Archivio del Tag ‘Eugenio Cefis’
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Carpeoro: P1, la sovragestione ha piegato il governo Conte
Si chiama P1, è una loggia massonica di cui il Grande Oriente d’Italia non ha mai ammesso l’esistenza. Ne parla Gianfranco Carperoro nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, uscito nel 2016. Tesi: la P2 di Gelli, affollata di “numeri due” del potere, serviva anche da copertura (eventualmente “sacrificabile”) per la P1, vera cabina di regia della “sovragestione” italiana, all’epoca della strategia della tensione. A fondare la P1 – di concerto con ambienti Nato, come quelli della loggia toscana Benjanin Franklyn – fu Eugenio Cefis, l’uomo che prese il posto di Enrico Mattei alla guida dell’Eni, dopo l’attentato del 1962 che costò la vita al grande protagonista della rinascita dell’Italia come potenza industriale mediterranea, nel dopoguerra, grazie all’allenza paritaria con i paesi arabi per lo sfruttamento del petrolio. Ma che c’azzecca, la P1, nell’attualità politica italiana del 2018? C’entra eccome: è stata lei a piegare il governo Conte, fiaccandone la resistenza e costringendolo a capitolare di fronte al diktat di Bruxelles sul deficit. Obiettivo: far venir meno la fiducia degli italiani verso Lega e 5 Stelle. E come avrebbe agito, la P1? Nel solito modo: a livello mediatico. «La specialità della P1 è la cosiddetta “macchina del fango”».Secondo Carpeoro, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, non è da trascurare il profilo istituzionale della “sovragestione”: «Nelle ultime settimane è stato particolarmente rovente il telefono di Mario Draghi», che avrebbe agito anche di concerto con il Quirinale per premere su Conte. Sempre secondo Carpeoro, sono più che sospetti gli attacchi a orologeria sferrati contro i leader gialloverdi: prima Salvini, cui la magistratura chiede di versare una cifra folle (49 milioni di euro, tale da paralizzare l’attività politica della Lega) e poi Di Maio, infangato dalla vicenda del padre, accusato di ricorrere al lavoro nero nella sua azienda. «Erano avvertimenti preliminari. Bisognava tener duro e non lasciarsi intimorire. Invece, come s’è visto, il governo ha ceduto». Secondo Carpeoro, con la P1 non si scherza: «E’ da quell’ambiente che è nato il progetto Gladio, che resta la cosa peggiore che gli Usa abbiano inflitto all’Italia, per paura che il nostro paese potesse dialogare con l’Unione Sovietica, all’epoca della guerra fredda. Per questo – aggiunge Carpeoro – è stato ucciso lo stesso Mattei. E i responsabili di quell’omicidio furono gli uomini di Gladio».Mattei voleva un’Italia forte e autorevole nel Mediterraneo. Il suo aereo esplose in volo sul cielo di Bascapè, nell’Oltrepo Pavese. Aldo Moro, l’uomo dell’intesa col Pci di Berlinguer, fu liquidato attraverso un opaco intreccio di terrorismo e servizi segreti. Finì invece in esilio ad Hammamet il leader socialista Bettino Craxi, che aveva osato schierare i carabinieri a Sigonella per impedire che gli Usa arrestassero i dirottatori palestinesi della nave da crociera Achille Lauro e il mediatore Abu Abbas, inviato da Arafat per risolvere la crisi. E adesso, non appena l’Italia riprova ad alzare la testa – foss’anche nel modo discutibile dei gialloverdi, comunque in controtendenza rispetto al rigore predicato da Bruxelles – ecco che il governo italiano si ritrova nei guai. Non è un caso, sostiene Carpeoro: c’è chi lavora nell’ombra, da decenni, per mantenere sottomesso il nostro paese. Forse non tutto è perduto, aggiunge l’analista: è possibile che, vista la forza soverchiante dell’avversario e il suo immenso potere di ricatto, Salvini e Di Maio abbiano optato per una ritirata solo tattica, in attesa delle europee. Molto potrebbe dipendere dal voto di maggio: «Se in Europa vinceranno i progressisti, la partita per l’Italia potrebbe riaprirsi. Se invece si affermerà il fronte reazionario, peggio per noi: Bruxelles potrebbe aprire la procedura d’infrazione contro l’Italia per eccesso di debito pubblico. Un’eventualità evitata dai governi precedenti, proni com’erano ai voleri dell’oligarchia europea».Si chiama P1, è una loggia massonica di cui il Grande Oriente d’Italia non ha mai ammesso l’esistenza. Ne parla Gianfranco Carperoro nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, uscito nel 2016. Tesi: la P2 di Gelli, affollata di “numeri due” del potere, serviva anche da copertura (eventualmente “sacrificabile”) per la P1, vera cabina di regia della “sovragestione” italiana, all’epoca della strategia della tensione. A fondare la P1 – di concerto con ambienti Nato, come quelli della loggia toscana Benjamin Franklyn – fu Eugenio Cefis, l’uomo che prese il posto di Enrico Mattei alla guida dell’Eni, dopo l’attentato del 1962 che costò la vita al grande protagonista della rinascita dell’Italia come potenza industriale mediterranea, nel dopoguerra, grazie all’allenza paritaria con i paesi arabi per lo sfruttamento del petrolio. Ma che c’azzecca, la P1, nell’attualità politica italiana del 2018? C’entra eccome: è stata lei a piegare il governo Conte, fiaccandone la resistenza e costringendolo a capitolare di fronte al diktat di Bruxelles sul deficit. Obiettivo: far venir meno la fiducia degli italiani verso Lega e 5 Stelle. E come avrebbe agito, la P1? Nel solito modo: a livello mediatico. «La specialità della P1 è la cosiddetta “macchina del fango”».
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Livigni: ci governa la cupola che liquidò Kennedy e Mattei
Vorrei tornare su Enrico Mattei, di cui sono stato uno strettissimo collaboratore, per dire che in Italia è avvenuto qualcosa di orrendo, di sporco. Era stata fatta una inchiesta, quando l’aereo precipitò a Bascapè: un’inchiesta vergognosa, fatta da depistaggi e coperture della verità. Un’altra mezza inchiesta era stata subito chiusa. Nel 1994 ho pubblicato un libro con la Mondatori che si chiama “La grande sfida”, e sono riuscito avere documentazioni top secret dagli archivi della Jfk Library di Boston, dall’Eisenhower Library e, con mia sorpresa, ho scoperto che tra Mattei e Kennedy c’era una corrispondenza molto stretta. Dopo la crisi di Suez, quando Inghilterra e Francia erano state invitate dagli Stati Uniti a ritirarsi durante la Guerra di Suez, perché gli Usa temevano uno shock petrolifero, l’Italia avanzò la proposta di coprire un ruolo di nazione strategica, sul Mediterraneo, in sostituzione di Francia e Inghilterra. Kennedy era d’accordo, però bisognava dare stabilità politica al governo italiano, che cambiava ogni due mesi (c’era stata la crisi del governo Tambroni, che durò un mese e mezzo). Per dare stabilità politica bisognava scegliere un uomo e fare riforme. Kennedy esaminò tutti i possibili interlocutori italiani, e li scartò subito: via Fanfani, via Gronchi. E arrivò a Mattei: di lui, Kennedy era affascinato. E iniziarono delle trattative.Una prima trattativa avvenne all’Hotel Excelsior di Roma, in grandissimo segreto. Mattei non si fece assistere da nessuno. Kennedy chiese alle grandi compagnie americane di mettere Mattei in condizioni di fare affari, di offrirgli contratti migliori di quelli che aveva con l’Unione Sovietica. Dopo lunghe trattative, venne fatto un contratto tra l’Eni e la Esso per la fornitura di 12 milioni di tonnellate l’anno di greggio a condizioni veramente migliori di quelle che Mattei aveva con l’Urss. Dopo l’accordo commerciale, segretissimo, si passò alla trattativa politica. Parteciparono il responsabile della politica estera di Kennedy e il futuro capo della Cia in Italia. Mattei doveva andare a dicembre 1962 a incontrare Kennedy. Non ne parlò con nessuno, neanche con me. Era abbastanza teso, in quei giorni: aveva ricevuto minacce. La cosa che mi colpì è che era stato in Sicilia, il 18 ottobre 1962. C’era stato un incontro a Gela, un Cda della Agip Mineraria. Lui transitò da Palermo, mi chiamò e mi disse: «Ti voglio vedere subito in aeroporto». Arrivò con l’aereo aziendale, mi diede indicazioni su fatti che stavamo svolgendo e io gli dissi: «Presidente, venga entro l’anno, perché abbiamo fatto una realizzazione, a Gela, che voleva lei: un grande deposito costiero per importare dalla raffineria di Gela i prodotti sul mercato». Lui disse: «Non posso venire, ho parecchi impegni, ci vediamo il prossimo anno».Dopo sette giorni ricevo una sua telefonata. Io mi trovo a Palermo, avevo un incarico di “scout man”, l’uomo dei servizi segreti nel petrolio che cerca di sapere cosa fanno le altre compagnie. Mi disse: «Sto partendo per Gela». «Presidente, ma… come mai?». «Poi glielo dico». Arrivai a Gela prima di lui, andai al Motel Agip e mi dissero: «Non atterra qui». L’Agip aveva un aeroporto privato, l’aeroporto di Ponte Olivo, con una pista molto sorvegliata. Ma la sera prima avevano messo una carica di tritolo e rotto la pista per non farlo atterrare, per farlo venire con l’elicottero. E lui dovette atterrare a Catania, arrivò intorno alle 13. Abbiamo parlato di problemi in corso che riguardavano l’Iraq. Nessun libro, dei 300 e rotti pubblicati nel mondo su Mattei, ha mai parlato dell’Iraq. Sapevo che c’era una questione in Iran: non si era riusciti a entrare nel consorzio dopo la caduta di Mossadeq, fatto cadere dagli angloamericani perché aveva nazionalizzato il petrolio (fatto cadere con l’uso dei sicari dell’economia). Mossadeq fu denunziato come se fosse un pazzo, e invece era molto saggio: era presidente del Consiglio del primo governo democratico iraniano, un governo eletto dal popolo.Gli americani tornarono con gli inglesi e riaprirono le compagnie angloamericane, fecero un consorzio e noi siamo stati rifiutati. E Mattei disse: «Andiamoci a prendere il petrolio in Iraq». Che cosa era successo? Io ho conosciuto a Taormina Dino Grandi, ex ministro degli esteri del governo Mussolini, che mi ha informato che nel 1934 l’Agip, fondata nel 1926, era riuscita a ottenere in Iraq il più grande giacimento nell’area di Kirkuk, nell’area curda. Era riuscita per l’abilità di Grandi che venne a patti con gli inglesi, che avevano l’85% del territorio iracheno. Una concessione enorme, con una sessantina di concessioni. L’Iraq è un’invenzione di Churchill, che aveva capito che – tirando una linea, un rettangolo, e unificando sciiti, curdi, sunniti e turcomanni – avrebbe creato un paese in eterno confitto, facilmente governabile e dominabile da un punto di vista coloniale. Dino Grandi diede appoggio all’Inghilterra, perché scadeva il protettorato inglese nel 1934, presso la Società delle Nazioni, la futura Onu. In contropartita, l’Inghilterra accettò che l’Agip rilevasse una piccola società petrolifera, e poi accettò che questa si ingrandisse fino a diventare una concessione importante, che si chiama Mossul Oil Field.E però avvenne che nel 1935 le truppe italiane invadono l’Etiopia, gli inglesi ricattano la Agip, dicono: «Se vuoi che noi interveniamo alla Società delle Nazioni per non fare sanzioni e un embargo petrolifero, ci devi cedere la Mossul Oil Field». Grandi trattò, e alla fine trovarono una soluzione: sarebbe andato a inglesi e americani il 51%, però l’Agip avrebbe mantenuto il 39% e una presenza strategica nella “golden share” della società, cioè avrebbe partecipato alle politiche e alle strategie. Quando Grandi tornò a Roma, Mussolini ebbe paura e disse: «No, cediamo la società, perché gli inglesi poi mi possono giocare un brutto scherzo, e io non posso fermare in Etiopia le truppe con un embargo». Mattei sapeva tutto questo, e dopo che fummo rifiutati dal consorzio iraniano disse: «Andiamoci a prendere il petrolio in Iraq». Si formò un gruppo molto ristretto. Io lavorai con l’équipe che andò in Iraq quando Khassem, nel 1958, abbatté la monarchia irachena di Re Faysal. Khassem venne contattato nel mese di agosto, in una caserma, mentre fuori si sparava. Gli fu portata una credenziale di Mattei, in cui diceva: «Vogliamo fare con voi un contratto paritetico, un partenariato, non un contratto in cui vi vede paese esattore di tasse o di royalty. Facciamolo insieme, facciamo una società paritetica che si occuperà anche di altre cose connesse al petrolio». Lui accettò e disse: «Voglio però prima cacciare via l’Iraq Petroleum Company».E così si iniziò a dare assistenza legale a Khassem esaminando, concessione per concessione, l’Iraq Petroleum Company, per vedere dove questa società aveva mancato. Su 60 e rotti concessioni, la società ne aveva sfruttato solo tre, con un atteggiamento di scorrettezza enorme: si era mantenuta come riserva le altre risorse, privando il popolo iracheno di quelle royalty, ancorché irrisorie. Nel 1962 Khassem revocò le concessioni, queste 57 concessioni, all’Iraq Petroleum Company. Era una bomba! Una delle più grandi compagnie del mondo veniva buttata fuori, perché Khassem avrebbe fatto entrare l’Eni. Seguii da vicino la faccenda, ma non eravamo sicuri di essere sfuggiti ai servizi segreti americani e inglesi, perché in Italia c’era parecchia gente che voleva la fine di Mattei – parecchia. Lui aveva rotto con Fanfani: mandò all’opposizione i fanfaniani siciliani, che non erano gente troppo facile – erano Gioia, Lima. Avevano indirizzato i finanziamenti alla Dc, a Fanfani, a Moro. Era rottura totale, e Fanfani era presidente del Consiglio. Poi c’è la questione Cefis: Mattei lo aveva cacciato fuori, il vicepresidente, che era un uomo dei servizi inglesi.Mattei era isolato, e durante la trattativa ho scoperto, con i documenti avuti, che c’erano stati interventi pesantissimi dell’ambasciata americana e inglese a Roma su Fanfani, per fermare Mattei, e Fanfani ha risposto: «Io Mattei non lo posso fermare, non ho il potere». È una cosa gravissima: «Fermare a ogni costo». Khassem fece una società nazionale per creare poi una società paritetica con noi, fece sapere che voleva dare un annunzio al giornalismo internazionale di questo progetto della costizione della compagnia nazionale: non c’era più influenza esterna. Noi abbiamo detto: «Prendi tempo!». Era il 16 settembre del 1962. E Khassem, per la smania di dimostrare al popolo che stava lavorando per il bene dell’Iraq, rilasciò un’intervista che ci fece gelare. Disse: «Io ho revocato le concessioni all’Iraq Petroleum company e sto realizzando una società paritetica con l’Eni». Ci siamo sentiti persi: era grave, gravissimo. Abbiamo detto a Mattei di stare attento, di non viaggiare più in aereo. E quindi arrivò in Sicilia il giorno 26 ottobre. Eravamo terrorizzati. Io ho detto: «Presidente, non riparta questa sera per Milano. Venga con me, andiamo in campagna, mia moglie ha campagne vicino Palermo. Si riposi, non chiami neanche sua moglie. Un amico andrà a Roma e avviserà sua moglie, ma lo farà in modo privato: per un mese, “faccia finta di…”». Lui disse: «No, devo andare. Devo incontrarmi a Milano con l’onorevole Tremelloni questa sera e poi devo partire, devo fare il contratto con l’Algeria».Era un altro contratto molto osteggiato dagli angloamericani, ma soprattutto da Fanfani perché non voleva che Mattei portasse avanti una politica di rottura nei confronti delle Sette Sorelle (fu Mattei a definirle così, in verità all’inizio voleva dire “sorellastre” ma poi i giornalisti l’hanno modificato). E’ voluto partire lo stesso, Mattei. E quella sera l’aereo è caduto. In Italia abbiamo avuto una porcheria degna di nessun paese al mondo. Quando pubblicai “La grande sfida”, il procuratore Vincenzo Calia di Pavia, zona dove l’aereo è caduto, riaprì l’inchiesta perché la novità era il rapporto Mattei-Kennedy. Indagò con molta serietà, Calia. Ho avuto l’onore di collaborare da vicino con l’avanzamento inchiesta, e si accertò l’avvenuto sabotaggio. Si sono riesumati i corpi di Mattei e Bertuzzi, il pilota, e si sono trovate tracce di esplosivo: Compound 200, un esplosivo molto potente. Si è accertato che l’esplosivo era stato messo sotto i comandi del carrello, e si può fare attraverso il ruotino: si infila la carica con una calamita. La notte tra il 25 e il 26, l’aereo era stato portato dentro l’hangar militare della Nato (quello che vi dico è nell’inchiesta), ed è stato sabotato dai servizi: l’ho scritto. L’aereo, quando il pilota azionò la cloche per scendere, è andato in aria, è esploso.Ebbene, quest’inchiesta, che stava arrivando ai mandanti, già individuati (il magistrato stava acquisendo ulteriori elementi per le prove) è stata archiviata nel 2003. Dicono che Mattei non si sa perché è morto, alcuni dicono in un incidente: è una vergogna che una verità sia stata occultata. Se ammazzano un uomo non succede niente: un paese indegno. (Io ci ho perduto la moglie, nel luglio 2007: una macchina ci ha speronato e mia moglie è morta. Ebbene, chi ci ha speronato – che era ubriaco e drogato – sta passeggiando tranquillo, si diverte, va alle feste. Denunziato per omicidio colposo, ma non succederà niente!). Ritorniamo a Mattei. Archiviata l’inchiesta, io ho fatto un libro in 25 giorni, lavorando notte e giorno, che si chiama “Caso Mattei, un giallo Italiano”. Perché giallo italiano? Perché alla fine è stata gestito da italiani, da uomini per cui l’escalation di Mattei nella politica avrebbe dichiarato la fine politica o manageriale. E poi ho messo in evidenza, da una serie di documenti, un rapporto tra l’assassinio di Kennedy e quello di Mattei. A Catania c’era, quel giorno, Carlos Marcello, che è stato implicato nell’assassinio di Kennedy. Il tutto converge sull’oligarchia britannica – sulla Permidex, controspionaggio inglese.Siamo sempre lì: il centro del mondo nella finanza è Londra, e quindi Mattei ha messo in difficoltà gli inglesi. Kennedy lo stesso, perché ha rotto i rapporti con l’oligarchia britannica della politica a fini finanziari, e ha posto fine alla guerra in Corea senza interpellare gli inglesi. Non ci sono prove, ma c’è un legame comune. Quindi Mattei è stato ucciso, anche se tutti quelli che hanno scritto libri, come Bruno Vespa, dicono è caduto per un incidente aereo. Negli anni ‘90 è accaduto qualcosa di grave, ma i giornali italiani non hanno parlato di nulla perché fanno solo propaganda, poi alla fine le verità vengono negate. E’ successo questo: cade il Muro di Berlino, e il ministro Scotti avverte il capo del governo che manovre strane stavano avvenendo da parte di importanti banche d’affari contro l’economia italiana. Poi ribadisce: me lo ha detto Parisi. Mi ha detto pure che potrebbero avvenire stragi o uccisioni. Nel ‘92 avvenne la strage di Capaci, dove la mafia ha avuto solo un ruolo di supporto militare. Invece è una strage con gruppi di potere più o meno occulto, che prepararono una svolta economica e politica: «Vogliamo sedere in Parlamento, vogliamo governare». Allora l’Italia avvia la svendita dell’economia pubblica.Voglio parlare dell’Eni. Quando finì la guerra si avviò un dibattito tra i cattolici sociali e la sinistra italiana, guidata dai comunisti. Dovevano decidere quale struttura economica si doveva dare lo Stato italiano dopo il fascismo. I cattolici sociali hanno rifiutato il liberismo con una grande intuizione, perché il liberalismo penalizza le classi più deboli e spesso anche la vita della gente. Si creò un compromesso con lo Stato imprenditore che opera con le leggi del mercato in concorrenza, indirizzando in aree depresse anche l’economia privata. Viene privatizzato l’Eni, nel 1994 viene privatizzato l’Iri, altre aziende dello Stato nel campo delle telecomunicazioni. Alla fine di questo scempio, di questa carneficina, si sono divisi tutto. E nessuno ha mai parlato. Un pezzo alla sinistra, un pezzo alla destra: un’operazione scellerata di abbrutimento. L’unica denunzia viene fatta dal movimento civile americano di Lyndon LaRouche, ma Ciampi diventò presidente e tutto fu insabbiato. Tutto il patrimonio immobiliare dell’Eni, stimato in 100.000 miliardi, viene svenduto a un fondo Goldman Sachs. Stranamente, l’uomo che ha condotto questa operazione è stato Mario Draghi, che poi è diventato vicepresidente della Goldman. Non si può accettare, si tratta della logica più miserabile. Io l’ho denunziato, ma non è successo niente.Vorrei tornare su Enrico Mattei, di cui sono stato uno strettissimo collaboratore, per dire che in Italia è avvenuto qualcosa di orrendo, di sporco. Era stata fatta una inchiesta, quando l’aereo precipitò a Bascapè: un’inchiesta vergognosa, fatta da depistaggi e coperture della verità. Un’altra mezza inchiesta era stata subito chiusa. Nel 1994 ho pubblicato un libro con la Mondatori che si chiama “La grande sfida”, e sono riuscito avere documentazioni top secret dagli archivi della Jfk Library di Boston, dall’Eisenhower Library e, con mia sorpresa, ho scoperto che tra Mattei e Kennedy c’era una corrispondenza molto stretta. Dopo la crisi di Suez, quando Inghilterra e Francia erano state invitate dagli Stati Uniti a ritirarsi durante la Guerra di Suez, perché gli Usa temevano uno shock petrolifero, l’Italia avanzò la proposta di coprire un ruolo di nazione strategica, sul Mediterraneo, in sostituzione di Francia e Inghilterra. Kennedy era d’accordo, però bisognava dare stabilità politica al governo italiano, che cambiava ogni due mesi (c’era stata la crisi del governo Tambroni, che durò un mese e mezzo). Per dare stabilità politica bisognava scegliere un uomo e fare riforme. Kennedy esaminò tutti i possibili interlocutori italiani, e li scartò subito: via Fanfani, via Gronchi. E arrivò a Mattei: di lui, Kennedy era affascinato. E iniziarono delle trattative.
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Questi complottisti a orologeria, che poi votano la Casellati
«Complottisti a orologeria: pensano che la passi sempre liscia, chi opera nell’ombra a spese degli altri. Ma l’arresto di Sarkozy li smentisce nel modo più clamoroso». Un pensiero in controluce, quello che Gianfranco Carpeoro offre all’idomani della caduta dell’ex capo dell’Eliseo: «Un evento che, lo ammetto, mi ha fatto veramente godere», confida il saggista e simbologo, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”: «Sarkozy è un politico pessimo, il peggior esempio di voltagabbana: ha chiesto soldi a Gheddafi e poi lo ha fatto assassinare, ha bombardato la Libia senza l’ok dell’Onu e inoltre ha fatto parte della “Hathor Pentalpha”, superloggia implicata nel terrorismo, a cominciare dal maxi-attentato dell’11 Settembre». Eppure, lo scudo della “Hathor” (fondata dai Bush) non è valso a proteggerlo. «Prendano nota, certi cospirazionisti nostrani che ragionano da orologiai: nel mondo, persino in quello dorato di Sarkozy, c’è anche l’imprevisto, la rovina». Il che non significa che, spesso, il complottismo non abbia ragione: «Un uomo come Eugenio Cefis, il capo dell’Eni dopo Mattei, è morto serenamente nel suo letto, a Montecarlo. In tanti la fanno franca, a quei livelli, dopo aver gestito il massimo potere. Poi però ci sono anche quelli come Licio Gelli, che è pur sempre stato arrestato (in Svizzera) e a cui è stata confiscata la casa, lingotti d’oro compresi».In altre parole: esistono, eccome, le grandi piramidi di potere – ma non garantiscono sempre l’impunità. Vale per Sarkozy, ma anche per Gelli, «che pure era legatissimo al generale Giuseppe Santovito, capo supremo dei servizi segreti italiani», all’epoca della strategia della tensione. Spesso il complotto esiste, ma se i complottisti prendono lucciole per lanterne – sostiene Carpeoro – i veri autori della cospirazione restano al sicuro, lontano dai riflettori. «Per esempio: nessuno ha mai meditato sul nome della P2, dove l’iniziale sta per “propaganda”. Discende da un intento iniziale, originario, della massoneria: dare lustro all’associazione, raggruppando in una loggia i “fratelli” particolarmente benemeriti, da esibire: grandi scienziati, intellettuali, banchieri, sindacalisti (come Luciano Lama, che era massone)». Ma le cose poi non sono andate secondo i piani: e nei guai è finita la P2, una loggia coperta. «Che senso ha chiamare “propaganda” una cellula segreta? E perché contrassegnarla col numero 2?». Carpeoro s’è dato la seguente risposta: «C’era già allora un’entità supeirore – la Loggia P1 – e il suo capo era proprio Cefis». Esiste ancora, la P1? «Certo, e gestisce i piani alti del potere. Lo fa in modo indisturbato: tanti complottisti stanno ancora a parlare della P2, mentre la magistratura ormai dà la caccia alla P6. Ecco perché la P1 resta dov’è, senza che nessuno la disturbi».Un errore ottico frequente, sempre lo stesso: puntare il bersaglio apparente, mancando quello giusto. Si ripercuote ovunque, anche in politica, dove al posto di Paolo Romani viene eletta presidente del Senato – coi voti dei grillini, per motivi tattici – una personalità come quella di Maria Elisabetta Alberti Casellati, anche lei di Forza Italia, vicinissima al Cavaliere. «I 5 Stelle hanno bocciato la candidatura di Romani per una vecchia storia di poco conto: permise alla figlia di usare il suo telefono, a spese dello Stato. Ma un’altra figlia – quella della Casellati – fu piazzata dalla madre in un ministero», ricorda Carpeoro. All’epoca, aggiunge, i grillini protestarono: assunzione fatta senza un concorso e senza che la candidata avesse i titoli necessari. «Ora invece i 5 Stelle tacciono: perché?». Attenzione: «Prima ancora del giudizio del tribunale, Romani provvide a pagare il conto delle chiamate della figlia», ammettendo la colpa e risarcendo lo Stato. «Dunque, cari grillini, cos’è più grave: qualche telefonata a Copenaghen o lo stipendio che ogni mese paghiamo tuttora alla figlia della neopresidente del Senato?».«Complottisti a orologeria: pensano che la passi sempre liscia, chi opera nell’ombra a spese degli altri. Ma l’arresto di Sarkozy li smentisce nel modo più clamoroso». Un pensiero in controluce, quello che Gianfranco Carpeoro offre all’indomani della caduta dell’ex capo dell’Eliseo: «Un evento che, lo ammetto, mi ha fatto veramente godere», confida il saggista e simbologo, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”: «Sarkozy è un politico pessimo, il peggior esempio di voltagabbana: ha chiesto soldi a Gheddafi e poi lo ha fatto assassinare, ha bombardato la Libia senza l’ok dell’Onu e inoltre ha fatto parte della “Hathor Pentalpha”, superloggia implicata nel terrorismo, a cominciare dal maxi-attentato dell’11 Settembre». Eppure, lo scudo della “Hathor” (fondata dai Bush) non è valso a proteggerlo. «Prendano nota, certi cospirazionisti nostrani che ragionano da orologiai: nel mondo, persino in quello dorato di Sarkozy, c’è anche l’imprevisto, la rovina». Il che non significa che, spesso, il complottismo non abbia ragione: «Un uomo come Eugenio Cefis, il capo dell’Eni dopo Mattei, è morto serenamente nel suo letto, a Montecarlo. In tanti la fanno franca, a quei livelli, dopo aver gestito il massimo potere. Poi però ci sono anche quelli come Licio Gelli, che è pur sempre stato arrestato (in Svizzera) e a cui è stata confiscata la casa, lingotti d’oro compresi».
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“Repubblica” in declino? Però ha vinto: ha spento la sinistra
Volano stracci tra Eugenio Scalfari e Carlo De Benedetti, che forse vorrebbe liberarsi del giornale-partito nato nel 1976 «per traghettare la sinistra dall’ideologia sovietico-marxista a quella atlantico-liberale». Non è strano che saltino i nervi, scrive Federico Dezzani nella sua “breve storia, non ortodossa”, del secondo quotidiano italiano: “Repubblica” è scesa a poco più di 200.000 copie, contro le oltre 400.000 di appena sette anni fa, quando Ezio Mauro la schierò frontalmente nella battaglia contro Berlusconi. «Il crepuscolo della Seconda Repubblica avanza minaccioso e non è certo casuale che sia accompagnato dalla crisi del quotidiano che, senza dubbio, ha dominato questo periodo della storia italiana», scrive Dezzani nel suo blog. Nato «per affiancare “L’Unità”», quotidiano del Pci, «e sensibilizzare Botteghe Oscure sulle tematiche “liberali”», il giornale «cavalca nei primi anni ‘80 il caso P2, poi assiste l’assalto giudiziario che nel 1992-93 demolisce la Prima Repubblica», quindi «assume la funzione di mentore della sinistra post-comunista, traghettandola nella metamorfosi Pci-Pds-Ds-Pd», e infine «detta l’agenda al governo se la sinistra vince le elezioni», oppure «guida l’opposizione antiberlusconiana, se la sinistra le perde».
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Rino Gaetano fu assassinato, osava minacciare il potere
Era amico della figlia del medico personale di Licio Gelli: era lei la fonte di tante rivelazioni che poi sarebbero finite nelle sue canzoni, in un gioco tanto pericoloso da costargli la vita? Sono gli interrogativi che l’avvocato salernitano Bruno Mautone solleva, nel suo secondo libro sulla strana morte di Rino Gaetano, fino a chiedere alla magistratura romana di riaprire le indagini sulla scomparsa del cantante, morto nella capitale il 2 giugno 1981, a soli trent’anni di età, dopo esser stato investito da un camion. Impressionante l’elenco delle “stranezze” che Mautone riassume nel pamphlet, “Chi ha ucciso Rino Gaetano?”, edito da Revoluzione nel 2016. Davvero moltissimi i riferimenti, nelle canzoni di Gaetano, a episodi imbarazzanti della politica italiana. Desta scalpore, inoltre, l’infelice sorte di un grande amico del cantautore crotonese, altra possibile fonte di informazioni riservate: una morte-fotocopia (incidente stradale) altrettanto prematura. Il giovane, che lavorava presso consolati stranieri, fu sepolto al Verano accanto all’artista, ma poi disseppellito e trasferito in un altro cimitero. Curiosità: l’autore dello spostamento dei resti mortali, scrive il blog “Scomparsi”, ha una identità «che coincide con un personaggio storico dello spionaggio italiano, collegato addirittura al “Noto Servizio”».Si tratta di apparato riservato dello Stato «che compiva atti di intelligence in modo autonomo rispetto ai servizi istituzionali», prima il Sid e poi il Sismi e il Sisde, «spesso sfociando in atti illegali e gravissimi». Specialità inquietante del “Noto Servizio” «risultò essere, con atti sequestrati e acquisiti dalla magistratura, l’uccisione di persone ritenute “scomode” con incidenti stradali». Nel libro, Mautone ricostruisce le vistose anomalie dell’incidente che causò la morte di Gaetano, travolto da un camion e poi morto dissanguato, nella notte, a bordo di un’ambulanza militare, dopo che il ricovero fu rifiutato dal pronto soccorso di diversi ospedali. Una vicenda su cui inutilmente chiesero di fare luce, subito dopo, due senatori del Msi, Araldo di Crollalanza e Tommaso Mitrotti. Dal governo Forlani, un muro di silenzi e omissioni: il liberale Renato Altissimo, autore della risposta, non precisò l’ora dell’incidente sulla Nomentana, non disse chi allertò i soccorsi e come, né perché intervenne un’unica ambulanza nonostante fosse ferito anche il camionista coinvolto nell’incidente, esanime sull’asfalto, accanto all’artista intrappolato nella sua Volvo. Nella risposta di Altissimo, inoltre, «non si precisa perché l’unica ambulanza intervenuta fosse un mezzo poco attrezzato dei vigili del fuoco e perché Rino, una volta prelevato con una gravissima ferita cranica, venne condotto fatalmente in un ospedale privo del reparto di traumatologia cranica».Non si fanno neppure i nomi dei medici che avrebbero curato o cercato di curare il ferito in quelle condizioni, né si fa cenno ai presunti motivi che spinsero altri ospedali, pur allertati, a non approntare nessuna forma di soccorso. Non si dice nemmeno chi convocò il medico traumatologo, fatto accorrere al Policlinico, né il nome dello specialista e degli altri sanitari coinvolti. Tanta evidente vaghezza finisce per moltiplicare i sospetti: «Sin dai primi momenti, la morte prematura dell’artista calabrese suscitò interrogativi e dubbi». Oltre alla storia dell’amico impegnato in uffici diplomatici, che di lì a poco avrebbe seguito Rino Gaetano nel cimitero maggiore della capitale (per poi esservi rimosso), Mautone rimarca una clamorosa dichiarazione rilasciata da Rino dopo i trionfi sanremesi al giornalista Manuel Insolera: il festival della canzone viene paragonato in modo esplicito ad «un ordine massonico». In un articolo della “Stampa” di Torino, pubblicato il 3 giugno 1981 all’indomani della morte del cantante, si rileva come i testi di diverse canzoni facessero riferimento alle scabrose cronache della P2. A Mautone non sfugge che Rino Gatano è stato esplicitamente citato da Stefano Bisi, gran maestro del Grande Oriente d’Italia, nel suo discorso ufficiale di insediamento, il 6 aprile 2014, utilizzando un verso del cantante per sottolineare la necessità di concordia: «Vi ricordo che cosa cantava Rino Gaetano: “Chi nuota da solo affoga per tre”».«Una notizia di grande interesse – aggiunge il blog “Scomparsi” – è rappresentata da una stretta frequentazione di Rino: nel cerchio delle sue più care amiche si annovera la giornalista Elisabetta Ponti, figlia di un medico, Lionello Ponti, che risultò inserito nella lista della P2 ed era il sanitario di fiducia di Licio Gelli». Il libro di Mautone, poi, mette a fuoco i costanti, fittissimi riferimenti (cifrati) con cui Rino Gaetano alludeva, nelle sue canzoni, ai principali “eroi” dei tanti scandali italiani: la Berta di “Berta filava” non sarebbe una ragazza qualunque, ma l’America, che “filava con Mario, filava con Gino”, ovvero i ministri Mario Tanassi e Luigi Gui, accusati per lo scandalo Lockeed, legato all’acquisto di velivoli militari Hercules C-130. Lo stesso Gaetano, in un concerto in Puglia, dichiarò che il brano era «dedicato al mondo dei grossi politici ed altri enigmatici mondi». Ci sono passaggi apparentemente inspiegabili come “il rapido Taranto-Ancona”, dalla canzone “Mio fratello è figlio unico”: «Da deposizioni giudiziarie – ha spiegato lo stesso Mautone – è poi risultato che proprio quel treno era stato utilizzato, da servizi deviati, per il trasporto di esplosivi destinati alle stragi nelle piazze».Ancora: il Cazzaniga citato nella canzone “Nun te reggae più” dopo la sequenza “Dc-Dc-Dc-Dc” sarebbe, secondo Mutone, l’oscuro democristiano Vincenzo Cazzaniga, già manager della Esso e poi vicepresidente della holding super-massonica Bastogi, posta sotto il controllo di Giulio Andreotti ed Eugenio Cefis, e citata espressamente da Gaetano in un’intervista. Cazzaniga, sostiene Mautone, risultò essere un collaboratore dei servizi americani e, per conto degli Usa, finanziava segretamente la Dc in chiave anti-sinistra. Altri riferimenti «allarmati», disseminati in vari brani musicali, citano una “rosa” e un “pugnale Usa”, richiamando l’eversione nera (la “Rosa dei Venti”) e Gladio. Nella canzone “La zappa, il tridente, il rastrello” compare direttamente “una mansanda in via Condotti”, che – si scoprirà poi – ospitava il vertice della P2. Decisamente inquietante, poi, il brano “La ballata di Renzo”, inciso nel 1970 ma uscito soltanto nel 2009, postumo. Sembra l’anticipazione, profetica e millimetrica, della fine che attendeva l’artista. “Quando Renzo morì, io ero al bar”, cantava Rino. L’incidente, poi l’odissea in ambulanza: “S’andò al san Camillo, e lì non lo vollero per l’orario”. Altro ospedale: “S’andò al san Giovanni, e lì non lo accettarono per lo sciopero”. E quindi l’epilogo, con persino il sinistro riferimento cimiteriale: “Con l’alba, le prime luci, s’andò al Policlinico, ma lo respinsero perché mancava il vice capo. In alto c’era il sole, si disse che Renzo era morto. Ma neanche al cimitero c’era posto”.Era amico della figlia del medico personale di Licio Gelli: era lei la fonte di tante rivelazioni che poi sarebbero finite nelle sue canzoni, in un gioco tanto pericoloso da costargli la vita? Sono gli interrogativi che l’avvocato salernitano Bruno Mautone solleva, nel suo secondo libro sulla strana morte di Rino Gaetano, fino a chiedere alla magistratura romana di riaprire le indagini sulla scomparsa del cantante, morto nella capitale il 2 giugno 1981, a soli trent’anni di età, dopo esser stato investito da un camion. Impressionante l’elenco delle “stranezze” che Mautone riassume nel pamphlet, “Chi ha ucciso Rino Gaetano?”, edito da Revoluzione nel 2016. Davvero moltissimi i riferimenti, nelle canzoni di Gaetano, a episodi imbarazzanti della politica italiana. Desta scalpore, inoltre, l’infelice sorte di un grande amico del cantautore crotonese, altra possibile fonte di informazioni riservate: una morte-fotocopia (incidente stradale) altrettanto prematura. Il giovane, che lavorava presso consolati stranieri, fu sepolto al Verano accanto all’artista, ma poi disseppellito e trasferito in un altro cimitero. Curiosità: l’autore dello spostamento dei resti mortali, scrive il blog “Scomparsi”, ha una identità «che coincide con un personaggio storico dello spionaggio italiano, collegato addirittura al “Noto Servizio”».
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Massoni Nato, mafia, Gladio. E addio Falcone e Borsellino
Il vero motivo per cui sono stati uccisi Falcone e Borsellino? Le loro indagini sarebbero arrivate a stabilire gli elementi comuni, da un punto di vista finanziario, tra mafia americana e politica americana e tra mafia italiana e politica italiana. Nella consapevolezza che sarebbe stato ucciso, Falcone aveva affidato a Borsellino dei documenti. E non appena Borsellino ha dato dei segnali, facendo capire che li avrebbe utilizzati, è stato fatto fuori. I mandanti? Sono un complesso di attori e interessi, che io chiamo “sovragestione”. Mafia, massoneria, Gladio, Cia, Nato. La loggia Colosseum? Corrisponde a una logica, dell’immediato dopoguerra, di gestione dell’Italia da parte della Cia e della Nato. C’è stato un personaggio, che si chiamava Frank Gigliotti, entrato nella Cia prima della fine della guerra. Nella sua dimensione di italo-americano, venne mandato in Italia per fare in modo che il nostro paese avesse, nel dopoguerra, uno sviluppo politico e sociale massonico, del tipo previsto dalla “sovragestione”. Lui arriva e innanzitutto sovrintende allo sbarco degli americani in Sicilia facendo accorti con la mafia e con gli autonomisti siciliani, corrente Finocchiaro Aprile. Gigliotti nomina un plenipotenziario (Charles Fama, ndr), e lo munisce di un interprete particolare, un certo Vito Genovese, braccio destro di Lucky Luciano nella mafia italo-americana (una grande eccezione alla regola siciliana, perché Vito Genovese era napoletano).Insomma: Gigliotti impiega come interprete un mafioso, il plenipotenziario che gestisce, per conto degli americani, la Sicilia appena invasa. Dopodiché si sposta su Roma, dove si dovrebbero ricostituire le due massonerie soppresse dal fascismo, cioè il Grande Oriente d’Italia, massoneria anglosassone, e Piazza del Gesù, massoneria scozzese. Nel momento in cui avviene questa ricostituzione, Gigliotti – promettendo il riconoscimento americano al Grande Oriente d’Italia – si mette a sabotare Piazza del Gesù, dividendo i vari eredi di quella tradizione e mettendoli contro Raoul Palermi, che era il gran maestro. E fabbrica una “nuova” Piazza del Gesù, appositamente, scegliendo un altro personaggio molto discusso, il principe Giovanni Alliata di Montereale, che aveva preso in mano un ramo di Piazza del Gesù, presieduto in precedenza dal conte Pier Andrea Bellerio. A questo punto, Gigliotti fa unificare Alliata di Montereale con il Grande Oriente d’Italia, nel quale riconosce la massoneria unita, scavallando Palermi e tutti gli altri. Nel frattempo, organizza una serie di logge Nato, in Italia, obbligando il Grande Oriente a dar loro la copertura. Precisamente, costituisce a Verona la Verona American Lodge, a Livorno la Benjamin Franklin (che poi sarà trasferita a Pisa), a Bagnoli la Truman, a San Vito dei Normanni la J.J. McClellan. Poi prende tutto il personale americano dell’ambasciata Usa a Roma e gli fa costituire, fondandola personalmente, la loggia Colosseum di Roma.Tutte queste logge sovrintendono poi alla costituzione di un organismo che si chiama Gladio, Stay Behind. Tramite il suo fido, che si chiama Roberto Ascarelli, Gigliotti cura personalmente la formazione di Licio Gelli nel Goi, per poi mettergli in mano la gestione della P2, che avrebbe dovuto depistare l’attenzione dall’esistenza della P1, già ricostituita nel 1948, avendo come “venerabile” il vice di Enrico Mattei all’Eni, Eugenio Cefis. La loggia Colosseum è poi stata espulsa dal Goi dall’allora gran maestro Giuliano Di Bernardo, poco prima che questi lasciasse la guida del Grande Oriente, nel 1993; non so se poi la loggia Colosseum sia stata riaccolta nel Goi. Della loggia Benjamin Frankin ho parlato in occasione dei recenti attentati: è la loggia delle “porcherie” (lo sono anche le altre, che però in realtà, più che altro, sono essenzialmente strumenti della Nato per controllare il personale americano in Italia), mentre la Frankin ha avuto un altro ruolo. Attenzione: le scelte di questi nomi non sono mai casuali. Chi era Franklin? Un presidente Usa, certo. Ma anche uno scienziato: l’inventore del parafulmine. E quindi come si doveva chiamare, la loggia di copertura? Quello della copertura è un ruolo diverso da quello del depistaggio, che avviene dopo le cose sono successe; la copertura viene preparata prima che le cose accadano, quindi il depistaggio può essere una conseguenza della copertura.(Gianfranco Carpeoro, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti nella diretta web-radio “Border Nights” del 27 giugno 2017. Avvocato, già gran maestro della comunione massonica di Piazza del Gesù, saggista e romanziere, Carpeoro ha pubblicato nel 2016 il saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che denuncia l’esistenza in ambito euro-atlantico di un apparato di “sovragestione” del potere, che include elementi massonici dell’élite internazionale e settori dei servizi segreti, impiegati nella strategia della tensione che si traduce nell’attuale neo-terrorismo firmato Isis. Nel libro, Carpeoro segnala inoltre l’esistenza – mai dichiarata ufficialmente, né menzionata da nessun altro – della Loggia P1, di cui a P2 di Gelli, poi “sacrificata” quando non serviva più, rappresentava solo una sorta di succursale, costituita a scopo di depistaggio).Il vero motivo per cui sono stati uccisi Falcone e Borsellino? Le loro indagini sarebbero arrivate a stabilire gli elementi comuni, da un punto di vista finanziario, tra mafia americana e politica americana e tra mafia italiana e politica italiana. Nella consapevolezza che sarebbe stato ucciso, Falcone aveva affidato a Borsellino dei documenti. E non appena Borsellino ha dato dei segnali, facendo capire che li avrebbe utilizzati, è stato fatto fuori. I mandanti? Sono un complesso di attori e interessi, che io chiamo “sovragestione”. Mafia, massoneria, Gladio, Cia, Nato. La loggia Colosseum? Corrisponde a una logica, dell’immediato dopoguerra, di gestione dell’Italia da parte della Cia e della Nato. C’è stato un personaggio, che si chiamava Frank Gigliotti, entrato nella Cia prima della fine della guerra. Nella sua dimensione di italo-americano, venne mandato in Italia per fare in modo che il nostro paese avesse, nel dopoguerra, uno sviluppo politico e sociale massonico, del tipo previsto dalla “sovragestione”. Lui arriva e innanzitutto sovrintende allo sbarco degli americani in Sicilia facendo accorti con la mafia e con gli autonomisti siciliani, corrente Finocchiaro Aprile. Gigliotti nomina un plenipotenziario (Charles Fama, ndr), e lo munisce di un interprete particolare, un certo Vito Genovese, braccio destro di Lucky Luciano nella mafia italo-americana (una grande eccezione alla regola siciliana, perché Vito Genovese era napoletano).
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5 Stelle (e strisce), come la Lega: oggi Grillo, ieri Bossi
Ogni fase politica della Repubblica italiana è stata scandita da un partito “di protesta”, funzionale agli interessi dell’establishment atlantico: si comincia con L’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini per terminare col Movimento 5 Stelle di Gianroberto Casaleggio, passando per il Partito Radicale di Marco Pannella e la Lega Nord di Umberto Bossi. Fino alla recente svolta nazionalista, filorussa e anti-euro, il Carroccio è infatti stato uno dei tanti prodotti di Washington e Londra, schierato su posizioni “thatcheriane” ed europeiste. E’ la tesi di Federico Dezzani, analista geopolitico, impegnato in una ricostruzione “non convenzionale” della storia recente del nostro paese. Nei primi anni ‘90, ricorda, la Lega Nord avrebbe dovuto essere lo strumento per attuare un ambizioso disegno geopolitico: la frantumazione dello Stato unitario e la nascita di una confederazione di tre “macroregioni”, così da cancellare l’Italia come attore del Mar Mediterraneo. Questo, secondo Dezzani, il vero ruolo della Lega Nord durante Tangentopoli, a cominciare dalla figura, allora determinante, del suo ideologo, il professor Gianfranco Miglio.«Non si muove foglia che Washington non voglia: anche in Padania». In politica, sostiene Dezzani nel suo blog, ogni segmento della domanda deve essere coperto, come in ogni altro settore di mercato: l’offerta deve essere costantemente rinnovata e nuovi prodotti possono essere lanciati grazie a un’adeguata campagna pubblicitaria. Basta considerare i partiti alla stregua di ogni altro prodotto di consumo. «L’abilità di chi tira i fili della democrazia consiste nel rifornire gli scaffali dalla politica dei partiti giusti, al momento giusto: ad ogni tornata elettorale, i votanti acquisteranno i loro prodotti preferiti, con grande soddisfazione di chi controlla il grande supermercato della democrazia». Negli ultimi anni, va crescendo la “specialità” dei partiti di protesta. Ma la loro origine non è recente, ricorda Dezzani: «Risale agli albori della Repubblica Italiana, quando Washington e Londra foggiarono per l’Italia una singolare democrazia, dove la seconda forza politica del paese, il Pci, era esclusa “de iure” dal governo», ovviamente per ragioni geopolitiche (la sua contiguità con l’Urss, avversaria della Nato).«Per ovviare a questo opprimente immobilismo, che un po’ stona con le logiche del mercato», in 70 anni sono state immesse diverse sigle per intercettare il malcontento dell’elettorato e la domanda di cambiamento: «Si comincia, prima delle elezioni del 1948, con l’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini e si termina oggi con il Movimento 5 Stelle di Davide Casaleggio». Annota Dezzani: «Sia Giannini che Casaleggio sono, incidentalmente, inglesi da parte materna». Tra i due estremi, l’analista annovera anche il Partito Radicale di Marco Pannella, «che prestò non pochi servigi all’establishment atlantico: la campagna per le dimissioni del presidente Giovanni Leone, quella per l’aborto e il divorzio, i referendum del 1993 contro “la partitocrazia” e “lo Stato-Padrone”». E poi c’è anche il caso della Lega Nord, nata e cresciuta nei travagliati primi anni ‘90, nutrendosi dei voti in uscita dal Psi e soprattutto dalla Dc. Ma come? Anche il folkloristico Carroccio, i raduni di Pontida, il “dio Po” e il leggendario Alberto da Giussano, sarebbero un prodotto dell’establishment atlantico? Ebbene sì, scrive Dezzani: «È una verità che probabilmente spiazzerà molti leghisti della prima ora», ma è indispensabile per capire, ad esempio, «perché Umberto Bossi, padre-padrone della primigenia Lega Nord, contesti la recente svolta nazionalista, anti-euro e filorussa di Matteo Salvini».Salvini appare deciso a trasformare (con esiti incerti) il Carroccio nella versione italiana del Front National? Non a caso, il redivivo Bossi oggi gli si oppone, chiedendo un congresso. «Bruxelles è sempre stata ed è tuttora il faro di Umberto Bossi, sebbene il suo obiettivo fosse agganciarsi all’Unione Europea non attraverso l’Italia, ma tramite la “Padania”, in ossequio a quella “Europa della macroregioni” tanto cara all’establishment atlantico», sostiene Dezzani. Il progetto: «Smembrare gli Stati nazionali per sostituirli, al vertice, con un governo sovranazionale e, alla base, con una costellazione di cantoni, regioni e feudi: l’oligarchia libera di comandare indisturbata su 500 milioni di persone ed i paesani appagati delle loro effimere autonomie». La storia della Lega Nord, continua l’analista, è indissolubilmente legata al crollo del Pentapartito. Cioè alle manovre, iniziate con la firma del Trattato di Maastricht, per traghettare l’Italia verso la nascente Unione Europea a qualsiasi costo: vergognose privatizzazioni, saccheggi del risparmio privato, attentati terroristici e giustizialismo spiccio. «Studiare l’origine della Lega Nord significa quindi completare l’analisi dell’infamante biennio 1992-1993 che travolse la Prima Repubblica e forgiò la Seconda, dove Umberto Bossi ha giocato un ruolo di primo piano».La Lega Nord nasce ufficialmente nel febbraio del 1991, come federazione della Lega Lombarda, della Liga Veneta, di Piemont Autonomista e dell’Union Ligure: «Chi volesse indagare sul periodo proto-leghista, scoprirebbe quasi certamente che anche questi movimenti autonomisti nascono nel medesimo humus massonico-atlantista da cui germoglierà poi il Carroccio». La Liga Veneta, quella più radicata e “antica”, compie i primi passi presso l’istituto privato linguistico Bertrand Russell di Padova, dove nel 1978 è istituito un corso di storia, lingua e civiltà veneta. «Chi volesse scavare più indietro ancora – ipotizza Dezzani – potrebbe riallacciarsi alla lunga serie di attentati destabilizzanti, di matrice autonomista e secessionista, che colpiscono tra gli anni ‘50 e ‘60 il Nord-Est dove, è bene ricordarlo, la concentrazione delle forze armante angloamericane è più alta che in qualsiasi altra parte dell’Italia continentale», come nel caso della caserma Ederle di Vicenza e della base di Aviano, fuori Udine. «L’idea di superare le leghe su base “etnica” e di federarle in un’unica Lega allargata all’intero Nord, ribattezzato all’occorrenza come “Padania”, è comunque ufficialmente attribuita ad Umberto Bossi». Ma il “senatur” ne è stato l’unico padre o è stato “aiutato” da una regia più ampia, «sofisticata e altolocata», come quella che starebbe dietro ai 5 Stelle?«Diversi elementi fanno propendere per la seconda ipotesi», continua Dezzani, «declassando Umberto Bossi al ruolo di capo carismatico di facciata, di semplice tribuno e di arringatore: la stessa funzione, per intendersi, svolta da Beppe Grillo nel M5S». Siamo infatti nel febbraio 1991, il Muro di Berlino è crollato da due anni e l’Unione Sovietica collasserà entro pochi mesi: «L’oligarchia atlantica ha già stilato i suoi piani per il “Nuovo Ordine Mondiale” che, calati nella realtà italiana, significano l’abbattimento della Prima Repubblica, l’archiviazione della Dc e del Psi, lo smantellamento dell’economia mista e, se possibile, anche un nuovo assetto geopolitico per la penisola», da attuare attraverso i movimenti indipendentisti. Segnale importante: «L’accoglienza che la grande stampa anglosassone riserva al neonato Carroccio, simile a quella che il Movimento 5 Stelle riceverà a distanza di 15 anni, non lascia adito a dubbi circa l’interessamento che Londra e Washington nutrono per la neonata formazione nordista: il 4 ottobre 1991 il “Wall Street Journal” definisce la formazione di Umberto Bossi come “il più influente agente di cambiamento della scena politica italiana”».Poco dopo, nel gennaio 1992, il settimanale statunitense “Time” definisce Bossi come il leader più popolare e temuto della politica italiana. E il 28 marzo, il settimanale inglese “The Economist”, megafono della City, accomuna la Lega Nord al Partito Repubblicano di Ugo La Malfa, definendolo come «l’unico fattore di rinnovamento nel decadente panorama politico italiano». Sono le stesse settimane in cui Mario Chiesa, esponente socialista e presidente del Pio Albergo Trivulzio, è arrestato a Milano per aver intascato una bustarella: è il primo atto di quell’inchiesta giudiziaria, Mani Pulite, destinata a travolgere il Pentapartito e la Prima Repubblica. «Non c’è dubbio che la Lega Nord debba “completare”, nei piani angloamericani, l’inchiesta di Tangentopoli», sostiene Dezzani: «Il pool di Mani Pulite è incaricato di smantellare la Dc ed il Psi, mentre il Carroccio ha lo scopo di intercettare i voti in fuga dai vecchi partiti prossimi al collasso». E il trait d’union tra il palazzo di giustizia milanese e la Lega Nord, sempre secondo Dezzani, è fisicamente incarnato dal console americano Peter Semler, cioè il funzionario statunitense che, alla fine del 1991, un paio di mesi prima dell’arresto di Mario Chiesa, “incontra” Antonio Di Pietro nei suoi uffici per discutere delle imminenti inchieste giudiziarie. E’ lo stesso funzionario che, «quasi contemporaneamente, “incontra” i dirigenti della Lega Nord».In una recente intervista a “La Stampa”, Semler ammette di aver pranzato con due dirigenti leghisti il 1° gennaio 1992: «Quello che mi colpì di più era un ex poliziotto, ex militare. Giocammo al golf club di Milano e mi dissero: “Cambierà tutto”». Rileva Dezzani: «C’è da scommettere che non siano stati i due leader della Lega Nord ad avvertire il console americano che tutto sarebbe cambiato, bensì l’opposto». Il Carroccio, infatti, all’epoca «è parte integrante della manovra angloamericana per smantellare il Psi e la Dc», con la sua corrosiva e talvolta violenta retorica contro la partitocrazia della Prima Repubblica, lo Stato clientelare ed assistenzialista (indimenticabile il cappio sventolato nel 1993 a Montecitorio, per “appendervi” i politici corrotti). Ma perché mai, continua Dezzani, l’attacco è sferrato “su base regionale”, attraverso una formazione che inneggia alla Padania onesta e laboriosa, contro la Roma corrotta e la ladrona, sede di “un Parlamento infetto”? Ovvero: perché la stessa funzione non è assolta da un partito di protesta “nazionale”, come è oggi il Movimento 5 Stelle?«Compito della Lega Nord – riprende Dezzani, parlano al presente storico – è anche quello di attuare il piano geopolitico che l’establishment atlantico ha in serbo per l’Italia in questa drammatica fase della vita nazionale: passare dall’Italia unita all’unione, o confederazione, di tre macroregioni», ovvero la Repubblica del Nord (o Padania), una repubblica del Centro e una del Sud: «E’ il periodo, infatti, delle “stragi mafiose” e Cosa Nostra ed il Carroccio sembrano lavorare all’unisono (d’altronde, la regia a monte è comune) per ritagliarsi ognuno il proprio feudo, cannibalizzando lo Stato nazionale». Da qui, Dezzani mette in luce l’entrata in scena di una figura-chiave del leghismo delle origini, il personaggio politico che avrebbe dovuto essere “la mente” del processo di secessione della Repubblica dal Nord: Gianfranco Miglio, classe 1918 (scomparso poi nel 2001). Allievo del filosofo liberale Alessandro Passerin d’Entrèves (a lungo docente all’Università di Oxford e quella di Yale) e del giurista Giorgio Balladore Pallieri (primo giudice italiano alla Corte europea dei diritti dell’uomo).Docente all’Università Cattolica di Milano, teorizzatore del decisionismo, studioso del federalismo e ascoltato consulente in materia di riforme costituzionali, vero e proprio “giacobino di destra”, Gianfranco Miglio è un intellettuale molto gettonato dai politici e dagli alti manager della Prima Repubblica in cerca di consigli. Miglio comincia coll’assistere l’uomo più potente d’Italia, Eugenio Cefis: presidente dell’Eni dal 1967, dopo la morte di Enrico Mattei, fino al 1971, e poi numero uno della Montedison dal 1971 al 1977. Secondo Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, uscito nel 2016, Cefis è stato il capo della Loggia P1, vero dominus delle strategie coperte per la manipolazione occulta dell’Italia. Carpeoro la chiama “sovragestione”: un intreccio di poteri fortissimi eterodiretti dagli Usa, reti massoniche e servizi segreti deviati. Un livello di potere assai più alto e protetto di quello rappresentato dalla P2 di Gelli, che infatti all’occorrenza fu sacrificato sull’altare dell’opinione pubblica, a differenza del potentissimo Cefis, che è anche l’uomo-ombra di “Petrolio”, il romanzo incompiuto sulla fine di Mattei che forse è costato la vita a Pasolini. Tornando alla ricostruzione di Dezzani sulle mosse di Miglio: dopo aver collaborato con Cefis, l’ideologo della Padania ha fatto anche da consulente al primo ministro Bettino Craxi.Nei tumultuosi anni che seguono la caduta del Muro di Berlino – scrive Dezzani – il professor Miglio compie una spettacolare e singolare metamorfosi: nel giugno del 1989, constata la precarietà delle finanze pubbliche e del panorama politico italiani, suggerisce nientemeno che «sospendere le prove elettorali per un certo periodo, dar vita a un lungo Parlamento, bloccare il ricambio parlamentare, che so, per 8-10 anni», affidando quindi poteri speciali al Pentapartito per fronteggiare le emergenze. Dopo nemmeno due anni, Miglio è invece diventato “l’ideologo” della costituenda Lega Nord, nonché il più severo e spietato censore della partitocrazia, dello Stato parassitario e della deriva mafiosa del Meridione: «E’ difficile spiegare questo repentino cambiamento e il suo “affiancamento” a Umberto Bossi, se non come un’operazione studiata a tavolino, concepita da quegli “ambienti liberali ed anglofoni” che Miglio frequenta sin dalla gioventù».Gianfranco Miglio, annota Dezzani, è l’architetto di quelle riforme costituzionali che dovrebbero scardinare l’assetto geopolitico dell’Italia, servendosi della Lega Nord e di Umberto Bossi come semplici grimaldelli. Esisterebbero, secondo il professore, due Italie: una europea, da agganciare alla nascente Unione Europea, e una mediterranea, da abbandonare alla deriva verso il Levante e il Nord Africa. Lo Stato unitario ha fatto il suo tempo e sulle sue macerie bisogna edificare uno Stato federale, o meglio ancora confederale, costruito da tre entità separate: una Repubblica del Nord, una del Centro e una del Sud. Al governo centrale della neo-costituita Unione Italiana, spetterebbero soltanto la difesa e parte della politica estera. «Il disegno sottostante alle ricette di Miglio è chiaro: sfruttare l’inchiesta di Tangentopoli che sta sconquassando la politica, il crollo del Pentapartito, la strategia della tensione e l’emergenza finanziaria, per cancellare l’Italia unitaria come soggetto geopolitico. Un’Italia che, con Enrico Mattei, Aldo Moro e le politiche filo-arabe di Bettino Craxi e Giulio Andreotti, ha dimostrato di poter infastidire gli angloamericani nello strategico bacino mediterraneo».Le elezioni politiche del 5 aprile 1992 vedono la Lega Nord raccogliere una discreta percentuale dei voti in uscita dalla Dc e dal Psi: in Lombardia il Carroccio raccoglie il 23% delle preferenze, ad un solo punto dai democristiani, ma si ferma all’8,65% a scala nazionale, mentre le varie leghe del Sud non decollano. «Non è andata così bene, dovevamo essere determinanti», ammette Bossi, ben sapendo che la secessione del Nord dal resto d’Italia implicherebbe una forza elettorale che la Lega dimostra di non avere. Bottino elettorale: 55 deputati e 25 senatori. Sono abbastanza, «per portare a compimento la demolizione della Prima Repubblica e il rapido smantellamento dell’economia mista, come auspicato dai croceristi del Britannia». Ecco il punto, per Dezzani: «Non c’è una singola mossa del Carroccio, infatti, che si discosti dall’agenda che l’establishment atlantico ha in serbo per l’Italia: la Lega è decisiva per bloccare l’elezione di Giulio Andreotti al Quirinale, si schiera contro l’ipotesi di una presidenza del Consiglio affidata a Bettino Craxi, è favorevole ad un aggressivo piano di privatizzazioni».«Gli economisti di Bossi credono nella Thatcher», titola la “Repubblica”, riportando che la Lega vuole «privatizzare tutte le imprese di Stato, dall’Iri all’Eni, all’Efim. Senza risparmiare le banche pubbliche come Bnl, Comit, Credito italiano, San Paolo di Torino. Largo ai privati anche per le Ferrovie, l’Enel e le Poste». La Lega di Bossi, aggiunge Dezzani, è fautrice di un “liberismo spinto” contrapposto allo Stato-padrone, definito ovviamente come «parassitario, bizantino, romano-centrico, corrotto, ladrone». Non solo, il Carroccio «gioca di sponda con le “menti raffinatissime” che stanno attuando una spietata strategia di destabilizzazione per meglio saccheggiare i risparmi degli italiani e l’industria pubblica: mentre i servizi segreti “deviati” piazzano bombe in tutt’Italia e gli squali dell’alta finanza si accaniscono sui Btp, la Lega Nord getta altra benzina sul fuoco, incitando allo sciopero fiscale, sconsigliando di comprare i titoli di Stato, evocando la separazione del Sud mafioso dal resto dell’Italia, gridando all’imminente secessione della Padania».«Ma se la casa crolla, il Nord deve andarsene», è un sintomatico titolo della “Repubblica” del 31 dicembre 1992. Nell’articolo, il professor Miglio dipinge un futuro a tinte fosche per l’Italia. E pronostica un imminente, drammatico peggioramento della situazione economica, anticamera della secessione della Repubblica del Nord: «Se si arrivasse a non riuscire a controllare più niente, se non si riuscisse più ad avere i servizi, se la sicurezza e le garanzie crollassero, è evidente che ciascuno penserebbe a se stesso. Probabilmente anche il Sud se ne andrebbe per conto suo». Bingo: per Dezzani, «le parole dell’ideologo del Carroccio sono musica per chi, a Washington e Londra, lavora per tenere l’Italia in costante fibrillazione». Poco dopo, nel 1993, l’inchiesta di Mani Pulite ha sortito gli effetti sperati: Dc e Psi, che l’analista definisce «i vincitori morali della Guerra Fredda», sono stati spazzati via dal pool di Milano. «L’unico grande partito risparmiato dalle inchieste giudiziarie è stato il Pci, riverniciato ora come Pds, cui gli angloamericani contano di affidare il governo facendo affidamento sulla sua ricattabilità», dato che «nella Russia allo sfascio si comprano gli archivi del Kgb a prezzo di saldo».Se dalle successive elezioni uscisse un Nord saldamente in mano al Carroccio e un Centro-Sud in mano alla sinistra, «si concretizzerebbe lo scenario di una secessione “de facto” della Padania dal resto dell’Italia». Per la Lega Nord non che resta, a questo punto, che «ricevere la benedizione “ufficiale” da parte dell’establishment atlantico, dopo lunghi rapporti reconditi ed opachi». Così, il 18 ottobre 1993 una delegazione del Carroccio si reca in visita al quartier generale della Nato a Bruxelles. E il 23 ottobre è la volta degli Stati Uniti: una prima tappa a New York, per incontrare il milieu dell’alta finanza e di Wall Street, e una seconda tappa a Washington, dove sono in programma pranzi di lavoro con deputati e senatori repubblicani ed esponenti della National Italian American Foundation. Ma ecco che accade qualcosa di inatteso: «La “discesa in campo” di Silvio Berlusconi, annunciata nell’autunno del 1993, è un evento non previsto dall’establishment atlantico», che secondo Dezzani puntava sulla bipartizione Lega (Nord) e sinistra (Centro-Sud). In più, il Cavaliere vince: «La neonata Forza Italia si impone alle elezioni politiche del 27-28 marzo 1994, drenando buona parte dei voti in uscita dal Psi e dalla Dc e imponendosi come primo partito del Nord Italia».La Lega, ferma all’8% delle preferenze su scala nazionale, dimostra ancora di non avere una forza sufficiente per strappare la secessione della Padania e attuare gli ambiziosi cambiamenti costituzionali sognati da Gianfranco Miglio. Forte di 122 deputati e 59 senatori, il Carroccio dispone però di un manipolo di parlamentari sufficienti per staccare la spina al primo governo Berlusconi, di cui è entrata a far parte nella cornice del Popolo della Libertà. Per Dezzani, riemerge quindi la vera natura della Lega Nord «come strumento politico nelle mani di Londra e Washington». E quando Berlusconi, durante la conferenza mondiale dell’Onu contro la criminalità organizzata, riceve un invito a comparire dal pool di Milano, Umberto Bossi «completa l’operazione per disarcionare il Cavaliere, togliendogli la fiducia e avvallando il “ribaltone” che insedia l’ex-Bankitalia Lamberto Dini a Palazzo Chigi». Si marcia così rapidamente verso nuove elezioni, e «ancora una volta il Carroccio agisce in perfetta sintonia con l’establishment atlantico: scegliendo di correre da solo e di non rinnovare l’alleanza col Popolo della Libertà, spiana la strada ai governi di Romano Prodi e Massimo D’Alema: seguirà “il contributo straordinario per l’Europa”, la scandalosa privatizzazione della Telecom, “la marchant bank” di Palazzo Chigi, la liquidazione finale dell’Iri, il vergognoso cambio di 2.000 lire per ogni nuovo euro, l’avvallo alle operazioni militari della Nato contro la Serbia».E così, mentre «quel che rimane dell’economia mista è smantellato a prezzi di saldo e i risparmi degli italiani sono immolati sull’altare della moneta unica», Umberto Bossi continua a blaterare di secessione, di camice verdi, di milizie armate del Nord, di rivolta fiscale. Dezzani lo definisce «utile idiota manovrato dall’oligarchia atlantica». La Lega tornerà al governo solo dopo le elezioni del 2001, quando i giochi “europei” saranno ormai fatti. Morale: «Le vicende della Lega Nord, di Gianfranco Miglio e di Umberto Bossi sono legate a doppio filo alla nascita Seconda Repubblica, alla perdita di qualsiasi sovranità nazionale e all’avvento della moneta unica». Secondo Dezzani, il Senatùr ne è perfettamente cosciente. Intervistato recentemente dal “Corriere della Sera”, dichiara: «Se venisse giù l’euro, verrebbe giù tutto, una situazione che nessuno saprebbe gestire. Tra l’altro, pagheremmo di più le materie prime, cosa che per un paese di trasformazione come l’Italia sarebbe un disastro. Berlusconi parla di doppia moneta, il che è una presa per il culo. Ma non è che Berlusconi non sia in grado di capire le cose». Per Dezzani, «sono le ultime battute dell’ennesima “stampella del potere”», sia pure in camicia verde.Ogni fase politica della Repubblica italiana è stata scandita da un partito “di protesta”, funzionale agli interessi dell’establishment atlantico: si comincia con L’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini per terminare col Movimento 5 Stelle di Gianroberto Casaleggio, passando per il Partito Radicale di Marco Pannella e la Lega Nord di Umberto Bossi. Fino alla recente svolta nazionalista, filorussa e anti-euro, il Carroccio è infatti stato uno dei tanti prodotti di Washington e Londra, schierato su posizioni “thatcheriane” ed europeiste. E’ la tesi di Federico Dezzani, analista geopolitico, impegnato in una ricostruzione “non convenzionale” della storia recente del nostro paese. Nei primi anni ‘90, ricorda, la Lega Nord avrebbe dovuto essere lo strumento per attuare un ambizioso disegno geopolitico: la frantumazione dello Stato unitario e la nascita di una confederazione di tre “macroregioni”, così da cancellare l’Italia come attore del Mar Mediterraneo. Questo, secondo Dezzani, il vero ruolo della Lega Nord durante Tangentopoli, a cominciare dalla figura, allora determinante, del suo ideologo, il professor Gianfranco Miglio.
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Carpeoro: massoneria e terrorismo, attenti al 10 agosto
Dalla massoneria al terrorismo: per capire davvero cos’è accaduto in seno al massimo vertice mondiale nel corso degli ultimi decenni, con il “golpe” dell’élite finanziaria neo-feudale, fino al ricorso – ormai sistematico – alla strategia della tensione su scala internazionale, con le guerre asimmetriche e gli attentati stragistici, ufficialmente ricondotti a sigle come l’Isis. Eventi catastrofici e molto sanguinosi, tra i cui risvolti gli osservatori di formazione massonica possono facilmente riconoscere delle “firme” inequivocabili, ricavandole dai nomi dei luoghi, le date, i numeri collegati, i riferimenti simbolici e i richiami diretti a fatti storici collegabili. E’ un linguaggio di segni cifrati quello che permette di intuire che, dietro a molto terrorismo di oggi, operano “menti raffinatissime”, di formazione esoterica, che dispongono di interi settori dei servizi segreti, a valle dei quali agisce una docile manovalanza, inconsapevole e manipolata, oggi per lo più di matrice islamista-radicale. E’ la testi attorno alla quale si sviluppa il prossimo libro dell’avvocato Gianfranco Carpeoro, che avverte: proprio grazie alla profonda conoscenza del “modus operandi” altamente simbolico dei veri mandanti delle stragi, nel mirino potrebbero esserci Roma o Palermo, già il prossimo 10 agosto.«I terreni ipotizzabili di una azione neoterroristica, anche sotto il profilo simbolico proprio della “sovragestione”, oggi sono due: Roma, ovviamente, e la Sicilia, Palermo per esempio», scrive Carpeoro il 6 agosto sulla sua pagina Facebook. «E la data del 10 agosto, magari proprio collocata nella città di Palemo e forse già a partire da questo sinistro 2016, ma anche in seguito, potrebbe rivelarsi caratterizzata dal segno sanguinoso di Ecate», cioè della “dea della magia” nella tradizione religiosa greco-romana, ritenuta capace di viaggiare liberamente tra il mondo degli uomini, quello degli dei e il regno dei morti. Massone e profondo conoscitore dei sistemi simbologici, autore di romanzi come “Il volo del Pellicano” (Melchisedek) che ripercorre la ricerca mistico-simbologica dei Rosacroce, con la loro misteriosa “conoscenza parallela” e sempre velata (da Dante a Giorgione, da Cartesio a Newton) per tenerla al riparo degli abusi del potere, Carpeoro è uno degli alti esponenti della massoneria italiana – già gran maestro, 33esimo grado del rito scozzese – che di recente hanno intrapreso “esternazioni” a catena, per squarciare il velo su molti aspetti, ben poco edificanti, del milieu libero-muratorio degradatosi in struttura di potere.«Per la quinta volta – ha annunciato un paio di anni fa, nel corso di un incontro pubblico – ho rifiutato un incarico di consulenza propostomi dai servizi segreti italiani». Un altro autorevole osservatore privilegiato, Fausto Carotenuto, ha operato per decenni in qualità di analista strategico dell’intelligence, e oggi – attraverso il network “Coscienze in Rete” – fornisce un prezioso contributo nel chiarire il ruolo attuale di molti servizi, in funzione della “piramide di potere” di stampo mondialista. Un’opera pienamente consonante con quella di un altro esponente della massoneria, Gioele Magaldi, autore del saggio “Massoni” (Chiarelettere), che ha apertamente denunciato l’esistenza di una galassia di 36 Ur-Lodges, cioè superlogge internazionali, pronte a fare uso di svariati sistemi di intelligence, come si evincerebbe dal “fatale” successo di tutte le operazioni terroristiche recentemente attuate sul suolo europeo, grazie alle “strane” inefficienze degli apparati di sicurezza. A questo quadro si aggiungerà ora il saggio di Carpeoro, “Dalla massoneria al terrorismo”, in uscita il prossimo ottobre per “rEvoluzioni Edizioni”, del gruppo Uno Editori, lo stesso di Mauro Biglino.«Oltre a qualche inedita chiarificazione storica e concettuale sulla Libera Muratoria – anticipa l’autore – spiegherò come alcune logge massoniche sono divenute deviate e come, con i servizi segreti, vogliono controllare il mondo». Carpeoro aggiungerà «qualche spiegazione sulla P2, ma anche sulla P1», e quindi «i collegamenti tra massoneria autocratica e terrorismo». In altre parole, aggiunge: «spiegherò cosa sia la “sovragestione”». L’editore stesso conferma che, in 220 pagine, il libro offrirà «uno sguardo dall’interno nel mondo della massoneria, così pieno attualmente di contraddizioni». Dalla antica sacralizzazione del lavoro (la ritualizzazione del costruire) alla nascita della dei riti massonici, ovvero «quello che pochi sanno della dottrina massonica, fin dalle sue radici mitiche e filosofiche». Poi i veleni, cioè «l’incesto col potere, fin dalle ambiguità dei Neoilluminati, invano combattuto da George Washington». Il libro ripercorre «l’incubo del Nwo», il nuovo ordine mondiale, nonché «la definitiva mutazione genetica del sogno e delle utopie dei Rosa+Croce».Ed eccoci precipitati nel fosco scenario recente, con il primo piano «il fenomeno della massoneria reazionaria, che trasforma le logge in focolai di eversione per inaugurare una storia di sangue e di distruzione», di cui Carpeoro individua con precisione «la radice massonica e le firme occulte del terrorismo islamico». Spesso, in Italia, la parola massoneria richiama alla mente la loggia P2. Ma quella, sostiene l’autore, era solo uno «specchietto per le allodole», affidato alla «marionetta Gelli», senza che nessuno si sia mai chiesto: se c’è stata una P2, esiste dunque una P1 mai venuta allo scoperto? Si suppone di sì, ovviamente: nei mesi scorsi, lo stesso Carpeoro ne ha fatto esplicito riferimento, nel corso di trasmissioni web-radio come “Border Nights”, facendo nomi come quello di Eugenio Cefis, già patron dell’Eni dopo l’attentato di Bascapè costato la vita a Enrico Mattei. Esiste dunque una struttura-ombra deputata alla “sovragestione” degli eventi, pilotando servizi e tagliagole per allestire il “terrore permanente” destinato, in ultima analisi, a radere al suolo i diritti democratici? L’allarme è serio, dichiara Gioele Magaldi, sostenendo che la strage di Nizza contenga una minaccia esplicita rivolta all’Italia. Carpeoro restringe il campo a Roma o Palermo, e anticipa la data del 10 agosto. Forse già di quest’anno.Dalla massoneria al terrorismo: per capire davvero cos’è accaduto in seno al massimo vertice mondiale nel corso degli ultimi decenni, con il “golpe” dell’élite finanziaria neo-feudale, fino al ricorso – ormai sistematico – alla strategia della tensione su scala internazionale, con le guerre asimmetriche e gli attentati stragistici, ufficialmente ricondotti a sigle come l’Isis. Eventi catastrofici e molto sanguinosi, tra i cui risvolti gli osservatori di formazione massonica possono facilmente riconoscere delle “firme” inequivocabili, ricavandole dai nomi dei luoghi, le date, i numeri collegati, i riferimenti simbolici e i richiami diretti a fatti storici collegabili. E’ un linguaggio di segni cifrati quello che permette di intuire che, dietro a molto terrorismo di oggi, operano “menti raffinatissime”, di formazione esoterica, che dispongono di interi settori dei servizi segreti, a valle dei quali agisce una docile manovalanza, inconsapevole e manipolata, oggi per lo più di matrice islamista-radicale. E’ la testi attorno alla quale si sviluppa il prossimo libro dell’avvocato Gianfranco Carpeoro, che avverte: proprio grazie alla profonda conoscenza del “modus operandi” altamente simbolico dei veri mandanti delle stragi, nel mirino potrebbero esserci Roma o Palermo, già il prossimo 10 agosto.
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L’ambigua grandezza di Pannella, rottamatore neoliberista
Più ombre che luci nella grandezza politica di Marco Pannella, protagonista indiscutibile del settantennio repubblicano. «Il personaggio ha meriti, e non piccoli», premette Aldo Giannuli, «come le battaglia per il divorzio, per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza al servizio militare, e più in generale per i diritti civili, per la legalizzazione della cannabis, la denuncia della degenerazione partitocratica, di cui gli va dato atto lealmente». Ma attenzione: Pannella «ha avuto anche colpe somme come il sostegno all’ondata neoliberista, la banalizzazione della politica ridotta a celebrazione del leader (di cui fu il primo assertore) e a virtuosismo comunicativo privo di reali contenuti». E poi «l’allineamento servile agli Usa, le disgustose giravolte fra centrosinistra e centrodestra, sempre alla ricerca di spazi istituzionali», senza contare «le ambiguità sul terreno della lotta alla mafia, dove spesso il garantismo sfociava in una sorta di para-fiancheggiamento». Secondo il politologo dell’ateneo milanese, Pannella «ha espresso una visione della democrazia come competizione fra ristrette élites, sostenute da branchi di acritici attivisti».Nel leader radicale, Giannuli vede «un sostanziale rifiuto della dimensione strategica della politica, surrogata dalla totale delega all’estro momentaneo del leader (massima negazione del principio di democrazia, tanto diretta quanto rappresentativa) e dalla sua abilità nel manipolare le folle». Soprattutto, Pannella «ha colpe imperdonabili sul piano dell’involuzione costituzionale del paese: a lui (e a Occhetto e Segni) dobbiamo il colpo di Stato del 1993, quando la fine del sistema elettorale proporzionale ha aperto la strada allo sventramento della Costituzione e, paradossalmente alla definitiva deriva oligarchica del regime: il Parlamento dei nominati ha la sua premessa logica nella battaglia pannelliana per il maggioritario uninominale». Con questo, Pannella «è stato l’alfiere di un ceto politico senza qualità, l’élite senza merito». E la “questione morale”? «Fu un gran fustigatore dei costumi, durissimo accusatore delle greppie di regime, ma la sua battaglia contro i fondi neri dell’Eni, a metà anni Sessanta, ebbe come sbocco la costituzione della Radoil, titolare di due pompe di benzina generosamente concesse da Cefis e che a lungo provvidero alla sopravvivenza del Pr e sua personale».Quale sia il giudizio che se ne voglia dare, continua Giannuli sul suo blog, Pannella ha attraversato gran parte della storia della Repubblica, con una stagione di notevole fortuna fra gli ultimissimi anni ‘60 e i primi ‘90. «Un ventennio in cui esercitò un ruolo politico il cui peso fu sempre superiore alle magre percentuali elettorali che raccoglieva: e che mai raggiunsero il 4%, con l’eccezione unica ed effimera delle europee 1999». Secondo Giannuli, «molto di quel che è diventato questo paese oggi, nel bene, ma più ancora nella degenerazione e nella decadenza, è dovuto a Pannella: l’Italia è diventata, in parte per la sua opera, un paese più laico, più moderno, ma anche più cinico, più “americanizzato”, più oligarchico, meno industriale e più povero, diciamolo: più squallido». Gli eredi? Personaggi della statura di Rutelli, Giachetti, Della Vedova, Elio Vito. «Un esame storico puntuale e documentato richiederebbe molte pagine», conclude Giannuli. «Si impone un giudizio equilibrato, che rimandiamo a meno frettolosa occasione. Qui ci basta un giudizio breve e sintetico che vede le ombre prevalere sulle luci».Più ombre che luci nella grandezza politica di Marco Pannella, protagonista indiscutibile del settantennio repubblicano. «Il personaggio ha meriti, e non piccoli», premette Aldo Giannuli, «come le battaglia per il divorzio, per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza al servizio militare, e più in generale per i diritti civili, per la legalizzazione della cannabis, la denuncia della degenerazione partitocratica, di cui gli va dato atto lealmente». Ma attenzione: Pannella «ha avuto anche colpe somme come il sostegno all’ondata neoliberista, la banalizzazione della politica ridotta a celebrazione del leader (di cui fu il primo assertore) e a virtuosismo comunicativo privo di reali contenuti». E poi «l’allineamento servile agli Usa, le disgustose giravolte fra centrosinistra e centrodestra, sempre alla ricerca di spazi istituzionali», senza contare «le ambiguità sul terreno della lotta alla mafia, dove spesso il garantismo sfociava in una sorta di para-fiancheggiamento». Secondo il politologo dell’ateneo milanese, Pannella «ha espresso una visione della democrazia come competizione fra ristrette élites, sostenute da branchi di acritici attivisti».
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L’orgia cannibale è realtà, Pasolini non doveva svelarla
Tu chiamalo, se vuoi, movente esoterico. Nasce dalla chiave di lettura “simbolica” dell’evento, quella che fa caso a dettagli in apparenza insignificanti, senza valore per la verità giudiziaria. In base a questa analisi, Pasolini sarebbe stato assassinato con le modalità del sacrificio rituale, in base alla “pena del contrappasso” enunciata da Dante Alighieri, per due ragioni sostanziali. La prima: aveva denunciato la subdola ferocia del potere mettendo alla berlina col romanzo “Petrolio” i mandanti dell’omicidio Mattei. E soprattutto, attraverso le atroci sequenze del suo ultimo film, “Salò”, ispirato al romanzo del marchese De Sade “Le 120 giornate di Sodoma”, aveva osato mettere in scena l’abominio di perversioni sessuali violente, fino alla morte delle giovani vittime, perpetrato da una super-casta annidata tra i massimi vertici. Non un incubo o una fantasia terribile, ma l’agghiacciante rappresentazione di una realtà indicibile, sostiene Stefania Nicoletti. Per questo Pasolini è stato ucciso, e in quel modo: con “Salò”, film strettamente collegato all’omicidio (le pellicole rubate), aveva denunciato una pratica selvaggia, di spaventosa brutalità, tragicamente ordinaria in alcuni ambienti insospettabili.Stefania Nicoletti collabora da anni con l’avvocato Paolo Franceschetti, già legale delle “Bestie di Satana” e indagatore dei più controversi casi di cronaca, da Cogne al Mostro di Firenze. La tesi è suffragata da osservazioni inconsuete: molti delitti di cui parlano i media sono fatti di sangue solo in apparenza inspiegabili; in realtà si tratta di veri e propri “sacrifici umani”, compiuti da esoteristi che agiscono al riparo di potentissime protezioni, anche istituzionali. Quello che viene esibito – le indagini inconcludenti, il capro espiatorio socialmente fragile – non è che un copione per depistare l’opinione pubblica. La verità, ripete Franceschetti, è che ogni anno, in Italia, spariscono centinaia di minori. «Dove finiscono? Molti loro nel gorgo del traffico di organi, e altrettanti – appunto – nella potentissima rete dei pedofili: gente che arriva a pagare cifre folli per gli “snuff movie”, i film dove la giovane vittima viene violentata e seviziata fino alla sua morte», come appunto nel film di Pasolini. Ed ecco allora l’altro movente, quello occulto, che si salda con la volontà di eliminare e “punire” una voce troppo coraggiosa, lo scrittore che in “Petrolio” (uscito postumo) accusò Eugenio Cefis per la morte di Mattei, il “padre” dell’Eni temutissimo alle Sette Sorelle in quanto filo-arabo.«Spesso il movente del delitto di un personaggio scomodo non è uno solo, ma sono più moventi insieme, che non si escludono a vicenda ma anzi sono complementari, come sono complementari gli interessi e le entità che vogliono la morte di un determinato personaggio inviso al sistema», scrive Stefania Nicoletti sul blog di Franceschetti. E’ il caso, appunto, di Pasolini, sul quale si è scritto di tutto, anche di recente. Nel 2009, ad esempio, è uscito per “Chiarelettere” il libro “Profondo nero” di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, che porta avanti la tesi Eni-Cefis-Mattei e che contiene anche un’intervista a Pino Pelosi, il “ragazzo di vita” che era con Pasolini quella tragica sera, il 2 novembre 1975, all’Idroscalo di Ostia (alla pista-Eni ha dato risalto, tra gli altri, anche il blog di Beppe Grillo). Nell’agosto 2012, continua la Nicoletti, è arrivata la sentenza della Corte d’assise di Palermo sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, ucciso nel 1970 perché stava indagando sulla morte di Mattei. Una sentenza, dunque, dopo 40 anni. De Mauro? Ucciso per paura che rivelasse i mandanti del sabotaggio dell’aereo di Mattei, precipitato a Bascapè sulle colline dell’Oltrepo Pavese.«La causa scatenante della decisione di procedere senza indugio al sequestro e all’uccisione di Mauro De Mauro – scrivono i giudici – fu costituita dal pericolo incombente che egli stesse per divulgare quanto aveva scoperto sulla natura dolosa delle cause dell’incidente aereo di Bascapè, violando un segreto fino ad allora rimasto impenetrabile e così mettendo a repentaglio l’impunità degli influenti personaggi che avevano ordito il complotto ai danni di Enrico Mattei, oltre a innescare una serie di effetti a catena di devastante impatto sugli equilibri politici e sull’immagine stessa delle istituzioni». Mauro De Mauro, aggiunge la Nicoletti, stava collaborando con il regista Francesco Rosi per il film “Il caso Mattei” e scomparve nel nulla poco prima dell’incontro previsto con Rosi. Cinque anni più tardi, Pier Paolo Pasolini stava indagando sulla stessa pista e aveva scoperto le stesse cose, venendo in possesso di documenti riservati su Eugenio Cefis. E fece la stessa fine di De Mauro.Nel dicembre 2013, poi, escono articoli di giornale che parlano di “svolta” nell’inchiesta per il delitto Pasolini. Dopo 38 anni, scrive Nicoletti, gli inquirenti si accorgono che forse c’è qualcosa che non va nella versione ufficiale e riaprono le indagini. La notizia è che ci sono dei sospetti sui complici di Pino Pelosi: nuovi elementi confermerebbero che a partecipare all’omicidio sarebbero state più persone. «Sono stati ascoltati 120 testimoni, di cui molti non erano mai stati sentiti in precedenza». In articoli come quelli pubblicati dal quotidiano “Il Tempo”, sottolinea la Nicoletti, viene rimarcato più volte che i testimoni sono proprio 120: numero ripetuto per ben tre volte nelle prime righe. «Quando lessi l’articolo, questo particolare mi suonò strano, perché avrebbero anche potuto scrivere “un centinaio” oppure “oltre cento testimoni”. Quel 120 così preciso – scrive la Nicoletti – mi ha ricordato il titolo “Salò o le 120 giornate di Sodoma”», il film “maledetto” che Pasolini aveva ultimato pochi giorni prima di essere ucciso. «È probabile che in questo articolo e nell’intera operazione sia celato qualche messaggio, dato che è proprio nel film in questione che si può trovare uno dei moventi dell’omicidio». In “Salò”, aggiunge Nicoletti, «Pasolini aveva raccontato ciò che accade all’interno delle organizzazioni che detengono il potere».Nello stesso articolo del “Tempo” si parla di «reperti esaminati in passato e ora recuperati dagli investigatori, per avviare nuove analisi utilizzando tecniche scientifiche che precedentemente non esistevano». Di quali reperti si tratta? «Risulta che all’epoca dei fatti venne cancellato o manomesso tutto ciò che poteva essere utile alle indagini: non venne recintato il luogo del delitto, le prove e le tracce vennero cancellate, l’auto di Pasolini venne lasciata incustodita, in modo che chiunque avrebbero potuto mettere o togliere indizi». Dunque, conclude l’analista, «non si capisce quali “reperti” siano ancora validi e possano essere analizzati scientificamente». Un anno dopo, nel dicembre 2014, si parla ancora di “svolta” nelle indagini: le analisi del Dna sugli abiti di Pasolini rilevano tracce di altre 5 persone. Dalle macchie di sangue è stato estratto il codice genetico di altri possibili sospettati, complici quindi di Pelosi. Ma due mesi dopo, nel febbraio 2015, arriva subito un’altra notizia: il test del Dna non risolve il caso, perché il materiale biologico “non è attribuibile”, né collocabile temporalmente.«I magistrati hanno consegnato al gip la richiesta di archiviazione. E dunque l’inchiesta sul delitto Pasolini, riaperta nel 2010, dopo tutti questi annunci di presunte “svolte”, viene di nuovo archiviata». Ma nel 2014, quando l’inchiesta è ancora aperta, Pino Pelosi continua a fare dichiarazioni e viene convocato dalla Procura di Roma per essere interrogato di nuovo. Queste sono alcune delle sue affermazioni: «Quella notte all’Idroscalo c’erano tre automobili, una motocicletta e almeno sei persone, ma non sono in grado di dire chi fossero. Oltre all’Alfa Gt di Pasolini, c’era una Fiat 1300 e un’altra Alfa identica a quella di Pier Paolo. Era buio pesto e ho visto arrivare sul posto due automobili e una motocicletta. C’erano almeno sei persone, e due individui hanno trascinato Pier Paolo fuori dall’abitacolo. In un primo momento sono riuscito ad allontanarmi, fuggendo. Da dove mi trovavo sentivo Pier Paolo gridare e chiedere aiuto, ma nulla di più. Sotto al tappetino dell’automobile di Pier Paolo, c’erano 3 o 4 milioni di lire. Denaro che non venne ritrovato insieme alla vettura». In più, «l’esame del radiale dell’Alfa di Pasolini, che avrebbe dovuto investirlo e schiacciarlo quando era già a terra, uccidendolo, non è stato mai effettuato».Il pm Francesco Minisci gli domanda di chiarire alcuni aspetti relativi al possesso – all’epoca dei fatti – di una Fiat 850 Coupé. Automobile che, a detta di un testimone, sarebbe stata rubata e poi fatta circolare con targhe “buone”. E Pelosi risponde: «Dovrebbero andare a bussare alla porta della cugina di Pasolini, Graziella Chiarcossi, che denunciò il furto della macchina del regista, poi ritrovata a Fiumicino, e a quella di Ninetto Davoli che, a distanza di anni dai tragici eventi, fece distruggere l’Alfa Gt del regista». In effetti l’auto di Pasolini è stata demolita da Davoli nel 1987, come risulta anche alla motorizzazione di Roma. «Queste di Pelosi sono dichiarazioni importanti, che andrebbero quantomeno approfondite», annota Nicoletti. «Ma l’inchiesta, come abbiamo già visto, è stata archiviata». Intanto, nel settembre 2014, esce il tanto atteso film “Pasolini” di Abel Ferrara, pubblicizzato come “film verità” sull’ultimo giorno di vita e sull’omicidio, con promesse di rivelazioni clamorose. Il regista americano dichiara alla stampa di conoscere la verità sul delitto Pasolini e di rivelare il vero autore dell’omicidio, con tanto di nome e cognome. «Promesse assolutamente disattese: infatti nel film non solo non viene fatto il nome del vero assassino, ma viene messa in atto una vera e propria azione di depistaggio».Nelle scene finali viene ricostruita la notte dell’omicidio, continua Nicoletti: «Secondo Abel Ferrara, a uccidere Pasolini non è stato Pelosi – e fin qui va bene – ma un gruppo di sbandati che lo ammazzano perché è ricco e vogliono derubarlo, e perché è omosessuale. Per tutta la sua durata, il film fa credere di voler dare un’ipotesi alternativa sulla dinamica dell’omicidio e sugli esecutori, citando anche brani del romanzo “Petrolio”. Si arriva alla fine del film con tante attese e speranze… E in effetti l’ipotesi alternativa viene data, ma essa è ancora più depistante di quella ufficiale». Esiste invece un altro film, pronto già nel 2012 ma che non è mai riuscito a trovare una distribuzione. Si intitola “Pasolini, la verità nascosta” e il regista è Federico Bruno, che ha ricostruito l’ultimo anno di vita di Pasolini: la stesura del libro “Petrolio” e i capitoli mancanti sull’Eni e sul delitto Mattei, la preparazione del film “Salò” e il furto delle bobine (i negativi), le ultime interviste alla tv francese e a Furio Colombo. «Il film smentisce la tesi ufficiale, portando nuove inedite informazioni. E lo fa davvero, non come quello di Ferrara. Per questo motivo, il film di Federico Bruno è stato boicottato e non distribuito in Italia, rifiutato da tutti, anche dai parenti di Pasolini; mentre invece il film depistante di Abel Ferrara è stato finanziato dallo Stato, appoggiato dagli eredi di Pasolini, e persino presentato in concorso al 71° Festival del Cinema di Venezia».Negli ultimi mesi, continua Stefania Nicoletti, è stato annunciato un altro film, che uscirà a febbraio 2016: “La macchinazione” di David Grieco, amico e collaboratore di Pasolini, e anche autore della memoria civile al processo Pelosi. Il film racconterà gli ultimi tre mesi di vita di Pasolini. «In alcune interviste, Grieco afferma che Pasolini è stato ucciso dall’organizzazione che ha compiuto tutte le stragi italiane (che lo stesso Pasolini aveva denunciato nel suo celebre “Io so” e in altri articoli) e messo in atto la strategia della tensione, servendosi di uomini dei servizi segreti e di Gladio». Lo dichiara apertamente, Grieco, intervistato dal “Piccolo” di Trieste: «Pasolini è stato ammazzato da quelli che hanno fatto tutto quello che è stato fatto dal ’69 in poi in questo paese: le stragi, la strategia della tensione, gli omicidi politici, le bombe sui treni, la stazione di Bologna, piazza della Loggia, eccetera. L’organizzazione era molto vasta e quindi non parlo materialmente delle stesse persone. È un’organizzazione che nasce all’alba della Liberazione, quando gli americani arrivano in Italia, l’esercito tedesco è in rotta e loro già stanno pensando a come fronteggiare il nemico sovietico».«Si crea uno Stay Behind che in Italia si chiama Gladio, organizzazione clandestina ma fino a un certo punto perchè in America è pienamente nota ed è presente in tutti i rapporti della Cia al congresso americano», continua Grieco, che spiega che Gladio «serve a fare qualsiasi cosa purché il comunismo non si espanda e non prenda piede nella parte occidentale o meridionale d’Europa. Qualunque mezzo è lecito». Leggendo queste dichiarazioni, Stefania Nicoletti si domanda: «Come mai David Grieco, amico storico di Pasolini, parla pubblicamente solo adesso? Come mai non l’ha detto prima, anziché aspettare 40 anni? Forse è il segno che “qualcuno” ha deciso che certe verità devono emergere in questo momento storico». Oltre al film che sta realizzando, Grieco ha pubblicato anche un libro: “La macchinazione. Pasolini, la verità sulla morte”, uscito da poche settimane, edito da Rizzoli. Grieco fu tra i primi a raggiungere il luogo in cui fu trovato il corpo senza vita di Pasolini, insieme al medico legale Faustino Durante, anche se «risultava che sul luogo del delitto non fosse mai stato convocato un medico legale». Inoltre, Grieco è stato il compagno di Bruna Durante, figlia del medico legale.Se l’infinita odissea processuale – proprio come quelle delle stragi e dei casi di cronaca “irrisolti” – naufraga in un mare di ombre, sospetti, menzogne e depistaggi, Stefania Nicoletti si concentra sul profilo “simbolico” della vicenda, sempre trascurato. «A mio parere – scrive – nella scelta del luogo e nella modalità dell’omicidio, è stata applicata più volte la legge del contrappasso». L’Idroscalo è un aeroporto (per gli idrovolanti), e Pasolini «aveva scoperto la verità sull’omicidio di Enrico Mattei, morto in un incidente aereo». Un “contrappasso per analogia”? «Anche nella messa in scena del movente sessuale possiamo trovare un contrappasso: l’hanno ammazzato nei luoghi degradati e negli ambienti violenti che aveva sempre descritto nelle sue opere. Le borgate, i ragazzi di vita, l’omosessualità. Da un lato era un ottimo modo per avere una rapida risoluzione del caso e per poi continuare ad infangarne la memoria, dall’altro fu un omicidio per analogia: ti facciamo morire come uno dei tuoi personaggi. Stessi luoghi, stesse persone, stesse modalità».Ancora cinema: alla fine del 2013 è stata annunciata la pubblicazione di una sceneggiatura risalente al 1959 e rimasta finora inedita, “La Nebbiosa”, in cui Pasolini aveva descritto un omicidio uguale al suo. La trama: un gruppo di teppisti sequestra un omosessuale, lo conduce in uno spiazzo deserto e lo picchia a sangue fino alla morte. I giornali parlano di “visione profetica”, scrivendo che Pasolini “sapeva come sarebbe morto” e che “ha anticipato lo scenario” del suo omicidio. «In realtà, non è che sapeva come sarebbe morto, e nemmeno ha anticipato o profetizzato la sua morte», puntualizza Stefania Nicoletti. «Invece è il contrario: l’hanno ucciso come il personaggio di questa sua opera inedita ora pubblicata. E anche qui possiamo quindi trovare la legge del contrappasso». Secondo la Nicoletti, «è la stessa operazione che fecero con Rino Gaetano e la sua canzone “La ballata di Renzo”», in cui il cantante descrisse la morte di un giovane rifiutato da più ospedali e morto dissanguato nella notte, come in effetti poi accadde all’autore di “Nun te reggae più”. «Anche nel caso di Rino Gaetano si disse che aveva profetizzato la sua morte molti anni prima, quando invece fu il contrario: lo uccisero come in quella sua canzone».Sulla storia descritta ne “La Nebbiosa”, il quotidiano “Libero” scrive: «L’alba è vicina e i ragazzi caricano in macchina un omosessuale, lo portano in uno spiazzo isolato, lo spogliano e lo massacrano a sangue. Una scena che sconvolge perché ricorda molto da vicino proprio le modalità con cui Pasolini verrà ucciso nel 1975 al Lido di Ostia. Talmente da vicino che, se stessimo scrivendo un giallo e non un articolo, potremmo ipotizzare che chi ha ucciso Pasolini avesse letto il copione e avesse tutto l’interesse a farlo scomparire. Quasi che “La Nebbiosa” potesse contenere quei segreti sulla morte dello scrittore che nemmeno la magistratura è mai riuscita del tutto a chiarire». Preveggenza, appunto, o piuttosto esecuzione progettata sulla base del copione narrato dalla stessa vittima? Per questo Stefania Nicoletti si concentra su “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, l’ultimo film di Pasolini, uscito postumo due mesi dopo la sua morte. Il regista terminò il montaggio proprio il giorno prima di essere ucciso. Film legato a doppio filo all’omicidio: non solo perché si conclude con una strage, ma perché finì direttamente nelle indagini a causa di materiale cinematografico rubato e poi utilizzato per condizionare il regista, forse addirittura per tendergli l’agguato mortale.E’ noto infatti l’episodio delle bobine di “Salò” rubate alla Technicolor: unico caso nella storia del cinema di furto di “pizze” con richiesta di riscatto (due miliardi di lire). Pasolini si rifiutò di pagare: disse al produttore che avrebbe ricavato un negativo da un positivo e che avrebbe fatto a meno degli originali. Poco dopo, continua Stefania Nicoletti, un personaggio oscuro della malavita romana – si dice che fosse un esponente della Banda della Magliana – andò dal regista Sergio Citti e gli disse di essere in possesso delle pellicole e di poterle restituire anche gratis se avesse organizzato un incontro con Pasolini. Fu lo stesso Citti, amico e collaboratore del regista, a raccontare l’episodio nel 2005, dichiarando anche di non essere mai stato chiamato a testimoniare (secondo il regista Federico Bruno, invece, Citti sarebbe stato ascoltato dagli inquirenti). Pasolini dapprima rifiutò l’incontro per la restituzione delle “pizze”, non fidandosi dell’ambiente da cui proveniva la proposta. Ma in un secondo momento accettò, convinto da Pino Pelosi, che conosceva da qualche mese. «Pelosi fece quindi da esca – consapevole o meno – alla trappola tesa per portare Pasolini a Ostia e ucciderlo».Il film “Salò” è ispirato al romanzo del marchese De Sade “Le 120 giornate di Sodoma”, ma Pasolini ne colloca l’ambientazione tra il 1944 e il 1945, nel Nord Italia occupato dai nazifascisti durante la Repubblica Sociale Italiana (da cui il titolo “Salò”). In una villa isolata, si riuniscono quattro rappresentanti del potere: il Duca, il Monsignore, l’Eccellenza (Giudice di Corte d’assise), e il Presidente (di una banca). I quattro Signori fanno rapire decine di ragazzi e ragazze, e nella villa infliggono loro ogni tipo di violenza e tortura psicologica, fisica e sessuale. Con il passare del tempo, i giovani perdono la dignità umana e si abbandonano al loro destino, consegnano il proprio corpo e la propria anima ai Signori. Giunti quasi al termine delle 120 giornate, in cerca di una violenza sempre più intensa, i Signori decidono di passare alla forma più estrema di “piacere”: quello assassino, uccidendo la maggior parte dei ragazzi. «È un film scioccante, crudele, terribile. Ma è più di un film… racconta la realtà. Una realtà che non si riferiva solo al periodo in cui è ambientato – afferma Stefania Nicoletti – ma che esisteva anche negli anni ’70 quando Pasolini ha scritto e girato il film, e che continua ad esistere anche oggi».Una realtà «fatta di abusi atroci, di torture sessuali, di delitti rituali commessi da coloro che detengono il potere, i cosiddetti “insospettabili”, professionisti e persone rispettabili, i vertici del Sistema». Ne parlò anche il blog di Franceschetti nel 2011, riportando «testimonianze di sopravvissuti a un sistema di abusi simili a quelli descritti da Pasolini». Nel film “Salò”, i quattro Signori «rappresentano i rami del potere: nobiliare, ecclesiastico, giudiziario, economico-bancario». Il vero potere. «Nel film i quattro potenti assoldano dei giovani repubblichini di leva e delle SS, e li incaricano di rapire i ragazzi e portarli alla villa. Le milizie nazifasciste rappresentano sia il potere militare (ma a livelli bassi: non sono generali o comunque ufficiali) sia quello politico, che è subordinato agli altri poteri: i quattro Signori si servono dei repubblichini per raggiungere i loro scopi». Il film è suddiviso in quattro parti, che richiamano nel titolo la geografia dantesca dell’Inferno: Antinferno, Girone delle Manie, Girone della Merda e Girone del Sangue. Chi conosce il blog di Franceschetti sa quanto siano importanti Dante e la Divina Commedia per le società segrete, sia quelle originarie (iniziatico-libertarie) che quelle più recenti e deviate: «Pasolini, che conosceva bene il sistema in cui viviamo, in questo film ha descritto proprio le organizzazioni massoniche ed esoteriche “nere” che compiono abusi e delitti rituali; e forse, con il richiamo all’Inferno, ha voluto darci un’ulteriore indicazione sulla natura di ciò che ha raccontato».Un altro particolare che Pasolini ha preso dalla realtà, continua Stefania Nicoletti, è la modalità del rapimento: «I giovani vengono scelti in base a determinate caratteristiche, e vengono strappati dalle proprie famiglie; ma talvolta sono invece i loro stessi familiari che li vendono». Inoltre prendono parte alle sevizie anche le figlie dei quattro super-potenti, trattate come schiave. Significativo anche il fatto che, secondo il regolamento della villa, “i più piccoli atti religiosi, da parte di qualunque soggetto, verranno puniti con la morte”. Nel film come nella realtà, infatti, «all’interno di queste organizzazioni occulte viene osteggiato qualunque tipo di religiosità o di spiritualità autentica, per lasciare spazio invece a quella deviata», scrive la Nicoletti. «Chi “tradisce” il regolamento viene ucciso, come la ragazza a cui nel film viene tagliata la gola davanti a un altare religioso, e il corpo viene mostrato a tutto il gruppo come monito». Molto eloquente il discorso che il Duca pronuncia quando “accoglie” le giovani vittime nella sua villa: «Deboli creature incatenate, destinate al nostro piacere, spero non vi siate illuse di trovare qui la ridicola libertà concessa dal mondo esterno. Siete fuori dai confini di ogni legalità. Nessuno sulla terra sa che voi siete qui. Per tutto quanto riguarda il mondo, voi siete già morti».Una logica che «esprime perfettamente quello che succede davvero all’interno delle organizzazioni di potenti che commettono abusi e delitti come quelli narrati». Nella sua ultima intervista televisiva, concessa a una tv francese il 31 ottobre 1975 (due giorni prima della morte), in occasione dell’uscita del film, Pasolini affermò: «Il cannibalismo? In certi ambienti è un fatto politico reale, in certi ambienti è un fatto politico metaforico». Insomma, a una lettura attenta e profonda, secondo Stefania Nicoletti «si può capire come Pasolini abbia usato l’espediente dell’ambientazione durante l’occupazione nazifascista per raccontare una realtà molto più grande e attuale». “Salò” illuminerebbe un vero e proprio inferno, retroterra di troppe sparizioni “inspiegabili”, delitti eccellenti, fatti di sangue che restano senza colpevoli. E sparizioni di centinaia di minori, in Italia e nel mondo, ogni anno. «Una realtà fatta di violenze e di abusi rituali, di delitti e di sacrifici umani. Una realtà che coinvolge i vertici del potere, ma che viene sistematicamente occultata. Qualcosa di molto pericoloso, che Pasolini non avrebbe dovuto raccontare e che ha pagato con la vita».Tu chiamalo, se vuoi, movente esoterico. Nasce dalla chiave di lettura “simbolica” dell’evento, quella che fa caso a dettagli in apparenza insignificanti, senza valore per la verità giudiziaria. In base a questa analisi, Pasolini sarebbe stato assassinato con le modalità del sacrificio rituale, in base alla “pena del contrappasso” enunciata da Dante Alighieri, per due ragioni sostanziali. La prima: aveva denunciato la subdola ferocia del potere mettendo alla berlina, col romanzo “Petrolio”, i mandanti dell’omicidio Mattei. E soprattutto, attraverso le atroci sequenze del suo ultimo film, “Salò”, ispirato al romanzo del marchese De Sade “Le 120 giornate di Sodoma”, aveva osato mettere in scena l’abominio di perversioni sessuali violente, fino alla morte delle giovani vittime, perpetrato da una super-casta annidata tra i massimi vertici. Non un incubo o una fantasia terribile, ma l’agghiacciante rappresentazione di una realtà indicibile, sostiene Stefania Nicoletti. Per questo Pasolini è stato ucciso, e in quel modo: con “Salò”, film strettamente collegato all’omicidio (le pellicole rubate), aveva denunciato una pratica selvaggia, di spaventosa brutalità, tragicamente ordinaria in alcuni ambienti insospettabili.
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Pasolini profetizzò gli orrori di oggi: chi l’ha ucciso?
Nell’aprile di quest’anno il Vaticano, che aveva a suo tempo perseguitato Pasolini e ne aveva appoggiato una condanna per blasfemia, ha definito il suo capolavoro, “Il Vangelo secondo San Matteo”, «il miglior film mai realizzato su Gesù Cristo». Questa espressione della fede radicale di Pasolini dipinge Gesù come un rivoluzionario “Messia rosso”, secondo la dottrina francescana della santa povertà, che ha una parziale influenza sull’attuale pontefice Francesco. Ma l’attenzione ossessiva per la sua morte è meno spiegabile: nel 2010 l’ex sindaco di Roma e leader del Partito Democratico di centro-sinistra Walter Veltroni chiese che il caso venisse riaperto sulla base di un insieme di strane circostanze convergenti e politicamente rilevanti. Pasolini venne ucciso il giorno dopo il suo ritorno da Stoccolma, dove aveva incontrato Ingmar Bergman e altri dell’avanguardia cinematografica svedese, e aveva rilasciato un’esplosiva intervista al settimanale “L’Espresso”, in cui aveva esplicitato il suo argomento preferito: «Ritengo che il consumismo sia una forma di fascismo peggiore delle versioni classiche».La visione di Pasolini di un nuovo totalitarismo, in cui l’ipermaterialismo distrugge la cultura italiana, può essere considerata un’acuta previsione di ciò che è avvenuto in tutto il mondo nell’era di Internet. Ma la sua critica era stata, per molti mesi prima dell’assassinio, più specifica. Aveva accusato la televisione di esercitare un’influenza estremamente pericolosa, prevedendo con grande anticipo l’emergere e la presa del potere di un soggetto come il magnate mediatico e primo ministro Silvio Berlusconi. Ancor più nello specifico, aveva scritto una serie di articoli per il “Corriere della Sera” di denuncia della dirigenza del partito al potere, la Democrazia Cristiana, come pervasa dall’influenza della mafia, prefigurando gli scandali della cosiddetta Tangentopoli di 15 anni dopo, quando un’intera classe politica venne messa agli arresti nei primi anni ’90. Nei suoi articoli, Pasolini affermava che la dirigenza democristiana doveva essere processata non solo per corruzione, ma per associazione con il terrorismo neofascista, come le bombe sui treni e i fatti di Milano.Un ulteriore elemento agghiacciante: quelli erano i cosiddetti “anni di piombo” in Italia, culminati nella bomba alla stazione di Bologna cinque anni dopo la morte di Pasolini, per mano di neofascisti in collaborazione coi servizi segreti, che uccise 82 persone. Io ero uno studente nella turbolenta Firenze del 1973, dove ritornai da allora ogni anno, e militante in un’organizzazione radicale chiamata Lotta Continua; e ricordo bene che il giornale “Lotta Continua” riceveva contributi da Pasolini, benché il suo rapporto con i movimenti radicali nati nel 1968 fosse ambiguo. Lui si identificava con i poliziotti contro gli studenti che manifestavano, perché, diceva, loro erano “figli dei poveri” attaccati dai borghesi “figli di papà”. Sta di fatto che al momento dell’omicidio nel 1975, le persone vicine a Pasolini videro la mano del potere dietro al suo assassinio. Non sarebbe stato il primo caso: eminenti personaggi della sinistra furono spesso aggrediti o uccisi; la femminista Franca Rame, che avrebbe sposato l’artista anarchico Dario Fo, venne rapita da neofascisti appoggiati dai carabinieri.Membri della famiglia di Pasolini, il giro dei suoi amici, e gli scrittori Oriana Fallaci e Enzo Siciliano evidenziarono possibili motivi politici per l’assassinio e fornirono prove che contraddicevano la confessione di Pelosi, come un maglione verde ritrovato nella macchina che non apparteneva né a Pasolini né a Pelosi, e un’impronta insanguinata della mano di Pasolini sul tetto (c’era appena qualche macchia di sangue su Pelosi). Dei motociclisti ed un’altra macchina furono visti seguire l’Alfa Romeo. Nel gennaio 2001 uscì un articolo su “La Stampa”, che portava la teoria della cospirazione su un terreno pesante. Si trattava della morte, nel 1962, in un incidente aereo, di Enrico Mattei, presidente del gigante dell’energia Eni, su cui fu girato un famoso film da Francesco Rosi, con cui Pasolini aveva lavorato. L’autore dell’articolo, Filippo Ceccarelli – uno dei più esperti giornalisti politici italiani – citava le inchieste di un giudice, Vincenzo Calia, sugli intrighi politici interni ad Eni, che rivelarono che l’aereo era stato abbattuto. Il giudice Calia coinvolse il successore di Mattei, Eugenio Cefis, in connivenza con leaders politici. Il rapporto citava un giornalista, Mauro di Mauro, che aveva lavorato con Rosi per il film “L’affare Mattei”, che fu rapito e di cui si perse ogni traccia.Molto prima dell’indagine di Calia, pubblicata nel 2003, Pasolini aveva lavorato al volume “Petrolio”, pubblicato postumo, in cui si delineavano le figure, a malapena dissimulate, di Mattei e Cefis, e si mostrava a conoscenza di come lo scandalo Eni e l’assassinio conducessero al cuore del potere e della loggia massonica P2, di cui Cefis era membro fondatore. «Con 25 anni di anticipo», scrisse Ceccarelli, «lo scrittore Pasolini era consapevole dell’esito di una lunga indagine». Poi, nel 2005, si ruppero gli argini. Pelosi, intervistato in televisione, ritrattò la confessione, dichiarando che due fratelli e un altro uomo avevano ucciso Pasolini, chiamandolo “pervertito” e “sporco comunista”, mentre lo colpivano a morte. Disse che essi frequentavano la sede tiburtina del partito neofascista Msi. Tre anni dopo, Pelosi fece altri nomi in un saggio dal titolo “Profondo Nero”, pubblicato dall’editore radicale “Chiarelettere”, in cui rivelava connessioni con cellule fasciste ancor più estreme, legate ai servizi segreti, dicendo che non aveva osato parlare prima, a causa di minacce alla sua famiglia.Uno degli amici più stretti di Pasolini, l’aiuto regista Sergio Citti, uscì allo scoperto dicendo che le sue personali indagini avevano condotto a prove del tutto trascurate: dei pezzi di bastone insanguinati scaricati vicino al campo di calcio, e un testimone, ignorato dall’indagine ufficiale, che aveva visto cinque uomini tirare fuori Pasolini dalla macchina. Citti introdusse un nuovo argomento: il furto delle bobine dell’ultimo film di Pasolini, “Salò”, di cui aveva tentato di negoziare la restituzione. Venne fuori che la banda di ladri frequentava lo stesso bar del biliardo di Pelosi, e aveva contattato Pasolini l’ultimo giorno della sua vita per combinare un incontro. Un’altra ricerca dello scrittore Fulvio Abbate collegava gli assassini alla famosa banda criminale della Magliana, che operava nella periferia del litorale romano. Il caso è ormai chiuso, e c’è chi, nella cerchia di Pasolini come nella classe politica, preferisce così.(Ed Vulliamy, estratto da “Chi ha davvero ucciso Pier Paolo Pasolini?”, articolo pubblicato sul “Guardian” il 24 agosto 2014 e tradotto da “Come Don Chisciotte”, in occasione della presentazione a Venezia del film di Abel Ferrara, che ricostruisce la figura del grande intellettuale partendo dalla sua tragica e misteriosa fine, il 1° novembre 1975, nel corso di un’esecuzione in cui risultò dapprima coinvolto il giovane Giuseppe “Pino” Pelosi).Nell’aprile di quest’anno il Vaticano, che aveva a suo tempo perseguitato Pasolini e ne aveva appoggiato una condanna per blasfemia, ha definito il suo capolavoro, “Il Vangelo secondo San Matteo”, «il miglior film mai realizzato su Gesù Cristo». Questa espressione della fede radicale di Pasolini dipinge Gesù come un rivoluzionario “Messia rosso”, secondo la dottrina francescana della santa povertà, che ha una parziale influenza sull’attuale pontefice Francesco. Ma l’attenzione ossessiva per la sua morte è meno spiegabile: nel 2010 l’ex sindaco di Roma e leader del Partito Democratico di centro-sinistra Walter Veltroni chiese che il caso venisse riaperto sulla base di un insieme di strane circostanze convergenti e politicamente rilevanti. Pasolini venne ucciso il giorno dopo il suo ritorno da Stoccolma, dove aveva incontrato Ingmar Bergman e altri dell’avanguardia cinematografica svedese, e aveva rilasciato un’esplosiva intervista al settimanale “L’Espresso”, in cui aveva esplicitato il suo argomento preferito: «Ritengo che il consumismo sia una forma di fascismo peggiore delle versioni classiche».