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Aquisgrana, due piccoli avvoltoi sul cadavere dell’Europa
Il Trattato franco-tedesco di Aquisgrana, antica capitale del Sacro Romano Impero (la città-simbolo dove si assegna il Premio Carlo Magno) formalizza quell’idea di Europa «che finora aveva avuto cittadinanza solo a livello finanziario». E gli altri paesi? O vassalli, o colonie da tenere in riga, meglio se più povere di prima. Fantasie? No, basta leggere il testo predisposto da Emmanuel Macron e Angela Merkel, ultra-sovranisti alla bisogna. Secondo Alessandro Mangia, costituzionalista dell’Università Cattolica di Milano, il nuovo trattato «accelera il processo di disgregazione dell’Unione Europea». Fino al 2016, aggiunge, il Regno Unito è stato «il solo contraltare alla coppia franco-tedesca a livello politico e di occupazione degli spazi burocratici». Usciti di scena gli inglesi, «che assieme a Italia, Spagna ed altri paesi potevano fare da contrappeso», gli equilibri di potenza in Europa sono saltati. E l’Europa si è improvvisamente contratta. Intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario”, il professor Mangia insiste: «Senza Gran Bretagna, l’Unione non ha capacità di proiezione esterna. E il suo spazio di manovra sullo scenario mondiale, che nemmeno prima era granché, si è ulteriormente ristretto». Il nuovo patto «è una manovra classica da arrocco: la mossa difensiva di due potenze diverse, ma entrambe in grande difficoltà fuori dallo scenario europeo», a cominciare dagli Stati Uniti.Di fronte alle pressioni americane (e alle minacce di disimpegno degli Usa dalla Nato, a meno che i paesi europei non incrementino l’acquisto di forniture militari americane nei prossimi anni), Francia e Germania se ne escono con questo trattato che, almeno sulla carta, «disegna una struttura di tipo quasi confederale, imperniata su organi e meccanismi stabili di collaborazione in tema di difesa, sicurezza interna, operazioni militari all’estero, industria militare, posti in Consiglio di Sicurezza Onu e concertazione sulle politiche europee». Secondo Alessandro Mangia siamo di fronte a una struttura polifunzionale, «destinata a operare come patto di controllo all’interno dell’Unione in attesa che Trump se ne vada». Oppure, se lo sfaldamento dell’Ue accelera dopo le elezioni europee, Francia e Germania hanno già messo in cantiere questo possibile Piano-B: un disegno «che riduca tutto a Germania, con baltici e Olanda al seguito, e Francia, con esercito, nucleare e colonie della zona franco Cfa», tuttora sottoposte a un severo regime di sfruttamento colonialistico. E ora? L’Unione Europea «diventa qualcosa di obsoleto o, nel migliore dei casi, una struttura destinata ad essere funzionale, in chiave subordinata, ad un asse politico che ha pretese di egemonia continentale».Qui si va molto al di là di una classica cooperazione rafforzata, sottolinea il professor Mangia: si tocca la sfera militare, e dunque politica per eccellenza. «La verità è che a fomentare squilibri e conflitti all’interno dei paesi dell’Unione è stata la politica mercantilista tedesca, che non si è limitata ad operare all’interno del continente, ma ha cominciato a infastidire gli stessi Usa. Se si pensa che la sola Germania ha un surplus sull’estero superiore a quello cinese – osserva Mangia – si capisce perché la proposta di Trump di livellare le spese militari al 2% dei paesi aderenti non fosse poi tanto peregrina, almeno dal suo punto di vista». Al di fuori di armi e tecnologia militare, aggiunge Mangia, non è che gli Usa abbiano ormai molto da esportare in Europa. «E infatti questo trattato è un “no” chiaro e tondo alle richieste americane: e si propone, non so con quale efficacia, di sviluppare un’industria militare e una forza di intervento esclusivamente franco-tedesca, che possa prendere il posto del fornitore americano». Scenario realistico? Manca esprime forti dubbi: «Il mercato mondiale delle armi è soprattutto in mano ad americani e russi, che ne hanno fatto un volano economico. Andarlo a sfidare senza avere la capacità economica – e la volontà di spesa – di Usa e Russia è a dir poco velleitario. Eppure, il segnale che si vuole lanciare è esattamente questo».Quanto al testo del trattato, il livello di cooperazione (sulla carta) è molto stretto. Si parla di un Consiglio franco-tedesco di difesa e sicurezza comune, di un Consiglio dei ministri franco-tedesco, di partecipazione su base regolare di membri del governo francese o tedesco ai Consigli dei ministri dell’altro Stato. Ma ci sono anche dei passaggi meno generici, avverte Manca: nell’articolo 6 si parla di “unità comuni per operazioni di stabilizzazione in paesi terzi”. E si prevedono interventi tanto in Europa e in Africa: e cioè nelle zone del franco Cfa. «E’ chiaro che, se queste non restassero solo parole, ci si troverebbe di fronte ad un fatto politico piuttosto rilevante». Tradotto: «Se ci si ferma a riflettere su cosa si intende per “sicurezza interna” si finisce per leggere “ordine pubblico”. E si capisce che qui si va oltre il Trattato di Velsen del 2004 che istituisce Eurogendfor come piattaforma di Gendarmeria Europea. Potenzialmente la base giuridica per interventi diretti delle rispettive polizie oltre confine qui ci sarebbe. Non so se rendo l’idea».Nella sostanza, sottolinea Manca, il trattato si prefigge di formalizzare quell’idea di “Europa core” che finora aveva avuto cittadinanza solo a livello finanziario. «Sullo sfondo c’è l’idea di passare dalla sfera economico-commerciale alla sfera militare, e cioè politica per definizione». Non è casuale, infatti, che sia stata scelta Aquisgrana come sede per la firma: il luogo-simbolo del Sacro Romano Impero. «Appunto. Nella cattedrale è sepolto Carlo Magno che aveva unificato Franchi e Germani; è la città dove viene attribuito quel Premio Carlo Magno che, negli ambienti europeisti, ha un fortissimo valore simbolico. Quando si passa a curare i simboli – aggiunge il professore – ci si muove in una dimensione apertamente politica. Ricordate le piramidi o le stelle a cinque punte di Macron? Siamo sempre lì». E partendo da Aquisgrana dove si può arrivare? La Merkel, «quasi dimissionaria in patria», ha delle mire precise sulla prossima Commissione Europea. Dall’altra parte c’è Macron, «che è riuscito nella non facile impresa di battere i livelli di impopolarità di Hollande», e che da dieci settimane si trova la città messe a ferro e a fuoco, nel weekend, dai Gilet Gialli. La sua unica strategia? «Lanciare le consultazioni con i sindaci e aspettare che i rivoltosi si stufino, nel più puro stile d’Ancien Régime».Merkel e Macron, per Alessandro Manca, «sono due figure deboli in patria, deboli sullo scenario mondiale, che riescono ad imporsi solo nei confronti degli altri paesi dell’Unione». Sul breve periodo, hanno ogni convenienza a sostenersi a vicenda. Ma il professore insiste ancora sul profilo militare: in Germania, oltre che sulle infrastrutture, si è giocato al risparmio anche sulle spese militari per la Bundeswehr, che soffre di sottofinanziamenti cronici. Ma dall’estate scorsa, «dopo lo scontro con Trump, si è iniziato a parlare, sulla stampa tedesca, dell’opportunità di divenire una potenza nucleare, in barba ai trattati di non proliferazione del dopoguerra». E qui, il partner ideale è la Francia. «Sì, perché la Germania è una potenza economica, ma un nano militare». La Francia ha un’industria militare di qualche rilievo, storicamente sovralimentata dallo Stato, e dispone di capacità e tecnologia nucleare sia civile che militare. «Ha qualcosa da vendere, insomma, che i tedeschi non hanno e non possono avere a breve. In cambio – aggiunge Manca – la Francia può ricevere accoglienza al vertice politico dell’Unione come “regina consorte” e vantare un rapporto privilegiato con il paese con il più grande surplus commerciale al mondo. Sembra uno scambio utile ad entrambi».Quanto all’impegno della Francia a favorire il riconoscimento della Germania come membro permanente del Consiglio di Sicurezza Onu, Alessandro Manca sorride: ve le immaginate le risate, al Dipartimento di Stato e al Foreign Office inglese, il giorno che la Francia proverà a tener fede a questo impegno preso con i tedeschi, «con quello che stanno facendo passare al governo britannico sulla Brexit?». Per non parlare di Russia e Cina, «che “non aspettano altro” di avere la Germania seduta a quel tavolo a metter bocca sulle questioni internazionali». Come dire: uno scenario solo virtuale, del tutto irrealistico. Poi però ci siamo noi, l’Italia, insieme agli altri paesi esclusi dall’accordo: che conseguenze avrà, sulla nostra pelle, questo evidente progetto di dominio? «Questa è la nota più dolente, almeno a breve». Un asse franco-tedesco «che costituisca una struttura intrecciata anche militarmente ha poco rilievo fuori dal continente, ma ha molto rilievo al suo interno, soprattutto per il competitor naturale di Francia e Germania, che è poi l’Italia». Siamo «l’unico paese che, nonostante tutto, ha ancora una manifattura e un’industria militare capace di confrontarsi con Francia e Germania». L’Ue ha sgretolato le antiche alleanze. La prima vittima del Trattato di Aquisgrana, secondo Manca, sarà proprio l’industria militare italiana, «che è diretta concorrente dell’industria francese».Il Trattato franco-tedesco di Aquisgrana, antica capitale del Sacro Romano Impero (la città-simbolo dove si assegna il Premio Carlo Magno) formalizza quell’idea di Europa «che finora aveva avuto cittadinanza solo a livello finanziario». E gli altri paesi? O vassalli, o colonie da tenere in riga, meglio se più povere di prima. Fantasie? No, basta leggere il testo predisposto da Emmanuel Macron e Angela Merkel, ultra-sovranisti alla bisogna. Secondo Alessandro Mangia, costituzionalista dell’Università Cattolica di Milano, il nuovo trattato «accelera il processo di disgregazione dell’Unione Europea». Fino al 2016, aggiunge, il Regno Unito è stato «il solo contraltare alla coppia franco-tedesca a livello politico e di occupazione degli spazi burocratici». Usciti di scena gli inglesi, «che assieme a Italia, Spagna ed altri paesi potevano fare da contrappeso», gli equilibri di potenza in Europa sono saltati. E l’Europa si è improvvisamente contratta. Intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario”, il professor Mangia insiste: «Senza Gran Bretagna, l’Unione non ha capacità di proiezione esterna. E il suo spazio di manovra sullo scenario mondiale, che nemmeno prima era granché, si è ulteriormente ristretto». Il nuovo patto «è una manovra classica da arrocco: la mossa difensiva di due potenze diverse, ma entrambe in grande difficoltà fuori dallo scenario europeo», a cominciare dagli Stati Uniti.
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La lotteria dell’universo e i numeri sbagliati del pianeta
La verità. La verità è che siamo fuori di qualche trilione. Lo so, ammise il supremo contabile; ma il problema, come sempre, è politico. Occorre ben altro che il pallottoliere: servono narrazioni, e il guaio è che i narratori ormai scarseggiano. Il Supremo aveva superato i sessant’anni ed era cresciuto al riparo dei migliori istituti, poi l’avevano messo alla prova per vedere se sarebbe stato capace di premere il pulsante. Intuì che premere il pulsante era l’unico modo per restare a bordo, e lo premette. Quando poi vide la reale dimensione del dramma, ormai era tardi: c’erano altri pulsanti, da far premere ad altri esordienti. Si fece portare un caffè lungo, senza zucchero, e provò il desiderio selvaggio di tornare bambino. Rivide un prato senza fine, gremito di sorrisi e volti amici, tutte persone innocue. Devo proprio aver sbagliato mondo, concluse, tornando alla sua contabilità infernale.Il messia. Alla mia destra, aveva detto, e alla mia sinistra. Sedevano a tavola, semplicemente. Avevano sprecato un sacco di tempo in chiacchiere inconcludenti, e lo sapevano. Con colpevole ritardo, dopo inenarrabili vicissitudini dai risvolti turpemente malavitosi, si erano infine rimessi al nuovo sire, l’inviato dall’alto. Familiarmente, tra loro, lo chiamavano messia, essendo certi che avrebbe fatto miracoli e rimesso le cose al loro posto, ma non osavano consentirsi confidenze di sorta: ne avevano un timoroso rispetto. Quell’uomo incuteva soggezione, designato com’era dal massimo potere superiore. Non restava che ascoltarlo, in composto silenzio, assecondandolo in tutto e sopportandone la postura da tartufo. La sua grottesca affettazione si trasformava inevitabilmente, per i servi, in squisita eleganza. Gareggiavano, i sudditi, in arte adulatoria. Stili retorici differenti, a tratti, permettevano ancora di distinguere i servitori seduti a destra da quelli accomodati a sinistra.Tungsteno. L’isoletta era prospera e felice, o almeno così piaceva ripetere al governatore, sempre un po’ duro d’orecchi con chi osava avanzare pretese impudenti, specie in materia di politica economica, magari predicando la necessità di sani investimenti in campo agricolo. Il popolo si sentì magnificare le virtù del nuovo super-caccia al tungsteno, ideale per la difesa aerea. Ma noi non abbiamo nemici, protestarono. Errore: potremmo sempre scoprirne. Il dibattito si trascinò per mesi. I contadini volevano reti irrigue, agronomi, serre sperimentali, esperti universitari in grado di rimediare alle periodiche siccità. Una mattina il cielo si annuvolò e i coloni esultarono. Pioverà, concluse il governatore, firmando un pezzo di carta che indebitava l’isola per trent’anni, giusto il prezzo di un’intera squadriglia di super-caccia al tungsteno.Stiamo pensando. Stiamo pensando alla situazione nella sua inevitabile complessità, alle sue cause, alle incidenze coincidenti ma nient’affatto scontate. Stiamo pensando a come affrontare una volta per tutte la grana del famosissimo debito pubblico, voi capite, il debito pubblico che è come la mafia, la camorra, l’evasione fiscale, l’Ebola, gli striscioni razzisti negli stadi, la rissa sui dividendi della grande fabbrica scappata oltremare, l’abrogazione di tutto l’abrogabile. Perché abbiamo perso? Stiamo pensando a come non perdere sempre, a come non farvi perdere sempre. Stiamo pensando, compagni. E, in confidenza, di tutte queste problematiche così immense, così universali, così globalmente complicate, be’, diciamocelo: non ne veniamo mai a capo. Il fatto è che non capiamo, compagni. Non capiamo mai niente. Ma, questa è la novità, ci siamo finalmente ragionando su. Stiamo pensando. Una friggitoria di meningi – non lo sentite, l’odore?Unni. Scrosciarono elezioni, ma il personale di controllo era scadente e il grande mago cominciò a preoccuparsi, dato che i replicanti selezionati non erano esattamente del modello previsto. Lo confermavano a reti unificate gli strilli dei telegiornali, allarmati anche loro dall’invasione degli Unni. Non si capiva quanto fossero sinceri i loro slogan, quanto pericolosi. Provò il dominus ad armeggiare con i soliti tasti, deformando gli indici borsistici, ma non era più nemmeno certo che il trucco funzionasse per l’eternità. Vide un codazzo di Bentley avvicinarsi alla reggia e si sentì come Stalin accerchiato dai suoi fidi, nei giorni in cui i carri di Hitler minacciavano Mosca. Ripensò ai tempi d’oro, quando gli asini volavano e persino gli arcangeli facevano la fila, senza protestare, per l’ultimissimo iPhone.(Estratto da “La lotteria dell’universo”, di Giorgio Cattaneo. “Siamo in guerra, anche se non si sentono spari. Nessuno sa più quello che sta succedendo, ma tutti credono ancora di saperlo: e vivono come in tempo di pace, limitandosi a scavalcare macerie. Fotogrammi: 144 pillole narrative descrivono quello che ha l’aria di essere l’inesorabile disfacimento di una civiltà”. Il libro: Giorgio Cattaneo, “La lotteria dell’universo”, Youcanprint, 148 pagine, 12 euro).La verità. La verità è che siamo fuori di qualche trilione. Lo so, ammise il supremo contabile; ma il problema, come sempre, è politico. Occorre ben altro che il pallottoliere: servono narrazioni, e il guaio è che i narratori ormai scarseggiano. Il Supremo aveva superato i sessant’anni ed era cresciuto al riparo dei migliori istituti, poi l’avevano messo alla prova per vedere se sarebbe stato capace di premere il pulsante. Intuì che premere il pulsante era l’unico modo per restare a bordo, e lo premette. Quando poi vide la reale dimensione del dramma, ormai era tardi: c’erano altri pulsanti, da far premere ad altri esordienti. Si fece portare un caffè lungo, senza zucchero, e provò il desiderio selvaggio di tornare bambino. Rivide un prato senza fine, gremito di sorrisi e volti amici, tutte persone innocue. Devo proprio aver sbagliato mondo, concluse, tornando alla sua contabilità infernale.
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Francia, male oscuro: si suicidano le Guardie Repubblicane
Il 5 novembre, nel Parco dell’Hôtel de Matignon, sede del primo ministro francese, è stato trovato morto l’ennesimo gendarme della Guardia Repubblicana, l’equivalente dei corazzieri in Italia. Si tratta di un gendarme di 45 anni, probabilmente suicida – scrive Guido da Landriano su “Scenari Economici” – dato che la sua arma d’ordinanza è stata trovata di fianco a lui. Il problema non è il caso singolo, ma il fatto che, dall’inizio dell’anno, sono ben 31 i suicidi fra le guardie, secondo la rivista specializzata “L’Essor”. Ora, ragiona Landriano, le guardie repubblicane sono 2.800 (i corazzieri, meno di 800), per cui risulta un tasso di suicidi superiore al 1% nel 2018. E non siamo neanche a fine anno. Nel 2017 i suicidi furono 17, mentre nel 2016 ben 25. «Sicuramente il lavoro della Guardia Repubblicana non è facile, ma oltre 1% di suicidi in 11 mesi è una media elevatissima: lo sarebbe in qualsiasi reparto militare, perfino in tempo di guerra». Si può parlare di stress, rileva “Scenari Economici”, ma probabilmente qualcosa non va. «Secondo una ricerca, il 62% dei militari francesi vorrebbe lasciare l’esercito, ma anche questo non spiega un tal numero di suicidi».Il caso di Alexandre Benalla, il super-protetto di Macron, ha evidenziato come «vantaggi e carriere non vengano distribuite sulla base del merito o del lavoro, ma delle preferenze personali», e questo «può aver aumentato la frustrazione dei gendarmi». Oppure, insiste Guido da Landriano, «c’è un malessere più profondo, più segreto, che non si è ancora scoperto». Secondo “L’Essor”, l’ennesima morte di un militare della Guardia Repubblicana (sul posto di lavoro) non può certo passare inosservata. L’ufficio del primo ministro specifica che il gendarme deceduto era stato assegnato ai servizi di videosorveglianza del comando militare. La Procura di Parigi ha messo sotto sequestro l’Ispettorato generale della Gendarmeria Nazionale. L’inchiesta dovrebbe fornire maggiori informazioni sulle cause della morte della guardia. In viaggio in Nuova Caledonia, il primo ministro Edouard Philippe ha inviato le sue condoglianze alla famiglia del militare, esprimendo «il suo sostegno ai compagni del gendarme defunto» da parte di tutto lo staff di Palazzo Matignon.«Questo dramma – scrive “L’Essor” – arriva un mese dopo la pubblicazione, su Internet, di una lettera che denuncia le condizioni di lavoro dei gendarmi all’Hôtel de Matignon». Posta anonima, firmata semplicemente “i gendarmi della compagnia di sicurezza dell’Hôtel Matignon”. La denuncia: pessime condizioni di lavoro all’interno di questa unità. La lettera evoca in particolare un «profondo malessere» e deplora «una stanchezza generale e un superlavoro». Immediata l’indagine interna per accertare le difficoltà segnalate, ma il gendarme morto – scrive sempre la rivista francese – non era tra i commilitoni già ascoltati dalla commissione. Il malessere della guardia d’onore francese sembra riflettersi anche nelle forze armate, dove – rileva “Zone Militaire” – quasi una recluta su tre ormai getta la spugna dopo il primo anno nell’esercito, mentre secondo un sondaggio Dicod, addirittura, il 62% dei militari giovanissimi sarebbe intenzionato a restituire la divisa già dopo il periodo di prova.Voglia di fuga dalle stellette: «Quelli con un’anzianità di 11 a 20 anni, siano essi ufficiali o sottufficiali, sono i più numerosi (70%) a considerare un altro futuro nel civile. Inoltre, la marina è la più colpita, con l’81% dei suoi soldati professionisti che pensa di partire. Seguono l’aeronautica (72%), l’esercito (67%) e la gendarmeria nazionale (52%)». Diversa la situazione per i militari sotto contratto, di cui “solo” il 46% dice di considerare la possibilità di lasciare l’esercito. Ad ogni modo, aggiunge “Zone Militaire”, questa percentuale del 62% dei soldati in carriera che meditano di lasciare l’esercito è «un punteggio particolarmente alto, che riflette un fenomeno di logoramento». Per Guido da Landriano, comunque, il “male” della Francia non è solo superficiale: è profondo. L’attuale guida del paese «trovi una soluzione, o lasci spazio a chi la può trovare».Il 5 novembre, nel Parco dell’Hôtel de Matignon, sede del primo ministro francese, è stato trovato morto l’ennesimo gendarme della Guardia Repubblicana, l’equivalente dei corazzieri in Italia. Si tratta di un gendarme di 45 anni, probabilmente suicida – scrive Guido da Landriano su “Scenari Economici” – dato che la sua arma d’ordinanza è stata trovata di fianco a lui. Il problema non è il caso singolo, ma il fatto che, dall’inizio dell’anno, sono ben 31 i suicidi fra le guardie, secondo la rivista specializzata “L’Essor”. Ora, ragiona Landriano, le guardie repubblicane sono 2.800 (i corazzieri, meno di 800), per cui risulta un tasso di suicidi superiore al 1% nel 2018. E non siamo neanche a fine anno. Nel 2017 i suicidi furono 17, mentre nel 2016 ben 25. «Sicuramente il lavoro della Guardia Repubblicana non è facile, ma oltre 1% di suicidi in 11 mesi è una media elevatissima: lo sarebbe in qualsiasi reparto militare, perfino in tempo di guerra». Si può parlare di stress, rileva “Scenari Economici”, ma probabilmente qualcosa non va. «Secondo una ricerca, il 62% dei militari francesi vorrebbe lasciare l’esercito, ma anche questo non spiega un tal numero di suicidi».
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Gelli, Andreotti, Cia: a Pistoia il fucile che uccise Kennedy?
Il fucile messo nelle mani di Lee Oswald il 22 novembre del 1963 è un Carcano, arma fabbricata in Italia. Carcano era il cognome del tecnico che, presso le fonderie belliche di Terni, prese un progetto di successo austriaco e, fatta qualche modifica per mascherare l’avvenuto copia-incolla, propose una sorta di sottomarca di un modello particolarmente venduto. Come qualunque fucile o pistola, anche il Carcano di Dallas ha un numero di serie, il suo è C2766. Attraverso tale sigla, si è potuta ricostruire la sua storia, fino a risalire ad un nome, quello di Samuel Cummings. Costui era, a metà del secolo scorso, un membro dell’Adam Consolidated Industries Inc., società con doppia sede, a New York e a Roma, dedita al commercio d’armi. Samuel Cummings aveva un uomo di fiducia in Italia: Enrico Frittoli. Sodale di Licio Gelli, Frittoli era titolare di una società di import-export a Montecarlo. Un rapporto del Sisde (il servizio segreto civile) del 1982 informava che ai vertici della Loggia di Montecarlo, insieme a Gelli, vi era Enrico Frittoli. E il sospetto era che proprio attraverso Frittoli, Gelli potesse agilmente commerciare in armi.Lo stesso Frittoli è attualmente (almeno fino al 20 agosto 2018) il responsabile per il Principato di Monaco del Coordinamento Europa del Popolo delle Libertà, il polo politico di Silvio Berlusconi. Il 6 marzo del 2006, su segnalazione della Segreteria di Stato vaticana, è stato insignito, da Papa Benedetto XVI, del titolo di Commendatore dell’Ordine di San Gregorio Magno. Il Carcano riguardò direttamente anche il Sifar, il servizio segreto militare italiano, e Giulio Andreotti. J. Edgard Hoover, il capo dell’Fbi, spedì a Roma il 10 giugno del 1964 un cablogramma nel quale faceva esplicito riferimento a un rapporto del nostro servizio militare contenente informazioni dettagliate sulla celebre carabina. Un dispaccio inviato dal capo-stazione Cia a Roma, datato 31 dicembre 1963, aveva avvertito l’Fbi che quel rapporto era stato confezionato su richiesta di Andreotti. Il Carcano, infatti, faceva parte di una partita di residuati bellici della Seconda Guerra Mondiale dell’esercito fascista, finita in uno stock d’armi ricondizionate e che, grazie a un appalto indetto dal nostro ministero della difesa, nel 1960 finisce proprio alla Adam’s Consolidated Industries Inc., di Samuel Cummings. Nell’anno 1960 il titolare del dicastero della difesa era Giulio Andreotti.Ma non è finita qui, perché lo scorso anno, 2017, ritorna alla ribalta proprio il nostro Carcano, a Pistoia. Il fucile con cui Lee Oswald sparò al presidente degli Stati Uniti è ufficialmente custodito negli Usa, ma un fucile analogo fu trovato un anno fa in un capannone della ex fabbrica di munizioni Smi (Società Metallurgica Italiana) di Campo Tizzoro. L’arma, disattivata e arrugginita, era avvolta in una busta Smi con un cartellino con scritto “C.Warren”, il nome della prima commissione che indagò sul delitto Kennedy, insieme ad alcuni documenti. Tutto era in un armadio metallico, acquistato (come il resto del materiale dell’archivio difesa della Smi) all’asta 5 anni fa per 5.000 euro, dopo che il relativo ramo dell’azienda era stato ceduto al pubblico. La scoperta si deve a Gianluca Iori, architetto e direttore dell’Istituto di ricerche storiche e archeologiche di Pistoia. Iori considera «eccezionali» i documenti rinvenuti, «ora custoditi in cassaforte». Di questi documenti non si è saputo più nulla.Quanto al fucile, Gianluca Iori azzardò più ipotesi: da quella che fosse finito nell’armadio per caso, che potesse essere il secondo fucile che aveva sparato a Kennedy, o che fosse l’arma lasciata a Campo Tizzoro dalla commissione Warren per prove balistiche. Nel 1966, effettivamente arrivarono a Campo Tizzoro investigatori della Cia per alcune verifiche, in quanto due delle tre pallottole esplose da Oswald, oltre a un caricatore, erano state prodotte presso la Smi, che all’epoca «era la principale ditta di munizioni in ambito Nato». Durante la Seconda Guerra Mondiale la Smi produsse per l’esercito tedesco, attestatosi lungo la Linea Gotica proprio sull’Appennino Pistoiese, e fu risparmiata dai bombardamenti alleati grazie ad accordi segreti presi tra la proprietà e l’intelligence britannica. Dal 2006 il grande stabilimento è stato definitivamente chiuso e la produzione è stata trasferita a Fornaci di Barga, vicino al paese di Pinocchio.(Lara Pavanetto, “Come dal fucile Carcano di Oswald, si arriva a Andreotti, Gelli e Berlusconi per finire nel 2017 a Pistoia”, dal blog della Pavanetto del 20 agosto 2018).Il fucile messo nelle mani di Lee Oswald il 22 novembre del 1963 è un Carcano, arma fabbricata in Italia. Carcano era il cognome del tecnico che, presso le fonderie belliche di Terni, prese un progetto di successo austriaco e, fatta qualche modifica per mascherare l’avvenuto copia-incolla, propose una sorta di sottomarca di un modello particolarmente venduto. Come qualunque fucile o pistola, anche il Carcano di Dallas ha un numero di serie, il suo è C2766. Attraverso tale sigla, si è potuta ricostruire la sua storia, fino a risalire ad un nome, quello di Samuel Cummings. Costui era, a metà del secolo scorso, un membro dell’Adam Consolidated Industries Inc., società con doppia sede, a New York e a Roma, dedita al commercio d’armi. Samuel Cummings aveva un uomo di fiducia in Italia: Enrico Frittoli. Sodale di Licio Gelli, Frittoli era titolare di una società di import-export a Montecarlo. Un rapporto del Sisde (il servizio segreto civile) del 1982 informava che ai vertici della Loggia di Montecarlo, insieme a Gelli, vi era Enrico Frittoli. E il sospetto era che proprio attraverso Frittoli, Gelli potesse agilmente commerciare in armi.
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Orrore indicibile: la polizia ritrova 123 bambini scomparsi
Rapiti e poi “parcheggiati”, in attesa di essere massacrati. La polizia di Detroit li ha ritrovati tutti insieme: 123 bambini. Erano «in un grave stato di denutrizione e di sofferenza psicologica», scrive l’“Huffington Post”. Tuttavia, «dagli accertamenti svolti non sembrerebbe che siano stati vittime di violenze sessuali». Gli agenti hanno impiegato molte ore per rintracciare le loro famiglie e riconsegnare i piccoli, sequestrati nei giorni precedenti. Secondo il “New York Post”, gli inquitenti stavano indagando «su una rete di rapimenti di minori che poi venivano coinvolti in traffici sessuali». Quello che sorprende, di queste notizie – osserva Paolo Franceschetti – è che vengono date di sfuggita: «Poche righe, liquidate come se si trattasse di una notizia del tipo “Belen ha un nuovo fidanzato”. Il sindaco di Riace, reo di aver favorito (non si sa poi se vero o no) l’immigrazione clandestina, ce lo rifilano su tutti i giornali e in tutte le salse». E i bambini scomparsi, invece? E i nomi delle persone arrestate o coinvolte nella vicenda? In America, aggiunge Franceschetti, scompare un numero incredibile di minori. «Le pareti di autogrill e supermercati sono spesso tappezzate dalle foto e di persone scomparse nel nulla, da un momento all’altro, come se niente fosse».I piccoli appena ritrovati a Detroit? «Destinati ad essere impiegati nel mercato del sesso, ma anche degli organi e dei riti satanici». Se da noi scompaiono ogni anno senza essere ritrovati centinaia di minori, in altri paesi europei la situazione è ancora peggiore: solo in Francia, quest’anno, i bambini spariti sono 1.238. Che fine fanno? Sul blog “Petali di Loto”, Franceschetti – avvocato, indagatore dei misteri italiani come quello del Mostro di Firenze – punta il dito contro il satanismo e le potentissime organizzazioni pedofile: nel mondo di calcola che ogni anno scompaiano circa 100.000 bambini. Un caso particolarmente doloroso riguarda i bambini figli di extracomunitari non registrati ufficialmente, e quelli che vengono “comprati” già da prima della nascita: «Si paga una coppia in difficoltà affinché faccia nascere un bambino e lo consegni all’organizzazione che lo richiede; è il modo più sicuro; non lascia alcuna traccia del delitto commesso e il bimbo scompare nel nulla e mai comparirà neanche nelle statistiche». Il loro destino? «Molti finiscono nel traffico di organi». Alcuni vengono utilizzati per i “giochi di morte” filmati negli abominevoli “snuff movies”, altri ancora diventeranno super-soldati, psicologicamente “riprogrammati”.Ma il posto d’onore, nella strage silenziosa dei piccoli, è occupato proprio dalle reti pedofile: «Sono organizzate a livello internazionale e coperte da capi di Stato», sostiene Franceschetti: in alcuni casi, a tirare le fila di questa realtà sono proprio i soggetti istituzionali che dovrebbero invece tutelare la sicurezza dei bambini. Franceschetti allude a magistrati, autorità di polizia, funzionari dell’Onu. «Molte delle organizzazioni antipedofilia e dei centri che accolgono i bambini abbandonati, poi, non sono altro che trappole ben congegnate per accalappiare i malcapitati che cercano aiuto». Le prove? «Ce ne sono a bizzeffe, ma il quadro – sostiene Franceschetti – va ricostruito come un immenso puzzle». Fece epoca il caso del serial killer belga Marc Dutroux, ribattezzato “il mostro di Marcinelle”. Una storia dell’orrore, rievocata nel libro “Tutti manipolati”, pubblicato da “Stampa Alternativa” e scritto da un coraggioso gendarme belga, Marc Toussaint, che aveva partecipato alle indagini per poi esserne estromesso perché “troppo ligio al dovere”. Tentarono anche di farlo fuori, provocandogli un incidente in moto. Il libro, documentato e basato sugli atti dell’inchiesta, racconta di come nel caso Dutroux furono coinvolti cardinali, ministri, e addirittura il Re del Belgio, Alberto II.Nel 1996 scomparve una bambina belga, Laetitia. Le indagini individuarono il rapitore: Dutroux. Il pedofilo aveva ucciso almeno sei bambine, ma ci vollero otto anni prima di giungere al processo. Nel frattempo, due bambine erano state rinchiuse in casa Dutroux, «ma i depistaggi della gendarmeria e della magistratura fecero sì che le bambine non venissero trovate durante le perquisizioni». La scoperta avvenne fuori tempo massimo: le piccole erano già morte. L’inchiesta, ricorda Franceschetti, portò ad individuare come mandanti personaggi di altissimo livello, che arrivavano fino al coinvolgimento personale del sovrano belga. L’organizzazione era dedita a “snuff movies” e ad attività come «il gioco del gatto e del topo, che a quanto pare è una costante di queste organizzazioni». Ma giornalisti e inquirenti che seguivano il caso persero la vita: «Incidenti e suicidi, ovviamente». E così, «tutto venne messo a tacere dalla magistratura e dalla gendermeria».Dall’Europa agli Usa: un ex agente segreto ha salvato dagli abusi e dal controllo mentale una delle vittime di queste organizzazioni, Cathy O’Brien. Dopo essere sfuggiti più volte alla morte, lo 007 e la ragazza sono riusciti a scrivere due libri: “Accesso negato alla verità” (Macro edizioni) e “Trance-formation of America”. In quest’ultimo, spiega Franceschetti, si narra di come l’organizzazione che abusava la donna facesse capo addirittura al presidente degli Stati Uniti, George W. Bush. «Si narra dei legami di Bush e Clinton con i signori della droga, si narra dei legami con le organizzazioni pedofile e con quelle sataniche». In particolare si evidenziano i legami di Bush e Clinton con il “Tempio di Seth”, che è «la più potente organizzazione satanista ramificata a livello internazionale». La fondò Michael Aquino, un ex ufficiale dell’esercito statunitense molto amico di Bush. «Stupri, omicidi, pedofilia, droga, satanismo… tutto narrato nero su bianco, con nomi e cognomi».Stati Uniti, Europa e anche Africa: tempo fa, aggiunge Franceschetti, in Ciad vennero arrestate per pedofilia e commercio di esseri umani alcune persone – appartenenenti all’organizzazione “L’Arca di Zoe” – che stavano portando in Francia 103 bambini. «Che fine dovessero fare quei bambini non si sa», ma l’allora presidente Sarkozy andò personalmente a trattare la liberazione degli arrestati per riportarli in patria. Gli operatori fermati avevano dichiarato che i bambini erano orfani provenienti dal Darfur. «Poi si è scoperto che erano figli di famiglie del Ciad, e i genitori erano ancora viventi». Da notare che “L’Arca di Zoe” «era sotto inchiesta anche in Francia, sospettata di trafficare in bambini per scopi tutt’altro che leciti». Non che da noi non esistano, retroscena analoghi: anzi, «in Italia inchieste così eclatanti non sono neanche mai iniziate». O meglio: quelle avviate «non sono state divulgate», sostiene Franceschetti: «Nel 2006 venne arrestato un avvocato romano, Alberto Gallo, per pedofilia. I giornali riporteranno la notizia come se si trattasse di un pedofilo isolato, ma in realtà faceva parte di un’organizzazione internazionale». Lo stesso Dutroux, in Belgio, era solo una pedina di queste potenti reti senza frontiere.Nel suo romanzo “La Loggia degli Innocenti”, il commisario Michele Giuttari – fermato a un passo dall’aver risolto il giallo del Mostro di Firenze – descrive un’organizzazione pedofila che fa capo al procuratore fiorentino, a cui (nella fiction) dà un nome non casuale: Alberto Gallo. «In altre parole, Giuttari lega chiaramente l’ex procuratore di Firenze Piero Luigi Vigna alla rete pedofila che era sotto inchiesta in quel periodo». E il nome della “loggia” allude chiaramente all’Ospedale degli Innocenti, «storico palazzo fiorentino dove da secoli è ospitato un centro che tutela i minori abbandonati». Un puzzle infinito, che coinvolgerebbe capi di Stato e ministri, teste coronate, ma anche «militari, magistratura e forze dell’ordine», senza contare i cardinali che negli Usa sono oggi al centro di un clamoroso scandalo, con migliaia di minori abusati. Il guaio, dice Franceschetti, è che il fenomeno “pedofilia internazionale” (con la variante del satanismo) è costantemente negato da quelli che sono «i massimi garanti del sistema in cui viviamo», alcuni dei quali poi finiscono in televisione, consultati come “esperti”. Franceschetti ricorda le parole che gli rivolse il figlio di un boss della ’ndrangheta: «Da noi c’è più legalità e giustizia. In Calabria e in Sicilia i bambini non si toccano; da voi al Nord, invece sì».Quella che può sembrare una follia oggi può assumere un terribile significato. La gente comune, dice Franceschetti, non si stupisce più di tanto se scopre che i vertici della politica hanno contatti organici con la mafia, ma non potrebbe tollerare lo spettacolo dell’altro orrore – quello perpetrato ai danni dei minori scomparsi. «Siamo disposti ad accettare che si scatenino guerre da milioni di morti in Iraq, Afghanistan, in Africa. In fondo, quelli sono negri. Che ce ne importa? Basta che non ci tolgano la partita di calcio della domenica. Ma probabilmente – aggiunge Franceschetti – se si venisse a sapere la verità sui bambini scomparsi, nessuno potrebbe reggere ad un simile shock. E allora sì, forse qualcuno comincerebbe a capire che il mondo in cui viviamo non funziona esattamente come i giornali e i mass media in genere ce lo descrivono». Ecco perché, probabilmente, quella realtà resta avvolta in tanta, misteriosa segretezza. E se la polizia ritrova 123 bambini in un colpo solo, i media archiviano la notizia “en passant”, senza scavare per capire cosa si nasconde dietro quell’enormità.Rapiti e poi “parcheggiati”, in attesa di essere massacrati. La polizia di Detroit li ha ritrovati tutti insieme: 123 bambini. Erano «in un grave stato di denutrizione e di sofferenza psicologica», scrive l’“Huffington Post”. Tuttavia, «dagli accertamenti svolti non sembrerebbe che siano stati vittime di violenze sessuali». Gli agenti hanno impiegato molte ore per rintracciare le loro famiglie e riconsegnare i piccoli, sequestrati nei giorni precedenti. Secondo il “New York Post”, gli inquirenti stavano indagando «su una rete di rapimenti di minori che poi venivano coinvolti in traffici sessuali». Quello che sorprende, di queste notizie – osserva Paolo Franceschetti – è che vengono date di sfuggita: «Poche righe, liquidate come se si trattasse di una notizia del tipo “Belen ha un nuovo fidanzato”. Il sindaco di Riace, reo di aver favorito (non si sa poi se vero o no) l’immigrazione clandestina, ce lo rifilano su tutti i giornali e in tutte le salse». E i bambini scomparsi, invece? E i nomi delle persone arrestate o coinvolte nella vicenda? In America, aggiunge Franceschetti, scompare un numero incredibile di minori. «Le pareti di autogrill e supermercati sono spesso tappezzate dalle foto e di persone scomparse nel nulla, da un momento all’altro, come se niente fosse».
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“Chi sbaglia paghi, ma non sparate su giudici e carabinieri”
La condanna definitiva all’ergastolo per Massimo Bossetti, sul caso Yara Gambirasio? Direi che “ingiustizia è fatta”, nel senso che il rifiuto di esaminare certe prove, prima della sentenza di primo grado, la dice lunga sul tipo di qualità di questa risposta processuale. C’è anche il rifiuto di considerare le nuove prove: sono emerse soltanto in sede di appello, e solo per l’imperizia e la superficialità delle indagini. Io non sono convinto della colpevolezza di Bossetti. Tutto questo serve a coprire altre responsabilità? Non sono in grado di certificarlo, ma sicuramente ne ho il sospetto. O meglio, più che di “coperture”, parlerei di depistaggio: probabilmente è stata depistata l’indagine. Continuamente, in questo processo, sono successe cose gravi. Altrettanto grave il tentativo di depistaggio, da parte dei carabinieri, delle indagini sull’uccisione di Stefano Cucchi. Credo che sia un caso esemplare di giustizia depistata. La qualità media dei magistrati italiani, beninteso, è ottima. Poi ci sono casi in cui la qualità non è ottima, e c’è anche un ego, una volontà di protagonismo particolare, per cui il magistrato si presta a cadere in errore, incaponendosi nella sua convinzione – magari in buona fede, senza accorgersi di essere stato depistato. Però la fisiologia dell’errore esiste in tutti i meccamismi umani. L’errore non è un’anomalia: la percentuale di errori è una normalità, una fisiologia.Gli esseri umani sbagliano un certo numero di cose che fanno – che siano avvocati, magistrati, geometri, architetti o cuochi, non cambia. E’ assolutamente normale: la gente non si deve scandalizzare, deve sapere che gli uomini sbagliano. Il problema è quando, dietro l’errore, per una scarsa qualità dell’approccio alla situazione, c’è il fatto di non volersi accorgere (o di non riuscire ad accorgersi) di esser stati anche indotti, in errore. Noi però vogliamo le cose perfette: non accettiamo che l’errore sia anche un aspetto fisiologico delle cose che facciamo. Come diceva Luca Pacioli, nel suo meraviglioso “De Divina Proportione” illustrato da Leonardo: sovente, gli errori sono più importanti delle cose “juste”, perché la maggior parte delle cose “juste” nascono proprio dagli errori. Dato che la maggior parte dei magistrati è un buona fede, anche quando vengono depistati, si deve parlare per lo più di “errore”. Solo che, una volta che sono partiti e sono convinti dell’accusa, non si fermano più. Generalmente, lì prevale l’ego. Quella dei magistrati in cattiva fede è una percentuale irrisoria. Il loro è un lavoro per certi aspetti duro, che ti mette continuamente a confronto con la sofferenza: quindi è uno di quei mestieri che migliorano l’essere umano (non lo peggiorano).Chi li induce in errore, invece, è un altro tipo di persona: è il vero criminale. Non sempre le azioni di despistaggio vedono la complicità di chi svolge le indagini. Le azioni di depistaggio sono sofisticate, e vengono sempre dall’esterno. Fa eccezione il caso Cucchi, dove c’era un’autodifesa corporativistica dell’Arma, che è stata un danno drammatico per l’Arma dei carabinieri stessa. L’Arma deri carabinieri non è un organo d’indagine comune. Ha una storia, una rilevanza sociale e una connessione gerarchica fino a poco tempo fa molto particolare, diversa da quella degli altri organi di polizia e dell’esercito. E questo suo nascere a metà strada tra l’esercito e la polizia, tra funzione interna e funzione esterna, questo suo rispondere direttamente alla presidenza della Repubblica (i carabinieri sono gli unici a giurare fedeltà al presidente della Repubblica, oltre che allo Stato e alla Costituzione), ovviamente può produrre anche difese politiche corporativistiche di quest’Arma, che per noi è un punto d’orgoglio.Nei carabinieri, lo spirito di corpo è qualcosa di particolare. E nel caso Cucchi ha prodotto qualcosa di estremamente negativo, oserei dire quasi criminale, per cui bisognerebbe che l’indagine futura risalisse anche alla catena gerarchica per vedere quanti erano al corrente di quello che si stava facendo, incluso il maresciallo che probabilmente verrà accusato di responsabilità nell’aver fatto sparire la nota di servizio del carabiniere che poi si è ravveduto e ha parlato. E quanti altri, nella catena gerarchica, erano al corrente della sparizione di quella nota? Questo va fatto nell’interesse dei carabinieri, e per l’amore che io personalmente, in quanto italiano, porto all’Arma dei carabinieri. Perché, oltre a essere danneggiato il povero Cucchi, insieme alla sua famiglia (alla quale nessuno di noi può negare solidarietà, unendosi al suo dolore), è molto danneggiata anche l’Arma dei carabinieri – che questo danno non se lo merita. L’accaduto pregiudica la dignità dell’Arma, e noi dobbiamo tutelarla da questo pregiudizio. La stessa Arma dei carabinieri deve fare pulizia, per riscattare il proprio onore.Certo, ci sono anche casi come la morte di Marco Pantani o quella di David Rossi a Siena, nella sede centrale del Monte dei Paschi: la contaminazione della scena del crimine è possibile solo con la complicità di chi svolge le indagini. Ma ci sono manipolazioni e depistaggi che non prevedono la complicità di chi indaga: prevedono solo la “fessaggine” occasionale, da parte degli inquirenti. Le cose umane si ripetono sempre secondo gli stessi schemi. Che succedano nell’Arma dei carabinieri, nella Guardia di Finanza o nei paracadutisti (dove ci sono tanti suicidi) è solo una contingenza. Il meccanismo è sempre lo stesso: puntiamo al dito e non guardiamo la luna. Le cose umane hanno le loro complicazioni e complessità, i loro problemi. Questo lo sappiamo, però diamo la colpa ai contesti, anziché alle persone. Io non do la colpa alla Cgil, se si scopre che un sindacalista ruba. Non do la colpa alla massoneria se si scopre che un massone non fa il massone. Quella è una malattia molto italica, oserei dire “italiota”, che non ho mai condiviso. Sono condanne per schemi, per categorie, che generano odio diffuso. Non le ho mai condivise, nei confronti di nessuno.Quando la gente si è scagliata contro il comunismo, additando i Gulag russi, ho sempre detto: guardate che l’ideale del comunismo non era quello, che semmai era l’effetto di un regime che si è trasformato, deviato a corrotto nei tempi, anche in funzione dell’accerchiamento capitalistico che aveva subito. Le dinamiche sociali e politiche, e anche quelle della giustizia, sono complesse: non possono essere giudicate con l’accetta, separando il bene e il male (che sono connessi, intrecciati). E le situazioni complicate richiedono analisi accurate: non tanto per assolvere qualcuno o condannare qualcun altro, ma per evitare di ripetere sempre gli stessi errori. Come spiegare l’attuale rabbia generalizzata nell’opinione pubblica? Ha avuto successo lo schema del potere, che ti dice questo: tu esisti se hai un nemico. Se non hai un nemico, non esisti. Lo schema del potere ti spinge a impegnare tutte le tue energie, le tue risorse e le tue possibilità a distruggere il nemico, anziché a costruire te stesso o ad aiutare i tuoi amici. In questa maniera, il potere si è evitato di essere combattuto. Perché, in realtà, combattere il potere (nella versione che Francesco Saba Sardi presenta come dominio) non significa distruggere dei nemici. Se tu perdi le tue energie nel cercare di distruggere qualcuno o qualcosa, in realtà quelle energie sono tolte da quello che dovrebbe essere il verbo della nostra vita, che è il costruire.L’esempio classico è la massoneria: dovrebbe essere sempre rivolta al costruire (lo dice il suo stesso nome), e invece – nonostante la sua origine e la sua tradizione – da un certo punto in poi si è impegnata a distruggere. E’ una deviazione profonda, che è dipesa dal fatto che il potere si è difeso da tutte quelle energie positive della società che potessero metterne in discussione il monopolio e la gerarchia, il suo schema generale. Oggi noi abbiamo una restrizione dei diritti civili, non un allargamento. Dato che uno, solo perché arrestato (non importa per quale motivo) viene subito bollato come criminale, tutto viene di conseguenza. In Italia c’è uno scarsissimo rispetto per chi viene privato della libertà, da parte dello Stato. Abbiamo avuto casi eclatanti di detenuti che non hanno potuto ricoversarsi in ospedale, perché la durezza del loro regime carcerario non veniva recepita dalla sensibilità dei giudici, al punto da predisporre le cure. Ci sono alcuni magistrati che hanno agito anche per fini politici o per fini personali, ad esempio per fare carriera, ma è sbagliato dire che la magistratura agisce per fini politici. Commettiamo sempre lo stesso errore. Le responsabilità sono sempre personali. Responsabili sono le persone, non le categorie.La categoria dei magistrati è l’unica che non risponde dei propri errori? Questo è un altro aspetto, ma non risolve il problema dell’errore, che in una certa percentuale è sempre fisiologico. La responsabilità dell’errore non è il problema dell’errore: non è che, se un medico sbaglia e uccide il paziente, col risarcimento si risolve il problema. E’ impensabile abolire la possibilità di errore. Si può invece fare il modo che l’errore sia residuale: una quota talmente minima, che i danni siano sopportabili. Certamente, il meccanismo delle responsabilità sugli errori giudiziari, in Italia, io non lo condivido. Ma questo non vale solo per la magistratura, vale anche per gli organi che indagano, per il modo in cui vengono fatte le indagini. E dato che in un processo poi intervengono dai 16 ai 20 magistrati, nel caso di una sentenza sbagliata non si sa mai chi ha commesso l’errore fondamentale. Perché formalmente mettiamo in piedi delle garanzie, ma in realtà le togliamo. Facciamo tribunali del riesame, tribunali della libertà, e poi non si sa chi sbaglia. Io farei una legge per cui il procuratore della Repubblica può fare quello che vuole: arrestare, intercettare, indagare. Ma se sbaglia, paga. Perché la responsabilità è sua. E se mi mette in galera, deve processarmi entro 60 giorni: devono fare presto, se toccano le libertà costituzionali.Li responsabilizzeri di più, i magistrati, con la deterrenza della sanzione contro di loro, proprio perché sono convinto che la maggior parte di loro rappresenti un orgoglio di questo paese, non una vergogna. Impegnare 16 magistrati per processare una persona mi sembra uno sproprosito: un primo magistrato ti arresta, un giudice istruttore lo autorizza, il Tribunale del Riesame (tre soggetti) valuta il caso, poi c’è il processo di primo grado (altri tre soggetti), poi c’è il processo d’appello (idem). Quanti magistrati intervengono? Tutti personaggi che potrebbero essere tranquillamente recuperati all’efficienza del processo: recuperando 10-12 magistrati alle funzioni dirette del processo, si smaltierebbe tutto l’arretrato in un solo anno. Ovviamente i magistrati devono avere più mezzi. Ho conosciuto magistrati che si pagavano da soli le fotocopie. Quelli di Bari si sono dovuti pagare una serie di cose, perché il loro tribunale è crollante. Noi da un lato li attacchiamo, e dall’altro non gli diamo i mezzi? Non si può ragionare così. E’ come accusare i maestri del crollo delle scuole. Innanzitutto devi mettere la gente in condizione di lavorare bene – cosa che, nei confronti dei magistrati, in Italia non viene fatta. Poi li si vuole criminalizzare quando commettono errori? Ma non funziona così, il mondo.(Gianfranco Carpeoro, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti nella diretta web-streaning su YouTube “Carpeoro Racconta” del 14 ottobre 2018).Massimo Bossetti all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio? «Ingiustizia è fatta: non sono per niente convinto della colpevolezza di Bossetti», vittima di indagini «superficiali». Per non parlare del caso di Stefano Cucchi, massacrato di botte dai carabinieri che l’avevano arrestato. Uno scandalo, che «pregiudica la dignità dell’Arma, che dobbiamo tutelare da questo pregiudizio». In altre parole: «La stessa Arma dei carabinieri deve fare pulizia, per riscattare il proprio onore». Lo afferma Gianfranco Carpeoro, in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. Avvocato di lungo corso (vero nome, Pecoraro), Carpeoro – saggista e attento osservatore dell’attualità italiana – insiste però su un punto: guai se ci scandalizziamo se la giustizia sbaglia una sentenza, come sul caso di Yara: errare è umano, l’errore è fisiologico. Idem se criminalizziamo l’intera Arma dei carabinieri per colpa dei militari che hanno picchiato Stefano Cucchi provocandone la morte, come confessato da un commilitone, l’appuntato Riccardo Casamassima, a nove anni di distanza dalla tragedia. Si finisce per condannare ingiustamente l’intera categoria – magistrati, carabinieri – quando invece si dovrebbe pretendere che a pagare per i propri errori siano le singole persone che sbagliano: inclusi i magistrati, «spesso ottimi, ma costretti a lavorare in condizioni difficili».
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Sapelli: Usa inerti, ma così l’Italia affonda nel Mediterraneo
Dove sono gli Usa? È un interrogativo che inizia a proporsi e a riproporsi, mano a mano che si dipana la lotta di potenza e di egemonia nel Mediterraneo, “lago atlantico” ormai contendibile all’egemonia nordamericana che aveva sostituito quella britannica nel 1956, quando gli Usa – con una mossa del cavallo – appoggiarono Nasser e la sua nazionalizzazione del canale di Suez. Schierandosi contro i paracadutisti sul Sinai lanciati da Regno Unito, Francia e Israele, gli Usa avevano finito per strappare ai sovietici il controllo dell’Egitto, per poi abbattere i partiti “baathisti” in Siria e in Iraq, e infine Gheddafi in Libia dopo l’11 Settembre. Un flashback che l’economista e storico Giulio Sapelli, sul “Sussidiario”, rievoca per richiamare l’attenzione sull’attuale disastro libico, specchio della debolezza mediterranea di un’Italia “abbandonata” dall’alleato americano. I contendenti degli Usa? Oggi non sono più solo i russi, scrive Sapelli, ma anche i francesi: hanno infatti saldato la loro influenza economica (con il Cfa, il franco francese-africano imposto a 14 paesi) a quella militare (dal genocidio dei Tutsi in Ruanda da parte degli Hutu pro-francesi, all’esercito schierato nel sub-Sahara).Proprio i francesi, aggiunge Sapelli, hanno sconvolto antichi equilibri di potenza post-coloniali (anche per contenere la crescente influenza cinese, da Gibuti a Suez, fino a Tripoli). Dal canto suo, Pechino si protende nel Mediterraneo, dove sembra propensa a negoziare con la Russia e con l’Egitto «per aver meglio a disposizione la via verso l’Alto Adriatico passando per Suez e continuare così sino all’Artico indebitando Stati e impiegando il lavoro forzato in infrastrutture mai finite e pericolose». E l’Italia? «E’ il vaso di coccio tra i vasi di ferro», scrive Sapelli. «La stella di Mattei brillò quando gli Usa si allearono con Nasser e scacciarono gli inglesi dal Mediterraneo, proteggendo di fatto gli italiani in Libia e in Algeria: provocarono l’odio e la vendetta francese, di cui l’eroico e mai compreso Enrico Mattei fu la vittima sacrificale». Ora, secondo Sapelli, la storia si ripete: Russia e Cina si riavvicinano con manovre militari, a cui gli Usa non oppongono alcuna strategia di contenimento. «L’unica via utile alla sicurezza mondiale sarebbe un’alleanza nordamericana con la Russia contro la nascente egemonia cinese, ma questo è assai difficile».Secondo Sapelli, «la Cina crolla egemonicamente in Asia perché disvela un volto imperialista, ma trionfa ancora in Europa grazie ai Quisling innumerevoli di cui dispone nell’eurocrazia e in molte nazioni europee, Francia e Italia in testa». Gli Usa? «Sono troppo divisi nel loro establishment per poter condurre una politica di potenza che comprenda l’importanza strategica del Mediterraneo». La prima nazione a patirne – va da sé – è proprio l’Italia, «stretta appunto tra la sua borghesia “vendidora” che vive sull’erosione della sovranità e del potenziale di ciò che dovrebbe essere la patria, e invece per costoro è un suk con clienti stranieri». Per questo, pesa ancora di più l’assenza strategica degli Stati Uniti: «Solo l’Italia può garantire gli Usa per un nuovo equilibrio di potenza in Africa del nord e nell’Africa sub-sahariana». Per Sapelli, è assolutamente necessaria una urgente discussione pubblica su questo tema, visto che «rischiamo la decadenza dell’Italia».Dove sono gli Usa? È un interrogativo che inizia a proporsi e a riproporsi, mano a mano che si dipana la lotta di potenza e di egemonia nel Mediterraneo, “lago atlantico” ormai contendibile all’egemonia nordamericana che aveva sostituito quella britannica nel 1956, quando gli Usa – con una mossa del cavallo – appoggiarono Nasser e la sua nazionalizzazione del canale di Suez. Schierandosi contro i paracadutisti sul Sinai lanciati da Regno Unito, Francia e Israele, gli Usa avevano finito per strappare ai sovietici il controllo dell’Egitto, per poi abbattere i partiti “baathisti” in Siria e in Iraq, e infine Gheddafi in Libia dopo l’11 Settembre. Un flashback che l’economista e storico Giulio Sapelli, sul “Sussidiario”, rievoca per richiamare l’attenzione sull’attuale disastro libico, specchio della debolezza mediterranea di un’Italia “abbandonata” dall’alleato americano. I contendenti degli Usa? Oggi non sono più solo i russi, scrive Sapelli, ma anche i francesi: hanno infatti saldato la loro influenza economica (con il Cfa, il franco francese-africano imposto a 14 paesi) a quella militare (dal genocidio dei Tutsi in Ruanda da parte degli Hutu pro-francesi, all’esercito schierato nel sub-Sahara).
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Francia cannibale, si mangia l’Africa: il bilancio dell’orrore
Sapevate che molti paesi africani continuano a pagare una tassa coloniale alla Francia dalla loro indipendenza fino ad oggi? Quando Sékou Touré della Guinea decise nel 1958 di uscire dall’impero coloniale francese, e optò per l’indipendenza del paese, l’élite coloniale francese a Parigi andò su tutte le furie e, con uno storico gesto, l’amministrazione francese della Guinea distrusse qualsiasi cosa che nel paese rappresentasse quelli che definivano i vantaggi della colonizzazione francese. Tremila francesi lasciarono il paese, prendendo tutte le proprietà e distruggendo qualsiasi cosa che non si muovesse: scuole, ambulatori, immobili dell’amministrazione pubblica furono distrutti; macchine, libri, strumenti degli istituti di ricerca, trattori furono sabotati; i cavalli e le mucche nelle fattorie furono uccisi, e le derrate alimentari nei magazzini furono bruciate o avvelenate. L’obiettivo di questo gesto indegno era quello di mandare un messaggio chiaro a tutte le altre colonie: il costo di rigettare la Francia sarebbe stato molto alto. Lentamente la paura serpeggiò tra le élite africane e nessuno, dopo gli eventi della Guinea, trovò mai il coraggio di seguire l’esempio di Sékou Touré, il cui slogan fu “Preferiamo la libertà in povertà all’opulenza nella schiavitù”.Sylvanus Olympio, il primo presidente della Repubblica del Togo, un piccolo paese in Africa occidentale, trovò una soluzione a metà strada con i francesi. Non voleva che il suo paese continuasse ad essere un dominio francese, perciò rifiutò di siglare il patto di continuazione della colonizzazione proposto da de Gaulle, tuttavia si accordò per pagare un debito annuale alla Francia per i cosiddetti benefici ottenuti dal Togo grazie alla colonizzazione francese. Era l’unica condizione affinché i francesi non distruggessero tutto prima di lasciare il paese. Tuttavia, l’ammontare chiesto dalla Francia era talmente elevato che il rimborso del cosiddetto “debito coloniale” si aggirava al 40% del debito del paese nel 1963. La situazione finanziaria del neo-indipendente Togo era veramente instabile; così, per risolvere la situazione, Olympio decise di uscire dalla moneta coloniale francese Fcfa (il Franco Cfa delle colonie africane francesi), e coniò la moneta del suo paese. Il 13 gennaio 1963, tre giorni dopo aver iniziato a stampare la moneta del suo paese, uno squadrone di soldati analfabeti appoggiati dalla Francia uccise il primo presidente eletto della neo- indipendente Africa.Olympio fu ucciso da un ex sergente della Legione Straniera di nome Etienne Gnassingbe, che si suppone ricevette un compenso di 612 dollari dalla locale ambasciata francese per il lavoro di assassino. Il sogno di Olympio era quello di costruire un paese indipendente e autosufficiente. Tuttavia ai francesi non piaceva l’idea. Il 30 giugno 1962, Modiba Keita, il primo presidente della Repubblica del Mali, decise di uscire dalla moneta coloniale francese Fcfa imposta a 12 neo-indipendenti paesi africani. Per il presidente maliano, che era più incline ad un’economia socialista, era chiaro che il patto di continuazione della colonizzazione con la Francia era una trappola, un fardello per lo sviluppo del paese. Il 19 novembre 1968, proprio come Olympio, Keita fu vittima di un colpo di stato guidato da un altro ex soldato della Legione Straniera francese, il luogotenente Moussa Traoré. Infatti durante quel turbolento periodo in cui gli africani lottavano per liberarsi dalla colonizzazione europea, la Francia usò ripetutamente molti ex legionari stranieri per guidare colpi di stato contro i presidente eletti.Il 1° gennaio 1966, Jean-Bédel Bokassa, un ex soldato francese della Legione Straniera, guidò un colpo di stato contro David Dacko, il primo presidente della Repubblica Centrafricana. Il 3 gennaio 1966, Maurice Yaméogo, il primo presidente della Repubblica dell’Alto Volta, oggi Burkina Faso, fu vittima di un colpo di stato condotto da Aboubacar Sangoulé Lamizana, un ex legionario francese che combatté con i francesi in Indonesia e Algeria contro le indipendenze di quei paesi. Il 26 ottobre 1972, Mathieu Kérékou (che era una guardia del corpo del presidente Hubert Maga, il primo presidente della Repubblica del Benin) guidò un colpo di Stato contro il presidente, dopo aver frequentato le scuole militari francesi dal 1968 al 1970. Negli ultimi 50 anni, un totale di 67 colpi di Stato si sono susseguiti in 26 paesi africani; 16 di quest’ultimi sono ex colonie francesi, il che significa che il 61% dei colpi di Stato si sono verificati nell’Africa francofona.Cinque i golpe subiti dal Burkina Faso e dalle Comore, quattro i colpi di Stato attuati in Burundi, Repubblica Centrafricana, Niger e Mauritania. Sempre tra le ex colonie francesi, hanno vissuto almeno tre colpi di Stato il Congo e il Ciad – due, invece, l’Algeria e il Mali, la Guinea Konakry e la Repubblica Democratica del Congo. Almeno un violento “regime change” ha poi investito Togo, Tunisia, Costa d’Avorio, Magagascar e Rwanda. Altri paesi africani sottoposti a colpi di Stato sono Egitto, Libia e Guinea Equatoriale (un golpe ciascuno), Guinea Bissau e Liberia (due golpe), Nigeria ed Etiopia (tre colpi di Stato), Uganda (quattro) e Sudan (cinque). In totale 45 golpe nell’Africa ex francese, più 22 in altri paesi africani. Come dimostrano questi numeri, la Francia è abbastanza disperata ma attiva nel tenere sotto controllo le sue colonie, a qualsiasi prezzo, a qualsiasi condizione. Nel marzo del 2008, l’ex presidente francese Jacques Chirac disse: «Senza l’Africa, la Francia scivolerebbe a livello di una potenza del terzo mondo». Il predecessore di Chirac, François Mitterand, già nel 1957 profetizzava che «senza l’Africa, la Francia non avrà storia nel 21° secolo».Proprio in questo momento, 14 paesi africani sono costretti dalla Francia, attraverso un patto coloniale, a depositare l’85% delle loro riserve di valute estere nella Banca Centrale Francese controllata dal ministero delle finanze di Parigi. Finora, il Togo e altri 13 paesi africani dovranno pagare un debito coloniale alla Francia. I leader africani che rifiutano vengono uccisi o restano vittime di colpi di Stato. Coloro che obbediscono sono sostenuti e ricompensati dalla Francia con stili di vita faraonici, mentre le loro popolazioni vivono in estrema povertà e disperazione. E’ un sistema malvagio, denunciato dall’Unione Europea; ma la Francia non è pronta a spostarsi da quel sistema coloniale che muove 500 miliardi di dollari dall’Africa al suo ministero del Tesoro ogni anno. Spesso accusiamo i leader africani di corruzione e di servire gli interessi delle nazioni occidentali, ma c’è una chiara spiegazione per questo comportamento. Si comportano così perché hanno paura di essere uccisi o di restare vittime di un colpo di Stato. Vogliono una nazione potente che li difenda in caso di aggressione o di tumulti. Ma, contrariamente alla protezione di una nazione amica, la protezione dell’Occidente spesso viene offerta in cambio della rinuncia, da parte di quei leader, di servire il loro stesso popolo e i suoi interessi.I leader africani lavorerebbero nell’interesse dei loro popoli se non fossero continuamente inseguiti e provocati dai paesi colonialisti. Nel 1958, spaventato dalle conseguenze di scegliere l’indipendenza dalla Francia, Leopold Sédar Senghor dichiarò: «La scelta del popolo senegalese è l’indipendenza; vogliono che ciò accada in amicizia con la Francia, non in disaccordo». Da quel momento in poi la Francia accettò soltanto un’ “indipendenza sulla carta” per le sue colonie, siglando “Accordi di Cooperazione”, specificando la natura delle loro relazioni con la Francia, in particolare i legami con la moneta coloniale francese (il franco), il sistema educativo francese, le preferenze militari e commerciali. Qui sotto ci sono le 11 principali componenti del patto di continuazione della colonizzazione dagli anni ‘50.#1. Debito coloniale a vantaggio della colonizzazione francese. I neo “indipendenti” paesi dovrebbero pagare per l’infrastruttura costruita dalla Francia nel paese durante la colonizzazione. #2. Confisca automatica delle riserve nazionali. I paesi africani devono depositare le loro riserve monetarie nazionali nella banca centrale francese. La Francia detiene le riserve nazionali di 14 paesi africani dal 1961: Benin, Burkina Faso, Guinea-Bissau, Costa d’Avorio, Mali, Niger, Senegal, Togo, Camerun, Repubblica Centrafricana, Ciad, Congo-Brazzaville, Guinea Equatoriale e Gabon. La politica monetaria che governa un gruppo di paesi così diversi non è complicato perché, di fatto, è decisa dal ministero del Tesoro francese senza rendere conto a nessuna autorità fiscale di qualsiasi paese che sia della Cedeao (la Comunità degli Stati dell’Africa Occidentale) o del Cemac (Comunità degli Stati dell’Africa Centrale). In base alle clausole dell’accordo che ha fondato queste banche e il Cfa, la banca centrale di ogni paese africano è obbligata a detenere almeno il 65% delle proprie riserve valutarie estere in un “operations account” registrato presso il ministero del Tesoro francese, più un altro 20% per coprire le passività finanziarie.Le banche centrali del Cfa impongono anche un tappo sul credito esteso ad ogni paese membro equivalente al 20% delle entrate pubbliche dell’anno precedente. Anche se la Beac e la Bceao hanno un fido bancario col Tesoro francese, i prelievi da quel fido sono soggetti al consenso dello stesso ministero del Tesoro. L’ultima parola spetta al Tesoro francese, che ha investito le riserve estere degli Stati africani alla Borsa di Parigi a proprio nome. In breve, più dell’ 80% delle riserve valutarie straniere di questi paesi africani sono depositate in “operations accounts” controllati dal Tesoro francese. Le due banche Cfa sono africane di nome, ma non hanno una politica monetaria propria. Gli stessi paesi non sanno, né viene detto loro, quanto del bacino delle riserve valutarie estere detenute presso il ministero del Tesoro a Parigi appartiene a loro come gruppo o individualmente. Gli introiti degli investimenti di questi fondi presso il Tesoro francese dovrebbero essere aggiunti al conteggio, ma non c’è nessuna notizia che venga fornita al riguardo né alle banche né ai paesi circa i dettagli di questi scambi. Al ristretto gruppo di alti ufficiali del ministero del Tesoro francese che conoscono le cifre detenute negli “operations accounts”, sanno dove vengono investiti questi fondi e se esiste un profitto a partire da quegli investimenti, viene impedito di parlare per comunicare queste informazioni alle banche Cfa o alle banche centrali degli stati africani, scrive il dottor Gary K. Busch (economista, docente universitario a Londra).Si stima che la Francia detenga all’incirca 500 miliardi di monete provenienti dagli Stati africani, e farebbe qualsiasi cosa per combattere chiunque voglia fare luce su questo lato oscuro del vecchio impero. Gli stati africani non hanno accesso a quel denaro. La Francia permette loro di accedere soltanto al 15% di quel denaro all’anno. Se avessero bisogno di più, dovrebbero chiedere in prestito una cifra extra dal loro stesso 65% da Tesoro francese a tariffe commerciali. Per rendere le cose ancora peggiori, la Francia impone un cappio sull’ammontare di denaro che i paesi possono chiedere in prestito da quella riserva. Il cappio è fissato al 20% delle entrate pubbliche dell’anno precedente. Se i paesi volessero prestare più del 20% dei loro stessi soldi, la Francia ha diritto di veto. L’ex presidente francese Jacques Chirac ha detto recentemente qualcosa circa i soldi delle nazioni africane detenuti nelle banche francesi. In un VIDEO parla dello schema di sfruttamento francese. Parla in francese, ma questo è un piccolo sunto: «Dobbiamo essere onesti e riconoscere che una gran parte dei soldi nelle nostre banche provengono dallo sfruttamento del continente africano».#3. Diritto di primo rifiuto su qualsiasi materia prima o risorsa naturale scoperta nel paese. La Francia ha il primo diritto di comprare qualsiasi risorsa naturale trovate nella terra delle sue ex colonie. Solo dopo un “Non sono interessata” della Francia, i paesi africani hanno il permesso di cercare altri partners. #4. Priorità agli interessi francesi e alle società negli appalti pubblici. Nei contratti governativi, le società francesi devono essere prese in considerazione per prime e, solo dopo, questi paesi possono guardare altrove. Non importa se i paesi africani possono ottenere un miglior servizio ad un prezzo migliore altrove. Di conseguenza, in molte delle ex colonie francesi, tutti i maggiori asset economici dei paesi sono nelle mani degli espatriati francesi. In Costa d’Avorio, per esempio, le società francesi possiedono e controllano le più importanti utilities – acqua, elettricità, telefoni, trasporti, porti e le più importanti banche. Lo stesso nel commercio, nelle costruzioni e in agricoltura. Infine, come ho scritto in un precedente articolo, “gli africani ora vivono in un continente di proprietà degli europei”.#5. Diritto esclusivo a fornire equipaggiamento militare e formazione ai quadri militari del paese. Attraverso un sofisticato schema di borse di studio e “Accordi di Difesa” allegati al Patto Coloniale, gli africani devono inviare i loro quadri militari per la formazione in Francia o in strutture gestite dai francesi. La situazione nel continente adesso è che la Francia ha formato centinaia, anche migliaia di traditori e li foraggia. Restano dormienti quando non c’è bisogno di loro, e vengono riattivati quando è necessario un colpo di Stato o per qualsiasi altro scopo! #6. Diritto della Francia di inviare le proprie truppe e intervenire militarmente nel paese per difendere i propri interessi. In base a qualcosa chiamato “Accordi di Difesa” allegati al Patto Coloniale, la Francia ha il diritto di intervenire militarmente negli Stati africani e anche di stazionare truppe permanentemente nelle basi e nei presidi militari in quei paesi, gestiti interamente dai francesi.Poi ci sono le basi militari francesi in Africa. Quando il presidente Laurent Gbagbo della Costa d’Avorio cercò di porre fine allo sfruttamento francese del paese, la Francia organizzò un colpo di Stato. Durante il lungo processo per estromettere Gbagbo, i carri armati francesi, gli elicotteri d’attacco e le forze speciali intervennero direttamente nel conflitto sparando sui civili e uccidendone molti. Per aggiungere gli insulti alle ingiurie, la Francia stima che la “business community” francese abbia perso diversi milioni di dollari quando, nella fretta di abbandonare Abidjan nel 2006, l’esercito francese massacrò 65 civili disarmati, ferendone altri 1.200. Dopo il successo della Francia con il colpo di Stato, e il trasferimento di poteri ad Alassane Outtara, la Francia ha chiesto al governo Ouattara di pagare un compenso alla “business community” francese per le perdite durante la guerra civile. Il governo Ouattara, infatti, pagò il doppio delle perdite dichiarate mentre scappavano.#7. Obbligo di dichiarare il francese lingua ufficiale del paese e lingua del sistema educativo. “Oui, Monsieur. Vous devez parlez français, la langue de Molière!” (sì, signore. Dovete parlare francese, la lingua di Molière!). Un’organizzazione per la diffusione della lingua e della cultura francese chiamata “Francophonie” è stata creata con diverse organizzazioni satellite e affiliati supervisionati dal ministero degli esteri francese. Come dimostrato in quest’articolo, se il francese è l’unica lingua che parli, hai accesso al solo 4% dell’umanità, del sapere e delle idee. Molto limitante.#8. Obbligo di usare la moneta coloniale francese Fcfa. Questa è la vera mucca d’oro della Francia, tuttavia è un sistema talmente malefico che finanche l’Unione Europea lo ha denunciato. La Francia però non è pronta a lasciar perdere il sistema coloniale che inietta all’incirca 500 miliardi di dollari africani nelle sue casse. Durante l’introduzione dell’euro in Europa, altri paesi europei scoprirono il sistema di sfruttamento francese. Molti, soprattutto i paesi nordici, furono disgustati e suggerirono che la Francia abbandonasse quel sistema. Senza successo. #9. Obbligo di inviare in Francia il budget annuale e il report sulle riserve. Senza report, niente soldi. In ogni caso il ministero delle banche centrali delle ex colonie, e il ministero dell’incontro biennale dei ministri delle finanze delle ex colonie è controllato dalla banca centrale francese e dal ministero del Tesoro.#10. Rinuncia a siglare alleanze militari con qualsiasi paese se non autorizzati dalla Francia. I paesi africani in genere sono quelli che hanno il minor numero di alleanze militari regionali. La maggior parte dei paesi ha solo alleanze militari con gli ex colonizzatori (divertente, ma si può fare di meglio!). Nel caso delle ex colonie francesi, la Francia proibisce loro di cercare altre alleanze militari eccetto quelle che vengono offerte loro. #11. Obbligo di allearsi con la Francia in caso di guerre o crisi globali. Più di un milione di soldati africani hanno combattuto per sconfiggere il nazismo e il fascismo durante la Seconda Guerra Mondiale. Il loro contributo è spesso ignorato o minimizzato, ma se si pensa che alla Germania furono sufficienti solo 6 settimane per sconfiggere la Francia nel 1940, quest’ultima sa che gli africani potrebbero essere utili per combattere per la “Grandeur de la France” in futuro.C’è qualcosa di psicopatico nel rapporto che la Francia ha con l’Africa. Primo, la Francia è molto dedita al saccheggio e allo sfruttamento dell’Africa sin dai tempi della schiavitù. Poi c’è questa mancanza di creatività e di immaginazione dell’élite francese a pensare oltre i confini del passato e della tradizione. Infine, la Francia ha due istituzioni che sono completamente congelate nel passato, abitate da “haut fonctionnaires” paranoici e psicopatici che diffondono la paura dell’apocalisse se la Francia cambiasse, e il cui riferimento ideologico deriva dal romanticismo del 19° secolo: sono il ministero delle finanze e del bilancio e il ministero degli affari esteri. Queste due istituzioni non solo sono una minaccia per l’Africa ma anche per gli stessi francesi. Tocca a noi africani liberarci, senza chiedere permesso, perché ancora non riesco a capire, per esempio, come possano 450 soldati francesi in Costa d’Avorio controllare una popolazione di 20 milioni di persone. La prima reazione della gente, subito dopo aver saputo della tassa coloniale francese, consiste in una domanda: “Fino a quando?”. Per paragone storico, la Francia ha costretto Haiti a pagare l’equivalente odierno di 21 miliardi di dollari dal 1804 al 1947 (quasi un secolo e mezzo) per le perdite subite dai commercianti di schiavi francesi dall’abolizione della schiavitù e la liberazione degli schiavi haitiani. I paesi africani stanno pagando la tassa coloniale solo negli ultimi 50 anni, perciò penso che manchi ancora un secolo di pagamenti!(Mawuna Remarque Koutonin, “Quattordici paesi africani costretti a pagare la tassa coloniale francese”, da “Africa News” dell’8 febbraio 2014).Sapevate che molti paesi africani continuano a pagare una tassa coloniale alla Francia dalla loro indipendenza fino ad oggi? Quando Sékou Touré della Guinea decise nel 1958 di uscire dall’impero coloniale francese, e optò per l’indipendenza del paese, l’élite coloniale francese a Parigi andò su tutte le furie e, con uno storico gesto, l’amministrazione francese della Guinea distrusse qualsiasi cosa che nel paese rappresentasse quelli che definivano i vantaggi della colonizzazione francese. Tremila francesi lasciarono il paese, prendendo tutte le proprietà e distruggendo qualsiasi cosa che non si muovesse: scuole, ambulatori, immobili dell’amministrazione pubblica furono distrutti; macchine, libri, strumenti degli istituti di ricerca, trattori furono sabotati; i cavalli e le mucche nelle fattorie furono uccisi, e le derrate alimentari nei magazzini furono bruciate o avvelenate. L’obiettivo di questo gesto indegno era quello di mandare un messaggio chiaro a tutte le altre colonie: il costo di rigettare la Francia sarebbe stato molto alto. Lentamente la paura serpeggiò tra le élite africane e nessuno, dopo gli eventi della Guinea, trovò mai il coraggio di seguire l’esempio di Sékou Touré, il cui slogan fu “Preferiamo la libertà in povertà all’opulenza nella schiavitù”.
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La stampa vile e bugiarda sulla vergogna di Israele a Gaza
«Ho appena sentito il Gr2 della Rai chiedere ad un “esperto” dell’università privata Luiss il suo autorevole parere sulla strage di palestinesi. Costui ha spiegato che i palestinesi, soprattutto quelli legati ad Hamas, fanno troppi figli e poi li mandano al massacro alle frontiere di Israele che, magari con qualche eccesso, si difende. Questo schifo è ciò che gran parte di stampa e Tv italiane dicono sulla strage». Così Giorgio Cremaschi commenta, su “Contropiano”, l’ultima mattanza commessa da Israele contro la popolazione della Striscia di Gaza, insorta dopo il trasferimento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, neo-proclamata capitale dello Stato ebraico: 55 dimostranti uccisi e centinaia di feriti, abbattuti dai cecchini dell’esercito. «Se un massacro di ben lunga inferiore a questo ci fosse stato in uno dei paesi che l’Occidente considera nemici dei diritti e della democrazia – scrive Cremaschi, già leader sindacale Fiom e ora vicino a “Potere al Popolo” – noi saremmo bombardati da titoli di giornali e servizi tv di condanna. Invece Israele per la nostra stampa ha licenza di uccidere. Se uccide quotidianamente senza troppo clamore, allora si censura. Se il sangue deborda e la strage è colossale allora si mistifica».Per la stampa italiana, che Cremaschi definisce «vile e bugiarda», la colpa di tutto è la rabbia dei palestinesi, «naturalmente senza altre spiegazioni che la loro naturale cattiveria, fomentata dai terroristi di Hamas». Un orrore filmato, fotografato: «I soldati vili e criminali che dal sicuro dei loro nascondigli con fucili di precisione assassinano i manifestanti, adulti e bambini, non sono terroristi, ma “tutori dell’ordine”. Le bombe d’artiglieria e degli aerei, i gas, sì i gas sulla popolazione civile sono “legittima difesa”. I volti sorridenti nel mare di sangue della famiglia Trump e di Netanyahu non fanno orrore, essi sono “diplomazia amica”». Inutile sperare che un po’ di giustizia affiori, dal racconto mediatico quotidiano: «Tutto viene falsato, distorto, coperto. La stampa italiana diventa complice degli assassini di Israele nel modo più disgustoso. E tacciono i difensori di regime dei diritti umani, i Saviano e compagnia, che qui si tappano bocca, occhi, orecchie». Era già accaduto con la carneficina di “Cast Lead”, l’Operazione Piombo Fuso scatenata da Israele a cavallo tra 2008 e 2009, con bombe al fosforo bianco (armi illegali di distruzione di massa) lanciata sulla popolazione di Gaza: 1400 morti, secondo l’Onu, e settimane di inaudito silenzio da parte dei media mainstream.«Tutto questo a me provoca il vomito», protesta Cremaschi. «Per questo mi tappo la bocca, lo faccio contro la vergogna della stampa italiana e dei suoi maestri di pensiero». E aggiunge: «Nessuno che abbia coperto o attenuato i crimini di Israele ha più ragione morale di parlare di diritti e democrazia. Falsi e ipocriti, vergognatevi». Una condanna senza appello: «Mi tappo un attimo la bocca davanti al vostro schifo, ma poi riprenderò ad urlare: abbasso l’apartheid assassino di Israele, viva la Resistenza del popolo di Palestina». Artisti internazionali come Brian Eno e Roger Waters dei Pink Floyd hanno lanciato rumorose campagne civili contro “l’apartheid” israeliano che discrimina i palestinesi, ma nemmeno le rockstar sono riuscite a perforare il muro di omertà che protegge i crimini del governo di Tel Aviv, denunciati anche dall’isolato eroismo del movimento dei Refuseniks, gli obiettori militari israeliani (soldati che preferiscono il carcere alle missioni di bombardamento contro i quartieri della Striscia). Non c’è speranza che i Refuseniks – ultimo caso eclatante, quello del ventenne Udi Segal – possano “bucare” il piccolo schermo italiano, dominato da telegiornali-camomilla e talkshow occupati militarmente (quelli sì) dai cantori della nientologia politica corrente, asservita al regime che assegna ai banchieri della Bce l’unica sovranità rimasta all’ex Europa dei popoli, quella che esisteva prima dell’Unione Europea.«Ho appena sentito il Gr2 della Rai chiedere ad un “esperto” dell’università privata Luiss il suo autorevole parere sulla strage di palestinesi. Costui ha spiegato che i palestinesi, soprattutto quelli legati ad Hamas, fanno troppi figli e poi li mandano al massacro alle frontiere di Israele che, magari con qualche eccesso, si difende. Questo schifo è ciò che gran parte di stampa e Tv italiane dicono sulla strage». Così Giorgio Cremaschi commenta, su “Contropiano”, l’ultima mattanza commessa da Israele contro la popolazione della Striscia di Gaza, insorta dopo il trasferimento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, neo-proclamata capitale dello Stato ebraico: 55 dimostranti uccisi e centinaia di feriti, abbattuti dai cecchini dell’esercito. «Se un massacro di ben lunga inferiore a questo ci fosse stato in uno dei paesi che l’Occidente considera nemici dei diritti e della democrazia – scrive Cremaschi, già leader sindacale Fiom e ora vicino a “Potere al Popolo” – noi saremmo bombardati da titoli di giornali e servizi tv di condanna. Invece Israele per la nostra stampa ha licenza di uccidere. Se uccide quotidianamente senza troppo clamore, allora si censura. Se il sangue deborda e la strage è colossale allora si mistifica».
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Mea Shearim, l’altra Gerusalemme: ebrei contro Israele
Durante l’offensiva contro Gaza mi avevano stupita le fotografie di ebrei ortodossi che nelle grandi città protestavano a migliaia contro i bombardamenti sulla Striscia. Avendo letto che a guidare le manifestazioni erano esponenti di “Neturei Karta”, gruppo che si oppone con forza all’occupazione, mi ero ripromessa di approfondire l’argomento. La possibilità l’ho avuta in occasione di una mia recente visita a Mea Shearim, quartiere ebraico vicino alla città vecchia di Gerusalemme. Il quartiere, sconsigliato dalle guide turistiche e evitato anche dagli stessi israeliani, è popolato esclusivamente da ebrei ortodossi, fra i quali molte famiglie appartenenti al gruppo “Neturei Karta”. Visitare Mea Shearim è un’esperienza affascinante e straniante al tempo stesso; appena si mette piede nel quartiere si viene catapultati nel passato e avvolti da un’atmosfera che ricorda, a quanto pare, i villaggi ebraici di fine ottocento dell’est-europeo. Le vie sono affollate da uomini con lunghi riccioli ai lati del viso e abiti dalla foggia antica; pastrani neri, camicie bianche e cappelli a tesa larga o di pelliccia. Le donne vestono in modo dimesso, maglia a maniche lunghe e gonna lunga; quelle sposate hanno i capelli coperti da un foulard o una retina e sono seguite da stuoli di bambini ben vestiti.Per darvi un assaggio dell’atmosfera del quartiere vi propongo le fotografie scattate in occasione del Kaparot, cruento rituale che si tiene alla vigilia dello Yom Kippur, che quest’anno si è celebrato l’otto di ottobre. Gli ortodossi ritengono che facendo roteare un pollo vivo attorno alla testa di una persona, i peccati di quest’ultima vengano trasferiti all’animale. Quando il pollo viene macellato, lo sgorgare del suo sangue rappresenta simbolicamente l’espiazione dei peccati del fedele, che può così presentarsi puro davanti a Dio nelle 25 ore di digiuno e preghiera a cui si dedicherà durante il giorno di Yom Kippur. Nel quartiere di Mea Shearim bisogna muoversi con una certa cautela, attenti a non urtare la sensibilità degli abitanti, che hanno rinunciato a ogni forma di modernità e vivono seguendo le severe regole dettate dalle sacre scritture; regole che diventano ancor più restrittive durante lo Shabbat quando anche per i turisti vi è il divieto di scrivere, maneggiare soldi o usare un cellulare. I muri all’entrata sono tappezzati da manifesti che ricordano ai turisti che non sono i benvenuti e pregano di non disturbare la santità del quartiere e dello stile di vita di ebrei profondamente devoti a Dio e alla sua Torà.E’ capitato che gli abitanti abbiano aggredito verbalmente e addirittura anche fisicamente turisti che non erano vestiti in modo appropriato. In occasione della mia visita sono stata molto attenta al mio abbigliamento e ho potuto esplorare tranquillamente le vie di Mea Shearim, anche se non ho osato scattare fotografie. Il quartiere è molto povero; le facciate degli edifici sono vecchie e sporche, le botteghe sono anguste e espongono poca varietà di mercanzia eccettuati i negozi di “Judaica”, dove si vendono libri e oggettistica interamente dedicati alla cultura ebraica. Fra gli ebrei ultra-ortodossi c’è un altissimo tasso di disoccupazione e la maggior parte delle famiglie vive grazie ai sussidi; gli uomini sono principalmente dediti allo studio della Torà e del Talmud mentre le donne provvedono al sostentamento della famiglia e si occupano della prole, compito non da poco dal momento che a Mea Shearim la media è di sette bambini per nucleo famigliare.Purtroppo non sono stata in grado di distinguere gli appartenenti a Neturai Karta dagli altri ebrei ortodossi e mi sono resa conto che mi ci vorrebbero mesi per riuscire ad orientarmi nella vasta galassia dei gruppi religiosi che popolano Mea Shearim. Ad accomunarli è il rifiuto di prestare servizio militare. A marzo il Parlamento israeliano ha però reso il servizio di leva obbligatori anche per loro, malgrado la decisione sia sta ampiamente contestata. Qualche settimana prima, a Gerusalemme centinaia di migliaia di ebrei ortodossi erano scesi in piazza per manifestare. I ragazzi impugnavano cartelli che recitavano “Avete creato voi il problema fondando lo stato di Israele. Non chiedeteci di risolverlo facendoci arruolare nell’Idf!” La scritta è esemplare del forte sentimento anti-sionista che anima alcuni gruppi di ebrei ortodossi di Mea Shearim e nel quartiere si scorgono ovunque segni di anti-sionismo. Manifesti che richiamano al riconoscimento della città di Gerusalemme come capitale indivisibile della Palestina e parecchie bandiere palestinesi dipinte sui muri. Spicca inoltre la totale assenza di bandiere israeliane e non potrebbe essere altrimenti visto che gli abitanti del quartiere si rifiutano di riconoscere lo Stato di Israele.Anche i Neturei Karta, che in aramaico significa “I guardiani della città”, si oppongono decisamente all’esistenza stessa dello Stato e sono anche il gruppo più radicalmente anti-sionista. Le origini dei “Guardiani della città” risalgono ai primi del Novecento, quando una parte dei vecchi abitanti ebrei di Gerusalemme cominciò a organizzarsi per fronteggiare la minaccia dei nuovi immigrati sionisti, politicizzati e poco o nulla osservanti delle norme religiose. Nel tempo molti gruppi si sono avvicinati al sionismo, ma i “Guardiani della città” restano tenacemente impegnati nella contestazione dello Stato di Israele al punto che non si recano a pregare al Muro del pianto perché la ritengono terra occupata, così come Gerusalemme Est. Secondo la loro interpretazione delle scritture agli ebrei è proibito avere un proprio Stato fino alla venuta del Messia e ritengono che l’attuale stato di Israele rappresenti un affronto alla volontà divina. Ne chiedono quindi la dissoluzione e la restituzione della terra ai palestinesi.Questa solidarietà con i palestinesi ha attirato loro la persecuzione da parte di Israele al punto di spingere molti seguaci a lasciare il Paese. Altri hanno preferito emigrare per il rifiuto ideologico di vivere in uno Stato che ritengono illegittimo. Il mondo degli ebrei ortodossi è difficilmente accessibile, ma voglio tornare nel suggestivo quartiere di Mea Shearim in compagnia di una guida, per cercare di conoscere meglio la loro cultura e le loro usanze. E capire qualcosa in più anche dei “Guardiani della città”. Queste le parole che ho estrapolato da un loro proclama: “Noi vogliamo che tutta la terra palestinese sia restituita ad un governo palestinese. Noi vogliamo il ritorno di tutti i profughi umiliati, anziani e giovani, alla loro legittima patria. Noi vogliamo vivere nella terra della Palestina come ebrei anti-sionisti, risiedere qui come cittadini palestinesi leali e pacifici, così come i nostri avi che avevano vissuto in Palestina per secoli prima della tragica usurpazione di questo paese”.(“I guardiani della città”, dal blog “Dietro al Muro” del 16 ottobre 2014).Durante l’offensiva contro Gaza mi avevano stupita le fotografie di ebrei ortodossi che nelle grandi città protestavano a migliaia contro i bombardamenti sulla Striscia. Avendo letto che a guidare le manifestazioni erano esponenti di “Neturei Karta”, gruppo che si oppone con forza all’occupazione, mi ero ripromessa di approfondire l’argomento. La possibilità l’ho avuta in occasione di una mia recente visita a Mea Shearim, quartiere ebraico vicino alla città vecchia di Gerusalemme. Il quartiere, sconsigliato dalle guide turistiche e evitato anche dagli stessi israeliani, è popolato esclusivamente da ebrei ortodossi, fra i quali molte famiglie appartenenti al gruppo “Neturei Karta”. Visitare Mea Shearim è un’esperienza affascinante e straniante al tempo stesso; appena si mette piede nel quartiere si viene catapultati nel passato e avvolti da un’atmosfera che ricorda, a quanto pare, i villaggi ebraici di fine ottocento dell’est-europeo. Le vie sono affollate da uomini con lunghi riccioli ai lati del viso e abiti dalla foggia antica; pastrani neri, camicie bianche e cappelli a tesa larga o di pelliccia. Le donne vestono in modo dimesso, maglia a maniche lunghe e gonna lunga; quelle sposate hanno i capelli coperti da un foulard o una retina e sono seguite da stuoli di bambini ben vestiti.
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Giorgio Galli: magia, esoterismo e potere. La storia segreta
Il mago in politica? Conta, sì. Ma non ha l’ultima parola. Certo, esiste: anche se i giornali non ne parlano mai. E spesso, proprio con il mondo esoterico sono in contatto i servizi segreti. Lo rivela il professor Giorgio Galli, autorevole politologo, per lunghi anni docente all’università di Milano. Un monumento della cultura italiana contemporanea. Classe 1928, ha all’attivo quasi cento titoli: dal volume d’esordio sulla storia del Pci, risalente al ‘53, fino all’ultimo lavoro, “Il golpe invisibile” (Kaos, 2015), che spiega “come la borghesia finanziario-speculativa e i ceti burocratico-parassitari hanno saccheggiato l’Italia repubblicana fino a vanificare lo Stato di diritto”. Intervistato da Fabio Frabetti e Paolo Franceschetti a “Border Nights” sul ruolo dell’occultismo nella politica, il professore chiarisce: la deriva “magica” dell’esoterismo ha certamente condizionato importanti leader del passato, Hitler in primis. Ma poi il fenomeno si è attenuato. Perché parlarne, allora? Perché non ne parla mai nessuno, a livello di ufficialità, se non per liquidare l’argomento in modo sprezzante, come se il fenomeno non esistesse. Altrettanto sbagliato, secondo Galli, l’atteggiamento iper-complottista di chi considera onnipotenti le società iniziatiche, massoneria compresa: hanno il loro peso, senz’altro, ma non possono decidere tutto.La missione dello studioso: svelare retroscena occulti e, al tempo stesso, demifisticare – con l’occhio razionale dello storico – le tante mitologie connesse al presunto potere di grandi “maghi”, al fianco dei potenti della Terra. Nel mirino innnanzitutto il leader del nazismo. Un fenomeno al quale – tra Himmler e la società Thule – il professor Galli ha dedicato ben tre saggi. Il primo, “Hitler e il nazismo magico” (Rizzoli) risale al 2005. A seguire, “La svastica e le streghe”, una “intervista sul Terzo Reich, la magia e le culture rimosse dell’Occidente”, pubblicata da Hobby & Work nel 2009, quattro anni prima di “Hitler e la cultura occulta”, libro uscito nel 2013, pubblicato ancora da Bur-Rizzoli. Impossibile non notare il potere ipnotico che la retorica del dittatore esercitava su masse immense, durante le celebri adunate oceaniche del nazismo. Disponeva di tecniche occultistiche? «Intanto era nato a Braunau sull’Inn, paese che ha dato i natali a un numero di medium superiore alla norma: c’è chi ritiene che, in determinate zone della Terra, vi siano cariche magnetiche che conferiscano doti particolari, come quelle che caratterizzano i medium e i veggenti». Inoltre, aggiunge Galli, è noto che Hitler prese lezioni da Erik Jan Hanussen, famoso ipnotista austriaco che, «nei teatri, ipnotizzava gli spettatori, facendo creder loro che fossero reali fenomeni che erano solo immaginari».Lo stesso Hanussen, mago e illusionista, fu poi ucciso dai nazisti il 30 giugno del 1934 nella strage passata alla storia come la “notte dei lunghi coltelli”. Una buona occasione «per far sparire le tracce della formazione ipnotistica che Hitler aveva ricevuto». Ma una cosa è ammettere che Hitler credesse nell’occulto e si avvalesse di maghi come Hanussen, un’altra è pensare che il nazismo sia “esploso” in virtù della magia: «Mai, il nazismo, si sarebbe potuto affermare senza la sconfitta della Germania nel primo conflitto mondiale, senza la crisi del dopoguerra e senza la grande crisi del ‘29, tutti fenomeni che hanno determinato il destino del paese sino all’avvento del Terzo Reich». Quindi attenzione: «Io non sostengo che l’esoterismo sia la chiave interpretativa della storia», precisa Galli. «Dico che ne è una delle componenti (e non delle più importanti), che però è stata completamente trascurata». E’ chiaro che a partorire il nazismo è stata la crisi politica, sociale ed economica patita dalla Germania a partire dal 1914. «Le cause che gli storici hanno studiato permettono di capire la vicenda tedesca anche senza bisogno di studiare l’esoterismo. Però, appunto, c’è anche l’esoterismo: e ha avuto un ruolo importante nella formazione culturale di una parte dell’élite nazionalsocialista».La storia politica ed economica spiega tante cose, ribadisce Galli, ma «talvolta, in determinate circostanze, non spiega tutto». Secondo il gollista Maurice Schumann, gruppi esoterici presenti anche in Vaticano hanno influenzato la nascita della stessa Unione Europea: «E’ una componente sin qui trascurata, meno importante di altre, ma che va tenuta presente». Giorgio Galli ha scritto anche un’introduzione al recente saggio “Mussolini e gli Illuminati”, nel quale Enrico Montermini mette in luce il rapporto (rimasto in ombra) tra il fascismo e l’esoterismo, dal ruolo di Giuseppe Cambareri – il mago di tanti ufficiali dell’esercito mussoliniano – all’intervento della massoneria anglosassone agli esordi delle camicie nere, fino al drammatico epilogo di piazzale Loreto, «macabro sacrificio rituale per celebrare simbolicamente la caduta dell’ultimo Cesare». Magia e dittature, ma non solo: «Lo stesso Churchill, che era massone – racconta Galli – si consultò moltissimo con l’ambiente esoterico, prima di decidere l’atteggiamento da assumere con Hitler». Furono alcuni esoteristi a confermargli che occorreva opporsi strenuamente al Terzo Reich: impossibile conviverci, perché avrebbe trasformato l’Europa nel peggiore degli incubi.Esoterismo? «E’ una cultura che ha solide radici nella storia dell’Occidente», spiega Giorgio Galli al pubblico di “Border Nights”. «Bisogna risalire agli astrologi caldei, ai profeti ebraici, fino a personaggi molto recenti come René Guénon e Julius Evola». Si intitola “Occidente misterioso” un saggio del 1987, edito da Rizzoli, in cui Galli indaga tra “baccanti, gnostici, streghe”, ovvero “i vinti della storia e la loro eredità”. «E’ una corrente di pensiero che ha solide radici e si ripresenta anche in periodi di grande avanzamento scientifico». Per dire: erano esoteristi Cartesio e Newton. «Si tratta di una cultura che ha profonde radici nello sforzo umano verso la conoscenza: radici così solide che, dal ‘500 in poi, ha potuto resistere al grande avvento della rivolzione scientifica». Quella dell’esoterismo «è un tipo di conoscenza che prevede approcci diversi da quelli scientifico-razionali». Metodo analogico, pensiero simbolico. Com’è che i politici entrano in contatto col mondo esoterico? «Esistono gruppi e associazioni che mantengono viva questa tendenza». Secondo la cultura esoterica, aggiunge il professore, «sulla Terra sono esistite civiltà molto remote, in genere scomparse per catastrofi naturali: l’esempio più noto sono i riferimenti che Platone fa ad Atlantide».Giorgio Galli segnala un libro come “L’altra Europa”, nel quale l’autore – Paolo Rumor (figlio di Mariano, pluri-minustro Dc) – documenta «la convinzione che siano esistite civiltà terrestri delle quali sono rimaste tracce, e in cui affonderebbe le sue radici la politica che poi ha portato all’Unione Europea». Intorno all’anno Mille, dice Galli, in alcuni ambienti «era maturata quella convinzione», riguardo all’ancestrale discenza da civiltà estinte. E quindi «ci sarebbe un rapporto tra antichi assetti sociali e il progetto dell’Ue, che in realtà è nato molto prima di quanto si ritenga». Se qualcuno ha in mente solo Jean Monnet, la Cee e l’Unione Europea si sbaglia: «Documenti di Mariano Rumor – afferma il professore – dimostrano che questo progetto sarebbe maturato molto più in là nel tempo, in ambienti legati alla cultura esoterica e alla convinzione dell’esistenza di antiche civiltà scomparse, che avrebbero lasciato tracce nella nostra cultura». Sicché, periodicamente, «emergono piccoli cenacoli, che credono di essere gli eredi di un antico sapere». Gli approcci sono diversi, aggiunge Galli: «Alcune società esoteriche sono orientate verso la conoscenza: per loro, l’esoterismo è uno strumento del sapere. In altri gruppi, invece, si ritiene che possa anche essere uno strumento per il potere».Non ha molti segreti, per Giorgio Galli, la contaminazione esoterica della politica: ne parlava già nel 1995 in “Cromwell e Afrodite” (Kaos), o in libri come “La politica e i maghi, da Richelieu a Clinton”, pubblicato da Rizzoli nello stesso anno. Galli ha firmato studi sulla massoneria, su Fatima, sulla new age, sulle Torri Gemelle. Titoli accattivanti: “La venerabile trama”, del 2007 (Lindau), racconta “la vera storia di Licio Gelli e della P2”. In “Stelle rosse” (Alacran, 2007), mette a nudo “astrologia neo-illuminista a uso della sinistra”. Titoli espliciti: “Politica ed esoterismo alle soglie del 2000”, scritto con Rudy Stauder e pubblicato da Rizzoli nel 1992, e “Esoterismo e politica” (Rubbettino, 2010). E’ del 2004 il saggio “La magia e il potere”, ovvero “l’esoterismo nella politica occidentale”, edito da Lindau. Ma cos’è la magia? Solo superstizione? «E’ un approccio culturale che si è manifestato in una fase della storia umana», spiega il professore a “Border Nights”, rispondendo alle domande di “Maestro di Dietrologia”. «Non credo che esista una magia con un reale potere», aggiunge. «Credo però che sia una convinzione diffusa». L’esoterismo, dice, è anche questo: «La convinzione che, facendo determinate operazioni, o con certe liturgie, si possano ottenere determinati risultati. La cultura esoterica è legata a questa convinzione, che però non è la mia».I maghi, aggiunge Giorgio Galli, sono i rappresentanti di questo tipo di cultura: talvolta entrano in contatto col potere e talvolta no. «La rivoluzione scientifica ha reso meno sistematici quei rapporti: quelli che vengono chiamati Magi, astrologi e veggenti facevano parte normalmente del personale vicino al potere – a Roma e in Grecia, poi nelle corti medievali. Fino al ‘500-600 questi rapporti erano organici e continui, in seguito sono diventati più rari o soltanto occasionali». E i famosi maghi consultati da capi di Stato? «In alcuni casi – risponde Galli – ci sono società segrete che trasmettono questo tipo di cultura. Alcune – tedesche, francesi, inglesi – sono elencate in “Hitler e il nazismo magico”. Probabilmente ne esistono ancora, anche se adesso la loro influenza mi pare molto minore di quanto non fosse all’inizio del secolo scorso». Magia e potere, ma soprattutto stelle, oroscopi, tarocchi. «Quello che so – aggiunge Galli – è che molti politici, anche di rilievo, consultano abituamente astrologi e cartomanti: sono un aspetto popolare e diffuso di culture che hanno origini esoteriche, ma è anche un campo che si presta moltissimo alle truffe e alle manipolazioni».Da Roma, ha contattato il professore un gruppo di tradizione esoterica che si definisce “Evoliani a 5 Stelle”, dal nome di Evola. «Sono degli esoteristi di cultura evoliana, che si esprimono positivamente attorno al Movimento 5 Stelle», precisa Galli. Non che l’esoterismo sia del tutto estraneo, ad alcuni aspetti del mondo grillino: «Lo stesso cortometraggio di Gianroberto Casaleggio, “Gaia”, esprime una cultura che qualche rapporto con quella esoterica potrebbe averlo: è collegata con la cultura delle grandi catastrofi, che poi alla fine danno un risultato positivo». Ma quello dei 5 Stelle è un populismo destinato a trasformarsi nella vera avanguardia tecnocratica del neoliberismo globalista? Giorgio Galli lo esclude in modo categorico. «I 5 Stelle secondo me sono ancora in una fase magmatica, in cui convivono componenti dell’anticapitalismo di sinistra e componenti dell’anticapitalismo di destra. Penso che siano in una fase di trasformazione – conclude il politologo – ma non credo affatto che possano diventare i nuovi strumenti del grande capitale: rimarranno sempre un movimento indirizzato a cambiamenti che, nella loro cultura, ritengono positivi. Che poi riescano nel loro intento è un altro problema, ma non credo che si mettano al servizio del potere capitalistico».Il mago in politica? Conta, sì. Ma non ha l’ultima parola. Certo, esiste: anche se i giornali non ne parlano mai. E spesso, proprio con il mondo esoterico sono in contatto i servizi segreti. Lo rivela il professor Giorgio Galli, autorevole politologo, per lunghi anni docente all’università di Milano. Un monumento della cultura italiana contemporanea. Classe 1928, ha all’attivo quasi cento titoli: dal volume d’esordio sulla storia del Pci, risalente al ‘53, fino all’ultimo lavoro, “Il golpe invisibile” (Kaos, 2015), che spiega “come la borghesia finanziario-speculativa e i ceti burocratico-parassitari hanno saccheggiato l’Italia repubblicana fino a vanificare lo Stato di diritto”. Intervistato da Fabio Frabetti e Paolo Franceschetti a “Border Nights” sul ruolo dell’occultismo nella politica, il professore chiarisce: la deriva “magica” dell’esoterismo ha certamente condizionato importanti leader del passato, Hitler in primis. Ma poi il fenomeno si è attenuato. Perché parlarne, allora? Perché non ne parla mai nessuno, a livello di ufficialità, se non per liquidare l’argomento in modo sprezzante, come se il fenomeno non esistesse. Altrettanto sbagliato, secondo Galli, l’atteggiamento iper-complottista di chi considera onnipotenti le società iniziatiche, massoneria compresa: hanno il loro peso, senz’altro, ma non possono decidere tutto.
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Siria, risposta russa: bombe sui terroristi armati dagli Usa
Vincere definitivamente la guerra in Siria, sradicando dalla regione l’opaca ragnatela di alleanze (leggasi: terrorismo) su cui si basa la presenza statunitense, inglese e francese. Potrebbe essere questa la risposta, sul campo, che Russia e Iran – con all’apoggio della Cina in sede Onu – potrebbero mettere in atto, dopo il raid missilistico dimostrativo del 14 aprile contro le installazioni di Damasco. «L’attacco contro le basi in Siria compiuto da Francia, Regno Unito e Stati Uniti crea uno spartiacque, l’ennesimo, in questa guerra», scrive Lorenzo Vita sul “Giornale”. «Russia e Iran, alleati della Siria, hanno già detto di ritenere completamente illegittimi gli “strike” promossi dalla coalizione occidentale. E hanno parlato di “gravi conseguenze”», anche sul piano regionale. «E il fatto che Israele abbia appena chiuso lo spazio aereo sulle alture del Golan, fa comprendere che queste conseguenze regionali potrebbero rivolgersi direttamente allo Stato ebraico, colpevole di aver bombardato la base T4 in Siria e ucciso sette soldati iraniani». Le risposte di Russia e Iran saranno sicuramente su più livelli. Le potenze occidentali hanno colpito con un “one shot”, come sostenuto dal capo del Pentagono, James Mattis. «Ma adesso la palla è passata nelle mani di Mosca e Teheran che, al contrario, non avevano mai definito apertamente il ventaglio di pozioni in caso di risposta».Quello che è certo, continua il “Giornale”, è che i due alleati della Siria erano consapevoli dell’attacco. E le risposte erano pronte già da diversi giorni. «Ora potrebbero semplicemente essere messe in atto, portando anche a un’evoluzione del conflitto in senso positivo verso l’esercito siriano: se infatti l’attacco è stato limitato, e sostanzialmente innocuo, Damasco ora può rimodulare l’offensiva per la riconquista del paese». Secondo sito israeliano “Debkafile”, una forza congiunta siriana e libanese (Hezbollah) ha ripreso l’offensiva verso il fiume Eufrate. Obiettivo: strappare dal controllo degli Stati Uniti il gas di Konok e i giacimenti petroliferi di Al-Umar. L’iraniano Ali Akbar Velyati, in conferenza stampa a Damasco, avverte: «La parte orientale dell’Eufrate è un’area molto importante. Speriamo di fare grandi passi per liberare questa zona ed espellere gli americani». Un secondo livello dell’offensiva, spiega Vita, nasce dal rafforzamento della sinergia militare fra Russia e Iran. Come riporta il sito “Al Masdar news”, Teheran rivela che i bombardieri pesanti russi sono stati di nuovo autorizzati a operare negli aeroporti militari iraniani: hanno il permesso di utilizzare basi iraniane per rifornirsi di carburante.«Le informazioni su questi nuovi sviluppi – scriove Vita – arrivano anche dopo che due Tu-95 e due bombardieri pesanti Tu-22M hanno lasciato la loro base permanente in Russia per una destinazione sconosciuta. Si ritiene che siano proprio le basi iraniane dell’accordo». Il che non farà che potenziare la già dimostrata capacità di risposta degli alleati siriani: «Mentre le forze occidentali hanno comunque (anche se in maniera molto limitata) attuato un raid con i loro mezzi, la Russia in particolare non ha risposto. È stata la contraerea siriana, guidata dal supporto russo, ad abbattere decine di missili. Questo significa che, fondamentalmente, Damasco solo con il supporto russo “dietro le quinte” ha dimostrato di saper difendersi». L’idea, ora, è che la Russia e l’Iran possano «rispondere con un’offensiva che sradichi completamente gli alleati della coalizione occidentale, chiudendo il cerchio su una guerra in cui Mosca e Teheran sono coinvolte in maniera molto pesante, ma che rischia di diventare impossibile da concludere». In questo senso, il “Giornale” sottolinea che «mentre le forze occidentali necessitano di accuse su attacchi chimici per colpire l’esercito siriano, russi e iraniani non hanno alcuna condizione: loro sono lì per aiutare Bashar al Assad nella sua offensiva, e questo permette lordo di sostenere più attacchi, su più livelli».Lorenzo Vita sottolinea poi il profilo politico della situazione: «Non va dimenticato che gli Stati Uniti hanno dimostrato di essere profondamente scissi al loro interno, cosa che invece non hanno dimostrato i loro nemici. La divisione fra Donald Trump e Jim Mattis può essere molto indicativa». Poi, naturalmente, c’è il ruolo della Cina: alle unità navali di Pechino già presenti nel Mediterraneo, per manovre congiunte con la flotta russa del Mar Nero, potrebbero aggiungersi altri vascelli cinesi da battaglia, nei giorni scorsi segnalati in prossimità del Canale di Suez con il presumibile obiettivo di aumentare il potere di deterrenza di fronte all’ipotesi di nuovi attacchi occidentali contro la Siria. «La Cina ha sostenuto con forza la contrarietà all’attacco in Siria compiuto da Usa, Gran Bretagna e Francia. E questo – osserva Vita – rende possibile una collaborazione ancora più forte in sede Onu fra Pechino e Mosca, tesa a creare un asse importante che si contrapponga a quello composto da Usa, Francia e Regno Unito». Una partita decisiva: si tratta di difendere Assad da chi lo bombarda per motivi “umanitari”, dopo aver armato, finanziato e protetto il peggior jihadismo di marca Isis, che ha gettato nel terrore la popolazione siriana producendo milioni di profughi. Un’emorragia, quella innescata dal terrorismo islamista (gestito dagli Usa, dalla Turchia, da Israele e dall’Arabia Saudita) che si è arrestata solo con l’intervento militare russo e iraniano che ha fatto “impazzire” i falchi della Casa Bianca.Vincere definitivamente la guerra in Siria, sradicando dalla regione l’opaca ragnatela di alleanze (leggasi: terrorismo) su cui si basa la presenza statunitense, inglese e francese. Potrebbe essere questa la risposta, sul campo, che Russia e Iran – con all’appoggio della Cina in sede Onu – potrebbero mettere in atto, dopo il raid missilistico dimostrativo del 14 aprile contro le installazioni di Damasco. «L’attacco contro le basi in Siria compiuto da Francia, Regno Unito e Stati Uniti crea uno spartiacque, l’ennesimo, in questa guerra», scrive Lorenzo Vita sul “Giornale”. «Russia e Iran, alleati della Siria, hanno già detto di ritenere completamente illegittimi gli “strike” promossi dalla coalizione occidentale. E hanno parlato di “gravi conseguenze”», anche sul piano regionale. «E il fatto che Israele abbia appena chiuso lo spazio aereo sulle alture del Golan, fa comprendere che queste conseguenze regionali potrebbero rivolgersi direttamente allo Stato ebraico, colpevole di aver bombardato la base T4 in Siria e ucciso sette soldati iraniani». Le risposte di Russia e Iran saranno sicuramente su più livelli. Le potenze occidentali hanno colpito con un “one shot”, come sostenuto dal capo del Pentagono, James Mattis. «Ma adesso la palla è passata nelle mani di Mosca e Teheran che, al contrario, non avevano mai definito apertamente il ventaglio di pozioni in caso di risposta».