebbe un rapporto tra antichi assetti sociali e il progetto dell’Ue, che in realtà è nato molto prima di quanto si ritenga». Se qualcuno ha in mente solo Jean Monnet, la Cee e l’Unione Europea si sbaglia: «Documenti di Mariano Rumor – afferma il professore – dimostrano che questo progetto sarebbe maturato molto più in là nel tempo, in ambienti legati alla cultura esoterica e alla convinzione dell’esistenza di antiche civiltà scomparse, che avrebbero lasciato tracce nella nostra cultura». Sicché, periodicamente, «emergono piccoli cenacoli, che credono di essere gli eredi di un antico sapere». Gli approcci sono diversi, aggiunge Galli: «Alcune società esoteriche sono orientate verso la conoscenza: per loro, l’esoterismo è uno strumento del sapere. In altri gruppi, invece, si ritiene che possa anche essere uno strumento per il potere».Non ha molti segreti, per Giorgio Galli, la contaminazione esoterica della politica: ne parlava già nel 1995 in “Cromwell e Afrodite” (Kaos), o in libri come “La politica e i maghi, da Richelieu a Clinton”, pubblicato da Rizzoli nello stesso anno. Galli ha firmato studi sulla massoneria, su Fatima, sulla new age, sulle Torri Gemelle. Titoli accattivanti: “La venerabile trama”, del 2007 (Lindau), racconta “la vera storia di Licio Gelli e della P2”. In “Stelle rosse” (Alacran, 2007), mette a nudo “astrologia neo-illuminista a uso della sinistra”. Titoli espliciti: “Politica ed esoterismo alle soglie del 2000”, scritto con Rudy Stauder e pubblicato da Rizzoli nel 1992, e “Esoterismo e politica” (Rubbettino, 2010). E’ del 2004 il saggio “La magia e il potere”, ovvero “l’esoterismo nella politica occidentale”, edito da Lindau. Ma cos’è la magia? Solo superstizione? «E’ un approccio culturale che si è manifestato in una fase della storia umana», spiega il professore a “Border Nights”, rispondendo alle domande di “Maestro di Dietrologia”. «Non credo che esista una magia con un reale potere», aggiunge. «Credo però che sia una convinzione diffusa». L’esoterismo, dice, è anche questo: «La convinzione che, facendo determinate operazioni, o con certe liturgie, si possano ottenere determinati risultati. La cultura esoterica è legata a questa convinzione, che però non è la mia».I maghi, aggiunge Giorgio Galli, sono i rappresentanti di questo tipo di cultura: talvolta entrano in contatto col potere e talvolta no. «La rivoluzione scientifica ha reso meno sistematici quei rapporti: quelli che vengono chiamati Magi, astrologi e veggenti facevano parte normalmente del personale vicino al potere – a Roma e in Grecia, poi nelle corti medievali. Fino al ‘500-600 questi rapporti erano organici e continui, in seguito sono diventati più rari o soltanto occasionali». E i famosi maghi consultati da capi di Stato? «In alcuni casi – risponde Galli – ci sono società segrete che trasmettono questo tipo di cultura. Alcune – tedesche, francesi, inglesi – sono elencate in “Hitler e il nazismo magico”. Probabilmente ne esistono ancora, anche se adesso la loro influenza mi pare molto minore di quanto non fosse all’inizio del secolo scorso». Magia e potere, ma soprattutto stelle, oroscopi, tarocchi. «Quello che so – aggiunge Galli – è che molti politici, anche di rilievo, consultano abituamente astrologi e cartomanti: sono un aspetto popolare e diffuso di culture che hanno origini esoteriche, ma è anche un campo che si presta moltissimo alle truffe e alle manipolazioni».Da Roma, ha contattato il professore un gruppo di tradizione esoterica che si definisce “Evoliani a 5 Stelle”, dal nome di Evola. «Sono degli esoteristi di cultura evoliana, che si esprimono positivamente attorno al Movimento 5 Stelle», precisa Galli. Non che l’esoterismo sia del tutto estraneo, ad alcuni aspetti del mondo grillino: «Lo stesso cortometraggio di Gianroberto Casaleggio, “Gaia”, esprime una cultura che qualche rapporto con quella esoterica potrebbe averlo: è collegata con la cultura delle grandi catastrofi, che poi alla fine danno un risultato positivo». Ma quello dei 5 Stelle è un populismo destinato a trasformarsi nella vera avanguardia tecnocratica del neoliberismo globalista? Giorgio Galli lo esclude in modo categorico. «I 5 Stelle secondo me sono ancora in una fase magmatica, in cui convivono componenti dell’anticapitalismo di sinistra e componenti dell’anticapitalismo di destra. Penso che siano in una fase di trasformazione – conclude il politologo – ma non credo affatto che possano diventare i nuovi strumenti del grande capitale: rimarranno sempre un movimento indirizzato a cambiamenti che, nella loro cultura, ritengono positivi. Che poi riescano nel loro intento è un altro problema, ma non credo che si mettano al servizio del potere capitalistico».Il mago in politica? Conta, sì. Ma non ha l’ultima parola. Certo, esiste: anche se i giornali non ne parlano mai. E spesso, proprio con il mondo esoterico sono in contatto i servizi segreti. Lo rivela il professor Giorgio Galli, autorevole politologo, per lunghi anni docente all’università di Milano. Un monumento della cultura italiana contemporanea. Classe 1928, ha all’attivo quasi cento titoli: dal volume d’esordio sulla storia del Pci, risalente al ‘53, fino all’ultimo lavoro, “Il golpe invisibile” (Kaos, 2015), che spiega “come la borghesia finanziario-speculativa e i ceti burocratico-parassitari hanno saccheggiato l’Italia repubblicana fino a vanificare lo Stato di diritto”. Intervistato da Fabio Frabetti e Paolo Franceschetti a “Border Nights” sul ruolo dell’occultismo nella politica, il professore chiarisce: la deriva “magica” dell’esoterismo ha certamente condizionato importanti leader del passato, Hitler in primis. Ma poi il fenomeno si è attenuato. Perché parlarne, allora? Perché non ne parla mai nessuno, a livello di ufficialità, se non per liquidare l’argomento in modo sprezzante, come se il fenomeno non esistesse. Altrettanto sbagliato, secondo Galli, l’atteggiamento iper-complottista di chi considera onnipotenti le società iniziatiche, massoneria compresa: hanno il loro peso, senz’altro, ma non possono decidere tutto.
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Amoroso: Federico Caffè visse a lungo, dopo la scomparsa
«Trent’anni dopo, in Danimarca. Sono qui le ultime tessere che ricompongono il mosaico della scomparsa di Federico Caffè». E’ l’allievo più vicino al grande economista keynesiano, Bruno Amoroso, a svelare cosa c’è dietro la misteriosa sparizione dell’énfant prodige dell’economia italiana, stimato in tutta Europa. Già nel 1946 lavorava al ministero della ricostruzione, sotto il governo Parri, come giovanissimo assistente del ministro Meuccio Ruini, presidente della Commissione dei 75 per la Costituzione. Dopo una vita dedicata all’insegnamento, gli ultimi decenni alla Sapienza di Roma, Federico Caffè scomparve dalla storia uscendo dalla sua abitazione di via Cadlolo, nella capitale, dove viveva con il fratello. Era l’alba del 15 aprile 1897. Lasciò sul comodino occhiali e orologio. Di lui non si saprà più niente. Un rapimento, un suicidio, un ritiro spirituale in un convento? Sono queste le ipotesi su cui si orientarono le indagini della polizia, degli investigatori, dei suoi amici e dei suoi studenti, che setacciarono le strade di Roma. Indagini di anni. «Oggi sappiamo, come riveliamo in questo articolo, che Caffè ha vissuto a lungo, dopo la sua scomparsa. E che il suo allievo prediletto, Bruno Amoroso, custodisce il segreto dell’esilio del maestro». Lo scrive Roberto Da Rin sul “Sole 24 Ore” il 27 novembre 2016, poco prima della scomparsa dello stesso Amoroso, spentosi a Copenhagen il 20 gennaio 2017.Chi era Federico Caffè? Un economista stimato a livello internazionale, docente alla Sapienza. Un economista umanista, critico nei confronti dei tecnocrati, degli istituzionalisti. Un alfiere dell’umanesimo di Keynes «contrapposto al darwinismo schumpeteriano», detto con parole sue. Il suo credo: l’economia dev’essere al servizio del benessere della comunità, partendo dai bisogni dei più deboli. Come economista, scrive Da Rin, era affascinato dall’approccio interdisciplinare della scuola nordica di Gunnar Myrdal e di Jan Tinbergen. Teoria e pratica del welfare universale, per demolire le diseguaglianze: «In cima ai suoi pensieri l’obiettivo del benessere mondiale e di una radicale trasformazione di sistemi che, se realizzati, avrebbero sconfitto la controrivoluzione liberista». Gli allievi ne parlano così: «Le sue lezioni esondavano dall’economia, lambivano la politica, la letteratura, la storia, la musica». La sua umanità rivestiva un aspetto centrale, «qualcosa di spiritualmente indefinibile che sprigionava dalla sua persona». Il professor Caffè «era capace di domandarti di te, chi sei, cosa fai, a cosa aspiri, da dove vieni, dove ti piacerebbe andare». Tra gli ex allievi, proprio Bruno Amoroso è stato l’erede designato del grande patrimonio culturale e umano di Caffè.Amoroso ha vissuto e insegnato in Danimarca per 40 anni, dopo essere sbarcato in Scandinavia con il proposito di approfondire gli studi sui sistemi di welfare e sulla loro esportabilità. Aveva in tasca le lettere di presentazione di Caffè, già allora apprezzato anche dagli economisti scandinavi. In un bellissimo libro, “Memorie di un intruso”, edito da Castelvecchi, Amoroso racconta tutto della sua vita, «e quasi ogni pagina parla del maestro Caffè», sottolinea Da Rin sul “Sole”. «Pur con le lettere di presentazione di Caffè, Amoroso aveva bisogno di un permesso di soggiorno per vivere in Danimarca». Laureato a pieni voti e impegnato nella ricerca, stimato e inviato all’estero dall’Istituto di politica economica della Sapienza, trovò lavoro come “assistente lavapiatti”, facendo poi anche il portiere di notte. Due anni dopo, divenne finalmente “professore associato” in una università danese. Sempre in “Memorie di un intruso”, Amoroso scrive: «Federico (Caffè) capì la situazione prima di noi e ha trascorso gli anni che ci separano da lui tornando alla sua amata musica classica e al silenzio. Una volta lo interruppi in questo ascolto con una canzone di Lucio Dalla, “Come è profondo il mare”. Ascoltò in silenzio, accennò un grazie con la mano, e riprese l’ascolto di una sinfonia di Mahler».Così l’allievo più intimo, Bruno Amoroso, ci ha consegnato un segreto: scrive di averlo visto e frequentato, il maestro, dopo la sua scomparsa. «A quasi trent’anni dalla sua uscita di scena, e a 102 dalla sua nascita, acquisiamo quindi un elemento importante del mistero di Caffè: né suicidio né rapimento», scrive Da Rin, a cui Amoroso ha rilasciato un’intervista decisiva, parlando dell’antico maestro con il sussiego e l’ammirazione di sempre: «I meriti di Caffè – ha ribadito Amoroso – sono riconducibili al piano etico, oltre che a quello scientifico». Tra gli allievi più noti del professore ci sono Mario Draghi, Ignazio Visco di Bankitalia, Marcello De Cecco a Giorgio Ruffolo, Guido Rey, Enrico Giovannini, Nino Galloni. Da “allievo prediletto”, Bruno Amoroso è stato il destinatario di centinaia di lettere confidenziali. Per Amoroso, è importante ribadire il primo assioma del Caffè-pensiero: «L’economia è uno strumento importante al servizio del benessere delle persone».È l’attualità di Caffè che lascia stupefatti, ammette il “Sole 24 Ore”. «L’allarme per le derive populiste alimentate da ingenti flussi migratori (che 40 o 50 anni fa non esistevano) è cronaca di questi mesi, di queste settimane», scrive Da Rin. Profonda capacità di analisi, una lucidità previsiva. «Perché credi che i sistemi di welfare siano in crisi?», ha domandato Amoroso al giornalista. «Certo, ci sono i costi sociali dell’impresa che sono cresciuti in modo esponenziale, così come sono aumentati i fruitori dei servizi pubblici. Ma in modo inversamente proporzionale è cambiata la disposizione delle persone per la solidarietà e i sentimenti». Una riflessione di straordinaria attualità, scrive il “Sole”, nei giorni in cui Europa e Stati Uniti erigono barriere e muri “contro” i più deboli. L’ipotesi suicidio – aggiunge Da Rin – si svuota quindi di qualsiasi valenza possibile. «E il ritiro in convento emerge in tutta evidenza», con la copertura offerta da un ordine religioso. «La Chiesa è disponibile a offrire protezioni di questo genere, purché ricorrano determinate condizioni». Così rispose il padre Jesus Torres, autorevole rappresentante della “Congregazione per gli istituti di vita consacracata e le società di vita apostolica”, incalzato da Ermanno Rea che 27 anni fa cercò di risolvere il mistero della scomparsa di Caffè e scrisse il libro “L’ultima lezione”.In un altro bel libro, “La Stanza rossa”, pubblicato nel 2004 da “Città aperta”, Bruno Amoroso racconta Caffè attraverso decine di lettere autografe e riflessioni scientifiche. «Anche qui ci sono conferme importanti del ritiro del maestro: confessioni vergate dal professore al suo allievo preferito», sggiunge Da Rin sul “Sole”. Già nei primi anni Ottanta, pochi anni prima della pensione, Caffè pare voglia abdicare alla sua vita: «Sono triste e depresso; e solo; e angosciato; e malinconico; e trepidante». Si legge in filigrana il desiderio di scomparire. Ancora una volta all’ultima pagina, si riporta una confessione premonitrice di Caffè, accolta e pubblicata da Amoroso: «Nella mia vita si sono ormai prodotte rigidezze che ponevano limiti invalicabili alla comprensione e all’esperienza: mi restava di continuare sulla via dell’isolamento delle idee, che avevo già intrapreso, e di aprire, in solitudine, la porta della meditazione esistenziale». Il convento, appunto. «Pochi anni dopo è lo sconforto che pervade la vita del professore, ormai “fuori ruolo”, lontano dai suoi collaboratori, dai suoi studenti», osserva Da Rin. Federico Caffè cita Giuseppe Ungaretti: «Mi pesano gli anni futuri».Una decisione, quella di scomparire, che sarebbe maturata con la lettura di un libro di Leonardo Sciascia, “La scomparsa di Majorana”, che Caffè leggeva prima di uscire di casa per l’ultima volta. Quella stessa copia del libro è finita a casa di Bruno Amoroso, a Copenhagen, in via Webersgade. Convincente e plausibile, il parallelo tra Majorana e Caffè. Due angosce con similitudini forti: per Sciascia la scomparsa di Majorana vale un mito, quello del «rifiuto della scienza». Per Amoroso, aggiunge il “Sole”, quella di Caffè è la solitudine di un riformista che non accetta il dissolvimento dei valori, la regressione culturale in atto. L’altro mistero – riflette Giorgio Lunghini, un economista importante con cui Caffè ha intrattenuto rapporti di lavoro e di amicizia – è questo: perché mai un liberale ha scritto così spesso su un quotidiano “comunista”, come il “Manifesto”? Lunghini ne dà una risposta ironica e persuasiva, coerente con il pensiero di Caffè. «Una spiegazione ragionevole è che Caffè vedeva nel “Manifesto” l’unico giornale il cui direttore non poteva imporgli di scrivere, non poteva rampognarlo per quanto avrebbe scritto e non poteva pagarlo: la condizione ideale per un uomo libero».«Trent’anni dopo, in Danimarca. Sono qui le ultime tessere che ricompongono il mosaico della scomparsa di Federico Caffè». E’ l’allievo più vicino al grande economista keynesiano, Bruno Amoroso, a svelare cosa c’è dietro la misteriosa sparizione dell’énfant prodige dell’economia italiana, stimato in tutta Europa. Già nel 1946 lavorava al ministero della ricostruzione, sotto il governo Parri, come giovanissimo assistente del ministro Meuccio Ruini, presidente della Commissione dei 75 per la Costituzione. Dopo una vita dedicata all’insegnamento, gli ultimi decenni alla Sapienza di Roma, Federico Caffè scomparve dalla storia uscendo dalla sua abitazione di via Cadlolo, nella capitale, dove viveva con il fratello. Era l’alba del 15 aprile 1897. Lasciò sul comodino occhiali e orologio. Di lui non si saprà più niente. Un rapimento, un suicidio, un ritiro spirituale in un convento? Sono queste le ipotesi su cui si orientarono le indagini della polizia, degli investigatori, dei suoi amici e dei suoi studenti, che setacciarono le strade di Roma. Indagini di anni. «Oggi sappiamo, come riveliamo in questo articolo, che Caffè ha vissuto a lungo, dopo la sua scomparsa. E che il suo allievo prediletto, Bruno Amoroso, custodisce il segreto dell’esilio del maestro». Lo scrive Roberto Da Rin sul “Sole 24 Ore” il 27 novembre 2016, poco prima della scomparsa dello stesso Amoroso, spentosi a Copenhagen il 20 gennaio 2017.
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Terzo parricidio all’italiana, con Moro finì l’era di Bisanzio
Ma cosa è stato Aldo Moro nella storia d’Italia? A quarant’anni da quel terribile 16 marzo proviamo a dirlo in breve, in quattro punti, uscendo dalle stucchevoli e rituali celebrazioni. In primo luogo, rispetto alla storia precedente, l’assassinio di Moro fu il terzo parricidio d’Italia compiuto nell’arco del Novecento. Con l’uccisione di Re Umberto I si aprì il Novecento e si chiuse l’epoca che portava la sua paternità nel nome, l’età umbertina, cioè il regno dei notabili, la belle époque, la borghesia liberale. Con la mattanza di Mussolini si chiuse nel sangue il fascismo e fu fondata la repubblica antifascista. Con l’assassinio di Moro finì l’Italia del compromesso storico e cominciò il lento declino della prima repubblica incentrata sulla Dc. Tre Italie furono liquidate in tre parricidi rituali, compiuti da un anarchico, dai partigiani rossi, dalle Brigate Rosse. Tre passaggi cruenti per un paese pur ritenuto mite, accomodante. In secondo luogo, Moro fu la sfinge bizantina di un disegno politico: il tentativo di arginare la crescita del Pci non più opponendosi in modo frontale ma consociandosi in modo avvolgente. Quando leggo, anche da parte del figlio Giovanni, che Moro voleva fondare la democrazia dell’alternanza per rendere cioè possibile che la Dc andasse all’opposizione e il Pci al governo, vedo confuso un desiderio di tanti e una favola con un processo politico reale.Ma davvero pensate che il disegno di Moro fosse finalizzato a portare all’opposizione la Dc e al governo il Pci nel nome di una formula politica, l’alternanza? Suvvia, è una fiaba masochista, la stessa che fece erigere a Maglie il monumento a Moro con in mano “l’Unità”. Moro pensava che l’unico modo per garantire ancora altri anni di Dc al potere fosse quello di proseguire l’integrazione avviata nei primi anni ’60 coi socialisti, estendendo il condominio ai comunisti, che al potere avrebbero perso il crisma della diversità. In lui la ragion di partito prevaleva sulla ragion di Stato, conservare al potere la Dc era priorità assoluta, come mostrò nel processo Lockeed. Poi la prospettiva dichiarata era quella, ma intanto garantiva alla Dc di continuare a governare, inglobando un’opposizione cresciuta oltre il 30%. Per far questo, qualcun altro (De Mita) pensò poi di varare la formula dell’arco costituzionale in modo da usare l’antifascismo come collante e alibi. La conventio ad excludendum dei missini era un rito d’esclusione che serviva in realtà a un’inclusione, del Pci nell’area del governo.In terzo luogo, chi avversava quel progetto? A livello internazionale gli americani e i sovietici, per ragioni complementari, riconducibili a Yalta. A livello nazionale, i comunisti duri e puri e l’ultrasinistra vedevano in Moro il Corruttore del comunismo in un governo catto-borghese, filo-atlantico, filo-capitalistico. E lo avversavano i socialisti di Craxi che restavano soffocati dall’abbraccio tra Dc e Pci; e le destre, missini in testa. Via libera invece dal capitalismo nostrano e dalle sue mosche cocchiere repubblicane (l’alleanza dei produttori). Se si chiede “cui profuit”, a chi giovò, l’assassinio di Moro, si deve dire: a tutti loro. Ma Craxi cercò di salvarlo. E la destra avrebbe capitalizzato il dissenso di chi non ci stava col compromesso storico, passando da piccolo partito marginale a grande forza di opposizione. Il consociativismo era un’occasione di crescita per la destra nazionale.A destra Moro non piaceva non solo per l’apertura a sinistra, ma per la sua politica estera, soprattutto su due questioni: la sua reazione debole alla Libia di Gheddafi che espropriò e cacciò gli italiani e il trattato sulla zona B a Trieste che segnava ancora una certa sudditanza a Tito, un tradimento e una cessione di sovranità. In quarto e ultimo luogo, cosa ha lasciato Moro in eredità politica? Poco o nulla del suo stile e della sua teoria che divenne prassi con l’altra sfinge Dc, Andreotti, salvo sterzare verso altre strategie (il Caf) liquidando il compromesso storico. Sul piano civile, col delitto Moro finì l’onda rivoluzionaria e panpolitica del ’68, s’impose il Riflusso, il Privato, l’Oblio, l’edonismo, la tv… Dopo Moro tramontò la politica come primato e militanza, tramontò il Partito, si appiattirono le ideologie, si perse l’afflato popolare. Poi ci sono le leggende morotee, gli occultismi e gli spiritismi intorno alla sua prigionia e alle sue (non) belle lettere; la storia delle tangenti e il ruolo del suo segretario Freato; le dicerie – come quella che Moro avrebbe chiesto ad Almirante di candidare nel Msi Miceli, già capo del Sid, accusato del tentato golpe – e perfino i gossip (come la presunta love story, lui sobrio e compassato, con una cantante pugliese).Lasciamo da parte pure le congetture sulla sua morte, le romanzate, pirotecniche e fumose dietrologie sul suo assassinio, che reca sicura la firma comunista delle Brigate Rosse, anche se sono verosimili le reti di complicità istituzionali e internazionali e le ombre che si allungarono sulle trattative. Infine un’impressione personale. Quand’ero ragazzo vedevo Moro, mio conterraneo, come un vetusto leader al potere dall’antichità; lento, affaticato, emaciato, dalla voce flebile, la parola paludata e la frezza bianca che ormai aveva la maggioranza assoluta della sua chioma. E invece quando morì Moro aveva solo 61 anni. Gli anni del potere, un tempo, si contavano in ere geologiche. Si dirà che un tempo era così, si diventava vecchi molto prima. Ma è pure vero che il potere conservava una sua solennità che intrecciava gerarchia e gerontocrazia, anche nei leader meno carismatici come lui. Di Moro non restarono grandi opere, grandi tracce. Solo il fumo di un lessico e lo stile felpato e cattolico di un potere e del suo logorio. Finì con Moro l’era di Bisanzio.(Marcello Veneziani, “La verità politica sul caso Moro”, da “Il Tempo” del 15 marzo 2018; articolo ripreso dal blog di Veneziani).Ma cosa è stato Aldo Moro nella storia d’Italia? A quarant’anni da quel terribile 16 marzo proviamo a dirlo in breve, in quattro punti, uscendo dalle stucchevoli e rituali celebrazioni. In primo luogo, rispetto alla storia precedente, l’assassinio di Moro fu il terzo parricidio d’Italia compiuto nell’arco del Novecento. Con l’uccisione di Re Umberto I si aprì il Novecento e si chiuse l’epoca che portava la sua paternità nel nome, l’età umbertina, cioè il regno dei notabili, la belle époque, la borghesia liberale. Con la mattanza di Mussolini si chiuse nel sangue il fascismo e fu fondata la repubblica antifascista. Con l’assassinio di Moro finì l’Italia del compromesso storico e cominciò il lento declino della prima repubblica incentrata sulla Dc. Tre Italie furono liquidate in tre parricidi rituali, compiuti da un anarchico, dai partigiani rossi, dalle Brigate Rosse. Tre passaggi cruenti per un paese pur ritenuto mite, accomodante. In secondo luogo, Moro fu la sfinge bizantina di un disegno politico: il tentativo di arginare la crescita del Pci non più opponendosi in modo frontale ma consociandosi in modo avvolgente. Quando leggo, anche da parte del figlio Giovanni, che Moro voleva fondare la democrazia dell’alternanza per rendere cioè possibile che la Dc andasse all’opposizione e il Pci al governo, vedo confuso un desiderio di tanti e una favola con un processo politico reale.
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Myss: il segreto della prostituta che vive in ognuno di noi
La prima idea che a molti viene in mente udendo la parola “prostituzione” è l’immagine di qualcuno che venda il proprio corpo per fini sessuali. Tuttavia la prostituzione a cui mi riferirò in questo articolo non ha a che fare con il sesso a pagamento. La Prostituta interiore è invece una tendenza presente in ognuno di noi. Nel suo libro “Sacred Contracts”, Carolyn Myss si riferisce alla Prostituta interiore come ad un archetipo capace di influenzare la nostra vita in un certo numero di modi. Un archetipo è un’immagine, un modello, un simbolo universale codificato all’interno della psiche umana ed ereditato di generazione in generazione. In ognuno di noi è presente in qualche misura la Prostituta interiore; tanto negli uomini quanto nelle donne. La Prostituta interiore si manifesta nella nostra vita tutte le volte che “vendiamo” metaforicamente una parte di noi per ottenere in cambio un tornaconto personale. Come funziona la Prostituta interiore? Si nutre delle paure connesse alla sopravvivenza e all’incolumità. L’energia di questo archetipo è ascrivibile principalmente al chakra della radice (Primo Chakra), il quale può bloccarsi o danneggiarsi come conseguenza dello sviluppo di determinate credenze o dell’influsso di alcune particolari esperienze di vita.Spesso coloro i quali lottino costantemente con la loro Prostituta interiore sono reduci da infanzie fisicamente o emotivamente precarie. L’individuo guidato dalla Prostituta interiore persegue ad ogni costo una condizione di sicurezza e protezione, anche se ciò significhi rinunciare a diverse prerogative umane. Ad esempio: sacrifica i propri sogni in cambio del comfort; subordina i propri valori ai trend sociali; sgisce a scopo di lucro e non sulla spinta di passione o convinzione; si svende al fine di guadagnare popolarità piuttosto che restare ignoto, ma fedele a se stesso e alla propria unicità; mantiene in vita rapporti malsani per non rinunciare alla sicurezza emotiva, sociale o economica; tende a comportarsi gentilmente solo per ottenere qualcosa in cambio; scende a compromessi con i propri principi etici; manipola gli altri per perseguire un tornaconto personale. L’atteggiamento che caratterizza la Prostituta interiore si può sintetizzare nel mondo seguente: “Sono disposto a dare tutto ciò che mi si chiede (anche in violazione della mia fede, della mia autostima e della mia integrità) in cambio di un’adeguata contropartita”.L’archetipo della Prostituta può indurre a sacrificare qualsiasi cosa in cambio della ricerca della sicurezza e della protezione. Nessun luogo è considerato “terra santa”. Tutto è in vendita al giusto prezzo. Ciò detto, non importa quanto la Prostituta possa apparire “cattiva” o “negativa”. Essa è in realtà una forza del tutto neutra. La Prostituta diventa un problema solo quando non si sia coscienti del suo influsso nella nostra vita. Carolyn Myss si riferisce alla Prostituta interiore come al “guardiano della fede”, in quanto è grazie ad essa che possiamo realizzare fino a che punto siamo inclini a vendere una parte di noi stessi in cambio di un tornaconto. L’archetipo della Prostituta dovrebbe insegnarci a sviluppare l’integrità, il rispetto e la fiducia in noi stessi, e la fede nel Divino. Se compresa e controllata, la Prostituta può aiutarci a scoprire i luoghi della nostra vita in cui abbiamo deciso di venderci.La fiducia è la lezione fondamentale impartita dall’archetipo della Prostituta. Per avere fiducia dobbiamo credere fermamente nella nostra capacità di sperimentare la forza, il benessere e l’abbondanza. Quando dubitiamo di noi stessi, il vuoto che si crea viene riempito dalla ricerca della ricchezza esteriore, degli agi del comfort e da facili gratificazioni che possano compensare il nostro senso di insicurezza. Tutto ciò naturalmente genera ulteriore auto-disistima e insicurezza che alimenta nuovi comportamenti compulsivi dettati dalla Prostituta interiore. L’unico modo di neutralizzare la Prostituta interiore apprendendone gli insegnamenti è rafforzare la nostra fiducia in noi stessi. Il modo migliore di farlo è rendendosi conto che ciò che siamo si estende oltre le nostre personalità, i nostri titoli, le nostre occupazioni lavorative, i nostri corpi e i nostri pensieri. Come possiamo fidarci di ciò che non è realmente “noi”? Ciò che siamo stati condizionati a identificare con “noi” non potrà mai infonderci alcun comfort o senso di sicurezza. Come può una personalità in continuo mutamento, un corpo che invecchia, un lavoro temporaneo, una famiglia transitoria, infondere fiducia in se stessi?Per imparare l’insegnamento della Prostituta e riappropriarci della nostra integrità dobbiamo ristabilire il contatto con l’unico luogo immutabile presente in noi: la nostra Coscienza. Ciò che definiamo “Lavoro dell’Anima”, presente praticamente in ogni tradizione o percorso spirituale, definisce il nostro impegno e la nostra volontà di riconnetterci con la nostra anima. La nostra anima è la nostra essenza, la verità alla radice della nostra esistenza; in altre parole è il nostro flusso di Coscienza. La nostra anima è illimitata, grande, infinitamente saggia e amorevole; è il nostro personale collegamento con lo Spirito, il quale è la radice di ogni cosa. La Prostituta interiore non è un nemico, né è qualcosa di cui vergognarsi. Si tratta invece di un normale istinto di difesa presente in ognuno di noi e a vari livelli. Non si tratta di un “problema” da risolvere cercando di curarlo o farlo magicamente sparire; è invece necessario prendere realmente atto della sua esistenza. Quando comprendiamo la sua essenza possiamo perfino arrivare ad amarla e al tempo stesso impedirle di prendere il controllo delle nostre decisioni ed azioni.Vado ad elencare alcune domande da porsi per accrescere la consapevolezza di quanto le nostre esistenze siano influenzate dalla Prostituta: in quali aree della mia vita ho scelto di sacrificare le mie autentiche esigenze in cambio di denaro, beni materiali, popolarità, protezione, sicurezza, comfort e ammirazione? Vivo rapporti personali o di lavoro manifestamente tossici per il mio benessere? Quali componenti della mia identità ho venduto agli altri? (Esempi: l’allegria, l’affettività, la sincerità, la fantasia…). Ho venduto o sacrificato la mia moralità in cambio di un tornaconto personale? Quante volte mi capita di mentire per ottenere un tornaconto personale? Ho mai indotto qualcuno a “vendersi” per il mio tornaconto personale? Cosa sono disposto a digerire pur di raggiungere o conservare la “sicurezza”? Per lavorare proficuamente con la propria Prostituta interiore occorre raggiungere la ferma consapevolezza che la Coscienza / Dio è sempre qui per supportarci, dal momento che tutti noi siamo parte di Essa / Egli.(Aletheia Luna, “L’archetipo della prostituta”, da “Anticorpi.info” del 16 novembre 2017, ripreso dal blog “La Crepa nel Muro”).La prima idea che a molti viene in mente udendo la parola “prostituzione” è l’immagine di qualcuno che venda il proprio corpo per fini sessuali. Tuttavia la prostituzione a cui mi riferirò in questo articolo non ha a che fare con il sesso a pagamento. La Prostituta interiore è invece una tendenza presente in ognuno di noi. Nel suo libro “Sacred Contracts”, Carolyn Myss si riferisce alla Prostituta interiore come ad un archetipo capace di influenzare la nostra vita in un certo numero di modi. Un archetipo è un’immagine, un modello, un simbolo universale codificato all’interno della psiche umana ed ereditato di generazione in generazione. In ognuno di noi è presente in qualche misura la Prostituta interiore; tanto negli uomini quanto nelle donne. La Prostituta interiore si manifesta nella nostra vita tutte le volte che “vendiamo” metaforicamente una parte di noi per ottenere in cambio un tornaconto personale. Come funziona la Prostituta interiore? Si nutre delle paure connesse alla sopravvivenza e all’incolumità. L’energia di questo archetipo è ascrivibile principalmente al chakra della radice (Primo Chakra), il quale può bloccarsi o danneggiarsi come conseguenza dello sviluppo di determinate credenze o dell’influsso di alcune particolari esperienze di vita.
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Se l’Ue perde la Merkel, spietata esecutrice degli oligarchi
Senza Angela Merkel alla testa dell’Europa, chi lotterà contro la svolta a destra di Polonia e Ungheria in materia di immigrazione? Chi scongiurerà una Grexit? Chi, soprattutto, ricatterà-blandirà l’Italia per evitare una sua uscita dall’euro nel 2018? «Il tramonto di Angela Merkel», scrive Federico Dezzani, «risolleva le sorti del 2017 e getta le basi per un 2018 esplosivo: il governatore della Banca Centrale Europa, Mario Draghi, è ormai il solo, vero, ostacolo alla dissoluzione dell’euro». E dire che erano le presidenziali francesi in prinmavera, ad apparire come l’unico appuntamento elettorale del 2017 capace di destabilizzare l’Eurozona: nessuna sorpresa, invece, era attesa dalle elezioni federali tedesche dove, grazie al sistema proporzionale, la riconferma di Angela Merkel alla cancelleria era data per scontata. Il crollo della Spd e il timore degli altri partiti di andare incontro a un destino analogo hanno però vanificato i tentativi di formare una nuova coalizione di governo. «Il ritorno alle urne è probabile», in Germania. «E la Cdu, questa volta, correrebbe senza Angela Merkel», osserva Dezzani. «La caduta dell’ultima “paladina del mondo liberale” imprime nuovo slancio alla disgregazione dell’Unione Europea».Sconfitta Marine Le Pen, ricorda Dezzani nel suo blog, «l’attenzione si è progressivamente spostata alle elezioni italiane del 2018, considerate l’unica incognita per il fantomatico rilancio del processo di integrazione europea». Pochi colpi di scena si aspettavano dalla Germania, «dove le solide prestazioni economiche (rispetto agli altri membri della Ue), il provvidenziale blocco della “via balcanica” (primavera 2016) e l’accomodante sistema proporzionale ponevano le basi per la nascita, senza difficoltà, del quarto governo Merkel». Era improbabile che il voto tedesco del 24 settembre producesse scossoni sull’establishment politico tedesco tali da decretare la fine della cancelliera, pericolosa per la stabilità della già precaria Unione Europea. «Il logoramento di Angela Merkel si è sviluppato in sordina, sfociando in un’aperta crisi politica soltanto a distanza di due mesi dal voto», annota Dezzani. «È stata una caduta a rallentatore, ma non per questo meno rovinosa per gli equilibri europei». Dalle elezioni è uscito un Bundestag «incapace di esprimere un chiaro esecutivo», rendendo infruttuose le consultazioni per l’ipotetica “coalizione Giamaica” formata da Cdu-Csu, Verdi e Liberali.Proprio i liberali, fa notare Dezzani, hanno rifiutato la linea in materia di immigrazione emersa durante in negoziati, «piombando così la Germania nella più grave crisi istituzionale del dopoguerra: le possibilità che Angela Merkel sopravviva all’incidente sono ormai minime». Se a Bruxelles c’è chi tifa per un governo di minoranza ancora presieduto dalla Merkel, «lo scenario più realistico è un rapido ritorno alle urne, dove la Cdu, già indebolita dalla peggiore prestazione elettorale degli ultimi 70 anni, sarebbe obbligata a sbarazzarsi di Angela Merkel», scelta (ma in realtà imposta) come presidente del partito nel lontano 2000 «a discapito di Wolfgang Schäuble, neutralizzato con la “Tangentopoli tedesca”». La ragione del fallimento dei negoziati? «Va cercata nel sistema di potere adottato da Angela Merkel», sistema che oggi «lascia la Cdu senza un delfino pronto a raccogliere la sua eredità». Spiega Dezzani: «Angela Merkel, il cui unico obiettivo è stato sin dai primi anni ‘90 la conquista e la conservazione della cancelleria federale, ha sempre sfruttato, svuotato e, infine, abbandonato qualsiasi alleato. Consumatone uno, ne cercava un altro, assicurandosi soltanto di rimanere al centro della scena politica», peraltro «con grande soddisfazione dei suoi padrini atlantici».Il gioco è andato avanti per 12 anni, pima di rompersi sull’onda dell’emergenza migratoria. L’esordio è del 2005, con la Merkel a capo di una Grande Coalizione con la Spd e i Verdi. Alle elezioni successive, ricorda Dezzani, la Spd ne esce a pezzi: e la cancelliera, di conseguenza, forma il nuovo governo con i liberali. Quindi nel 2013 sono i liberali a crollare, e così la Merkel «riallaccia i rapporti con i socialisti della Spd, ridotti nuovamente a semplice satellite della cancelliera». Trascorrono quattro anni e, nel 2017, la Germania torna al voto: la Spd registra il peggiore risultato di sempre (20%), inducendo la cancelliera a cercare un’intesa con i precedenti alleati liberali, cui deve sommare anche i Verdi per sopperire al salasso di voti subito dalla Cdu-Csu (dal 41% al 32%). Ora, ragionano i liberali: perché mai dovremmo farci spremere e poi gettar via come nel 2009, solo per garantire alla Merkel altri quattro anni alla cancelleria? Merkel: chi tocca muore. Nessuno sopravvive all’alleanza. Questo spiega la volontà generalizzata dei partiti tedeschi di tornare al voto il prima possibile: tutti, sottolinea Dezzani, «vogliono evitare l’ennesimo abbraccio mortale della cancelliera, la cui immagine, oltretutto, è ormai indissolubilmente compromessa dalla crisi migratoria del 2015».Assumendo quindi che il destino di Angela Merkel sia ormai segnato, quali previsioni si possono formulare per la Germania e l’Unione Europea? Dezzani ricorda innanzitutto quali interessi rappresenta la cancelliera, definita dal “New York Times” «the Liberal West’s Last Defender», l’ultima paladina dell’ordine liberale. In virtù del primato economico della Germania, la Merkel è «il politico che ha chiesto e ottenuto il coinvolgimento del Fondo Monetario Internazionale nei “salvataggi europei”, che ha favorito il saccheggio dell’europeriferia da parte della finanza internazionale, che ha avvallato il golpe italiano del 2011, che ha imposto le sanzioni contro la Russia al resto dell’Europa, che ha incentivato la politica migratoria di George Soros, che ha sinora garantito l’integrità dell’Eurozona nel bene e nel male, che ha raccolto la guida dell’ordine mondiale “liberale” dopo l’insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump (surriscaldamento climatico, difesa della globalizzazione, etc)».Per Dezzani, l’uscita di scena della Merkel avrebbe conseguenze traumatiche per il potere Ue: «La Germania si prepara, una volta liberatasi dalla tutela di Angela Merkel, a spostarsi ulteriormente “a destra”: non si intende soltanto un travaso di voti verso i falchi della Cdu-Csu o “Alternativa per la Germania”, ma anche un diverso approccio di Berlino negli affari esteri». Secondo Dezzani, senza la Merkel alla cancelleria federale, «la Germania sarà più nazionalista e “continentale”, meno liberale e atlantica». Parallelamente, «l’uscita di scena di Angela Merkel complica ulteriormente i progetti di integrazione franco-tedeschi, già indeboliti dal rapido sfaldamento della presidenza Macron, e accelera le spinte centrifughe nel resto dell’Europa».Senza Angela Merkel alla testa dell’Europa, chi lotterà contro la svolta a destra di Polonia e Ungheria in materia di immigrazione? Chi scongiurerà una Grexit? Chi, soprattutto, ricatterà-blandirà l’Italia per evitare una sua uscita dall’euro nel 2018? «Il tramonto di Angela Merkel», scrive Federico Dezzani, «risolleva le sorti del 2017 e getta le basi per un 2018 esplosivo: il governatore della Banca Centrale Europa, Mario Draghi, è ormai il solo, vero, ostacolo alla dissoluzione dell’euro». E dire che erano le presidenziali francesi, in primavera, ad apparire come l’unico appuntamento elettorale del 2017 capace di destabilizzare l’Eurozona: nessuna sorpresa, invece, era attesa dalle elezioni federali tedesche dove, grazie al sistema proporzionale, la riconferma di Angela Merkel alla cancelleria era data per scontata. Il crollo della Spd e il timore degli altri partiti di andare incontro a un destino analogo hanno però vanificato i tentativi di formare una nuova coalizione di governo. «Il ritorno alle urne è probabile», in Germania. «E la Cdu, questa volta, correrebbe senza Angela Merkel», osserva Dezzani. «La caduta dell’ultima “paladina del mondo liberale” imprime nuovo slancio alla disgregazione dell’Unione Europea».
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Erik Olin Wright: democrazia, per erodere questo capitalismo
In tutte le strutture economiche, gli aspetti chiave che definiscono le relazioni sociali sono i rapporti di potere. In una struttura economica, i rapporti di potere sono basati sul tipo di risorse che possiedi e controlli. Se viviamo in un’economia capitalistica, ciò significa che i rapporti sociali di base nell’economia sono fondati sulla ricchezza, sulla proprietà. Questa è l’economia basata sull’impresa privata: ha al centro la proprietà privata del capitale. Ci sono persone che sono dominate dal capitale. Oggi vedono ancora il capitalismo come un problema serio: molte persone hanno ben chiaro che il capitalismo sta distruggendo l’ambiente, sta producendo insicurezza, sta producendo precarietà, sta producendo una concentrazione di potere che sta devastando i nostri processi democratici. Le persone riconoscono tutti questi problemi e li attribuiscono correttamente al potere del capitale, ma non traducono ciò nella propria identità. E questo è un problema, perché danneggia l’azione collettiva. È in questo senso che sostengo che un progetto di democratizzazione sia in grado di unificare le persone. Se le concentrazioni di potere sono il cuore del problema, rendere quel potere più subordinato alla democrazia è parte della soluzione.Il potere oggi è più difficile da limitare, a causa della globalizzazione e della finanziarizzazione del capitale. E poi emergono due questioni. La prima è quella della riforma democratica: quali sono le politiche che possono estendere la democrazia nell’economia e nella società civile? Come creiamo una società democratica? E la seconda è quella economica: come creiamo le condizioni per una vita economica che sia più geograficamente radicata, nei territori, invece di essere globalmente mobile? Transizione a una società post-capitalistica? Il termine “transizione” tende a dare l’idea che ciò possa avvenire in un lasso di tempo breve, e credo che invece ci dobbiamo immaginare un processo di erosione, questo è il termine geologico che uso: un processo che eroda il capitalismo. Si pone il problema di come realizzare questo processo di democratizzazione all’interno dell’Unione Europea. Non c’è solo la globalizzazione, c’è anche un organizzazione sovranazionale con regole che non sono solo capitalistiche ma proprio neoliberiste. È possibile dare vita a questo processo di alternativa all’interno di questo contesto di governance?Non c’è una ragione intrinseca per cui uno Stato europeo debba essere neoliberista. Lo è, perché questi sono i termini in cui il capitalismo ha forgiato questa istituzione politica transnazionale, ma penso che il progetto di democratizzare il quasi-Stato europeo, rendendolo un’istituzione che abbia più capacità e non meno, ma in maniera subordinata alla democrazia, debba essere parte del progetto di democratizzazione più generale. Uscire dall’Europa renderebbe le cose ancora peggiori: non c’è ragione per cui, all’interno di Stati sovrani di medie dimensioni, che dipenderebbero comunque dall’integrazione economica con altri Stati, altre società e altre economie, ci sarebbe una maggiore capacità di controllare il capitalismo. Avremmo più possibilità di controllare il capitalismo se democratizzassimo l’Unione Europea che se semplicemente democratizzassimo gli Stati membri e ci liberassimo dell’Ue. Abbiamo bisogno di istituzioni politiche sovranazionali che rispondano democraticamente alle persone per risolvere davvero il problema di come limitare il potere del capitalismo.Parlando di globalizzazione, che relazione c’è, oggi, tra le lotte nel mondo occidentale e quelle sul piano globale? Non mi sento in grado di prevedere dove sia più probabile che avvengano i futuri avanzamenti della democrazia, se avverranno. Quanto sono convinto che queste strategie avranno successo? Se dovessi scommettere la mia casa e l’eredità per i miei figli, scommetterei sul fatto che nei prossimi 25 anni avremo una svolta democratica in grado di subordinare il capitalismo e di permettere a forme alternative al capitalismo di svilupparsi dinamicamente, o prevedrei una continuazione del capitalismo con diseguaglianze più profonde, crisi e una diminuzione della democrazia? Probabilmente scommetterei sulla seconda opzione. È la più probabile, ma non è inevitabile. Il pessimismo è facile, non richiede alcun lavoro intellettuale. Ci vuole un sacco di serio lavoro intellettuale, invece, per trovare fonti di ottimismo.Bisogna cominciare da qualche parte. L’idea che non si possa trasformare nessun luogo finché non li si sono trasformati tutti è una ricetta per non trasformare nulla. Questo chiaramente è più importante se si pensa alla trasformazione come rottura: giovedì avremo un’isola felice in Italia, e poi potremo provare ad avere un mondo felice domenica. Questa è la logica della rottura, non quella del processo. Se pensiamo al processo, il punto è dove cominciare a cambiare le dinamiche dello sviluppo, nella direzione di quella che chiamo erosione del capitalismo, perché questo è il meglio che possiamo fare. Qualche volte le politiche rilevanti possono essere locali, non nazionali. Ci sono cose che possono accadere nei Comuni. Ad esempio, gli spazi pubblici, per facilitare l’iniziativa collettiva per nuove forme di attività economica. Questo è un tema locale in molti paesi. Ci sono posti in cui ci sono fabbriche abbandonante, per via della deindustrializzazione: quelli sono spazi sprecati, non utilizzati. Questi spazi potrebbero essere trasformati in spazi per makers, per progetti collettivi, compresi progetti di auto-organizzazione per l’economia solidale e sociale, per le cooperative.Queste cose quando vengono fatte creano delle dinamiche, perché coinvolgono le persone nell’immaginare e nel creare alternative e democrazia. Queste sono cose che le persone possono fare come parte della propria vita in un determinato territorio. E anche se sarà una piccola parte dell’azione che va verso l’alternativa, sarà comunque un passo avanti. Ci potranno essere momenti storici, per colpa di una crisi, o di cambiamenti ideologici o politici, in cui quelle iniziative possono essere portate a livello globale, in cui si può pensare a ridisegnare i trattati commerciali globali, a mettere una Tobin Tax sulle transazioni finanziarie transnazionali; ci potranno essere opportunità per mettere limiti al capitale globale, facilitando ulteriori trasformazioni. Ma non penso che dovremmo mettere tutte le nostre energie, dal punto di vista strategico, nei temi globali, perché sono ovviamente i più importanti, in termini di danno, ma raramente sono i migliori obiettivi. Gli obiettivi locali possono essere più vulnerabili.La strategia di erosione del capitalismo che io propongo ha al centro la democrazia, con l’idea che se si riesce a rendere il capitalismo subordinato alla democrazia, si creano le condizioni per sviluppare alternative al capitalismo. Tradizionalmente, la forma di espressione della democrazia nell’era moderna è stata lo Stato. Sto proponendo che per democratizzare l’economia dobbiamo lavorare per un nuovo ruolo dello Stato nell’economia, o sto immaginando forme di democrazie che non sono basate sulle istituzioni rappresentative? Penso a entrambe le cose. Abbiamo bisogno di uno Stato più forte, con maggiore capacità democratica per intervenire nell’economia, perché abbiamo bisogno di un modo per controllare le esternalità negative della produzione capitalistica e per proteggere meglio i beni comuni. Tutte cose per cui c’è bisogno dello Stato. Ma abbiamo bisogno anche di democrazia fuori dallo Stato: abbiamo bisogno di democratizzare i luoghi di lavoro, di creare nuovi processi democratici anche all’interno di imprese capitalistiche, trasformandole in ibridi che sono capitalistici per certi aspetti e democratici per altri.Abbiamo bisogno anche di democratizzare la società, non solo l’economia e lo Stato. Dobbiamo democratizzare la vita associativa delle comunità. Le tendenze all’esclusione che esistono nella società civile devono essere combattute. Questa è una battaglia molto difficile, perché alcune forme di esclusione sembrano così naturali da essere organiche alla vita delle persone. Penso alla maniera in cui le tradizioni religiose, ad esempio, creano insider e outsider, i salvati e i dannati, tutte queste barriere che impediscono il riconoscimento nella società civile. È piuttosto difficile combatterle, e in certe aree del mondo sono di fatto il problema principale, quando le pratiche di esclusione che sono costruite sulle tradizioni religiose diventano la fonte del dominio più violento. Se fosse vero che lo Stato non è niente di più che l’espressione del potere della classe dominante, se questa non fosse solo un’approssimazione ma tutta la storia, se lo Stato fosse un’espressione senza contraddizioni interne e totalizzante del potere della frazione dominante della classe dominante, allora non avrebbe alcun senso battersi per uno Stato democratico, perché la democraticità dello Stato sarebbe un’illusione.In questo senso lo Stato non sarebbe solo uno Stato capitalistico, sarebbe uno Stato puramente capitalistico. Bene, io non penso che questa sia una teoria dello Stato soddisfacente. Penso che lo Stato sia un assemblaggio ben più complicato e più contraddittorio. Penso che sia un ecosistema, uso questa metafora, che ha i suoi problemi ma che mi sembra funzioni meglio rispetto all’idea dello stato come un organismo, una totalità che esprime pienamente un interesse unificato. No, lo Stato è un’incarnazione contraddittoria delle forze della società, e la componente democratica dello Stato è un elemento profondamente contraddittorio all’interno dello Stato stesso. Per questo penso che la lotta per rendere più profonda la democrazia nello Stato sia sempre problematica, mai facile, ma quando ha successo intensifica questo carattere contraddittorio dello Stato e crea aperture. Qualche volta avviene per temi regionali, articolando il conflitto tra locale e nazionale, qualche volta è una componente dello Stato nazionale, due ministeri che non collaborano.Non possiamo schioccare le dita e trasformare lo Stato in qualcosa di diverso. Se adottiamo la disperazione anarchica e decidiamo che quella nello Stato è una battaglia senza speranza e va evitata, per limitarsi a costruire le alternative, credo che si produca solo marginalizzazione. Dall’altra parte c’è l’illusione della sinistra liberal di credere che lo Stato sia uno strumento neutro: neanche quella funziona. Bisogna vivere le contraddizioni e muoversi al loro interno. I sondaggi sulla popolarità del socialismo tra i millennials negli Stati Uniti e la crescita della quota di giovani britannici che si considerano contrari al capitalismo: un’ondata di anticapitalismo? Penso di sì. Penso che molti giovani si riconoscano nello slogan “Il capitalismo non funziona, un altro mondo è possibile”. Hanno vissuto la crisi del 2008-2010, hanno visto le cose insensate che i politici e le élite dicevano, hanno visto le cose cambiare ben poco, in termini di priorità. Capiscono un fatto bizzarro: anche in mezzo a questa crisi, le società europee sono più ricche di 30 anni fa. Sono società ricche. E quindi come può essere che la precarietà, l’insicurezza e l’ansia aumentino, con tutta la ricchezza della società? È folle.Il capitalismo non sta funzionando. Il capitalismo produce innovazione, lo sappiamo, tutti abbiamo uno smartphone e ci fa piacere averlo. Il capitalismo produce tutti questi cambiamenti tecnologici, eppure non funziona, produce sia meraviglie tecnologiche sia la precarietà. È veramente il meglio che possiamo fare? Una risposta possibile è: “Non c’è alternativa”. Io penso che ci sia un’ondata di giovani che dicono: “Forse c’è un’alternativa”. Il problema è il processo per arrivarci. C’è ancora una grande speranza per una rottura: l’idea che se Corbyn avesse vinto, se Mélenchon fosse stato eletto, allora forse avrebbero potuto mettere in atto un’alternativa. Questa è una fantasia. La transizione tra strutture sociali complesse dev’essere il risultato di un processo di trasformazione piuttosto che di un’azione immediata. Uso la metafora dell’erosione perché suggerisce che si metta in moto qualcosa che abbia quell’effetto. E penso a tutti i modi in cui possiamo promuovere la costruzione di alternative, assicurarne le fondamenta in modo che non siano sempre vulnerabili e poi incoraggiare attraverso l’azione collettiva le persone a parteciparvi: questo per me è il modo di pensare a un’alternativa al capitalismo.(Erik Olin Wright, dichiarazioni rilasciate a Lorenzo Zamponi e Marta Fana per l’intervista “Estendere la democrazia per erodere il capitalismo”, pubblicata da “Micromega” il 5 luglio 2017. Sociologo marxista statunitense, attento osservatore delle diamiche di trasformazione della società, Erik Olin Wright insegna all’università del Wisconsin).In tutte le strutture economiche, gli aspetti chiave che definiscono le relazioni sociali sono i rapporti di potere. In una struttura economica, i rapporti di potere sono basati sul tipo di risorse che possiedi e controlli. Se viviamo in un’economia capitalistica, ciò significa che i rapporti sociali di base nell’economia sono fondati sulla ricchezza, sulla proprietà. Questa è l’economia basata sull’impresa privata: ha al centro la proprietà privata del capitale. Ci sono persone che sono dominate dal capitale. Oggi vedono ancora il capitalismo come un problema serio: molte persone hanno ben chiaro che il capitalismo sta distruggendo l’ambiente, sta producendo insicurezza, sta producendo precarietà, sta producendo una concentrazione di potere che sta devastando i nostri processi democratici. Le persone riconoscono tutti questi problemi e li attribuiscono correttamente al potere del capitale, ma non traducono ciò nella propria identità. E questo è un problema, perché danneggia l’azione collettiva. È in questo senso che sostengo che un progetto di democratizzazione sia in grado di unificare le persone. Se le concentrazioni di potere sono il cuore del problema, rendere quel potere più subordinato alla democrazia è parte della soluzione.
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Elegantissimo, aristocratico, anarchico Paolo Villaggio
Elegantissimo, come nessuno. Lui, Paolo Villaggio, con gli zoccoli di plastica rossi e il caftano di foggia maghrebina. Italiano e rabdomante, come il cantautore Paolo Conte, come lo scrittore Maurizio Maggiani. Anime raffinatissime, capaci di raccontare anche tacendo, di affermare per negazioni, per assenze. In grado di stare ovunque, sempre e comunque, partendo da quella porzione di cielo dove si stagliano le idee che poi maturano, diventando pensieri, vocati a incarnarsi in qualcosa di terreno, masticabile, a volte emozionante, persino profetico. Puoi scegliere il sentiero dell’asceta o quello del guitto, ma è lo stesso: cambia soltanto l’abito. Il doppiopetto, oppure lo “spigato siberiano” con la sciarpa amorevolmente accomodata dalla signora Pina, quel “curioso animale domestico, dai capelli color topo”. Non c’era, la signora Pina, nella “Voce della Luna”. C’era il prefetto Gonnella, con il suo sploverino sdrucito, che – sorgendo dal caos infernale della discoteca-hangar – all’improvviso fa il vuoto attorno a sé guidando, in un valzer di cristallo, una soave dama dei tempi che furono, direttamente discesa dai paradiso dei sogni affrescato da Federico Fellini. Un paradiso in cui il prefetto Gonnella sbalordisce tutti, surclassando l’eroe nazionale più convenzionale, Roberto Benigni.Sempre elegantissimo, Paolo Villaggio, anche nei panni dell’austero e perfido colonnello Pròcolo, che per tutta la durata del film (“Il segreto del bosco vecchio”, di Ermanno Olmi) tenta di assassinare il nipote, il giovane Benvenuto, per carpirgli l’eredità e abbattere la sua foresta sacra, simbolo della vita prima di noi – la vita che continua dopo di noi, malgrado noi. Paolo Villaggio anziano, alle prese con reading e presentazioni sempre altamente spettacolari dei suoi 28 titoli, incluso l’esilarante e folle “Vita, morte e miracoli di un pezzo di merda”, in cui il poeta mette l’anima all’asta, alla maniera di Majakovskij, deliziando anche il pubblico della Russia profonda, che l’ha sempre amato considerandolo un grande scrittore popolare, come autorevolmente confermato da superstar della letteratura internazionale del calibro di Evgenij Evtushenko (con grande scorno – come ricordato dallo stesso Paolo, gongolante – dei vari Moravia dell’intellighenzia regolare, seriosamente ufficiale). Sarà stato decisamente divertente, un vero premio alla carriera, per un finto cialtrone d’alta scuola perfettamente a suo agio in un perimetro popolato di nomi come Fabrizio De André, Vittorio Gassman, Mario Monicelli, accanto a quello dell’inseparabile Gigi Reder.Finto cialtrone d’alta scuola ma senza scuola, e che ha fatto storia. La scuola è stata l’Italsider, sono state le navi da crociera, i piano-bar col Fabrizio e il Silvio, quello fissato con la televisione. Villaggio poeta: l’amore, al profumo dei pitosfori in fiore. Arte di puro istinto, intelligenza prontamente liquefatta in un copione tragicomico, grottesco, inattendibile, felicemente in fuga nel regno dell’iperbole. Cifra stilistica, diranno i critici. «Stronzate, io ormai mi cago addosso», li ha zittiti regolarmente il principe Bakunin, l’anarchico genovese, l’aristocratico della risata che ti costringe a pensare, senza mai scendere a patti con l’angusto lessico delle chiacchiere mainstream. Non un’intervista lineare, in decenni di esposizione mediatica. Giacimenti di verità sparsi qua e là, in mezzo a pernacchie e livide freddure, nutrite di cinismo divertito: trovalo tu, l’umano in me, io non posso scodellartelo sul piatto, sono costretto a insolentirti – con affetto, sempre, ma senza mai venire meno alla regola monastica che ho scelto, di cavaliere in missione per conto di voi tutti, me compreso. “Storia della libertà di pensiero”, scrisse, divertendosi – ancora – a fare scempio di monumenti, totem e tabù. L’ultimo atto editoriale vale un’epigrafe: “Siamo nella merda”, testualmente. Lo siamo eccome, ora, non avendo più con noi Paolo Villaggio, il gigante goffo, l’elegantissimo signore che stava sotto i riflettori solo per dirci come siamo veramente: impresentabili, indecenti, regolarmente inadeguati, cioè bellissimi.Elegantissimo, come nessuno. Lui, Paolo Villaggio, con gli zoccoli di plastica rossi e il caftano di foggia maghrebina. Italiano e rabdomante, come il cantautore Paolo Conte, come lo scrittore Maurizio Maggiani. Anime raffinatissime, capaci di raccontare anche tacendo, di affermare per negazioni, per assenze. In grado di stare ovunque, sempre e comunque, partendo da quella porzione di cielo dove si stagliano le idee che poi maturano, diventando pensieri, vocati a incarnarsi in qualcosa di terreno, masticabile, a volte emozionante, persino profetico. Puoi scegliere il sentiero dell’asceta o quello del guitto, ma è lo stesso: cambia soltanto l’abito. Il doppiopetto, oppure lo “spigato siberiano” con la sciarpa amorevolmente accomodata dalla signora Pina, quel “curioso animale domestico, dai capelli color topo”. Non c’era, la signora Pina, nella “Voce della Luna”. C’era il prefetto Gonnella, con il suo sploverino sdrucito, che – sorgendo dal caos infernale della discoteca-hangar – all’improvviso fa il vuoto attorno a sé guidando, in un valzer di cristallo, una soave dama dei tempi che furono, direttamente discesa dal paradiso dei sogni affrescato da Federico Fellini. Un paradiso in cui il prefetto Gonnella sbalordisce tutti, surclassando l’eroe nazionale più convenzionale, Roberto Benigni.