Archivio del Tag ‘fedeltà’
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Lacrime e sangue: Silvio, Renzi e Di Maio sottomessi all’Ue
Renzi e Gentiloni, Berlusconi e Salvini, Grillo e Di Maio apparentemente si scontrano su tutto. Se però andiamo a vedere la sostanza dei loro programmi economici, beh l’ubbidienza ai vincoli dell’austerità europea è comune. Il Pd ha lanciato la campagna elettorale assieme ai suoi cespugli rispolverando dalle ragnatele l’idea degli Stati Uniti d’Europa. Naturalmente nella versione da figurine Panini, la sola che possa essere compresa dal segretario democratico. Gli Stati Uniti socialisti di Europa erano l’idea originaria di Altiero Spinelli. Come si sa la Ue ha imposto il potere autoritario liberista delle banche sugli Stati Sottomessi d’Europa. Quindi Renzi con questa battuta, naturalmente epurata di ogni legame con il socialismo, semplicemente issa la bandiera Ue a copertura della continuità delle politiche di austerità. Come hanno sempre fatto tutti i governanti in questi anni. Nel settembre del 2016 l’allora presidente del Consiglio incontrò su una nave da guerra, al largo di Ventotene, Hollande e Merkel. Allora non poteva parlare di Stati Uniti alla presenza dei padroni della Ue, lo avrebbero ridicolizzato, quindi fece solo qualche spot elettorale per il referendum che poi avrebbe perso. Ora ci riprova.Nel 1700 un conservatore inglese, Johnson, affermò che il patriottismo era l’ultimo rifugio dei mascalzoni. Oggi vale per l’europeismo. Non toccare la Fornero e il Jobs Act, avanti con i tagli alla spesa pubblica, mantenere gli impegni di applicazione del Fiscal Compact che Gentiloni e Padoan hanno sottoscritto a Bruxelles e che la Ue verrà a riscuotere il 5 marzo. Missioni di guerra europee come quella sporchissima in Niger. Il centrosinistra vuole semplicemente continuare a fare ciò che ha fatto e si è impegnato a fare. La bandiera degli Stati Uniti d’Europa, che hanno minori possibilità di realizzarsi di quelli mondiali, serve a raccogliere un poco di elettorato liberaldemocratico, quello che una volta si chiamava atlantico per la sua fedeltà ai soli “Stati uniti” esistenti, quelli d’America. Ma soprattutto serve ad accreditare il Pd come solo riferimento per i padroni della Ue, Macron, Merkel, Rajoy. Cui però oggi si rivolge anche Berlusconi. Il capo del centrodestra ha lasciato a Salvini il lavoro sporco sulla xenofobia e sul razzismo, peraltro oggi perfettamente compatibile con la Ue che fa accordi coi tagliagole libici, o con Erdogan, per fermare i migranti.Così, mentre il leghista urla “padroni in casa nostra”, Berlusconi va dai padroni veri a concordare il programma. Ha bisogno di ottenere il via libera Ue alla colossale riduzione delle tasse per i ricchi e al piccolo aumento delle pensioni più basse, nonché ad una abolizione della Fornero più simbolica che effettiva. I vertici europei non sono affezionati a questa o a quella misura, dall’epoca di Monti e dei massacri greci hanno appreso che si possono avere migliori risultati, se si allunga il guinzaglio con cui si tengono legati i governi degli Stati sotto controllo. Berlusconi questo lo sa benissimo, quindi ha fatto alla Ue una proposta che non può rifiutare. L’obbedienza assoluta al Fiscal Compact e un gigantesco piano di privatizzazioni a garanzia di essa. Quindi per banche e multinazionali tedesche e francesi, e naturalmente per tutte le altre, si preparano nuove occasioni di ottimi affari. Perché la commissione Ue dovrebbe fare obiezioni a chi realizza la parte fondamentale del suo programma liberista, mettendo all’asta il proprio paese così come ha fatto per la sua squadra di calcio?Berlusconi ha promesso alla Ue che il suo governo rispetterà rigidamente il vincolo del deficit di bilancio al di sotto del 3%. Il Movimento 5 Stelle invece propone di superarlo per far crescere l’economia. Sembrerebbe che con questa e altre misure la forza politica guidata da Di Maio abbia davvero deciso di rompere con l’austerità europea. Ma non è così. Si chiama “clausola di dissolvenza” la parte di un trattato o accordo che può mettere in discussione tutto il resto. Il programma in 20 punti varato dai Cinque Stelle ha la propria “dissolvenza” al punto 16. Lì si propone di ridurre il debito pubblico di ben 40 punti in dieci anni. È la pura applicazione del peggior vincolo del Fiscal Compact, che non impone solo il pareggio di bilancio, ma la riduzione dell’ammontare del debito fino al 60 % del Pil. Con un rapporto attualmente al 130% nessuno nella Ue pensa che l’Italia possa, e neppure debba, raggiungere quell’obiettivo. Ma la riduzione del rapporto debito-Pil al 90% farebbe felice anche Schaeuble. E questo è quanto propongono Di Maio e i suoi, cioè un taglio di spesa pubblica di 40 e più miliardi all’anno, aggiuntivo a tutti gli altri.O pensano alla più ingegnosa finanza creativa del nuovo millennio, o credono ad un tasso di sviluppo del 5% all’anno, oppure i Cinque Stelle hanno programmato dieci anni di lacrime e sangue… E tutte le altre loro proposte sono aria fritta, perché solo il punto 16 conta davvero e li accredita preso la Ue. Diversi sono gli strumenti, Jobs Act e Fornero, privatizzazioni, tagli draconiani alla spesa pubblica, ma tutti i principali schieramenti elettorali hanno in comune la volontà di essere accettati dalla Ue come fedeli esecutori del suo comando e dei suoi vincoli, primo fra tutti il Fiscal Compact. Il liberismo europeo in Italia può giocare su tre tavoli, sicuro di vincere in ogni caso. “Liberi e Uguali” a sua volta non rappresenta certo un’alternativa ai tre schieramenti liberisti che si contendono il governo, non solo perché su questi temi non sono pervenuti, ma perché come massima ambizione i suoi leader si propongono di rifare il centrosinistra col Pd. La bufala degli Stati Uniti d’Europa vale anche per loro. Solo “Potere al Popolo” propone la rottura con trattati e vincoli Ue come condizione per realizzare davvero un’altra politica economica e sociale. Per questo oggi è la sola forza di alternativa, destinata a crescere nonostante tutto le si opponga.(Giorgio Cremaschi, “Tre diversi liberismi a gara per obbedire alla Ue”, da “Micromega” del 23 gennaio 2018).Renzi e Gentiloni, Berlusconi e Salvini, Grillo e Di Maio apparentemente si scontrano su tutto. Se però andiamo a vedere la sostanza dei loro programmi economici, beh l’ubbidienza ai vincoli dell’austerità europea è comune. Il Pd ha lanciato la campagna elettorale assieme ai suoi cespugli rispolverando dalle ragnatele l’idea degli Stati Uniti d’Europa. Naturalmente nella versione da figurine Panini, la sola che possa essere compresa dal segretario democratico. Gli Stati Uniti socialisti di Europa erano l’idea originaria di Altiero Spinelli. Come si sa la Ue ha imposto il potere autoritario liberista delle banche sugli Stati Sottomessi d’Europa. Quindi Renzi con questa battuta, naturalmente epurata di ogni legame con il socialismo, semplicemente issa la bandiera Ue a copertura della continuità delle politiche di austerità. Come hanno sempre fatto tutti i governanti in questi anni. Nel settembre del 2016 l’allora presidente del Consiglio incontrò su una nave da guerra, al largo di Ventotene, Hollande e Merkel. Allora non poteva parlare di Stati Uniti alla presenza dei padroni della Ue, lo avrebbero ridicolizzato, quindi fece solo qualche spot elettorale per il referendum che poi avrebbe perso. Ora ci riprova.
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“Repubblica” in declino? Però ha vinto: ha spento la sinistra
Volano stracci tra Eugenio Scalfari e Carlo De Benedetti, che forse vorrebbe liberarsi del giornale-partito nato nel 1976 «per traghettare la sinistra dall’ideologia sovietico-marxista a quella atlantico-liberale». Non è strano che saltino i nervi, scrive Federico Dezzani nella sua “breve storia, non ortodossa”, del secondo quotidiano italiano: “Repubblica” è scesa a poco più di 200.000 copie, contro le oltre 400.000 di appena sette anni fa, quando Ezio Mauro la schierò frontalmente nella battaglia contro Berlusconi. «Il crepuscolo della Seconda Repubblica avanza minaccioso e non è certo casuale che sia accompagnato dalla crisi del quotidiano che, senza dubbio, ha dominato questo periodo della storia italiana», scrive Dezzani nel suo blog. Nato «per affiancare “L’Unità”», quotidiano del Pci, «e sensibilizzare Botteghe Oscure sulle tematiche “liberali”», il giornale «cavalca nei primi anni ‘80 il caso P2, poi assiste l’assalto giudiziario che nel 1992-93 demolisce la Prima Repubblica», quindi «assume la funzione di mentore della sinistra post-comunista, traghettandola nella metamorfosi Pci-Pds-Ds-Pd», e infine «detta l’agenda al governo se la sinistra vince le elezioni», oppure «guida l’opposizione antiberlusconiana, se la sinistra le perde».
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Myss: il segreto della prostituta che vive in ognuno di noi
La prima idea che a molti viene in mente udendo la parola “prostituzione” è l’immagine di qualcuno che venda il proprio corpo per fini sessuali. Tuttavia la prostituzione a cui mi riferirò in questo articolo non ha a che fare con il sesso a pagamento. La Prostituta interiore è invece una tendenza presente in ognuno di noi. Nel suo libro “Sacred Contracts”, Carolyn Myss si riferisce alla Prostituta interiore come ad un archetipo capace di influenzare la nostra vita in un certo numero di modi. Un archetipo è un’immagine, un modello, un simbolo universale codificato all’interno della psiche umana ed ereditato di generazione in generazione. In ognuno di noi è presente in qualche misura la Prostituta interiore; tanto negli uomini quanto nelle donne. La Prostituta interiore si manifesta nella nostra vita tutte le volte che “vendiamo” metaforicamente una parte di noi per ottenere in cambio un tornaconto personale. Come funziona la Prostituta interiore? Si nutre delle paure connesse alla sopravvivenza e all’incolumità. L’energia di questo archetipo è ascrivibile principalmente al chakra della radice (Primo Chakra), il quale può bloccarsi o danneggiarsi come conseguenza dello sviluppo di determinate credenze o dell’influsso di alcune particolari esperienze di vita.Spesso coloro i quali lottino costantemente con la loro Prostituta interiore sono reduci da infanzie fisicamente o emotivamente precarie. L’individuo guidato dalla Prostituta interiore persegue ad ogni costo una condizione di sicurezza e protezione, anche se ciò significhi rinunciare a diverse prerogative umane. Ad esempio: sacrifica i propri sogni in cambio del comfort; subordina i propri valori ai trend sociali; sgisce a scopo di lucro e non sulla spinta di passione o convinzione; si svende al fine di guadagnare popolarità piuttosto che restare ignoto, ma fedele a se stesso e alla propria unicità; mantiene in vita rapporti malsani per non rinunciare alla sicurezza emotiva, sociale o economica; tende a comportarsi gentilmente solo per ottenere qualcosa in cambio; scende a compromessi con i propri principi etici; manipola gli altri per perseguire un tornaconto personale. L’atteggiamento che caratterizza la Prostituta interiore si può sintetizzare nel mondo seguente: “Sono disposto a dare tutto ciò che mi si chiede (anche in violazione della mia fede, della mia autostima e della mia integrità) in cambio di un’adeguata contropartita”.L’archetipo della Prostituta può indurre a sacrificare qualsiasi cosa in cambio della ricerca della sicurezza e della protezione. Nessun luogo è considerato “terra santa”. Tutto è in vendita al giusto prezzo. Ciò detto, non importa quanto la Prostituta possa apparire “cattiva” o “negativa”. Essa è in realtà una forza del tutto neutra. La Prostituta diventa un problema solo quando non si sia coscienti del suo influsso nella nostra vita. Carolyn Myss si riferisce alla Prostituta interiore come al “guardiano della fede”, in quanto è grazie ad essa che possiamo realizzare fino a che punto siamo inclini a vendere una parte di noi stessi in cambio di un tornaconto. L’archetipo della Prostituta dovrebbe insegnarci a sviluppare l’integrità, il rispetto e la fiducia in noi stessi, e la fede nel Divino. Se compresa e controllata, la Prostituta può aiutarci a scoprire i luoghi della nostra vita in cui abbiamo deciso di venderci.La fiducia è la lezione fondamentale impartita dall’archetipo della Prostituta. Per avere fiducia dobbiamo credere fermamente nella nostra capacità di sperimentare la forza, il benessere e l’abbondanza. Quando dubitiamo di noi stessi, il vuoto che si crea viene riempito dalla ricerca della ricchezza esteriore, degli agi del comfort e da facili gratificazioni che possano compensare il nostro senso di insicurezza. Tutto ciò naturalmente genera ulteriore auto-disistima e insicurezza che alimenta nuovi comportamenti compulsivi dettati dalla Prostituta interiore. L’unico modo di neutralizzare la Prostituta interiore apprendendone gli insegnamenti è rafforzare la nostra fiducia in noi stessi. Il modo migliore di farlo è rendendosi conto che ciò che siamo si estende oltre le nostre personalità, i nostri titoli, le nostre occupazioni lavorative, i nostri corpi e i nostri pensieri. Come possiamo fidarci di ciò che non è realmente “noi”? Ciò che siamo stati condizionati a identificare con “noi” non potrà mai infonderci alcun comfort o senso di sicurezza. Come può una personalità in continuo mutamento, un corpo che invecchia, un lavoro temporaneo, una famiglia transitoria, infondere fiducia in se stessi?Per imparare l’insegnamento della Prostituta e riappropriarci della nostra integrità dobbiamo ristabilire il contatto con l’unico luogo immutabile presente in noi: la nostra Coscienza. Ciò che definiamo “Lavoro dell’Anima”, presente praticamente in ogni tradizione o percorso spirituale, definisce il nostro impegno e la nostra volontà di riconnetterci con la nostra anima. La nostra anima è la nostra essenza, la verità alla radice della nostra esistenza; in altre parole è il nostro flusso di Coscienza. La nostra anima è illimitata, grande, infinitamente saggia e amorevole; è il nostro personale collegamento con lo Spirito, il quale è la radice di ogni cosa. La Prostituta interiore non è un nemico, né è qualcosa di cui vergognarsi. Si tratta invece di un normale istinto di difesa presente in ognuno di noi e a vari livelli. Non si tratta di un “problema” da risolvere cercando di curarlo o farlo magicamente sparire; è invece necessario prendere realmente atto della sua esistenza. Quando comprendiamo la sua essenza possiamo perfino arrivare ad amarla e al tempo stesso impedirle di prendere il controllo delle nostre decisioni ed azioni.Vado ad elencare alcune domande da porsi per accrescere la consapevolezza di quanto le nostre esistenze siano influenzate dalla Prostituta: in quali aree della mia vita ho scelto di sacrificare le mie autentiche esigenze in cambio di denaro, beni materiali, popolarità, protezione, sicurezza, comfort e ammirazione? Vivo rapporti personali o di lavoro manifestamente tossici per il mio benessere? Quali componenti della mia identità ho venduto agli altri? (Esempi: l’allegria, l’affettività, la sincerità, la fantasia…). Ho venduto o sacrificato la mia moralità in cambio di un tornaconto personale? Quante volte mi capita di mentire per ottenere un tornaconto personale? Ho mai indotto qualcuno a “vendersi” per il mio tornaconto personale? Cosa sono disposto a digerire pur di raggiungere o conservare la “sicurezza”? Per lavorare proficuamente con la propria Prostituta interiore occorre raggiungere la ferma consapevolezza che la Coscienza / Dio è sempre qui per supportarci, dal momento che tutti noi siamo parte di Essa / Egli.(Aletheia Luna, “L’archetipo della prostituta”, da “Anticorpi.info” del 16 novembre 2017, ripreso dal blog “La Crepa nel Muro”).La prima idea che a molti viene in mente udendo la parola “prostituzione” è l’immagine di qualcuno che venda il proprio corpo per fini sessuali. Tuttavia la prostituzione a cui mi riferirò in questo articolo non ha a che fare con il sesso a pagamento. La Prostituta interiore è invece una tendenza presente in ognuno di noi. Nel suo libro “Sacred Contracts”, Carolyn Myss si riferisce alla Prostituta interiore come ad un archetipo capace di influenzare la nostra vita in un certo numero di modi. Un archetipo è un’immagine, un modello, un simbolo universale codificato all’interno della psiche umana ed ereditato di generazione in generazione. In ognuno di noi è presente in qualche misura la Prostituta interiore; tanto negli uomini quanto nelle donne. La Prostituta interiore si manifesta nella nostra vita tutte le volte che “vendiamo” metaforicamente una parte di noi per ottenere in cambio un tornaconto personale. Come funziona la Prostituta interiore? Si nutre delle paure connesse alla sopravvivenza e all’incolumità. L’energia di questo archetipo è ascrivibile principalmente al chakra della radice (Primo Chakra), il quale può bloccarsi o danneggiarsi come conseguenza dello sviluppo di determinate credenze o dell’influsso di alcune particolari esperienze di vita.
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Microchip sottopelle per pagare il treno, se viaggi in Svezia
Niente più biglietti o sms, per viaggiare sui treni svedesi basta un microchip sottopelle. La compagnia ferroviaria di Stato svedese “Sj” ha cominciato ad accettare biglietti caricati su microchip impiantati nella mano dei viaggiatori, annuncia il “Corriere della Sera”. Basta solo essere iscritti al programma di fedeltà e avere già il microchip impiantato nel proprio corpo. «In Svezia sono circa già 3.000 le persone dotate del microchip (che usa la tecnologia Nfc Near Field Communication, quella delle carte di credito) e passate quindi allo stadio di cyborg, cioè organismi cibernetici composti da corpo naturale e uno o più elementi artificiali». Niente di così diverso, in teoria, dai pazienti cardiaci che da decenni vivono con un pacemaker o un defibrillatore impiantato nel torace e collegato al cuore, scrive Stefano Montefiori sul “Corriere”. «Quelle però sono tecnologie avanzate e costose destinate a salvare la vita del malato, mentre nel caso svedese si tratta di un piccolo congegno grande quanto un chicco di riso, del costo di circa 150 euro, che serve per rendere più facili alcune operazioni della vita quotidiana». I passeggeri svedesi lo utilizzano per viaggiare: possono comprare il biglietto sul web o sull’applicazione “Sj” e, una volta connessi con il loro numero di “programma fedeltà”, il titolo di trasporto viene caricato sul microchip.Sui treni svedesi, il controllore avvicina il lettore alla mano del passeggero e appaiono tutti i dati del biglietto. «Qualcuno ha sollevato dubbi sulla privacy – dice un portavoce della compagnia – ed è una questione che prendiamo molto sul serio. Ma se davvero la paura è di essere tracciati, allora sono più preoccupanti smartphone e carte di credito». Dopo gli orologi connessi che monitorano il sonno e il battito cardiaco o il riconoscimento facciale usato per fare acquisti o il check-in agli aereoporti (lo usa la Finnair), i microchip simili a quelli usati da anni sugli animali «vengono impiantati nell’uomo per aprire e chiudere le porte degli uffici senza bisogno di digitare un codice, accendere e spegnere le luci, pagare il caffé alla macchinetta e adesso, appunto, mostrare il biglietto al controllore delle ferrovie di Stato svedesi», aggiunge Montefiori. I circa 3.000 microchip già in uso in Svezia, spiega il giornalista, hanno cominciato a essere impiantati tra il pollice e l’indice della mano all’inizio del 2015 dalla start-up Epicenter, a Stoccolma, che propone ai dipendenti di usarli per entrare nell’azienda, fare funzionare le stampanti o comprare una bottiglietta d’acqua ai distributori automatici. «Impiantare qualcosa di elettronico nel corpo è stato un passo importante anche per me – dice Patrick Mesterton, capo di Epicenter – ma poi diventa naturale e molto comodo».Altre aziende, in Belgio e negli Usa, hanno seguito l’esempio svedese. In Australia, scrive ancora il “Corriere”, centinaia di persone hanno già fatto ricorso al servizio “Chip My Life”, fondato da Shanti Korporaal. «Ma è la prima volta che il microchip viene usato in un’azienda rivolta al grande pubblico come le ferrovie svedesi». La tendenza di incorporare la tecnologia nell’uomo fa immaginare a Elon Musk (Tesla, Space X, Neuralink) un futuro prossimo in cui i nostri cervelli saranno collegati a Internet: «Le persone non capiscono che già adesso sono dei cyborg. Se ti dimentichi il cellulare ti senti come se ti mancasse un braccio. Ci stiamo già fondendo con i telefonini e la tecnologia». Tra i non entusiasti si segnala Massimo Mazzucco, inorridito dall’ennesima inquietante innovazione tecnologica di massa introdotta dal paese scandinavo: «Più passa il tempo, più mi convinco che la Svezia sia stata scelta come laboratorio umano per far passare le successive “rivoluzioni” del nuovo ordine mondiale», scrive Mazzucco su “Luogo Comune”.«Prima c’è stata la rivoluzione cash-free, nella quale un popolo di beoti ha accettato con entusiasmo l’idea di abolire progressivamente il contante, fino ad arrivare ad una moneta esclusivamente elettronica, mettendosi interamente nelle mani di un qualunque banchiere, che può decidere da un giorno all’altro di azzerare tutto quello che hanno». In seguito, continua Mazzucco, «gli svedesi si sono vantati di essere i primi ad aver sperimentato il microchip sottopelle per pagare il biglietto del treno». Fa impressione guardare con quale orgoglio i “testimonial” dei video promozionali raccontano di aver fatto parte di questo esperimento. «Naturalmente, una volta impiantato, quel microchip tornerà utile per metterci mille altre cose: il problema principale era quello di farlo accettare, e a quanto pare i “controllori del treno” ci sono riusciti in pieno».Infine, gli svedesi «stanno studiando una “rivoluzione” nel campo sessuale», eliminando la spontainetà nei rapporti. E’ infatti in preparazione una legge secondo la quale «gli adulti svedesi potrebbero essere condannati per violenza sessuale a meno di ricevere un segnale verbale o non verbale di consenso dal loro partner, durante ogni passaggio dell’incontro sessuale». In altre parole, scrive Mazzucco, uno svedese dovrebbe chiedere alla sua ragazza “ti posso baciare?” prima di baciarla, “ti posso toccare?” prima di toccarla, “ti posso penetrare?” prima di penetrarla. «Altrimenti rischia di finire in prigione. E a quanto pare sono tutti convinti che questo sia “il progresso”». Conclude Mazzucco: «Poveri svedesi, una volta erano considerati all’avanguardia per quel che riguarda la società civile e il diritto individuale, ora stanno passando all’avanguardia per quel che riguarda il processo di rincoglionimento globale».Niente più biglietti o sms, per viaggiare sui treni svedesi basta un microchip sottopelle. La compagnia ferroviaria di Stato svedese “Sj” ha cominciato ad accettare biglietti caricati su microchip impiantati nella mano dei viaggiatori, annuncia il “Corriere della Sera”. Basta solo essere iscritti al programma di fedeltà e avere già il microchip impiantato nel proprio corpo. «In Svezia sono circa già 3.000 le persone dotate del microchip (che usa la tecnologia Nfc Near Field Communication, quella delle carte di credito) e passate quindi allo stadio di cyborg, cioè organismi cibernetici composti da corpo naturale e uno o più elementi artificiali». Niente di così diverso, in teoria, dai pazienti cardiaci che da decenni vivono con un pacemaker o un defibrillatore impiantato nel torace e collegato al cuore, scrive Stefano Montefiori sul “Corriere”. «Quelle però sono tecnologie avanzate e costose destinate a salvare la vita del malato, mentre nel caso svedese si tratta di un piccolo congegno grande quanto un chicco di riso, del costo di circa 150 euro, che serve per rendere più facili alcune operazioni della vita quotidiana». I passeggeri svedesi lo utilizzano per viaggiare: possono comprare il biglietto sul web o sull’applicazione “Sj” e, una volta connessi con il loro numero di “programma fedeltà”, il titolo di trasporto viene caricato sul microchip.
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Bordin: Putin lavora per i russi, cederà il potere a Dyumin
L’Europa del rigore sta distruggendo la classe media? La Russia di Putin sta cercando di costruirne una, per consolidare una base affidabile che nei prossimi anni possa sostitire lo Zar. Lo afferma Massimo Bordin, indignato dalla «macchina del fango russofoba» messa in moto dai veri «campioni di fake news, come “Repubblica”, “Corriere”, “Ansa”», secondo cui il leader dell’opposizione a Putin – Alexei Navalny – non potrà correre per le presidenziali russe del 2018 perchè la commissione elettorale ne ha bloccato la candidatura. Obiettivo della manovra, il solito: demonizzare il capo del Cremlino. Nello sparare la notizia, scrive Bordin sul suo blog, i media mainstream fingono di non sapere che Navalny non è affatto leader dell’opposizione, dato che «la sua importanza nel mondo della politica russa è rilevante come quella di Civati in quella italiana». Quindi è impossibile che Navalny, «ancorchè candidato, potesse minacciare minimamente la leadership di Vladimir Putin». In realtà, «Navalny non è stato candidato perchè ha commesso più reati di Toni Negri, punto». Ma, soprattutto, «quel che non si dice è che finalmente Putin lavora per la costruzione di una vera classe dirigente in Russia, e questo è il reale motivo della sua quarta candidatura». Questa sì che è una notizia: «Putin, infatti, non è stato un mago su tutto, e ha fallito finora nel tentativo di costruire una élite competente e un successore credibile alla sua presidenza».
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Magaldi: carabinieri, massoneria e democrazia-fantasma
Il generale Leonardo Gallitelli «graziosamente indicato da Berlusconi» come suo eventuale successore, se perdurasse l’ostracismo della pessima legge Severino che impedisce al Cavaliere di ricandidarsi? «Ci risiamo, con la retorica della brava persona estranea alla politica: non conosco il generale Gallitelli, ma so che non ci servono onesti incompetenti. Al contrario, occorrono politici a tutto tondo, ben preparati al vero, grande scontro che può salvare l’Italia, quello con Bruxelles». Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt e promotore del futuro Pdp, Partito Democratico Progressista, invoca il ritorno alla democrazia sostanziale, la cui assenza sta producendo danni devastanti a ogni livello: politico, economico e sociale. «Non ho mai risparmiato critiche a Berlusconi, perché non ha neanche mai provato ad attuare le riforme liberali che aveva promesso», premette Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio”. «Gli auguro sinceramente di poter tornare in campo, ma in modo democratico: accettando cioè di confrontarsi con Salvini e la Meloni». Regolari primarie, insomma: «E’ giusto che sia il popolo del centrodestra a scegliersi finalmente il candidato che preferisce». Senza per questo farsi troppe illusioni: «Come Berlusconi, anche la Lega e An hanno già governato a lungo, non riuscendo a risolvere né il problema immigrazione né il rapporto con l’Ue, attualmente ostaggio di eurocrati che si dicono europeisti ma sono i veri nemici dell’Europa».Pur di evitare le primarie, Berlusconi evoca la candidatura di un generale dei carabinieri? Non è il solo a utilizzare il prestigio dell’Arma in chiave elettorale: l’hanno fatto anche Antonio Ingroia e Giulietto Chiesa chiamando il generale Nicolò Gebbia a presentare il progetto della loro “Lista del Popolo”, definita anche “La Mossa del Cavallo” e ribattezzata da Magaldi “la Mossa del Somaro”, con allusione ai portatori d’acqua («i somari, appunto») cui toccherebbe mettere in piedi liste in tutta Italia, in pochissime settimane, «lasciando però l’ultima parola agli autoproclamati leader, di fatto padroni di ogni decisione». Il generale Gebbia, intanto, denuncia il ruolo occulto della massoneria nella politica: lascia anche intendere di esser stato messo da parte, nei ranghi dell’Arma, in quanto non-massone, e propone di obbligare i “grembiulini” a dichiararsi pubblicamente, se intendono concorrere a cariche pubbliche. Magaldi inorridisce: «E perché mai solo i massoni dovrebbero dichiararsi? Perché non anche esponenti di sindacati e associazioni religiose o filosofiche?». Quella contro gli aderenti alla massoneria, dice, sarebbe una grottesca discriminazione: «L’ennesima, in un paese come l’Italia, dove fa comodo fingere di non sapere che è stata proprio la massoneria a dar vita allo Stato unitario e poi a concorrere alla democrazia: era massone conclamato Meuccio Ruini, presidente della “commissione dei 75” che partorì la nostra Costituzione».Massone l’insigne giurista Pietro Calamandrei, massone il martire antifascista Giacomo Matteotti: di cosa stiamo parlando? Nel bestseller “Massoni”, pubblicato da Chiarelettere a fine 2014, Magaldi è stato il primo a rivelare, semmai, il ruolo occulto delle Ur-Lodges sovranazionali nella cabina di regia del vero potere mondiale. Ne fa cenno anche il generale Gebbia, ricordando il ruolo di protezione esercitato da Berlusconi per le truppe italiane schierate a Nassiriya, in Iraq: un intervento risolutivo, ottenuto perché «Bush e Berlusconi facevano parte della stessa loggia». Magaldi corregge l’ufficiale, allora a capo del contingente dispiegato in Iraq: «Bush tentò di affiliare Berlusconi alla superloggia “Hathor Pentalpha”, ma non vi riuscì». Nella “Hathor”, invece, era presente – scrive Magaldi nel suo libro – l’allora ministro della difesa Antonio Martino, peraltro lungamente a capo della Mount Pélerin Society, santuario europeo dell’ordoliberismo finanziario di marca reazionaria. Chiarisce Magaldi: «Ci sono massoni non solo tra i carabinieri, ma anche tra poliziotti e finanzieri. Quando viene iniziato, un massone innanzitutto giura fedeltà alla repubblica italiana. Qualcuno se ne stupisce? Non dovrebbe: proprio la massoneria è stato il maggior fautore dello Stato laico, libero e democratico, basato sul suffragio universale e non più su privilegi di casta».Il generale Gebbia si sente vittima di carabinieri massoni? «Forse dovrebbe interrogarsi sulle sue effettive benemerenze», gli risponde a distanza Magaldi, non entusiasta del profilo politico-culturale che le parole dell’anziano ufficiale lasciano trasparire, evocando la consueta “caccia alle streghe” che contraddistingue tanto mainstream, politico e giornalistico: «Siamo bravissimi a fare i duri con i piccoli massoni di provincia, magari coinvolti in maneggi bancari come quelli di Banca Etruria e Montepaschi, per poi tacere di fronte all’identità supermassonica dei veri massoni di potere», accusa Magaldi. «Rosy Bindi reclama le liste degli aderenti al Grande Oriente d’Italia e Claudio Fava propone addirittura una legge che escluda i massoni dalla politica, privandoli cioè di un fondamentale diritto civile, ma poi tutti fingono di non conoscere la cifra massonica di Mario Draghi e Anna Maria Tarantola, che in qualità di dirigenti di Bankitalia avrebbero dovuto vigilare su Mps». “Dagli al massone?” Sì, ma a patto di sorvolare sui “fratelli” che contano davvero, «per esempio Mario Monti, il devastatore dell’economia italiana, e il suo sodale Giorgio Napolitano».Pura ipocrisia italica, insiste Magaldi: anziché dare la caccia ai “grembiulini” in quanto tali (e non invece ai pericolosi oligarchi nascosti anche nei club più esclusivi della supermassoneria che conta, quella internazionale) saerebbe il caso di mettersi sulle tracce della vera, grande assente dalla scena italiana: la democrazia. Che, appunto, rischia di restare ancora largamente latitante, se è vero che il Pd renziano sembra prepararsi all’ennesimo inciucio con Berlusconi, grazie anche al disastroso Rosatellum. «L’alibi delle larghe intese sarà il solito: fermare il Movimento 5 Stelle, come se fosse un vero pericolo». Purtroppo, continua Magaldi, i 5 Stelle non sono affatto un pericolo, per l’establishment: «Al contrario, sono un movimento soporifero: dove governano, come a Roma, addormentano le istituzioni, che andrebbero invece scosse con robuste dosi di democrazia». Insieme all’economista Nino Galloni, il presidente del Movimento Roosevelt scommette sul ritorno alla sovranità finanziaria, anche monetaria: «Non è possibile che l’Europa sia governata dai cartelli bancari a capo della Bce, e dalle oligarchie private che pilotano le cancellerie. L’Italia, che resta uno dei maggiori contraenti dell’Ue, deve dire semplicemente: ci riprendiamo la nostra sovranità, oppurre arrivederci, ben sapendo che – senza l’Italia – l’Unione Europea non esiste, crolla».Proposta secca: «Una Costituzione Europea politica, validata da referendum popolari». Ipotesi completamente ignorata da Renzi, Berlusconi e 5 Stelle. «Ma sarebbe l’unica soluzione, per poter finalmente cominciare a fare sul serio». Invece, conclude Magaldi, ci tocca assistere anche alla farsa di Bersani e D’Alema, che si appellano all’articolo 1 della Costituzione dopo aver rottamato la Carta, con l’inserimento del pareggio di bilancio. «Chiamare il loro movimento “democratico e popolare”, in antitesi a Renzi, è un insulto all’intelligenza degli italiani: Renzi non ha le colpe di D’Alema e Bersani, non ha lesionato la Costituzione», sostiene Magaldi. «Persino la sua brutta proposta di riforma, quella bocciata dal referendum, non avrebbe fatto i danni delle modifiche costituzionali votate da Bersani: l’abolizione del Senato elettivo non sarebbe stata così devastante, per il paese, quanto l’obbligo costituzionale del pareggio di bilancio, che ha privato l’Italia di un fondamentale strumento di sovranità democratica». Ma non sarà così per sempre, si augura Magaldi: il paese dovrà svegliarsi dal sonno e sbarazzarsi di troppi politici mediocri e inutili, spesso anche cialtroni. Massoni e non, ma tutti agli ordini del vero potere, l’élite neo-feudale della globalizzazione privatizzatrice, «interpretata dai veri antieuropeisti, come la Merkel e gli oligarchi di Bruxelles».Il generale Leonardo Gallitelli «graziosamente indicato da Berlusconi» come suo eventuale successore, se perdurasse l’ostracismo della pessima legge Severino che impedisce al Cavaliere di ricandidarsi? «Ci risiamo, con la retorica della brava persona estranea alla politica: non conosco il generale Gallitelli, ma so che non ci servono onesti incompetenti. Al contrario, occorrono politici a tutto tondo, ben preparati al vero, grande scontro che può salvare l’Italia, quello con Bruxelles». Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt e promotore del futuro Pdp, Partito Democratico Progressista, invoca il ritorno alla democrazia sostanziale, la cui assenza sta producendo danni devastanti a ogni livello: politico, economico e sociale. «Non ho risparmiato critiche a Berlusconi, perché non ha neanche mai provato ad attuare le riforme liberali che aveva promesso», premette Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio”. «Gli auguro sinceramente di poter tornare in campo, ma in modo democratico: accettando cioè di confrontarsi con Salvini e la Meloni». Regolari primarie, insomma: «E’ giusto che sia il popolo del centrodestra a scegliersi finalmente il candidato che preferisce». Senza per questo farsi troppe illusioni: «Come Berlusconi, anche la Lega e An hanno già governato a lungo, non riuscendo a risolvere né il problema immigrazione né il rapporto con l’Ue, attualmente ostaggio di eurocrati che si dicono europeisti ma sono i veri nemici dell’Europa».
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Delitto Matteotti: vero mandante il Re, socio dei petrolieri
Non fu Mussolini il vero mandante del delitto Matteotti, ma il Re: Vittorio Emanuele III decretò la morte del parlamentare socialista Giacomo Matteotti, assassinato a Roma il 10 giugno 1924 dalla squadraccia fascista capeggiata da Amerigo Dumini. Lo afferma Gianfranco Carpeoro, nel suo nuovissimo saggio “Il compasso, il fascio e la mitra”, che ricostruisce – sulla base di archivi inediti – il vero ruolo dei due massimi sponsor occulti del fascismo, la massoneria e il Vaticano. Due poteri che “coltivarono” un regime che forse mostrò il suo vero volto, per la prima volta, proprio con l’omicidio Matteotti. Il leader socialista, si disse per decenni, fu punito per il suo straordinario coraggio: il 30 maggio 1924 denunciò alla Camera i brogli e le intimidazioni che avevano permesso ai fascisti di vincere le elezioni, il 6 aprile. Solo in questi ultimi anni è progressivamente emerso l’altro movente, più segreto: la maxi-tangente pagata al governo italiano dalla società petrolifera Sinclair Oil, per lo sfruttamento del greggio in Emilia e in Sicilia. Lo stesso Matteotti, dopo un viaggio a Londra, aveva scoperto la verità e stava per renderla pubblica. Lo scandalo avrebbe travolto il neonato regime, dato che risultava implicato anche Arnaldo Mussolini, fratello del Duce. Ma quello era solo il “primo livello” della tangente: perché il maggiore beneficiario dell’affare non sarebbe stato Mussolini, bensì il Re.Era lui, Vittorio Emanuele III, il vero dominus del business petrolifero, e quindi anche del delitto Matteotti. A gettare nuova luce sul “peccato originale” del fascismo sono le carte dell’obbedienza massonica di Piazza del Gesù, il Rito Scozzese italiano, di cui lo stesso Carpeoro è stato “sovrano gran maestro”. «Attenzione: lo stesso Matteotti era un 33° grado del Rito Scozzese», premette l’autore, presentando alcune anticipazioni del libro nel corso della diretta web-streaming “Carpeoro Racconta”, condotta da Fabio Frabetti di “Border Nights”. Massone Matteotti, e massoni i “fratelli” inglesi che lo informarono dell’affare Sinclair Oil, spiegandogli – carte alla mano – che a intascare il grosso della colossale tangente petrolifera (addirittura una ingente quota azionaria della compagnia) non sarebbe stato il Duce, ma direttamente il numero uno di casa Savoia. A indagare sul ruolo occulto della massoneria all’origine del fascismo è anche il recente saggio “Mussolini e gli Illuminati”, del giovane Enrico Montermini, suffragato da un politologo del calibro di Giorgio Galli.Montermini ricostruisce il ruolo delle società segrete nell’affermazione del fascismo “antemarcia”, a partire dalla manifestazione di piazza San Sepolcro, fino al macabro epilogo di piazzale Loreto, dove il cadavere del Duce viene simbolicamente “capovolto”, appeso a testa in giù, dopo esser stato fotografato con in mano uno scettro (come l’Imperatore dei tarocchi) e poi un ramo di acacia, inequivocabile “firma” massonica. Carpeoro conferma: prima di concorrerre ad abbattere il Duce, «la massoneria ha certamente appoggiato il primo fascismo, anche perché era Mussolini stesso a presentarsi come “vero socialista”». Poi, come sappiamo, il dittatore – mai iniziato alla libera muratoria – arrivò a mettere al bando le logge, in ossequio agli accordi di potere con il Vaticano che avrebbero portato ai Patti Lateranensi. C’era stato un piccolo precedente antimassonico del Duce, quando ancora era un dirigente socialista: impegnò il partito a escludere i massoni dai propri ranghi. «Ma era solo una ritorsione: Mussolini aveva ripetutamente chiesto di essere accolto, nella massoneria, ma non era stato accettato».Un’anomalia episodica, quell’improvvisa allergia socialista per i grembiulini: «E’ stata proprio la massoneria a partorire il socialismo», sostiene Carpeoro: «Anche all’epoca del fascismo, erano massoni i maggiori esponenti del partito socialista, a cominciare dal leader storico, Filippo Turati». Autore di accurati studi sui Rosacroce, leggendaria confraternita iniziatica, Carpeoro spiega che furono proprio i manifesti rosacrociani – come la “Fama Fraternitatis” del 1614 – a delineare l’orizzonte sociale egualitario (la fine dei privilegi di casta) che peraltro si riverbera in opere altrettanto “rosacrociane” del periodo, come “Utopia” di Thomas More, “La nuova Atlantide” di Francis Bacon e “La città del sole” di Tommaso Campanella. La stessa “Fama Fraternitatis” accenna, per la prima volta, a un mondo senza più la proprietà privata né i confini tra le nazioni: sono gli albori del futuro internazionalismo socialista, che riflette le sue luci persino nel primissimo fascismo delle origini, quello di piazza San Sepolcro, tenuto a battesimo dal Grande Oriente d’Italia (Domizio Torrigiani) e poi anche da Piazza del Gesù, il cui gran maestro era Raoul Palermi – ma il vero capo del Rito Scozzese, ipotizza lo stesso Montermini, probabilmente era il sovrano in persona, Vittorio Emanuele III.Di origine scozzese è la stessa famiglia Sinclair: gli antenati dei petrolieri coinvolti nell’affare costato la vita a Matteotti, racconta Carpeoro, in qualità di eminenti rappresentanti del network rosacrociano britannico, alla fine del ‘700 avrebbero fatto segretamente tradurre nel Regno Unito le spoglie del “confratello” Mozart, ufficialmente sepolto in una fosse comune in Austria. Ma, a parte i Sinclair – passati dalla musica al petrolio – il saggio di Carpeoro ricostruisce i passaggi cruciali (e occulti) all’origine del fascismo, mettendo a fuoco il ruolo della massoneria, e non solo. Se Montermini accende i riflettori sulle società segrete che allevarono il regime fascista, Carpeoro segnala il ruolo dell’altro grande potere, antagonista della massoneria eppure suo “socio in affari” durante il ventennio: il Vaticano. Entrambi i centri potere, quello massonico e quello cattolico, puntarono su Mussolini e cercarono di pilotarlo. E il Duce, «peraltro già a libro paga dei servizi segreti inglesi, nonché collaboratore dell’intelligence statunitense e di quella francese», tentò a sua volta di destreggiarsi, ritagliandosi una sua autonomia: «Si passò così dal masso-fascismo iniziale al catto-fascismo seguente», quello dei Patti Lateranensi.Figura cruciale e onnipresente, in quegli anni di precario equilibrio, il massone Filippo Naldi, che Carpeoro definisce «il Licio Gelli dell’epoca», capace di passare con disinvoltura da un tavolo all’altro, uscendone sempre indenne e traendone il massimo vantaggio personale. Carpeoro ricorda una celebre intervista televisiva all’anziano Naldi, a cura del grande Sergio Zavoli: «Riuscì a ottenere quell’intervista perché era massone anche Zavoli», rivela Carpeoro, che ricostruisce un altro momento decisivo della parabola del Duce, la destituzione del 25 luglio ‘43: «Era un piano progettato dallo stesso Mussolini, che voleva farsi arrestare per poi uscire dall’alleanza con Hitler, instaurando a Salò una vera repubblica di orientamento socialista». Ma fu tradito, Mussolini, proprio dall’uomo-ombra della massoneria (e della monarchia), che svelò gli intenti del Duce alla segreteria pontificia. A sua volta, la diplomazia vaticana si rivolse prontamente ai nazisti: temenva che a Salò potesse davvero nascere una repubblica anticlericale.“Il fascio, il compasso e la mitra” getta luce sui retroscena più oscuri del ventennio mussoliniano, rivelando il peso dei due superpoteri – massoneria e Vaticano – nelle decisioni del governo Mussolini. Anche la monarchia giocò le sue carte, comprese quelle (coperte) su cui aveva messo le mani Giacomo Matteotti. «Io il mio discorso l’ho fatto, ora voi preparate il discorso funebre per me», disse il deputato ai colleghi socialisti, in aula, consapevole che gli sarebbe costata carissima la sua clamorosa denuncia sui brogli elettorali. «Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere», rispose Mussolini, mesi dopo, di fronte alle proteste per l’insabbiamento delle indagini sull’omicidio. Ma non si trattò solo di una denuncia politica sulla regolarità delle elezioni del ‘24: il primo a rivelarlo, alla fine degli anni ‘80, è stato un ricercatore fiorentino, Paolo Paoletti, dopo aver scovato negli archivi di Washington una lettera in cui Dumini, il capo del commando omicida, rivela che Matteotti fu ucciso soprattutto per impedirgli di mettere in piazza lo scandalo petrolifero, che coinvolgeva Arnaldo Mussolini.Poche settimane prima del delitto, proprio alla Sinclair Oil (John Davison Rockefeller), il governo italiano aveva concesso l’esclusiva per la ricerca e lo sfruttamento per 50 anni di tutti i giacimenti petroliferi presenti in Emilia e in Sicilia. La compagnia aveva ottenuto condizioni di esclusivo vantaggio, tra cui l’esenzione da imposte. Per questo Matteotti doveva essere ucciso: aveva saputo della super-tangente. Tesi confermata dallo storico Mauro Canali nel ‘97 e poi da un ex dirigente Eni, Benito Li Vigni, nel saggio “Le guerre del petrolio” uscito nel 2004. All’inizio degli anni Venti, in Italia, l’80% del fabbisogno di idrocarburi era garantito dalla Standard Oil, tramite la “Società Italo-Americana pel Petrolio”, mentre la restante quota era fornita dalla filiale italiana della Royal Dutch Shell. Secondo Canali, la Standard Oil avrebbe stipulato un accordo sottobanco con la Sinclair Oil, delegando ad essa un’operazione strategica: bloccare la temuta espansione del Regno Unito sul mercato italiano. Guardando al Medio Oriente, a Londra faceva gola la posizione geografica dell’Italia, nel cuore del Mediterraneo: perfetta, per il trasporto del greggio. Per questo gli inglesi avevano sviluppato progetti con l’Italia, anche l’impianto di una raffineria, al punto da preoccupare gli Usa – che a quel punto risposero mettendo in campo la Sinclair Oil, a suon di dollari pagati sottobanco.Lo stesso Canali documenta come a intascare una maxi-rata dell’affare Sinclair fu Filippo Filippelli, un personaggio molto influente, legato ad Arnaldo Mussolini e fondatore del “Corriere Italiano”, giornale a cui – fra l’altro – era stato intestato il noleggio dell’auto con cui venne prelevato Matteotti. Gli accordi con la Sinclair Oil furono stipulati il 29 aprile del ‘24: sempre in cambio di cospicue mazzette, la compagnia ottenne dall’Italia la garanzia che nessun ente petrolifero statale avrebbe intrapreso trivellazioni nel deserto libico. All’accordo, Londra reagì a modo suo: tramite politici laburisti, rivelò a Matteotti i veri termini dell’accordo. Lo stesso Canali conferma che il leader socialista acquisì le carte che provavano la corruzione del governo italiano. Dopo l’omicidio, il “Daily Herald” accusò apertamente Arnaldo Mussolini di essere tra i politici destinatari di una tangente di 30 milioni di lire pagata dalla Sinclair Oil per ottenere la concessione. Sulla rivista “English Life” venne pubblicato (postumo) un articolo dello stesso Matteotti, in cui il deputato affermava di avere la certezza che vi era stata corruzione tra la Sinclair Oil e alcuni esponenti del governo.Tutto giusto? Sì, ma è una verità incompleta, spiega Carpeoro: perché finora le ricostruzioni sul delitto Matteotti non hanno inquadrato il principale colpevole, il Re d’Italia. «Mettendo a disposizione i killer, Mussolini ha fatto un favore innanzitutto alla monarchia», afferma Carpeoro, nel colloquio in streaming su YouTube con Fabio Frabetti. «Matteotti aveva fiutato che sull’Italia, tramite il fascismo, stavano mettendo le mani determinati poteri, in particolare petroliferi – uno su tutti, quello della Siclair Oil». Il leader socialista, continua Carpeoro, «andò a Londra con regolari referenze massoniche e venne accolto con tutti gli onori da una loggia inglese». Loggia che gli mise a disposizione una documentazione decisiva, che gli permise di scoprire «che la Sinclair Oil aveva dato delle quote azionarie a Vittorio Emanuele III». Tornò in patria di corsa, per far scoppiare lo scandalo. «E guardacaso, venne assassinato proprio al ritorno da quel viaggio quasi clandestino». Il regista dell’assassinio? «E’ colui che affittò le auto a noleggio e si fece dare da Mussolini i manovali del delitto: il massone Filippo Naldi, rappresentante degli interessi della Sinclair Oil in Italia ma, soprattutto, fedelissimo del Re».Lui, l’uomo-ombra: «E’ vero che Naldi aiutò Mussolini a uscire dal Psi e gli finanziò il “Popolo d’Italia”, ma sempre e soltanto per conto di poteri forti che volevano che in Italia rimanesse la monarchia e ci fosse sempre un certo tipo di regime». Tant’è vero che i soldi per finanziare il “Popolo d’Italia”, oltre a quelli della Sinclair Oil, sono quelli di Eridania (colosso mondiale dello zucchero) e di Ansaldo, leader dell’acciaio. «Sono i soldi che creano il fascismo, ma lo creano per mantenere un preciso assetto politico rispetto a forze che rischiavano di metterlo in discussione, come i socialisti e i repubblicani». Baricentro del potere, la monarchia. Clamorosa, la rivelazione di Carpeoro: sua maestà in persona era addirittura diventato socio della Sinclair, mentre il governo Mussolini si apprestava a favorire la compagnia. E da dove ricava, Carpeoro, le sue esplosive informazioni? Ovvio: dagli stessi archivi (massonici) ai quali, nel 1924, ebbe accesso l’eroe socialista Giacomo Matteotti, massone del 33° grado del Rito Scozzese.Non fu Mussolini il vero mandante del delitto Matteotti, ma il Re: Vittorio Emanuele III decretò la morte del parlamentare socialista Giacomo Matteotti, assassinato a Roma il 10 giugno 1924 dalla squadraccia fascista capeggiata da Amerigo Dumini. Lo afferma Gianfranco Carpeoro, nel suo nuovissimo saggio “Il compasso, il fascio e la mitra”, che ricostruisce – sulla base di archivi inediti – il vero ruolo dei due massimi sponsor occulti del fascismo, la massoneria e il Vaticano. Due poteri che “coltivarono” un regime che forse mostrò il suo vero volto, per la prima volta, proprio con l’omicidio Matteotti. Il leader socialista, si disse per decenni, fu punito per il suo straordinario coraggio: il 30 maggio 1924 denunciò alla Camera i brogli e le intimidazioni che avevano permesso ai fascisti di vincere le elezioni, il 6 aprile. Solo in questi ultimi anni è progressivamente emerso l’altro movente, più segreto: la maxi-tangente pagata al governo italiano dalla società petrolifera Sinclair Oil, per lo sfruttamento del greggio in Emilia e in Sicilia. Lo stesso Matteotti, dopo un viaggio a Londra, aveva scoperto la verità e stava per renderla pubblica. Lo scandalo avrebbe travolto il neonato regime, dato che risultava implicato anche Arnaldo Mussolini, fratello del Duce. Ma quello era solo il “primo livello” della tangente: perché il maggiore beneficiario dell’affare non sarebbe stato Mussolini, bensì il Re.
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Da dove viene il potere di Putin, l’uomo che non sbaglia mai
Esaltato e denigrato con la stessa facilità, Vladimir Putin, 65 anni appena compiuti, per noi è un mistero. Ma non nel senso solito, quello delle gazzette: ex ufficiale del Kgb, “mamma mia che paura”, occhi di ghiaccio e così via. È un mistero, scrive il giornalista Fulvio Scaglione, già corrispondente da Mosca, perché l’Occidente ha adorato da sempre lo stereotipo dello sbirro diventato presidente: da un lato perché è divertente ed esotico, dall’altro perché consente di liquidare una politica ingombrante con quattro luoghi comuni. «Nessuno si è troppo attardato a indagare come sia stato possibile che in piena Perestrojka un agente segreto di seconda fila dei servizi sovietici diventasse il braccio destro di Anatolij Sobciak, il governatore ultraprogressista di San Pietroburgo, che lo difese anche dalle grane che a “Vova” venivano dall’essere alla guida del Comitato per le relazioni esterne della città, incaricato di attrarre e favorire gli investimenti esteri. Posto dove circolavano tanti soldi e tante voci di corruzione». Nessuno che si sia chiesto perché nel 1996, quando il mitico Sobciak perse le elezioni per il governatorato contro l’assai più “politico” Vladimir Jakovlev, Putin non sia stato messo da parte ma invece chiamato a Mosca, dove in tre anni (dicesi tre) compì l’intero grand tour delle poltrone che contavano.Da delegato del Dipartimento per la gestione delle proprietà presidenziali (giugno 1996) Putin ascese alla poltrona di primo ministro (agosto 1999), passando per delegato al Personale dell’Amministrazione Presidenziale, delegato alle Politiche regionali, capo dei servizi segreti interni e membro del Consiglio di sicurezza. «Ricordo gli amici russi quando lo nominarono capo del governo: Putin chi? Non uno che lo conoscesse», scrive Scaglione su “Linkiesta”. E poi, certo: 31 dicembre 1999, Boris Eltsin si dimette; marzo 2000, Putin diventa presidente. «Insomma: Putin è bravo, ok, ma vi pare una storia normale?». A questo passaggio, dieci anni fa Scaglione dedicò quasi metà di un libro (“La Russia è tornata”). La tesi: «Putin non è un carrierista di successo, ma un uomo scelto e allevato per il Cremlino». Da chi? «Da chi comandava all’inizio degli anni Novanta, i “democratici” e quelli del Kgb, che avevano cooperato a liquidare l’elefante Pcus e l’Urss con relativo Gorbaciov ma non ne potevano più di Eltsin e degli sconquassi che agitavano il paese». Qualcosa di simile lo racconta anche il filologo Igor Sibaldi, di madre russa, che vede in Putin l’ultimo terminale del nuovo Kgb fondato da Andropov, che già nell’era Khrushev aveva intuito l’inevitabile collasso dell’Urss, fondando una super-struttura segreta incaricata di tenere in piedi la Russia. Lo stesso Gorbaciov era il protetto di Andropov e veniva pure lui da Kgb, cioè dal network dal quale proviene lo stesso Putin.Anche Scaglione sostiene che Putin è il prodotto di un progetto preciso, a lunga scadenza: «Se ho ragione sarà meglio mettersi seduti e cominciare a ragionare su quanto ancora avremo a che fare con la Russia di Vladimir Putin». Perché è chiaro: se “Vova” è l’astuto arrivista che ha conquistato la cima, finito lui finirà tutto. Se invece Putin ha rappresentato finora la realizzazione di un piano, «allora per certi ambienti occidentali sono cavoli amari, come si dice. E la Russia di Putin forse non finirà con Putin, che peraltro ha solo 65 anni e può star lì un altro bel po’». Nel 1996 Putin viene chiamato a Mosca, e l’anno dopo Zbigniew Brzezinsky, ex segretario di Stato di Jimmy Carter, pubblica il saggio principale diventato la Bibbia degli atlantisti: “La grande scacchiera”. Il sottotitolo era “La supremazia americana e i suoi imperativi geostrategici”. «Chiaro, no? Sulla Russia, Zibi Brzezinski aveva idee precise: bisognava impedire la sua rinascita, anzi sperare che si spezzasse in diversi tronconi. E appoggiare l’allargamento della Ue, per contenerla il più possibile. Ecco, Putin ha mandato tutto questo a banane».Basta fare un piccolo elenco, osserva Scaglione: l’uomo del Cremlino «ha stroncato l’indipendentismo ceceno (nel 1999, quando scoppiò la seconda guerra del Caucaso, ormai subornato dall’islamismo) e ha rafforzato la verticale del potere, restituendo a Mosca il pieno controllo delle regioni e delle province. Frammentare la Russia? Addio». Poi lo “zar” «ha piantato picchetti solidissimi intorno alle risorse naturali della Russia, considerate asset strategico non solo per l’andamento economico del paese ma anche per la sua politica estera: un po’ come la “golden share” del nostro governo su Telecom ma con i modi un po’ più spicci della politica russa». Ovvero: «Mikhail Khodorkovskij vuole portare la Yukos a fare affari con le Sette Sorelle? Via, per un po’ in galera, così ci ripensa. O avete davvero creduto che il buon Misha, che aveva fatto i primi denari nei primi anni Novanta trafficando in valuta, fosse davvero preoccupato per la morale della vita pubblica? Quindi: impedire la rinascita della Russia, con il petrolio per anni sopra i 100 dollari il barile? Addio».E’ sul fronte europeo che Putin, secondo Scaglione, ha patito ciò che Brzezinski sperava: «La Ue si è allargata a tutto l’ex Est, anche a costo di sfrangiarsi e incepparsi, con grande soddisfazione dell’amico americano. E più “Vova” riproponeva l’idea di un’Europa che andasse dall’Atlantico agli Urali (copyright Charles de Gaulle), più gli Usa, sfruttando timori e fobie dei paesi usciti dal blocco sovietico, riproponevano la centralità della Nato e la sua espansione a Est, chiamando Georgia e Ucraina nel “Membership Action Plan” e varando il progetto di scudo missilistico in Polonia e Romania». Anche perché impegnato con le questioni interne, in Europa Putin ha subito, insomma. «E pure la reazione ai fatti di Ucraina, nel 2014, con la riannessione della Crimea e il sostegno alla lotta indipendentista del Donbass (che curiosamente è assai meno compatito della snobbissima Catalogna), sa di catenaccio più che di calcio totale». Però, secondo Scaglione, Putin è stato un buon judoka e due o tre mosse le ha imparate. «Alla spinta americana che voleva confinarlo a Est, il più lontano possibile da un inserimento in Europa e quindi in Occidente, il Cremlino ha reagito in due modi. Con un calcio-falciata laterale (mi pare che si chiami “o soto gari”), colpendo cioè da un’altra parte. Putin ha riportato la Russia in Medio Oriente dove, l’hanno capito anche i sauditi, è tutt’altro che di passaggio».L’attivismo del Cremlino nei paesi islamici è plateale: l’intesa con l’Iran, la fedeltà alla causa della Siria di Bashar al-Assad, il riavvicinamento all’Egitto che nel 1972 aveva espulso i consiglieri sovietici. E poi «la diplomazia con Israele, il tango con la Turchia di Erdogan, la partecipazione alle vicende del mercato mondiale del petrolio» sono tutte vicende che «hanno trasformato la Russia in un’insidia vera per gli Usa, che da decenni spadroneggiano nella regione». E poi, «sfruttando la spinta dell’avversario non potendo respingerla», Putin si è lasciato portare verso Est, «cogliendo l’occasione per un’alleanza strategica con la Cina che con il presidente Xi Jinping aveva abbandonato il tradizionale riserbo e aveva cominciato a picchiare i pugni sulla scena internazionale, dal Mar Cinese meridionale alla Siria». Cina che adesso «si espande in Africa e in Europa, ma intanto ha sete di materie prime, di cui la Russia abbonda». E poi tante altre cose, «belle e brutte, riuscite e non riuscite. Ma anche così, non è un po’ troppo per un uomo solo al comando, per un bruto tenuto in piedi dalle polizie, come ci piace raccontare?».Se così fosse, conclude Scaglione, «avremmo di fronte magari un tiranno ma certo anche un genio della politica, un grande amministratore e un fenomeno dai nervi d’acciaio, capace di sopravvivere a vent’anni di trappole, agguati, inganni, minacce e anche semplici grane. Un superuomo. Un eroe della Marvel. Un Avenger!». “Vova” è bravo, chi può negarlo. «Con il potere si sarà pure sbarazzato di qualche nemico e di qualche amico diventato ingombrante». Ma tutto da solo? «Resto della mia idea di dieci anni fa», insiste Scaglione: Putin è l’ottimo interprete di un grande progetto condiviso dietro le quinte. La pensa così anche Gioele Magaldi, che nel bestseller “Massoni” (Chiarelettere) aggiunge un elemento: sostiene che Putin sia affiliato alla Ur-Lodge “Golden Eurasia”, la stessa di Angela Merkel. E’ una delle 36 superlogge internazionali del massimo potere, dove le grandi decisioni vengono vagliate in anticipo sui tempi della politica. Nemmeno il potere sovietico è mai stato estraneo a quel livello decisionale: lo stesso Lenin, scrive Magaldi, fondò a Ginevra la superloggia (reazionaria) “Joseph De Maistre”. «Putin era un colonnello del Kgb, non un generale», sottolinea Sibaldi, come a dire che i generali ci sono e restano nell’ombra, magari non avendo il talento pubblico del frontman che regna al Cremlino. Chiosa Scaglione: «Lì dietro c’è un’idea, un progetto. E mi sa che continueremo ad averci a che fare per un bel po’».Esaltato e denigrato con la stessa facilità, Vladimir Putin, 65 anni appena compiuti, per noi è un mistero. Ma non nel senso solito, quello delle gazzette: ex ufficiale del Kgb, “mamma mia che paura”, occhi di ghiaccio e così via. È un mistero, scrive il giornalista Fulvio Scaglione, già corrispondente da Mosca, perché l’Occidente ha adorato da sempre lo stereotipo dello sbirro diventato presidente: da un lato perché è divertente ed esotico, dall’altro perché consente di liquidare una politica ingombrante con quattro luoghi comuni. «Nessuno si è troppo attardato a indagare come sia stato possibile che in piena Perestrojka un agente segreto di seconda fila dei servizi sovietici diventasse il braccio destro di Anatolij Sobciak, il governatore ultraprogressista di San Pietroburgo, che lo difese anche dalle grane che a “Vova” venivano dall’essere alla guida del Comitato per le relazioni esterne della città, incaricato di attrarre e favorire gli investimenti esteri. Posto dove circolavano tanti soldi e tante voci di corruzione». Nessuno che si sia chiesto perché nel 1996, quando il mitico Sobciak perse le elezioni per il governatorato contro l’assai più “politico” Vladimir Jakovlev, Putin non sia stato messo da parte ma invece chiamato a Mosca, dove in tre anni (dicesi tre) compì l’intero grand tour delle poltrone che contavano.
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Scalea: voto inutile, Pd e Fi costretti a “sgovernare” insieme
Una legge elettorale fatta apposta per congelare l’Italia, impedendole di affrontare davvero la devastante crisi che l’attanaglia. L’esito inevitabile delle elezioni 2018? Il centrodestra in vantaggio, ma costretto ad allearsi col Pd. Risultato: l’ennesimo governo “di palazzo”, condannato a subire ogni sorta di diktat europeo. E’ analisi di Daniele Scalea, specialista del Centro studi politici e strategici “Machiavelli”. «Questa legge elettorale è stata fatta principalmente per sfavorire il M5S e spingere le forze a sinistra del Pd ad allinearsi con esso». Non a caso, aggiunge, la cifra principale del Rosatellum-bis è che, «con la sua quota maggioritaria (oltre un terzo dei seggi assegnati), sfavorisce le forze non coalizzate». Naturalmente, sbarrare la strada ai 5 Stelle è però costato caro ai promotori della legge: «Infatti è improbabile che anche il centrosinistra o il centrodestra raggiungano la quota di voti necessari a formare un governo (calcolata al 40% abbondante). L’ipotesi più credibile è dunque quella di una grande coalizione trasversale», sostiene Scalea, intervistato da Marina Tantushyan per il newsmagazine “Sputnik News”. «I vincitori sono dunque il Pd e Forza Italia, che in nessun scenario potranno essere tenuti fuori da questa coalizione trasversale».Dal canto suo, «Berlusconi mantiene un elettorato di fedelissimi che, malgrado il Cavaliere abbia ormai perso il suo smalto e non stia nemmeno proponendo un programma elettorale, è pronto a garantirgli un numero cospicuo di voti». Con questa legge, osserva Scalea, «potrà verosimilmente realizzare il suo proposito: evitare di dover governare con Salvini premier, ma farlo con Renzi che è a lui molto più congeniale». Salvo un suo exploit imprevisto e imprevedibile, il Movimento 5 Stelle non potrà raggiungere la maggioranza, insiste l’analista: «Ed essendo una forza ostile alle alleanze e con un programma distante da tutti gli altri partiti, non farà mai parte di alcuna possibile coalizione di governo». D’altra parte «nemmeno il Pd dovrebbe riuscire a vincere, pur aggregando forze alla sua sinistra e alla sua destra». Per Scalea «il contesto è scoraggiante, perché l’Italia avrebbe ora bisogno di un governo forte, con soluzioni precise e coraggiose su problemi pressanti come il declino economico e l’immigrazione incontrollata. Lo scenario sembra invece quello di una nuova legislatura di galleggiamento, con uno o più esecutivi deboli».Secondo Daniele Scalea, questo panorama mediocre e deludente emergerà già alle elezioni regionali siciliane di novembre: «In Sicilia dovrebbe confermarsi la preminenza riconquistata nazionalmente dal centrodestra, ma anche la forza del M5S e la resistenza del Pd, che continua a mantenere una cospicua base elettorale composta di ceti abbienti, cattolici praticanti, postcomunisti e cittadini d’origine extra-europea». Un voto destinato dunque a «confermare che l’Italia è divisa in tre». Pessimistiche le previsioni di Scalea per il voto delle politiche, nella primavera del 2018: «Mi attendo un successo del centrodestra anche più ampio di quello previsto nei sondaggi, trainato – più che dai meriti della coalizione – dal malcontento diffuso per l’immigrazione incontrollata: malcontento non mitigato da un’economia ancora claudicante». Ma attenzione: «Un paese diviso in tre, l’ambivalenza di Forza Italia che sogna un “Nazzareno bis” e l’indecisione della Lega che non sa farsi realmente partito nazionale, coniugato con una legge elettorale fatta su misura per rendere ingovernabile il paese, ci suggerisce che l’esito sarà un no-contest». Conseguenze? Le peggiori: «Il mazzo passerà dalle mani degli elettori a quelle dei giocatori nei palazzi».Una legge elettorale fatta apposta per congelare l’Italia, impedendole di affrontare davvero la devastante crisi che l’attanaglia. L’esito inevitabile delle elezioni 2018? Il centrodestra in vantaggio, ma costretto ad allearsi col Pd. Risultato: l’ennesimo governo “di palazzo”, condannato a subire ogni sorta di diktat europeo. E’ analisi di Daniele Scalea, specialista del Centro studi politici e strategici “Machiavelli”. «Questa legge elettorale è stata fatta principalmente per sfavorire il M5S e spingere le forze a sinistra del Pd ad allinearsi con esso». Non a caso, aggiunge, la cifra principale del Rosatellum-bis è che, «con la sua quota maggioritaria (oltre un terzo dei seggi assegnati), sfavorisce le forze non coalizzate». Naturalmente, sbarrare la strada ai 5 Stelle è però costato caro ai promotori della legge: «Infatti è improbabile che anche il centrosinistra o il centrodestra raggiungano la quota di voti necessari a formare un governo (calcolata al 40% abbondante). L’ipotesi più credibile è dunque quella di una grande coalizione trasversale», sostiene Scalea, intervistato da Marina Tantushyan per il newsmagazine “Sputnik News”. «I vincitori sono dunque il Pd e Forza Italia, che in nessun scenario potranno essere tenuti fuori da questa coalizione trasversale».
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Potere subdolo e mostruoso, ci truffa cambiando maschera
Mai come nell’attuale momento storico di fine ciclo il potere è riuscito a schermarsi alla perfezione dietro un sistema apparentemente libero e democratico. Apparentemente perché dietro al sistema presentabile in cui bazzica da più o meno 70 anni l’Occidente si cela un Leviathan che sta gradualmente distruggendo tutto ciò che di buono era stato attuato nel secolo scorso: il Welfare State (soprattutto l’istruzione, capace, fino a inizio anni ’90, di formare coscienze critiche) e la libertà di pensiero, oggi polverizzata da un apparato mediatico pervasivo e spersonalizzante. Ma che cosa si intende per “potere”? Il potere non deve essere identificato con strutture, istituzioni politiche ed economiche visibili all’occhio profano. Il potere è prima di tutto una dinamica, un rodaggio di per sé immutabile, che si perpetua nel corso dei secoli attraverso molteplici forme e modalità. Per fare un esempio spicciolo, una tipica manifestazione del potere è l’accentramento della formazione e del sapere nelle mani di pochi accademici e intellettuali integratissimi nel sistema, un tempo chierici, oggi laici, che bollano come non scientifiche tutte le teorie, riflessioni e opinioni che non vengono sfornate da loro e da tutti i loro epigoni.Attraverso tale accentramento nel corso dei secoli il sapere è stato, ed è tuttora, monopolio di una cerchia ristretta di intellettuali e scienziati, che si sono arrogati il diritto – e ancora oggi lo fanno – di stabilire ciò che è scientifico e ciò che non lo è, ciò che è vero e ciò che è falso, ciò che è cultura e ciò che non lo è. Si possono fare in realtà innumerevoli esempi delle modalità attraverso le quali agisce il potere, è sufficiente uscire dagli steccati ideologici per contemplare con distacco e disincanto la sua machiavellica capacità di mimetizzarsi in regimi politici e sistemi economici molto diversi tra loro. Perché la vera natura del potere consiste nella sua capacità di assumere di volta in volta la forma che meglio conviene per nascondere la sua brutalità e per farsi accettare benvolmente da una società, un popolo, un insieme di nazioni. Anche qui è conveniente fare un esempio. L’altro giorno Eugenio Scalfari, il trombone d’Italia, in un articolo ha spiegato, dall’alto della sua cattedra, che la costituzione degli Stati Uniti d’Europa è un qualcosa di ineluttabile.Ineluttabile significa dire che i popoli europei non possono avere alcuna voce in capitolo su tale processo. Anzi, Il giornalista sosteneva che tale processo non può essere lasciato alla mercé del capriccio dei popoli, ma deve essere attuato dalle élites economiche-politiche europee. Ecco, in poche righe Scalfari ha spiegato molto bene come il potere agisce, presentando le decisioni che prende e che fa attuare a una pletora di docili esecutori come necessarie e improcrastinabili. Per poter agire impunemente il potere ha poi bisogno di una casta di encomiastici elogiatori, ruffiani appartenenti al mondo della cultura, del giornalismo e della scienza. A questo scopo vengono piazzati in questi campi dei fedeli servitori, che hanno la missione, dietro lauto stipendio, di veicolare la visione totalitaria di cui il potere è di volta in volta espressione. A questo servono i vari Piero Angela, Roberto Saviano ed Eugenio Scalfari.Un’altra modalità tipica attraverso cui il potere preserva se stesso è l’ideologizzazione della politica: si fa credere, in un determinato periodo storico, che la destra o la sinistra o un movimento bipartisan o al di sopra delle parti sia il candidato ideale ad attuare dei cambiamenti essenziali per una nazione e la sua società civile, e il gioco è fatto. In realtà tali cambiamenti non solo non vengono attuati, ma la parte politica appoggiata dal potere è funzionale al mantenimento dello statu quo, e ciò accade sempre, in maniera più o meno accentuata secondo il periodo storico. Il motto a cui si rifà il potere è “cambiare tutto per non cambiare niente”. Cambiare le facce, i metodi, le istituzioni ma conservare l’esistente, con tutte le sue brutture e anomalie, questa è la funzione di chi viene scelto dal potere per ricoprire ruoli di comando. Lo abbiamo visto con la sinistra negli anni ’90, con la destra berlusconiana e forse vedremo agire lo stesso meccanismo con il Movimento 5 Stelle, se riuscirà ad andare al potere.Non si illudano i militanti del M5S: il potere non lascerà mai che la base possa entrare nei processi decisionali, avendo esso anzitempo individuato ad hoc precise figure interne al movimento e che rivestono ruoli di comando, che hanno il compito di bypassare le istanze della base. Ecco spiegata l’ambiguità e l’evanescenza del programma del M5S, che può essere definito “un non programma”, poiché non definisce chiaramente qual è, per esempio, la linea di politica economica e di politica estera che il movimento intende sposare. E questa evanescenza è determinata da una ragione ben precisa: evitare che il movimento possa compromettersi ed esporsi con posizioni troppo nette. Il potere, infatti, potrebbe dispiacersene. Per concludere, vorrei fare un accorato invito a chi mi segue ad uscire da una ristretta visuale ideologica della realtà, da qualsiasi angolazione la si guardi. Occorre comprendere che il potere è è un’Idra a cento teste. Al potere non interessa la giacca che di volta in volta gli esecutori delle sue decisioni indossano. Esso può allearsi tanto con la destra, con la sinistra e con movimenti neutrali, a seconda della convenienza del momento. In tal senso il potere non é né di destra né di sinistra, ma al di sopra di tali categorie, che sviano i fessacchiotti ammalati di ideologismo.Oggi il potere è alleato con le sinistre, per il semplice fatto che esse, meglio di altre parti politiche, da circa 20 anni si prostituiscono volentieri alle sue logiche perverse. Non esiste – e forse non è mai esistita – una sinistra antisistema, essendo destra e sinistra le maschere intercambiabili dietro le quali si cela il potere. Ingenuo (o in malafede) è chi pretende di identificare il potere unicamente con le destre. Questa identificazione è oggettivamente un’aberrazione, veicolata dai media, che portano avanti tale identificazione con uno scopo preciso: sviare dai partiti di sinistra il sospetto di connivenza col potere. Connivenza che è sotto gli occhi di tutti, meno che per gli allocchi ideologizzati e per i fanatici di questo o quell’altro movimento politico civetta. Cercate di ragionare con la vostra testa e non secondo le categorie deviate che il Pensiero unico, strumento ideologico del potere, propina generosamente attraverso i suoi indefessi araldi. Non saranno né la destra né la sinistra a salvare l’Italia e il mondo interno, ma la vostra capacità di smascherare impietosamente le mimetizzazioni del potere e le sue infiltrazioni in tutti i gangli della società.(Federica Francesconi, “Sulla natura mostruosa del potere e sulle sue subdole dinamiche”, dal blog della Francesconi del 26 settembre 2017).Mai come nell’attuale momento storico di fine ciclo il potere è riuscito a schermarsi alla perfezione dietro un sistema apparentemente libero e democratico. Apparentemente perché dietro al sistema presentabile in cui bazzica da più o meno 70 anni l’Occidente si cela un Leviathan che sta gradualmente distruggendo tutto ciò che di buono era stato attuato nel secolo scorso: il Welfare State (soprattutto l’istruzione, capace, fino a inizio anni ’90, di formare coscienze critiche) e la libertà di pensiero, oggi polverizzata da un apparato mediatico pervasivo e spersonalizzante. Ma che cosa si intende per “potere”? Il potere non deve essere identificato con strutture, istituzioni politiche ed economiche visibili all’occhio profano. Il potere è prima di tutto una dinamica, un rodaggio di per sé immutabile, che si perpetua nel corso dei secoli attraverso molteplici forme e modalità. Per fare un esempio spicciolo, una tipica manifestazione del potere è l’accentramento della formazione e del sapere nelle mani di pochi accademici e intellettuali integratissimi nel sistema, un tempo chierici, oggi laici, che bollano come non scientifiche tutte le teorie, riflessioni e opinioni che non vengono sfornate da loro e da tutti i loro epigoni.
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Chi e perché ha organizzato la tragica farsa di Barcellona
C’è una sola cosa che mi sento di dirvi senza timore di smentita: anche dopo la peggior notte di bisboccia, il mattino dopo ho sempre fornito versioni dell’accaduto più lineari e credibili di quelle degli inquirenti spagnoli. Sempre. Magari sbiascicando ma mai inondando di cazzate il mio interlocutore come il fiume in piena di non-sense che arriva a getto continuo dalla Catalogna. Riassumo, per quanto sia riuscito a capirci qualcosa, per sommi capi. Attorno alle 5 del pomeriggio di ieri, un furgone entra nella rambla all’altezza di Plaza de Catalunya e falcia 13 persone, lasciandone ferite sul selciato oltre un centinaio. Schiantatosi contro un chiosco, dal van esce una persona con una camicia bianca a righe azzurre, qualcuno dice che stia ridendo e si dilegua. Prima certezza. chi guidava il furgoncino della strage, l’esecutore materiale, è sparito. In compenso, fioccano i comprimari come in un film di Woody Allen: prima è un solo complice, con il quale il guidatore fuggitivo si sarebbe asserragliato in un ristorante turco con alcuni ostaggi, pare il personale. Balla. Poi, gli attentatori diventano quattro: uno in fuga, due arrestati e un morto. Poi, altro colpo di scena: nella migliore tradizione, dentro il furgone viene trovato un passaporto, spagnolo ma con identità araba: si tratterebbe di un cittadino di origine maghrebina ma residente a Marsiglia. Et voilà, compare all’orizzonte la pista del radicalismo francese.Il titolare della carta, però, vistosi tirato in ballo, va dalla polizia a dire che non c’entra un cazzo e che gli hanno rubato i documenti, poi utilizzati per noleggiare il van della strage. Sarebbe stato il fratello. Nel frattempo, a Barcellona è caccia all’uomo. Anzi, agli uomini. Anzi, no, perché alle 20 la polizia autorizza tutti a uscire dai luoghi pubblici in cui avevano trovato rifugio durante l’emergenza, la rambla parzialmente riapre. E l’autista? E il presunto complice del ristorante? Sa il cazzo, spariti. Comincia la danza macabra della contabilità di morti e feriti, cominciano le dichiarazioni ufficiali di solidarietà dal mondo intero, si spegne la Torre Eiffel. Insomma, la solita menata. Si va a dormire con il computo fermo a 13 morti e oltre 100 feriti, 15 dei quali gravi. Ma, colpo di scena, attorno all’una di notte scatta una seconda parte del presunto piano terroristico, questa volta a un centinaio di chilometri da Barcellona, a Cambrils, di fatto la Pinarella di Cervia di Tarragona: chi non va a immolarsi lì per trovare gloria eterna, santo cielo! I morti sarebbero 5, tutti terroristi che avrebbero cercato di emulare il commando di Barcellona, facendo però solo 7 feriti, tre dei quali pare poliziotti.Tre sono anche le versioni che danno altrettanti quotidiani spagnoli dell’accaduto: due terroristi sarebbero stati ammazzati in uno scontro a fuoco e tre all’interno del van; tutti e cinque uccisi all’interno del van; quattro morti, di cui due per ferite di armi da taglio e uno in fuga. Anche qui, chiarezza assoluta. In compenso la notte folle di Cambrils ha un elemento in comune: i cinque terroristi avrebbero tutti indossato cinture da kamikaze. Finte, ovviamente. Ora, capite da soli che mancano solo un trapezista uzbeko e un odontotecnico macedone e il quadro di questa caccia all’uomo pare completo. C’è tutto: il furgone-killer, l’autista in fuga, il passaporto, lo scambio di persona, il secondo commando e i kamikaze annientati. Roman Polanski pagherebbe oro per l’esclusiva. Ovviamente, l’Isis ha rivendicato l’atto come opera di suoi soldati. Lo ha fatto un po’ alla cazzo, però, tipo conferenza stampa per l’addio al calcio di Antonio Cassano: prima sì, poi no, poi la versione ufficiale. Ormai anche “Site” di Rita Katz fatica a credere alle cazzate che spara e tende a scordarsi le rivendicazioni, salvo metterci pezze ben peggiori del buco. Insomma, abbiamo un clamoroso caso di violazione di una zona interdetta da parte di un furgone killer e poi una serie di eventi che definire quantomeno poco chiari è dir poco.Ci sono i morti e i feriti, per carità: lungi da me mettere in campo tesi tipo quelle dei figuranti pagati o dei manichini con il succo di pomodoro addosso. Resta il fatto che lasciar fare a un mezzo squinternato – come al solito, noto alla polizia – equivale a non aver fatto il proprio dovere: non credo minimamente al fatto che la polizia catalana sia precipitata in un vortice di errori e incapacità tali. A meno che, stante l’approssimarsi del referendum sull’indipendenza da Madrid e il rischio di nuove elezioni anticipate, qualcuno non si sia divertito a far fare loro una bella figura di merda in mondovisione, dimostrando inconsciamente come sia necessario stare uniti per vincere la minaccia terroristica. La quale era pressoché sparita, dopo un paio di colpi di coda tutti da ridere in Francia (tipo l’attentatore in retromarcia che arriva indisturbato davanti alla sede dell’antiterrorismo), salvo ora ritornare in grande stile. Ah, dimenticavo: uno dei fermati/latitanti – visto che non si capisce un cazzo, inserisco entrambe i ruoli – sarebbe di Melilla, una delle due enclave spagnole in Marocco sotto assedio dalla nuova tratta dei migranti, la quale dopo mesi e mesi di fedeltà al Mediterraneo, ha stranamente deciso di cambiare rotta nelle ultime due settimane, scegliendo la penisola iberica come meta dei viaggi di fine stagione.Nel caso a Ceuta e Melilla, nelle prossime settimane, servisse usare il pugno duro – magari anche con scafisti e Ong – chi potrebbe dire nulla, a fronte di un sospettato e 13 morti sul marciapiedi? E poi, culmine dei culmini, ecco che due mesi fa la Cia avrebbe avvisato le autorità catalane proprio del forte rischio di un attentato sulle Ramblas durante l’estate. E i catalani? Niente, duri come il muro: e adesso si piangono vittime e inseguono fantasmi in camicia bianca a righe azzurre. Incredibilmente, l’avviso della Cia è stata la seconda notizia giunta ieri da Barcellona, dopo quella del camion sulla folla: che tempismo, trattandosi di materiale d’intelligence, non vi pare? D’altronde, ultimamente con il tempismo e i servizi gli americani ci vanno forte, basti vedere il caso Regeni, riesploso dalla sera alla mattina nella noia sudaticcia di Ferragosto. Ma attenzione, perché come ci mostra questo video tratta dalla diretta, della “Cnn” di ieri pomeriggio spesso anche le cose raffazzonate, possono risultare utili: soprattutto quando una delle principali tv del mondo scende così in basso da mettere in relazione diretta quanto accaduto a Charlottesville e sta grigliando il presidente Usa fra le critiche con l’attacco a Barcellona, dicendo che i perpetratori di quest’ultimo avrebbero forse preso esempio dai suprematisti in azione in Virginia.Insomma, in prime time, l’americano medio, il quale non sa nemmeno dove stia Barcellona, viene indottrinato sul rischio che quanto sta accadendo in America attorno ai monumenti confederati possa addirittura ispirare gli atti di terrore dell’Isis. E tranquilli, nessuno – di fronte a quei corpi sul marciapiedi – si chiederà come mai, di colpo, i miliziani dello Stato islamico abbiano deciso di venir meno a una delle loro regole numero uno, ovvero applicare il martirio a ogni loro azione. A Barcellona, nessuno era intenzionato a morire. Anche perché, al netto delle chiacchiere dei presunti “esperti anti-terrorismo” che parlano di un reticolo di contatti e cellule ben radicate nel territorio, a Barcellona sono morti solo civili: l’autista è in fuga e gli altri presunti membri del commando non si sa bene quale fine abbiano fatto. Né, se esistano. I cinque di Cambrils, poi, se è andata come dicono, più che terroristi erano partecipanti a un addio al celibato con sorpresa, finito male. Occorreva dare un po’ di adrenalina da paura all’Europa, adagiatasi troppo sulla sua ritrovata serenità post-elezioni francesi? Serve aprire un fronte spagnolo del timore radicalista e dei foreign fighters?Bisogna minare alla radice il referendum sull’indipendenza di Barcellona da Madrid? Bisogna tenere vivo lo spaventa-folle chiamato Isis in Europa, dopo le debacle sul campo in Siria e Iraq? O magari fiaccare lo spirito che in febbraio ha portato in piazza, proprio a Barcellona, 200mila persone per dire sì all’arrivo di migranti, in nome dell’accoglienza e della solidarietà? E non perché i migranti non siano un problema, anzi ma perché occorre creare nell’opinione pubblica un clima particolare proprio in certe roccaforti dell’immaginario collettivo liberale, quale Barcellona è. Chissà, può essere tutto e può essere nulla. Ma quando si parla senza il minimo dubbio di reticolati di contatti e commando jihadisti sul territorio a fronte di un autista-killer sparito nel nulla, il dubbio che quelle lacrime e quei volti straziati dalla paura siano strumentali a qualcosa, sorge davvero spontaneo. E si staglia nitido. Come un documento nella cabina di un van. Perché ricordatevi che la paura deve essere il vostro unico Dio.(Mauro Bottarelli, “A Barcellona manca solo un idraulico moldavo, poi il cast è al completo. Ma il segnale è arrivato”, dal blog “Rischio Calcolato” del 18 agosto 2017).C’è una sola cosa che mi sento di dirvi senza timore di smentita: anche dopo la peggior notte di bisboccia, il mattino dopo ho sempre fornito versioni dell’accaduto più lineari e credibili di quelle degli inquirenti spagnoli. Sempre. Magari sbiascicando ma mai inondando di cazzate il mio interlocutore come il fiume in piena di non-sense che arriva a getto continuo dalla Catalogna. Riassumo, per quanto sia riuscito a capirci qualcosa, per sommi capi. Attorno alle 5 del pomeriggio di ieri, un furgone entra nella rambla all’altezza di Plaza de Catalunya e falcia 13 persone, lasciandone ferite sul selciato oltre un centinaio. Schiantatosi contro un chiosco, dal van esce una persona con una camicia bianca a righe azzurre, qualcuno dice che stia ridendo e si dilegua. Prima certezza. chi guidava il furgoncino della strage, l’esecutore materiale, è sparito. In compenso, fioccano i comprimari come in un film di Woody Allen: prima è un solo complice, con il quale il guidatore fuggitivo si sarebbe asserragliato in un ristorante turco con alcuni ostaggi, pare il personale. Balla. Poi, gli attentatori diventano quattro: uno in fuga, due arrestati e un morto. Poi, altro colpo di scena: nella migliore tradizione, dentro il furgone viene trovato un passaporto, spagnolo ma con identità araba: si tratterebbe di un cittadino di origine maghrebina ma residente a Marsiglia. Et voilà, compare all’orizzonte la pista del radicalismo francese.
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Dinaro africano: perché Hillary fece assassinare Gheddafi
Le mail appena rivelate mostrano che la Nato intervenne in Libia perché Gheddafi voleva creare una propria moneta, agganciata all’oro, per competere con l’euro e il dollaro. Lo afferma Brad Hoff su “Foreign Policy”. A capodanno sono state pubblicate oltre 3.000 nuove e-mail della Clinton quando era al Dipartimento di Stato. «La “Cnn” ovviamente si è concentrata sulle più futili», mentre gli analisti si sono soffermati «sulle conferme esplosive ivi contenute: ammissioni di crimini di guerra, infiltrati in Libia sin dall’inizio delle rivolte, la presenza di Al-Qaeda nell’opposizione appoggiata dagli Usa, paesi occidentali che si combattono per il petrolio libico e la preoccupazione per le riserve d’oro e d’argento di Gheddafi che minacciavano l’euro». Il 27 marzo scorso, una nota di Sidney Blumenthal, storico consigliere dei Clinton e raccoglitore di intelligence per Hillary, contiene evidenti testimonianze di crimini di guerra compiuti dai ribelli sostenuti dalla Nato. Citando come fonte un comandante dei ribelli, Blumenthal riferisce confidenzialmente che «sotto l’attacco delle forze aeree e navali degli alleati», le truppe libiche «hanno cominciato sempre più ad unirsi ai ribelli». Commento della fonte: «In confidenza, un comandante ribelle ha detto che le sue truppe continuano a uccidere tutti i mercenari stranieri catturati nei combattimenti».Mentre l’illegalità degli omicidi degli “squadroni della morte” di Hillary è facilmente riconoscibile, dietro al riferimento ai “mercenari stranieri” potrebbe esserci una sinistra realtà, non immediatamente evidente alla maggior parte della gente, scrive Hoff in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. «Gheddafi era noto per avvalersi di aziende europee e internazionali per lavori di sicurezza e infrastrutture, e guarda caso nessuna di queste è stata presa di mira dai ribelli. Ci sono invece molte testimonianze che dimostrano che civili libici e lavoratori sub-sahariani, popolazione favorita da Gheddafi nelle sue politiche per l’Unione Africana, sono stati obiettivi della “pulizia razziale” dei ribelli, che vedevano i neri libici come troppo legati al regime. Questi ultimi sono stati comunemente etichettati dai ribelli come “mercenari stranieri” per la loro fedeltà assoluta al leader, sono stati soggetti a torture ed esecuzioni e hanno subìto una pulizia etnica. Ne è un esempio Tawergha, città popolata interamente da 30.000 libici “scuri”, scomparsi nell’agosto 2011 dopo la sua presa da parte delle brigate Nrc Misratan, sostenute dalla Nato».Questi attacchi erano ben noti fin dal 2012 e spesso filmati, come conferma il report del “Telegraph”: «Dopo la cattura di Gheddafi ad agosto, centinaia di lavoratori migranti provenienti dagli Stati vicini sono stati imprigionati da combattenti alleati alle nuove e provvisorie autorità. Accusano gli africani neri di essere mercenari del defunto leader». In più, «sembra che la Clinton venisse personalmente informata dei crimini dei suoi amati combattenti anti-Gheddafi ben prima che questi avvenissero». La mail di Blumenthal, aggiunge Hoff, conferma anche il sospetto che le forze speciali di addestramento avessero collegamenti con Al-Qaeda. Sempre Blumenthal ammette che unità speciali britanniche, francesi ed egiziane stavano formando militanti libici lungo il confine egiziano-libico e nelle periferie di Bengasi. «Questa è la prova definitiva che forze speciali erano sul territorio subito dopo l’inizio delle proteste scoppiate a metà febbraio 2011 a Bengasi». Dal 27 marzo di quella che si era presunto fosse una semplice “rivolta popolare”, operativi esterni stavano già «sovrintendendo al trasferimento di armi e forniture ai ribelli», tra cui «una fornitura apparentemente infinita di fucili Ak-47 e relative munizioni».Solo alcuni paragrafi dopo questa ammissione, aggiunge Hoff, si invoca invece cautela sulle milizie che queste forze speciali occidentali stavano formando. C’era infatti la preoccupazione che «gruppi radicali terroristici come il Gruppo dei combattenti islamici libici e Al-Qaida nel Maghreb islamico (Aqim) infiltrassero l’Ntc e il suo comando militare». Anche se la risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza Onu proposto dalla Francia diceva che la “no-fly zone” sulla Libia era per proteggere civili, una mail di aprile 2011 inviata ad Hillary con l’argomento “il cliente francese e l’oro di Gheddafi” svela altri fini. Indica infatti che Sarkozy «era in prima fila nell’intervento in Libia, per cinque ordini di motivi: ottenere il petrolio libico, consolidare l’influenza nella regione, aumentare la propria reputazione a livello nazionale, affermare il potere militare francese e togliere l’ascendente di Gheddafi sull’“Africa francofona”». La cosa più sorprendente, aggiunge Hoff, è la lunga sezione che descrive l’enorme minaccia posta dalle riserve d’oro e argento del leader, stimate in 143 tonnellate ciascuna, al franco francese (Cfa), che circola come prima moneta africana. Altro che “responsabilità alla protezione”, a tutela dei civili. La spiegazione “riservata” è la seguente: «Questo oro è stato accumulato prima della ribellione attuale ed era destinato a creare una moneta pan-africana basata sul dinaro».Il piano, continua l’email riservata, era di «dare agli africani francofoni un’alternativa al franco». Secondo gli esperti, questa quantità d’oro e d’argento valeva più di 7 miliardi di dollari. «L’intelligence francese ha scoperto questo progetto poco dopo l’inizio dell’attuale ribellione e questo è il motivo della decisione di Sarkozy». Da notare che il salvataggio dei civili non viene neanche menzionato, chiosa Hoff. «Invece, la grande paura era che la Libia potesse dare indipendenza al Nord Africa col dinaro. L’intelligence francese “ha scoperto” l’alternativa libica all’euro: non poteva essere concesso». All’inizio del conflitto libico, la Clinton accusò formalmente Gheddafi e il suo esercito di usare lo stupro di massa (con l’aiuto del Viagra) come strumento di guerra. «Sebbene numerose organizzazioni internazionali, tra cui Amnesty, dimostrarono subito la falsità di queste affermazioni, le accuse vennero pompate da politici e media occidentali: visto che infangava il leader libico, la cosa venne presa per buona dai network».Altra fiaba: il regime “sposta cadaveri” là dove cadono le bombe Nato. E’ lo stesso Blumenthal ad ammettere che sono semplici “rumors”, cui ha dato eco Robert Gates, allora segretario alla difesa, mentre la «narrativa degli stupri» è stata rilanciata da Susan Rice, ambasciatrice Usa all’Onu, nell’accusare pubblicamente la Libia davanti al Consiglio di Sicurezza. «Queste mail confermano che il Dipartimento di Stato non solo sapeva della natura spuria di ciò che Blumenthal chiama “voci” che avevano come fonte esclusiva il lato dei ribelli, ma anche che non ha fatto nulla per impedire che tali false notizie arrivassero ai piani alti, che ne hanno poi dato “credibilità”», conclude Hoff. «Sembra inoltre che la storia del Viagra probabilmente sia stata inventata di sana pianta da Blumenthal stesso». Interamente falso, dunque, il castello di accuse: Gheddafi, semplicemente, doveva cadere. Rappresentava una sfida all’impero euro-atlantico dell’euro e del dollaro, nonché un argine allo jihadismo, che è funzionale alla Nato: andava eliminato, per poter costruire la leggenda successiva, quella dell’Isis.Le mail appena rivelate mostrano che la Nato intervenne in Libia perché Gheddafi voleva creare una propria moneta, agganciata all’oro, per competere con l’euro e il dollaro. Lo afferma Brad Hoff su “Foreign Policy”. A capodanno sono state pubblicate oltre 3.000 nuove e-mail della Clinton quando era al Dipartimento di Stato. «La “Cnn” ovviamente si è concentrata sulle più futili», mentre gli analisti si sono soffermati «sulle conferme esplosive ivi contenute: ammissioni di crimini di guerra, infiltrati in Libia sin dall’inizio delle rivolte, la presenza di Al-Qaeda nell’opposizione appoggiata dagli Usa, paesi occidentali che si combattono per il petrolio libico e la preoccupazione per le riserve d’oro e d’argento di Gheddafi che minacciavano l’euro». Il 27 marzo scorso, una nota di Sidney Blumenthal, storico consigliere dei Clinton e raccoglitore di intelligence per Hillary, contiene evidenti testimonianze di crimini di guerra compiuti dai ribelli sostenuti dalla Nato. Citando come fonte un comandante dei ribelli, Blumenthal riferisce confidenzialmente che «sotto l’attacco delle forze aeree e navali degli alleati», le truppe libiche «hanno cominciato sempre più ad unirsi ai ribelli». Commento della fonte: «In confidenza, un comandante ribelle ha detto che le sue truppe continuano a uccidere tutti i mercenari stranieri catturati nei combattimenti».