Archivio del Tag ‘fiducia’
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Questa sinistra che spara (sui bambini siriani e sulla verità)
In questi ultimi giorni siamo stati con il fiato sospeso, preoccupati dagli eventi che velocemente hanno portato il mondo a una nuova e insanabile frattura; l’attacco americano (e dei suoi alleati) ai danni della Siria è stato l’apice di una tensione costruita e fomentata per anni, discorso dopo discorso, campagna dopo campagna, insinuazione dopo insinuazione: ci hanno parlato di White Helmets, di “ribelli moderati” e di depositi di armi chimiche mai esistiti e noi ci abbiamo creduto; non ci hanno mai parlato invece delle battaglie vinte, delle città liberate (Palmyra, Aleppo, Raqqa e Deir Ezzor), dei traguardi raggiunti dalle forze congiunte tra eserciti governativi, russi, iracheni e curdi o delle relazioni tra la Nato e le cellule jihadiste che occupavano le città liberate. Tutto, hanno omesso tutto. Nel frattempo, nel nostro Belpaese che continua a non avere un governo ma prende comunque significative decisioni di politica estera (vedi: sanzioni Russia e questione siriana), l’informazione non si è poi di tanto allontanata da quella dettata dalle corporative media (per dirlo all’americana) internazionali. Qui, tra un servizio sui malanni di stagione e uno sulle nuove tendenze della prossima estate, non sono mancate le panzane degli elmetti bianchi, dei ribelli moderati (poi scopertosi cellule di Al-Nusra) o delle oppressioni ai danni del popolo siriano da parte del proprio presidente democraticamente eletto.Ma che la televisione fosse una cattiva maestra ce lo aveva già detto Popper anni fa, che però riponeva fiducia nella classe dirigente e nell’intellighenzia del governo per arginare i danni della Tv. In Italia invece, dove ogni problema pare sempre più grave, l’intellighenzia che per antonomasia si batte per i più deboli, che tenta di annullare le ingiustizie sociali causate dallo sfruttamento del lavoro ed è convintamente contro la guerra (leggasi: la sinistra) è la prima ad essere pronta e sull’attenti quando c’è bisogno di bombardare o, come si dice adesso, “portar democrazia” un paese che gravita fuori dalla nauseabonda ombra dello zio Sam. Intendiamoci: diversi partiti minoritari (relegati per giochi elettorali a non più del 1,5%) della sinistra hanno preso convintamente le distanze dall’atto di aggressione atlantica in Medio Oriente ma ahinoi, qui, per ora, l’intellighenzia che guida la sinistra maggioritaria non è questa, bensì quella di Renzi, della Bonino, della Boldrini, di Riotta e di tutti quelli che prima si fanno foto dove si tappano la bocca per denunciare presunti attacchi chimici (non ancora dimostrati) e preparare l’opinione pubblica a legittimare l’intervento nazionale, ma poi tra qualche mese lanceranno l’ennesima campagna per denunciare i crimini di guerra a Damasco o ad Aleppo provocati dalla guerra che loro stessi, sornioni e convinti di essere sempre dalla parte della ragione, hanno cercato di legittimare e mistificare.In questo paradossale panorama politico l’unica frangia della politica che si è in massa imposta contro l’intervento in Siria è stata la destra, la brutta e cattiva destra, quella che “i buoni” ci dicono essere razzista, populista, fascio-leghista, xenofoba e quant’altro. Questi signori dal selfie facile hanno legittimato tutto, hanno creduto alla farsa di Colin Powell che sventolava finte boccette di veleno per convincere il consiglio dell’Onu ad attaccare Saddam, non hanno fiatato quando abbiamo bombardato la Libia e deposto Gheddafi – ma poi hanno voluto renderci edotti di quanto fosse drammatica la situazione sociale da quando non c’era più un governo –, non hanno detto nulla quando i loro beniamini europei che dovevano arginare i populismi euroscettici hanno varcato i nostri confini, preso i nostri mari e bombardato la Siria. Amano definirsi contro la guerra e contrari ad avere un arsenale militare ma nella loro ipocrisia riescono pure ad essere atlantisti e non fiatano se ci sono delle testate militari made in Usa depositate nel nostro mezzogiorno o se centinaia di unità aero-navali partono per ordine di Washington e vanno a bombardare i paesi mediorientali. Abbiamo concesso alla open society tutto e abbiamo perso tutto, ora siamo senza terra, senza identità e senza spina dorsale, in balia degli eventi che si decidono altrove ma che colpiscono le nostre coste, i nostri habitat naturali per diritto storico, l’Europa è in mano a degli scellerati e noi, italiani e ed europei siamo caduti in un torpore dal quale par impossibile svegliarsi.(Daniele Ruffino, “La sinistra che spara”, da “L’Intellettuale Dissidente” del 20 aprile 2018).In questi ultimi giorni siamo stati con il fiato sospeso, preoccupati dagli eventi che velocemente hanno portato il mondo a una nuova e insanabile frattura; l’attacco americano (e dei suoi alleati) ai danni della Siria è stato l’apice di una tensione costruita e fomentata per anni, discorso dopo discorso, campagna dopo campagna, insinuazione dopo insinuazione: ci hanno parlato di White Helmets, di “ribelli moderati” e di depositi di armi chimiche mai esistiti e noi ci abbiamo creduto; non ci hanno mai parlato invece delle battaglie vinte, delle città liberate (Palmyra, Aleppo, Raqqa e Deir Ezzor), dei traguardi raggiunti dalle forze congiunte tra eserciti governativi, russi, iracheni e curdi o delle relazioni tra la Nato e le cellule jihadiste che occupavano le città liberate. Tutto, hanno omesso tutto. Nel frattempo, nel nostro Belpaese che continua a non avere un governo ma prende comunque significative decisioni di politica estera (vedi: sanzioni Russia e questione siriana), l’informazione non si è poi di tanto allontanata da quella dettata dalle corporative media (per dirlo all’americana) internazionali. Qui, tra un servizio sui malanni di stagione e uno sulle nuove tendenze della prossima estate, non sono mancate le panzane degli elmetti bianchi, dei ribelli moderati (poi scopertosi cellule di Al-Nusra) o delle oppressioni ai danni del popolo siriano da parte del proprio presidente democraticamente eletto.
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Africa impoverita, migranti in fuga dal neoliberismo usuraio
Il suo nuovo libro si chiama “I coloni dell’austerity. Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”. Ilaria Bifarini stavolta si concentra sullo sviluppo mai raggiunto dal continente africano, dopo averci parlato di “Neoliberismo e manipolazione di massa” nella sua prima opera di successo. L’economista, che si definisce ‘bocconiana redenta’ come da sua bio social, parte da alcune domande semplici, ma a cui nessuno ha ancora risposto: dove sono finiti i miliardi di aiuti umanitari ai paesi africani? Perché dopo la fine degli imperi coloniali non si è avviato un modello di sviluppo e di crescita? Cosa spinge gli attuali flussi migratori di massa provenienti dall’Africa subsahariana? “Lo Speciale” ha deciso di fare con lei un “viaggio” nell’economia del continente africano, cercando di scoprire le ragioni di tanto sfruttamento senza alcuna crescita. E’ corretto o è una visione parziale che gli aiuti all’Africa hanno ucciso l’Africa? Tra il 1970 e il 1998, il tasso di povertà è salito da 11% al 66% per questo? «Nonostante la narrazione buonista diffusa dal mainstream, quando si parla di aiuti in Africa si fa riferimento principalmente ai prestiti concessi per rimborsare e rinegoziare il debito, sotto la regia del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale».«Si tratta di somme di denaro legate a delle condizionalità, ossia all’implementazione di politiche neoliberiste, improntate alla massima apertura commerciale, alle liberalizzazioni, ai tagli alla spesa pubblica e alle privatizzazioni. In pratica una forma di ricatto che ha impedito all’Africa postcoloniale di uscire dalla trappola del sottosviluppo e anzi ne ha aumentato la povertà». Ma l’Africa non ha bisogno di investimenti infrastrutturali e modernizzazione dei sistemi per uscire dalla povertà? «L’Africa ha bisogno di liberarsi dal giogo dell’iperglobalizzazione, di proteggere i propri mercati e di sviluppare un’economia propria, basata sulla produzione e il consumo locale. Il modello imposto dalle organizzazioni internazionali, basato sul massimo ricorso al libero scambio, prevede che si esportino beni di prima necessità sottratti al consumo e si importi il resto, impedendo così la nascita di un’industria locale. L’emigrazione non può essere una soluzione per queste economie, sebbene molti sostengano che le rimesse di denaro nei paesi di origine possano aiutare l’economia locale. Esse in realtà non danno alcun impulso allo sviluppo di iniziative e imprese locali, ma arricchiscono solo il fiorente business delle società di trasferimento di denaro».Secondo la sua tesi, invece, il debito pubblico è uno strumento già utilizzato in Africa per impedire crescita e per improntare la globalizzazione della povertà. È proprio un’altra visione. Da quali prove la fa partire? «Proprio a seguito della crisi del debito del Terzo Mondo del 1982 sono stati introdotti i cosiddetti piani di aggiustamento strutturale. Questi programmi prevedono l’accettazione totale e acritica da parte dei paesi poveri del modello economico neoliberista, presentato come condizione indispensabile per lo sviluppo e per l’uscita dalla crisi. Gli effetti disastrosi sono sotto gli occhi di tutti. L’Africa è entrata nella spirale del pagamento degli interessi del debito: dal 1982 al 1990 ha restituito 400 miliardi di dollari di soli interessi. Una situazione che presenta molte analogie con quella che stiamo vivendo in Europa e in Italia in particolare».La Cina è in Africa e più che quella comunista è quella capitalista, le due cose ormai si fondono. Come è potuta accadere questa “rivoluzione” e perché l’Africa è così appetibile da chi commercia e chi vuole produrre «L’Africa è il continente più ricco al mondo di risorse naturali e minerarie, è quindi un ottimo mercato per la Cina, che pure deve far fronte alla propria pressione demografica e alla sempre maggiore richiesta di beni. I funzionari cinesi hanno stimato che il loro paese ha necessità di inviare in Africa ancora 300 milioni di persone per risolvere i problemi interni di sovrappopolazione e inquinamento. La Cina sta occupando l’intero continente africano, concedendo prestiti a tassi bassissimi e appropriandosi di tutti i settori strategici e i ricchi giacimenti di risorse naturali. Per contro la popolazione africana ripone speranze e fiducia nel Dragone cinese che, a differenza dei paesi occidentali, non ha un passato coloniale e non impone il proprio modello economico e sociale».(Ilaria Bifarini, “La spirale del debito neoliberista ha ucciso l’Africa, ora l’Europa”, intervista rilasciata a “Lo Speciale” il 27 marzo 2018. Il libro: Ilaria Bifarini, “I coloni dell’austerity”, sottititolo “Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”, 205 pagine, edito da Amazon, con prefazione di Giulietto Chiesa).Il suo nuovo libro si chiama “I coloni dell’austerity. Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”. Ilaria Bifarini stavolta si concentra sullo sviluppo mai raggiunto dal continente africano, dopo averci parlato di “Neoliberismo e manipolazione di massa” nella sua prima opera di successo. L’economista, che si definisce ‘bocconiana redenta’ come da sua bio social, parte da alcune domande semplici, ma a cui nessuno ha ancora risposto: dove sono finiti i miliardi di aiuti umanitari ai paesi africani? Perché dopo la fine degli imperi coloniali non si è avviato un modello di sviluppo e di crescita? Cosa spinge gli attuali flussi migratori di massa provenienti dall’Africa subsahariana? “Lo Speciale” ha deciso di fare con lei un “viaggio” nell’economia del continente africano, cercando di scoprire le ragioni di tanto sfruttamento senza alcuna crescita. E’ corretto o è una visione parziale che gli aiuti all’Africa hanno ucciso l’Africa? Tra il 1970 e il 1998, il tasso di povertà è salito da 11% al 66% per questo? «Nonostante la narrazione buonista diffusa dal mainstream, quando si parla di aiuti in Africa si fa riferimento principalmente ai prestiti concessi per rimborsare e rinegoziare il debito, sotto la regia del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale».
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Perché alla fine Berlusconi dovrà cedere a Salvini e Di Maio
Ok, è da pazzi lanciarsi in una profezia sul prossimo governo italiano, ma dopo il vertice di Arcore del centrodestra, dopo quel comunicato che mette nero su bianco unità d’intenti nel proporre Salvini premier e nel cercare i numeri per governare in Parlamento e dopo l’ennesimo (mezzo) strappo dello stesso Salvini, che ribadisce la volontà nel cercare un accordo con Luigi Di Maio, sono evidenti almeno due cose: che una maggioranza di governo c’è, in Parlamento, ed è quella tra Lega e Cinque Stelle. E che il problema, ora, è come far sì che questa maggioranza si concretizzi in un incarico di governo e in un voto di fiducia parlamentare. Lo diciamo senza retroscena in tasca, ma ragionando per deduzioni successive: prima o poi accadrà. Magari non al secondo giro di consultazioni, in cui il centrodestra si presenterà unito, ma accadrà: esattamente come ha fatto per l’elezione di Maria Elisabetta Alberti Casellati a presidente del Senato, il leader del Carroccio strapperà con la sua coalizione e porterà ad Arcore una bozza di patto per il governo coi Cinque Stelle, con un premier di centrodestra – non lui, magari un altro leghista come Giancarlo Giorgetti – o comunque d’area. A quel punto si vedrà chi bluffa, che solitamente corrisponde a chi ha più da perdere. E non abbiamo dubbi che il più debole del mazzo risponda al nome di Silvio Berlusconi.Primo: perché ci sono un sacco di parlamentari di Forza Italia che seguirebbero Salvini in quest’avventura, magari attraverso una scissione, come fece Angelino Alfano col Nuovo centrodestra in direzione Pd. Al contrario, non abbiamo notizia di parlamentari leghisti che farebbero il percorso inverso. Secondo: perché le giunte regionali e gli enti locali, a dispetto delle minacce, non sarebbero in pericolo. Non la Liguria, di sicuro, dove il buon Toti se ne starebbe tranquillamente al suo posto. Non il Veneto, dove la rielezione di Zaia, anche col centrodestra diviso, non sarebbe in discussione. E nemmeno la Lombardia, dove già nella scorsa consiliatura la maggioranza di centrodestra non si era divisa né quando il Pdl aveva sostenuto Enrico Letta, né quando c’era stato lo scisma tra Berlusconi e Alfano. Terzo: perché per il Berlusconi imprenditore, a questo giro, avere un governo amico è fondamentale. Lo è per l’happy ending della sua carriera politica, che non vuole si concluda con un Nino Di Matteo ministro della giustizia, ad esempio. Lo è soprattutto per le sue aziende, in primis Mediaset, spettatrice interessata del balletto tra Telecom, Vivendi, Elliot e Cassa Depositi e Prestiti.Un balletto in cui si registra la convergenza d’interessi e intenti tra Cinque Stelle, Lega e Forza Italia, tutte e tre favorevoli alla mossa della fondazioni bancarie e di Costamagna. Al netto di ogni valutazione di merito, qualcosa vorrà pur dire. Ecco perché alla fine Berlusconi cederà: perché è uno abituato a fare bene i conti e sa che gli conviene star dentro, seppur defilato, anziché fuori. Perché sa che è fondamentale tenere unita Forza Italia, più che il centrodestra – magari trovando un leader in pectore in Antonio Tajani – se vuole cercare perlomeno di rallentare il disegno egemonico di Salvini. Perché mai come oggi il peso degli amici di sempre, quelli che lo chiamano Silvio o Dottore, come Confalonieri, Letta, Galliani, lo spingerà al pragmatismo. Un lieto fine val bene un pranzo con Luigi Di Maio. A volte bisogna sapersi accontentare di non prenderle. Anche se ti chiami Berlusconi e hai giocato all’attacco per tutta la vita.(Francesco Cancellato, “Berlusconi cederà: e (presto o tardi) sarà governo Lega-Cinque Stelle”, da “Linkiesta” del 9 aprile 2018).Ok, è da pazzi lanciarsi in una profezia sul prossimo governo italiano, ma dopo il vertice di Arcore del centrodestra, dopo quel comunicato che mette nero su bianco unità d’intenti nel proporre Salvini premier e nel cercare i numeri per governare in Parlamento e dopo l’ennesimo (mezzo) strappo dello stesso Salvini, che ribadisce la volontà nel cercare un accordo con Luigi Di Maio, sono evidenti almeno due cose: che una maggioranza di governo c’è, in Parlamento, ed è quella tra Lega e Cinque Stelle. E che il problema, ora, è come far sì che questa maggioranza si concretizzi in un incarico di governo e in un voto di fiducia parlamentare. Lo diciamo senza retroscena in tasca, ma ragionando per deduzioni successive: prima o poi accadrà. Magari non al secondo giro di consultazioni, in cui il centrodestra si presenterà unito, ma accadrà: esattamente come ha fatto per l’elezione di Maria Elisabetta Alberti Casellati a presidente del Senato, il leader del Carroccio strapperà con la sua coalizione e porterà ad Arcore una bozza di patto per il governo coi Cinque Stelle, con un premier di centrodestra – non lui, magari un altro leghista come Giancarlo Giorgetti – o comunque d’area. A quel punto si vedrà chi bluffa, che solitamente corrisponde a chi ha più da perdere. E non abbiamo dubbi che il più debole del mazzo risponda al nome di Silvio Berlusconi.
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Giannuli: in un politico l’onestà non conta quanto l’onore
La polemica contro i politici che rubano è stata il cavallo di battaglia del M5S in questi anni, come lo è sempre stato per tutti gli antiparlamentarismi passati e presenti. Ovviamente, combattere la corruzione è uno dei compiti politici più importanti e non sarò certo io a negarlo, ma in questa polemica facile ci sono aspetti che meritano d’essere criticati. In primo luogo lascia perplessi proprio la scelta del temine per designare questa battaglia: onestà. Una cosa che fa pensare al fruttivendolo che non ti frega sul peso e sul resto o non ti rifila mele marce al posto di buone. L’onestà è un comportamento elementare ed è un dovere che riguarda tutti: dal fruttivendolo di cui sopra al partecipante a un concorso pubblico che non deve farsi raccomandare, ma deve combattere ad armi pari (perché rubare non è la sola forma di disonestà, ce ne sono molte altre). Ma in politica parliamo di una cosa più importante e impegnativa, e si chiama senso dell’onore. Parliamo di Sarkozy, oggi nei guai per aver accettato una sovvenzione di 5 milioni da Gheddafi per la sua campagna elettorale in cambio di imprecisati favori futuri: tecnicamente non ha “rubato” qualcosa, ma il suo è stato un gesto altamente disonorevole, anche a prescindere dalle successive eventuali concessioni a Gheddafi, che ha poi ripagato con i bombardamenti del 2011.Quando si fa politica ai massimi livelli (lui correva per la presidenza della Repubblica e poi vinse) certe cose sono inammissibili, e Sarkozy si è comportato da miserabile morto di fame la cui pena, oltre che quella detentiva, dovrebbe essere di essere trascinato al carcere fra ali di folla che gli sputano addosso, in segno di disprezzo. Ci sono cose che vanno molto oltre l’onestà: chi abusa di un rapporto fiduciario affidatogli (che sia il magistrato che trucca una causa anche solo per fare carriera o l’educatore che abusa sessualmente dei minori che gli sono affidati) non è semplicemente un disonesto, ma uno che perde qualsiasi onore personale. E così, in politica, ci sono forme di disonestà ben più gravi di quelle di chi riceve una mazzetta. Il politico che inganna gli elettori con promesse impossibili per arraffare voti è più disonesto di uno che prende una tangente. E lo stesso si deve dire di un politico che, solo per il vantaggio del suo partito, cambia posizione su questioni di principio, oppure del politico che trucca una elezione o di quello che viene meno ad un patto in cui ha impegnato la sua parola. Ormai sembra che questi comportamenti siano peccati veniali e la tangente sia il peccato grave.Non dico che la tangente sia una venialità, ma sicuramente quegli altri comportamenti che denotano disonestà intellettuale sono decisamente più gravi, perché investono il campo specifico della sua attività esattamente come un avvocato che, d’accordo con un suo collega, baratta una causa con un’altra, o il medico che viola il giuramento di Ippocrate anche non per soldi, eccetera. Parlare di semplice onestà, dunque, quasi che gestire lo Stato sia un’attività alla stregua di una piccola transazione commerciale, non solo è fuorviante ma, alla fine, banalizzala la colpa specifica del politico. E anche questo è un segno della perdita del senso del politico, in questa stagione di grande involuzione culturale.(Aldo Giannuli, “Onestà, onestà: ma cos’è l’onestà in politica?”, dal blog di Giannuli del 29 marzo 2018).La polemica contro i politici che rubano è stata il cavallo di battaglia del M5S in questi anni, come lo è sempre stato per tutti gli antiparlamentarismi passati e presenti. Ovviamente, combattere la corruzione è uno dei compiti politici più importanti e non sarò certo io a negarlo, ma in questa polemica facile ci sono aspetti che meritano d’essere criticati. In primo luogo lascia perplessi proprio la scelta del temine per designare questa battaglia: onestà. Una cosa che fa pensare al fruttivendolo che non ti frega sul peso e sul resto o non ti rifila mele marce al posto di buone. L’onestà è un comportamento elementare ed è un dovere che riguarda tutti: dal fruttivendolo di cui sopra al partecipante a un concorso pubblico che non deve farsi raccomandare, ma deve combattere ad armi pari (perché rubare non è la sola forma di disonestà, ce ne sono molte altre). Ma in politica parliamo di una cosa più importante e impegnativa, e si chiama senso dell’onore. Parliamo di Sarkozy, oggi nei guai per aver accettato una sovvenzione di 5 milioni da Gheddafi per la sua campagna elettorale in cambio di imprecisati favori futuri: tecnicamente non ha “rubato” qualcosa, ma il suo è stato un gesto altamente disonorevole, anche a prescindere dalle successive eventuali concessioni a Gheddafi, che ha poi ripagato con i bombardamenti del 2011.
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Eresia verde: l’ultima ideologia vincente prima del liberismo
Un mondo più pulito, e quindi più giusto. In una parola: più verde. Erano gli anni ‘80, e il nuovissimo radicalismo ecologista del “Sole che ride”, di matrice scandinava, poteva sembrare un lusso. Era una suggestione “da tempo di pace”, inoculata come un virus benefico in un sistema disordinato e molto inquinato eppure in costante crescita, fondato su un consumismo di massa sempre più condiviso, grazie al famoso ascensore sociale funzionante nella vituperata Prima Repubblica, la società consociativa governata da industriali e vescovi, partiti e sindacati. Superata la lunghissima stagione dell’estremismo, delle bombe e del brigatismo, restava la mafia in Sicilia a far strage di magistrati, mentre montava l’insofferenza per lo strapotere di una partitocrazia logora, corrotta e clientelare. Ma in quell’Italia, così provata dagli anni di ferro e di piombo che aveva appena attraversato, non c’era spazio per il dominio della paura. Non c’era neppure l’ombra dei fantasmi pre-moderni ora riapparsi: povertà e disoccupazione di massa, l’angoscia della vecchiaia senza pensione e di un futuro senza figli.La Grecia era ancora il paradiso in cui andare in vacanza, non l’inferno di oggi senza medicine per i bambini. Nessun esodo di esseri umani disperati: apostoli come Thomas Sankara lavoravano per un’Africa libera e dignitosa. Finiva in soffitta anche il gelido bullismo delle superpotenze: in accordo con Reagan, l’intrepido Gorbaciov stava per rottamare i suoi famosi missili. Quella italiana era una società relativamente rilassata e tollerante, ottimista e in parte progressista, già divorzista e abortista, non ostile alle provocazioni culturali. Gli intellettuali scrivevano libri, il “Nome della rosa” metteva alla berlina il potere medievale del Vaticano. E un certo Primo Levi prendeva posizione contro i massacri ordinati da Israele in Libano, il martoriatro paese mediorientale dove i soldati del generale Angioni sfilavano tra gli applausi, sui loro carri armati bianchi. Rivista oggi, quell’Italia imperfetta e minata da mali endemici era infinitamente più coesa e meno cinica, più serena e fiduciosa dell’attuale euro-periferia cronicamente depressa.C’è di mezzo un’era glaciale, è vero: senza Internet, le notizie facevano ancora notizia. Il terremoto in Irpinia e il business della camorra, la bomba di Bologna e la strage di Ustica, il bambino finito nel pozzo a Vermicino. Non esisteva Facebook, per gli italiani parlava Renzo Arbore. Minoli intervistava Agnelli, Gianni Minà ospitava De André. Guardava avanti, quell’Italia, verso successi inimmaginabili: una stagione di trionfi per l’economia, gli anni rampanti di Bettino Craxi, il boom del made in Italy. Stupiva il mondo, la penisola dell’Iri, proprio quando l’Inghilterra sprofondava nell’austerity varata dalla Thatcher. C’era già allora chi pensava di sabotarlo, il Belpaese – i medesimi poteri che l’avevano riempito di bombe, seminando il terrore nelle piazze. E c’era chi, al contrario, sperava di correggerne lo sviluppo tumultuoso, bonificandone le scorie. C’era stato un evento epocale, che aveva costretto tutti a fermarsi e pensare. Era saltata in aria un’enorme centrale nucleare sovietica, in Ucraina. Messaggio esplicito: nessuno può sentirsi al riparo; non c’è frontiera che tenga, di fronte a un simile disastro. Retromessaggio: il mondo ormai è strettamente interconnesso. La nube tossica di Chernobyl aveva investito l’intera Europa, ma l’Italia fu l’unico paese ad avere il coraggio di mettere al bando l’energia atomica.Riletto oggi, l’ideologo ecologista Alex Langer potrebbe sembrare un visionario epigono di Gandhi. Nel loro positivismo scientifico fondato sulla fiducia nella ragione, i fisici Gianni Mattioli e Massimo Scalia, primissimi parlamentari verdi, erano altrettanto consapevoli di predicare nel deserto: sapevano che sarebbero stati ignorati e poi derisi, prima di essere ascoltati. Dalla loro avevano una convinzione speciale, oggi estinta: la forza dell’ideologia. Cioè la visione profonda, prospettica, di un mondo diverso. Un pensiero lungo: come sarebbe bello, se la nostra consapevolezza di oggi potesse produrre, domani, una vita migliore – più sicura, più felice, con più diritti. Volevano un paese trasformato, in un pianeta progressivamente ripulito. Erano certi che la missione avrebbe richiesto decenni di duro lavoro, anche oscuro, fatto di studio e di consultazione progressiva con cittadini e territori, italiani e non. Sognavano un mondo “glocal”, i primi Verdi, rifondato secondo il preciso schema operativo riassunto dal loro slogan: pensare globalmente e agire localmente. Non seminavano odio, ma futuro. Non chiedevano di votare “contro”, ma “per”: in palio, secondo loro, poteva esserci un domani diverso e inclusivo, migliore per tutti. Non ha nemici, l’ideologia – solo avversari temporanei, popolo da persuadere, alleati potenziali da conquistare alla causa.Non hanno mai sbancato la lotteria delle elezioni, i Verdi italiani – anzi, col tempo si sono degradati fino a scomparire nell’irrilevanza, tra infime diatribe di potere. Non altrettanto si può dire delle loro idee: grazie a quell’eresia, è stata messa in cassaforte una legislazione scrupolosamente attenta alla tutela dell’ambiente. Una rivoluzione copernicana, tradotta in politica, ha imposto (per legge) un cambio di paradigma, nei confronti dell’ecosistema, dai piani regolatori ai depuratori delle fabbriche e delle città. Poi la cultura “green” è diventata moda, veganesimo chic, persino malaffare (l’opaco business delle rinnovabili). In mano al marketing politico-affaristico, l’ecologismo maninstream s’è fatto dogma, conformismo da pensiero unico, politically correct. Ma intanto la natura è salita in cattedra nelle scuole, e lo splendore dei parchi ha piena cittadinanza, tuttora, in televisione. Potevano sembrare una setta di pazzoidi stravaganti, i discepoli di Langer, quando parlavano di prevenzione sanitaria e sovranità dei territori, qualità della vita e sicurezza alimentare: oggi l’Italia ha norme severissime, in materia, a tutela della genuinità delle filiere corte.E’ la filosofia del biologico, settore sempre più trainante, che ha spinto con successo milioni di giovani verso il ritorno all’agricoltura intelligente, pulita e selettiva. E persino nelle regioni terremotate dell’Italia centrale, ancora ingombre di macerie, è il consumatore della porta accanto a tenere in piedi l’economia del contadino, del piccolo artigiano. Cambiano le stagioni e tramontano i partiti, ma le idee camminano. Se hanno prodotto futuro, lo si vede alla distanza. Chi ne ha subito il fascino, in questi anni, ha condiviso un immaginario fondato su un’estetica, prima ancora che su un’etica: un mondo più verde è innanzitutto più bello. Oggi, i vincitori delle elezioni sono costretti a parlare soltanto di soldi: reddito garantito, meno tasse. Sono misure d’emergenza, richieste dalle circostanze. Siamo infatti tornati al “tempo di guerra”: non c’è più spazio per pensieri lunghi. Eppure, chi poi le guerre le vince per davvero – compresa l’ultima, mondiale – dalla sua parte non ha solo gli arsenali, ha anche e soprattutto un’idea chiara in testa, per il “dopo”. E’ quella, in fondo, che assicura la vittoria. Quella che oggi manca ancora, non a caso, rendendo proibitiva la percezione del futuro.E’ tutto più difficile, nel mondo digitale ultra-globalizzato? Eppure, in teoria, dovrebbe essere più facile far circolare idee, farle attecchire. A latitare è forse l’humus, il fertile terreno su cui coltivarle, dandosi tutto il tempo necessario. Sul piano culturale, l’ultima incarnazione dell’ecologismo nato negli anni ‘80 è stata la teoria economica della “decrescita felice”, sviluppata dall’italiano Maurizio Pallante con il francese Serge Latouche. La loro intuizione, mutuata da Bob Kennedy: alla crescita del Pil non corrisponde affatto quella del benessere. Non c’è stato bisogno di metterla alla prova: a stroncarla ha provveduto la “decrescita infelice” imposta dall’oligarchia europea. Una studiosa come Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta”, conferma che oggi, grazie alla deformazione strutturale del profitto finanziarizzato, la crescita del Pil non solo non migliora le condizioni del cittadino medio, ma addirittura le peggiora, accrescendo le diseguaglianze. Forse la soluzione non sta nel prodotto interno lordo, crescente o decrescente, ma risiede da tutt’altra parte: nel futuro, nel mondo delle idee.Il brutto film di oggi sembra fatto apposta per oscurarlo in ogni modo, l’avvenire: è un copione dell’orrore a corto raggio, che propone una normalità di sacrifici e sofferenze, terrorismo e guerra. Viviamo in un kolossal, scritto e diretto dal peggiore degli autori: la paura. Un labirinto cieco, che sembra senza uscita. Ma da ogni dedalo c’è sempre una qualche scappatoia – magari verticale, da indovinare alzando gli occhi al cielo. La forza dell’ideologia sta anche nell’universalismo delle idee: se qualcosa è buono qui, dev’esserlo anche altrove. Vale per tutti, ovunque: le idee non hanno nazionalità, ma possono salvare le nazioni. Globalizzare la democrazia, fermando il mostro onnivoro: roba da avanguardisti carbonari. Dicevano, i seguaci di Alex Langer: ma perché mai avvelenarci l’anima, in un paese favoloso (un Eden, per il turismo verde) che detiene la maggior parte dei beni culturali della Terra? Parole spese quarant’anni fa. Qualcuno oggi sa come saremo fra tre anni?(Giorgio Cattaneo, “Eresia verde, l’ultima ideologia vincente prima del neoliberismo”, dal blog del Movimento Roosevelt del 29 marzo 2018).Un mondo più pulito, e quindi più giusto. In una parola: più verde. Erano gli anni ‘80, e il nuovissimo radicalismo ecologista del “Sole che ride”, di matrice scandinava, poteva sembrare un lusso. Era una suggestione “da tempo di pace”, inoculata come un virus benefico in un sistema disordinato e molto inquinato eppure in costante crescita, fondato su un consumismo di massa sempre più condiviso, grazie al famoso ascensore sociale funzionante nella vituperata Prima Repubblica, la società consociativa governata da industriali e vescovi, partiti e sindacati. Superata la lunghissima stagione dell’estremismo, delle bombe e del brigatismo, restava la mafia in Sicilia a far strage di magistrati, mentre montava l’insofferenza per lo strapotere di una partitocrazia logora, corrotta e clientelare. Ma in quell’Italia, così provata dagli anni di ferro e di piombo che aveva appena attraversato, non c’era spazio per il dominio della paura. Non c’era neppure l’ombra dei fantasmi pre-moderni ora riapparsi: povertà e disoccupazione di massa, l’angoscia della vecchiaia senza pensione e di un futuro senza figli.
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Magaldi: cari Di Maio e Salvini, tocca a voi sfidare Bruxelles
Mettete Keynes nei vostri cannoni (politici), e avrete «posti di lavoro, pace sociale e una vastissima platea di consumatori». Si chiama “piena occupazione”: vale più del reddito di cittadinanza o della Flat Tax. Primo passo: inserire il diritto al lavoro nella Costituzione. Obiettivo: non lasciare più a casa nessuno. Un appunto, che Gioele Magaldi segnala ai vincitori del 4 marzo. A proposito: ma perché Salvini e Di Maio non ci dovrebbero provare, a formare un governo? «Se la giochino fino in fondo, la partita: hanno vinto loro. Lo stesso Berlusconi è del tutto propenso a far parte del gioco: non ha mai detto di volersene stare sull’Aventino, come invece il suo amico (e falso nemico) Renzi». Semmai è il Movimento 5 Stelle che ha un po’ paura di lasciarsi contaminare da quello che Beppe Grillo chiamava “lo psiconano”, ma lo stesso Grillo ora ha iniziato a elogiare Salvini. «E’ un incontro politico legittimo e auspicabile, quello tra Lega e 5 Stelle, insieme a chiunque altro ci stia – purché serva a prendere decisioni concrete e urgenti». Per Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio”, siamo davanti a un bivio: «Più che i nomi del premier e dei ministri, bisognerà osservare molto bene il programma operativo, gli atti concreti del futuro governo. Bisogna dimostrare subito, al popolo sovrano, che si ha intenzione di cambiare qualcosa».Di Maio e Salvini potrebbero imboccare «una strada coraggiosa, coerente con quello che gli elettori hanno loro chiesto». Ovvero: «Tener ferme certe posizioni rispetto ai gestori di questa Unione Europea e di questa Eurozona». Attenzione: sarebbe davvero un’impresa «titanica, eroica», contro la quale infatti «si stanno già muovendo molte forze per sterilizzare qualunque istanza innovativa». Se Lega e 5 Stelle terranno duro, dice Magaldi, il Movimento Roosevelt (da lui presieduto, con accanto un economista come Nino Galloni) è pronto a fornire supporto, in termini di risorse, idee e know-how. Il punto centrale, ovviamente, è proprio «la volontà politica di inaugurare un nuovo corso». Si può sperare che accada davvero qualcosa di buono? Magaldi “promuove” a pieni voti l’economista Alberto Bagnai, candidato dalla Lega: «Credo sia una delle persone migliori elette in questo Parlamento. E’ vero, aveva profetizzato il crollo dell’Eurozona (che non è crollata), forse mancandogli una completa visione delle forze politiche e metapolitiche, palesi e occulte, che fanno in modo che l’Eurozona perduri, al di là del fallimento economico ben evidenziato da Bagnai». In ogni caso, il professore «è un eccellente post-keynesiano: ha una visione lucida, sa bene in cosa va criticata l’Eurozona e sa demistificare i dogmatismi che hanno puntellato il paradigma neoliberista nella versione europeista, quindi sarebbe senz’altro un eccellente ministro».Magaldi propone un approccio laico e pragmatico, per non sprecare l’esito delle urne e le grandi aspettative espresse dagli elettori. Uno sguardo disincantato, a cominciare dalle nuove presidenze di Camera e Senato. «Un affronto a Berlusconi, la nuova presidenza del Senato? Errore: la Casellati era stata individuata da tempo, ben prima che scoppiasse la pantomima dello scontro con Salvini», rivela Magaldi. «Come al solito, nel “back office” si decidono cose che poi vengono rappresentate in termini teatrali, a beneficio dell’opinione pubblica. L’elezione della Casellati non crea la minima difficoltà a Berlusconi, che ha invece iniziato a mettere “a riposo” alcuni personaggi ormai inadeguati». Elisabetta Casellati è una berlusconiana di ferro, «probabimente anche più gestibile di Paolo Romani». Tutt’altro che sconfitto, il Cavaliere: «Da tempo Forza Italia vuole ringiovanire i testimonial e puntare sulle donne». Le dichiarazioni a caldo contro Salvini? «Solo teatro». La neoeletta, in realtà, era la vera candidata fin dall’inizio. «Credo che gestirà il Senato senza infamia né lode. Del resto il suo predecessore è stato Grasso: non è che queste cariche trasformino i ronzini in purosangue. Semmai – insiste Magaldi – in questo asse tra 5 Stelle e Lega che ha portato all’elezione di Casellati e Fico c’è una chance: declinare un paradigma diverso, nel rapporto con l’Europa e l’economia, riguardo al benessere di milioni di italiani. Vedremo».Certo, «Berlusconi gioca su più tavoli, come al solito». E nel teatrino inscenato dopo la bocciatura di Romani, ampiamente prevista, è riuscito a dire tutto e il contrario di tutto, nel giro di 24 ore. Il Cavaliere «non vuole il “partito unico” del centrodestra, che ormai sarebbe egemonizzato dalla Lega, e adesso giura di fidarsi di Salvini, a cui lascia semmai l’onere del tradimento dell’alleanza». Ma non è neppure quello, il problema: il vero scoglio, per Magaldi, è la disponibilità del Movimento 5 Stelle a convivere con un Berlusconi ancora abbastanza “visibile”, nell’eventuale intesa governativa con il centrodestra. Quanto ai grandi vecchi, l’ultimo passaggio parlamentare ha regalato l’ennesimo minuto di gloria mediatica all’ineffabile Napolitano. «Ha avuto la responsabilità degli ultimi (pessimi) governi italiani, e l’ha scaricata sugli altri – come se lui fosse stato nell’Empireo – ergendosi come al solito ad accusatore che punta il dito, con atteggiamento ierocratico. Ineffabilità e, come al solito, indisponibilità all’autocritica, pur con l’amarezza di aver sbagliato anche lui le previsioni sull’esito delle sue manovre degli anni scorsi».Napolitano? «Un avversario, di cui non condivido nulla», dice Magaldi. «Gli riconosco una grande capacità di durata: è un uomo che ha vissuto sempre per il potere, che ha cambiato mille volte ideologia apparendo sempre granitico nel sostenere le idee che, di volta in volta, cambiava». Gli si può augurare lunga vita, «se non altro per meditare sui suoi tanti errori, sulla sua incorenza e sulle conseguenze così negative, per l’Italia, che il suo operato ha prodotto». Desta comunque ammirazione, aggiunge Magaldi, la sua capacità di stare in scena: «E’ un altro grande teatrante, al pari di Berlusconi. Dietro il teatro, però, c’è una sostanza spregiudicata e indifferente al copione – purché, appunto, ci sia la scena». L’ultima partita persa da Napolitano probabimente si chiama Matteo Renzi: è il vero, grande perdente del 4 marzo. «Si è sconfitto da solo, in modo stolto, con una vocazione al “cupio dissolvi” sin dai tempi del referendum costituzionale: la sua strampalata coerenza non aveva contenuti tali da passare alla storia. E anche dopo – aggiunge Magaldi – ha continuato a insistere su una narrazione astratta, non realistica, del tipo “va tutto bene, madama la marchesa”. E’ stato vittima di se stesso: convinto di aver ben governato, pensava che il popolo italiano avrebbe dovuto riconoscerlo».Certo, i 5 Stelle e la Lega hanno saputo senz’altro convincere un elettorato mobile, che prima aveva creduto nella narrativa renziana. Uno tsunami da cui lo stesso Berlusconi esce fortemente ridimensionato, come “capostipite” dell’infelice Seconda Repubblica, il cui ultimo epigono è stato proprio Renzi. «Con la differenza che Berlusconi ha sette vite (come i gatti) e quindi potrà ancora recitare un ruolo, mentre Renzi subirà un’inevitabile resa dei conti nel Pd». E anche adesso, invece di fare autocritica ammettendo i propri errori, «si propone dinnanzi a tutti come una sorta di bambino malmostoso che si porta via il pallone perché gli hanno segnato troppi goal». Oggi il Pd è fuori gioco «per colpa di Renzi, accecato dalla sventura che lui stesso ha prodotto per insipienza e arroganza». Per dire: poteva giocare di sponda, fin dall’inizio, coi 5 Stelle. E invece manca un leader, nel Pd sequestrato da Renzi, che si è circondato di mezze calzette: «Renzi ha eliminato dei catafalchi, ed è stato il suo unico merito: i “rottamati” erano anche peggio di lui, pur avendo almeno una fisionomia politica». Non resta che il deserto, per ora: «Nessuno in vista, a quanto pare, che sia capace di ergersi sugli altri e tentare una rotta diversa».Un naufragio, quello del centrosinistra, che coinvolge anche i sindacati: «Anacronistica la battaglia sull’articolo 18, che tutela solo chi già lavora». La sfida, oggi, sta nel creare lavoro per chi non ce l’ha: e lo si può fare, insiste Magaldi, costituzionalizzando il diritto al lavoro. «In un mondo che non ha mai prodotto tanta ricchezza come oggi, e che però la gestisce malissimo (mai come oggi è grande il divario tra i pochi ricchi e i moltissimi cittadini in difficoltà economiche) si può tranquillamente rendere costituzionale il diritto al lavoro». Il reddito di cittadinanza? «Una misura che in Italia che si può adottare». Ma il cittadino italiano, aggiunge Magaldi, «deve nascere con il diritto a poter lavorare in base alle proprie capacità». Come? «Bisogna istituire un’alta autorità per la piena occupazione, che in base alla formazione e al talento dirotti i futuri lavoratori in ambito pubblico o privato: nessuno può essere lasciato senza un lavoro». Magaldi ci crede: «Sarebbe una misura rivoluzionaria e al tempo stesso social-liberale, coerente con l’economia di mercato, capace di assicurare prosperità al sistema nel suo complesso». Ottimismo: «Prima o poi vinceremo», scommette Magaldi, che pensa al nuovo partito democratico-progressista, il Pdp, da mettere in campo per fare forza al “cambio di paradigma” a cui già il prossimo governo potrebbe inziare a dare corso, se Di Maio e Salvini avranno il coraggio di non piegarsi agli oligarchi dell’Unione Europea.Mettete Keynes nei vostri cannoni (politici), e avrete «posti di lavoro, pace sociale e una vastissima platea di consumatori». Si chiama “piena occupazione”: vale più del reddito di cittadinanza o della Flat Tax. Primo passo: inserire il diritto al lavoro nella Costituzione. Obiettivo: non lasciare più a casa nessuno. Un appunto, che Gioele Magaldi segnala ai vincitori del 4 marzo. A proposito: ma perché Salvini e Di Maio non ci dovrebbero provare, a formare un governo? «Se la giochino fino in fondo, la partita: hanno vinto loro. Lo stesso Berlusconi è del tutto propenso a far parte del gioco: non ha mai detto di volersene stare sull’Aventino, come invece il suo amico (e falso nemico) Renzi». Semmai è il Movimento 5 Stelle che ha un po’ paura di lasciarsi contaminare da quello che Beppe Grillo chiamava “lo psiconano”, ma lo stesso Grillo ora ha iniziato a elogiare Salvini. «E’ un incontro politico legittimo e auspicabile, quello tra Lega e 5 Stelle, insieme a chiunque altro ci stia – purché serva a prendere decisioni concrete e urgenti». Per Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio”, siamo davanti a un bivio: «Più che i nomi del premier e dei ministri, bisognerà osservare molto bene il programma operativo, gli atti concreti del futuro governo. Bisogna dimostrare subito, al popolo sovrano, che si ha intenzione di cambiare qualcosa».
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Craig Roberts: russi svegliatevi, l’Occidente vi vuole morti
Non è facile per i russi comprendere quello che pensa il loro nemico occidentale e ancora più difficile comprendere che il suo nemico vuole la loro distruzione. Quello che è successo con la Russia è veramente molto strano: è accaduto che il Regno Unito, un paese che non ha un peso militare importante, e che potrebbe essere completamente distrutto dalla Russia (in pochi minuti, e per sempre) si sia inventato delle false accuse contro il governo russo, che abbia reso pubbliche queste accuse – senza fornire prove – che abbia portato queste accuse senza prove alle Nazioni Unite, che abbia lanciato un ultimatum alla Russia, che abbia cacciato i diplomatici russi e che abbia confiscato beni russi sulla base di semplici asserzioni, rifiutandosi nel contempo di collaborare con la Russia nel trovare prove concrete, come prevede la legge, per avviare una indagine. I russi (sia il governo che i media, ma anche quella gioventù a cui è stato lavato il cervello dalla propaganda americana e dalle Ong finanziate da Washington, che sono autorizzate a lavorare contro il governo russo in Russia) sembrano pensare che tutte le accuse e le minacce lanciate contro la Russia siano una svista, uno sbaglio che sarà subito chiarito appena salteranno fuori le prove o interverrà la legge. Apparentemente, dopo tutti questi anni i russi continuano a non capire che Washington e i suoi vassalli non hanno nessun interesse per i fatti o per la legge.All’Onu l’ambasciatore russo, in risposta alle accuse evidentemente gratuite del primo ministro britannico, secondo cui il governo russo ha usato un agente di gas-nervino dell’esercito per tentare di uccidere due persone sedute su una panchina inglese, è ricorso a tutti i possibili mezzi legali, inclusa l’offerta della Russia di collaborare nell’esame delle prove, per dimostrare che l’accusa del Regno Unito è stata mossa in violazione della legge e non è supportata da nessuna prova. Perché i russi pensano ancora che il governo inglese si preoccupi delle leggi o delle prove? L’Occidente ha fatto il lavaggio del cervello ai russi? Il governo inglese di Tony Blair collaborò con George W. Bush per far girare la menzogna secondo cui Saddam Hussein in Iraq aveva delle “armi di distruzione di massa”, e questa bugia è servita per invadere e distruggere l’Iraq e lasciare il paese, dopo 15 anni, in un caos assoluto. Il governo inglese ha confermato anche le menzogne su Gheddafi in Libia e ha contribuito al rovesciamento del governo libico. Il governo inglese ha confermato la menzogna secondo cui l’Iran aveva un programma di armi nucleari anche se non c’era nessuna prova, ma agli inglesi non interessavano le prove. Si stava seguendo un’agenda di lavori che doveva andare avanti indipendente dalle prove.Malgrado il Parlamento inglese abbia votato contro la partecipazione alla prevista invasione della Siria voluta da Obama, l’attuale governo sostiene ancora la menzogna secondo cui Assad sta usando armi chimiche “contro il suo stesso popolo”. Dopo tutto ciò si potrebbe anche pensare che i russi – governo, media e popolazione – dovrebbero aver compreso che l’Occidente è capace di raccontare le bugie e che lo scopo delle bugie ora è di demonizzare la Russia e prepararsi ad un attacco militare contro la Russia. Ma per qualche ragione i russi non riescono a comprendere il messaggio. I russi pensano che si tratti di una specie di errore che si potrà chiarire guardando ai fatti reali, con un regolare processo o con la diplomazia: «Per favore, ascoltateci, possiamo chiarire qualsiasi malinteso!». Come se questo appello servisse all’Occidente. Washington vuole “i malintesi”. E’ per questo che Washington li crea. L’incapacità dei russi di comprendere l’Occidente, quell’Occidente verso il quale la Russia cerca stupidamente di correre, è il motivo per cui la Terza Guerra Mondiale si sta avvicinando. E se invece di accettare il processo e le leggi su cui poggiano le pubbliche accuse fatte alla Russia dal primo ministro inglese senza presentare nessuna prova, l’ambasciatore russo all’Onu avesse semplicemente detto: «Se domani il Regno Unito esisterà ancora, dovrà solo ringraziare la tolleranza del governo russo»?Fidandosi della regola per cui a nessun paese occidentale gliene frega niente di niente, l’ambasciatore russo all’Onu ha permesso al pupazzo francese di Washington e agli altri Stati-fantoccio di Washington di appoggiare le accuse degli inglesi contro la Russia nonostante l’assenza di prove. Forse i russi non ci credevano, perché nessun governo europeo aveva ancora chiesto qualche prova sulla responsabilità della Russia; perché mancava, insomma, un’accusa formale. Nel mondo occidentale “eccezionale e indispensabile” governato da Washington, basta un’accusa, da sola, come prova che dimostra le bugie dette dai russi. Quando il leader del partito laburista britannico Jeremy Corbyn ha chiesto al Pm se avesse effettivamente delle prove che la Russia aveva tentato di uccidere l’ex agente doppiogiochista britannico, Corbyn è stato subito azzittito non solo dai corrotti conservatori ma anche da quelli del partito laburista di cui è il capo. Di quante altre prove avrà ancora bisogno la Russia per capire che i fatti, per l’Occidente, non hanno nessuna importanza?Si sveglierà questa Russia? O il suo stolto desiderio di entrare a far parte dell’Occidente farà sì che i russi resteranno impreparati allo scoppio nucleare di Washington, che per arrivare? E se il governo russo avesse detto a Washington: «Se voi o qualcuno dei vostri terroristi mercenari doveste attaccare le forze siriane, noi elimineremo la vostra presenza e anche quella di Israele dal Medio Oriente»? Cosa che la Russia può fare con un semplice schiocco di dita. Cosa farebbero gli inglesi e cosa farebbe Washington, oltre a farsela sotto? Sicuramente, coglierebbero il messaggio e deciderebbero che la pace è un’idea migliore. Il governo russo, semplicemente, non vuol capire che Washington vede tutti gli appelli dei russi a diplomazia, a rispetto della legge, a fatti e a prove, come segni di estrema debolezza e di mancanza di fiducia. Washington e tutti i suoi paesi-fantoccio non hanno bisogno di fatti. Seguono la loro agenda. I russi, se ancora vogliono guardare ai fatti, fanno solo vedere di essere deboli. E questa manifestazione della debolezza russa incoraggia l’aggressività di Washington. Ma forse il desiderio della Russia di entrare a far parte dell’Occidente è più forte del desiderio di sopravvivere come nazione.(Paul Craig Roberts, “Si sveglierà, la Russia?”, da “Information Clearing House” del 15 marzo 2018, post tradotto da Bosque Primario per “Come Don Chisciotte”).Non è facile per i russi comprendere quello che pensa il loro nemico occidentale e ancora più difficile comprendere che il suo nemico vuole la loro distruzione. Quello che è successo con la Russia è veramente molto strano: è accaduto che il Regno Unito, un paese che non ha un peso militare importante, e che potrebbe essere completamente distrutto dalla Russia (in pochi minuti, e per sempre) si sia inventato delle false accuse contro il governo russo, che abbia reso pubbliche queste accuse – senza fornire prove – che abbia portato queste accuse senza prove alle Nazioni Unite, che abbia lanciato un ultimatum alla Russia, che abbia cacciato i diplomatici russi e che abbia confiscato beni russi sulla base di semplici asserzioni, rifiutandosi nel contempo di collaborare con la Russia nel trovare prove concrete, come prevede la legge, per avviare una indagine. I russi (sia il governo che i media, ma anche quella gioventù a cui è stato lavato il cervello dalla propaganda americana e dalle Ong finanziate da Washington, che sono autorizzate a lavorare contro il governo russo in Russia) sembrano pensare che tutte le accuse e le minacce lanciate contro la Russia siano una svista, uno sbaglio che sarà subito chiarito appena salteranno fuori le prove o interverrà la legge. Apparentemente, dopo tutti questi anni i russi continuano a non capire che Washington e i suoi vassalli non hanno nessun interesse per i fatti o per la legge.
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Verso il “governicchio di scopo” che non cambierà niente
«Hanno imparato a fatica che devono fare politica, ora impareranno a fatica che devono trovare alleati». Per il politologo bolognese Gianfranco Pasquino, i 5 Stelle dovranno rassegnarsi alla soluzione per la quale lavorerebbe Mattarella: un “governo di scopo” destinato a durare al massino un anno e mezzo, giusto il tempo di licenziare il Def e tamponare la disoccupazione, ma senza toccare la legge Fornero né altre misure su cui si fonda il rigore imposto dall’Unione Europea. Ai vincitori l’onere del governo, avverte il Pd, con Maurizio Martina nei panni di ventriloquo di Renzi: stare alla finestra, sperando in una futura rivincita dopo aver fatto deragliare i vincitori relativi del 4 marzo, grillini e Lega. «E’ così», ammette Pasquino: il Pd «non produce la soluzione, ma impedisce di trovarne una: e Mattarella lo sa». Dal Quirinale, due appelli alla “responsabilità”. «Verrà anche il terzo appello, poi ci saranno le consultazioni: e su quella base Mattarella cercherà di individuare una soluzione praticabile». Grande coalizione? No, troppo indigesta e con aritmetica risicatissima: Renzi e Berlusconi, insieme, non avrebbero i numeri. Un asse tra Pd e M5S per tagliare fuori la Lega? «Ormai Salvini ha superato Berlusconi sia come seggi, sia come statura politica. Secondo me l’ex Cavaliere è fuori gioco definitivamente», dice Pasquino a Federico Ferraù, che l’ha intervistato per “Il Sussidiario”. Unica possibilità: un governo “istituzionale”, con i 5 Stelle come baricentro.E il centrodestra? Il cartello si romperà? «Meloni e Salvini parlano la stessa lingua su controllo dell’immigrazione e sovranismo, più e meglio di quanto abbiano in comune con Berlusconi». Ma se il Cavaliere vuole sopravvivere politicamente, aggiunge Pasquino, deve stare con loro. Finora il Movimento 5 Stelle ha “recitato” da solo: è stato il suo punto di forza. Ora però si trova a dover fare politica, a stringere accordi. Ci riuscirà? Secondo Pasquino sì, «però non possono limitarsi a dire “facciamo delle cose insieme”, devono fare loro stessi delle offerte, dire quali punti sono trattabili e quali irrinunciabili. Stanno diventando possibilisti. Bene: è una delle regole cruciali delle democrazie parlamentari, dove i governi sono governi di coalizione e si fanno in Parlamento». Possibile un governo M5S-Lega? No: avrebbe troppo pochi seggi, e quindi «sarebbe troppo esposto al dissenso o al veto di pochi leghisti o pentastellati». Pasquino vede un “governo di scopo”, ovvero: «Si trova un accordo di programma su alcuni punti rilevanti, si cerca una squadra di governo sufficientemente preparata e su questa base si prova di trovare una maggioranza in Parlamento. Io credo che si possa fare».Piano-B: «Un governo di minoranza, basato sulla non-sfiducia dell’aula. In questo caso – sostiene Pasquino – l’esecutivo non potrebbe però essere fatto solo da ministri a 5 Stelle e dovrebbe essere guidato da una personalità di rilievo; qualcuno più importante di Di Maio, che dovrebbe fare un passo di lato». Nel programma ci sarebbe anche la legge elettorale, per rimediare all’orrido Rosatellum? «No, altrimenti non se ne esce più». Aggiune Pasquino, sarcastico: «I nuovi eletti si tranquillizzino, non si torna a votare in tempi brevi. Ci sono cose importanti da fare e cose da non fare». Tra le prime, affrontare il Def e le misure contro la disoccupazione. E comunque: meglio evitare di toccare l’oscena legge Fornero, «altrimenti si apre il vaso di Pandora». In pratica, un governo con le mani legate. Potrebbe prevalere la tentazione di tornare alle urne? La Lega punterebbe a conquistare altri elettori di Forza Italia, mentre i 5 Stelle finirebbero di spolpare il Pd. Pasquino però è scettico: «La Lega può pensare così, ma M5S deve fare attenzione, perché gli elettori lo hanno votato per mandarlo al governo. Se la prima cosa che fa è accettare lo scioglimento del Parlamento, il 32,8% se lo scorda. Insomma, non agiterei l’arma delle urne: anche per rispetto degli elettori». Meglio il “governicchio”, dunque? Pasquino non lo chiama così. Mattarella, dice, «vuole un governo sufficientemente autorevole, che duri per un po’ di tempo, il tempo classico dei governi italiani, 15-16 mesi, ma che sia serio». Serio: cioè ancora una volta sottomesso all’Ue, senza poter contestare la camicia di forza dell’austerity?«Hanno imparato a fatica che devono fare politica, ora impareranno a fatica che devono trovare alleati». Per il politologo bolognese Gianfranco Pasquino, i 5 Stelle dovranno rassegnarsi alla soluzione per la quale lavorerebbe Mattarella: un “governo di scopo” destinato a durare al massino un anno e mezzo, giusto il tempo di licenziare il Def e tamponare la disoccupazione, ma senza toccare la legge Fornero né altre misure su cui si fonda il rigore imposto dall’Unione Europea. Ai vincitori l’onere del governo, avverte il Pd, con Maurizio Martina nei panni di ventriloquo di Renzi: stare alla finestra, sperando in una futura rivincita dopo aver fatto deragliare i vincitori relativi del 4 marzo, grillini e Lega. «E’ così», ammette Pasquino: il Pd «non produce la soluzione, ma impedisce di trovarne una: e Mattarella lo sa». Dal Quirinale, due appelli alla “responsabilità”. «Verrà anche il terzo appello, poi ci saranno le consultazioni: e su quella base Mattarella cercherà di individuare una soluzione praticabile». Grande coalizione? No, troppo indigesta e con aritmetica risicatissima: Renzi e Berlusconi, insieme, non avrebbero i numeri. Un asse tra Pd e M5S per tagliare fuori la Lega? «Ormai Salvini ha superato Berlusconi sia come seggi, sia come statura politica. Secondo me l’ex Cavaliere è fuori gioco definitivamente», dice Pasquino a Federico Ferraù, che l’ha intervistato per “Il Sussidiario”. Unica possibilità: un governo “istituzionale”, con i 5 Stelle come baricentro.
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La piovra del rating: ecco chi ha vinto (davvero) le elezioni
La questione cruciale elusa da tutti: l’Italia non ha più alcuna sovranità. Come stabilito all’estero nei piani alti del sistema di dominio, la colonia Italia ha votato con una legge truffaldina (incostituzionale) e ora si ritrova alcuni aspiranti inquilini di Palazzo Chigi senza arte né parte, razzisti e analfabeti funzionali che in economia si sono affidati ai soliti esperti allineati di regime. Così dalla padella del piddì si cadrà nella brace. Le agenzie di rating, nate agli inizi del Novecento negli Stati Uniti, analizzano la solidità finanziaria di soggetti quali Stati, enti, governi, imprese, banche, assicurazioni. Le principali agenzie sono tutte statunitensi: Moody’s, Standard & Poors e Fitch. Il 19 ottobre 2006, due delle tre agenzie di rating internazionali che agiscono in regime di oligopolio, avevano deciso di declassare l’Italia, dando un voto negativo alla capacità dell’Italia di gestire la sua economia. Non era la prima volta che questo accadeva, anche in presenza di governi di differente orientamento politico e le motivazioni della “pagella” sono sempre di una ripetitività e di una banalità quasi disarmanti: i tagli nelle spese di bilancio non sono sufficienti e la “riforma delle pensioni” (leggi privatizzazione delle pensioni) va troppo a rilento.L’effetto immediato del voto negativo è un aumento dei tassi di interesse per “ricomprare” la fiducia dei sottoscrittori di obbligazioni e di altre forme di credito, per cui tutto il debito pubblico e privato di una nazione costa subito di più, con ricadute negative sul bilancio statale e con l’aggiunta di ulteriori tagli alla spesa sociale. Per le nazioni più deboli, queste decisioni provocano anche una caduta del valore di scambio della moneta, con effetti devastanti sulle importazioni (che costano di più), sulle esportazioni (che valgono di meno) del paese, sul suo bilancio statale e sui livelli di vita della popolazione; con la deregolamentazione dell’economia, soprattutto dall’inizio degli anni Novanta, queste agenzie sono diventate il “grande fratello” finanziario e hanno progressivamente accumulato un potere immenso, superiore a quello degli Stati e delle banche centrali, sia nella valutazione delle politiche dei governi che dell’andamento economico di qualsiasi entità privata, determinando le decisioni di tutti gli attori economici.All’inizio le agenzie offrivano, a pagamento, ai detentori di titoli di credito i loro giudizi sul comportamento dei debitori. Adesso persino i debitori pagano per avere un “voto” prima di emettere un’obbligazione o attingere a qualsiasi altra forma di credito. Senza il voto delle agenzie, economicamente non si esiste più. Per poter comprare o vendere, per prendere o dare a prestito, bisogna pagare il “pizzo” per ricevere la protezione o il semplice riconoscimento da parte di questi nuovi potentati. Ora le tre maggiori agenzie di rating sono delle entità private strutturate come società per azioni e quindi parte della logica di mercato e sottoposte al principio del massimo profitto possibile; inoltre le agenzie in questione hanno partecipazioni dirette, anche attraverso i membri dei loro consigli direttivi, board of directors, nelle più grandi corporation internazionali e delle più grandi banche internazionali, pesantemente coinvolte nelle operazioni di finanza derivata, cioè in quelle speculazioni finanziarie principalmente responsabili delle bolle speculative e dell’attuale crisi finanziaria sistemica globale.La Standard & Poor’s (S&P) è sussidiaria della multinazionale McGraw-Hill Companies, con sede centrale a New York, colosso delle comunicazioni, dell’editoria, delle costruzioni e presente in quasi tutti i settori economici. La multinazionale, proprietaria anche di “Business Week”, nel 2005 vantava un fatturato di 6 miliardi e un profitto di 844 milioni di dollari. Il presidente di McGraw-Hill è Harold McGraw III, che è, tra le altre cose, contemporaneamente membro del Board of Directors della United Technology (multinazionale degli armamenti) e della ConocoPhillips (petrolio ed energia). È stato anche membro del “Transition Advisory Committe on Trade” del presidente George W. Bush, padre dell’ex capo della Casa Bianca. Tra i membri del Board of Directors della McGraw-Hill, che decidono quindi anche dell’attività della S&P, figurano: sir Winfried Bishoff, presidente della Citigroup Europa e uomo di punta della Henry Schroder Bank di Londra; Dougals N. Daft, presidente della Coca Cola Co.; Hilde Ochoa-Brillenmbourg, alto responsabile della Credit Union del Fmi-World Bank; James H. Ross, della British Petroleum; Edward B. Rust Jr., presidente dell’assicurazione State Farm Insurance Company (gigante del settore assicurativo, bancario e immobiliare, sotto scrutinio per le politiche troppo disinvolte dopo l’urgano Katrina), direttore della Helmyck & Payne, colosso del settore petrolifero e già membro del Transition Advisory Team Committee on Education della presidenza di George W. Bush (padre); Sidney Taurel, presidente della farmaceutica Eli Lilly (che in passato ha vantato tra i suoi dirigenti anche Kenneth Lay, condannato per la bancarotta della Enron) ex direttore dell’Ibm, già membro nel 2002 dell’Homeland Security Advisory Council.L’agenzia di rating Fitch di New York è sussidiaria della multinazionale dei servizi finanziari Fimalac, con sede centrale a Parigi. Nel 2005 la multinazionle americana delle comunicazioni Hearst Corporation ha rilevato il 20 per cento del pacchetto azionario. Il suo presidente è Marc Ladreit de Lacharriere, uomo della Renault e della Banque Suez. Tra i membri del Board of Directors figurano: David Dautresme della banca Lazard Freres; Philippe Lagayette della Jp Morgan & Cie; Bernard Mirat della Cholet-Dupont (finanza); Bernard Pierre della Fremapi (metalli preziosi). La Fimalac vanta anche un International Advisory Board per dare più lustro e potere alla multinazionale, che nel 2002 annoverava tra gli altri: Felix Rohatyn della Lazard Freres, l’uomo che ha recentemente smantellato l’industria americana dell’auto, Sholley della Ubs Warburg, Reimnits della Kommerz Bank, Peberan della Paribas, rappresentanti della Nestlè, della Bentelsmann e anche l’ex presidente della Federal Reserve americana Paul Volker e l’italiano Lamberto Dini.L’agenzia di rating Moody’s è sussidiaria della Moody’s Corporation, con sede centrale a New York. Il presidente è Raymond W. McDaniel Jr. Tra i membri del Board of Directors figurano: Basil L. Anderson della Stables Inc. e della Hasbro Inc (due giganti del settore vendite e servizi); Robert Glauber della Ing Group (settore bancario e assicurativo con base in Olanda), già sottosegretario del ministero delle finanze americano nel periodo 1989-92; Henry Mc Kinnell, della multinazionale farmaceutica Pfizer e della Exxon Mobil (petrolio); Nancy S. Newcomb della Citigroup e della Sysco Corporation (settore alimentare); John K. Wulff, della multinazionale chimica Herculer, della Kpmg (la multinazionale di consulenza finanziaria e di certificazione dei bilanci), della Sunoco (petrolio) e della Fannie Mae (che, insieme alla Freddie Mac, detiene quasi per intero il pacchetto ipotecario immobiliare americano).Le suddette tre agenzie americane di rating non sono solamente l’espressione dell’intreccio dominante delle multinazionali, ma in particolar modo sono una struttura organizzata delle principali banche del pianeta che controllano il sistema finanziario e debitorio delle nazioni e di tutti i settori dell’economia sia privata che pubblica. Le tre agenzie in questione non solo non sono qualificate nella pretesa di valutare la solidità economica e finanziaria degli Stati e delle imprese, ma sono parte integrante del problema sta portando il mondo economico verso il crack e la crisi sistemica con conseguenze devastanti per l’intera vita economica, sociale e politica del pianeta.(Gianni Lannes, “Grullini o grulloni?”, dal blog “Su la Testa” del 6 marzo 2018).La questione cruciale elusa da tutti: l’Italia non ha più alcuna sovranità. Come stabilito all’estero nei piani alti del sistema di dominio, la colonia Italia ha votato con una legge truffaldina (incostituzionale) e ora si ritrova alcuni aspiranti inquilini di Palazzo Chigi senza arte né parte, razzisti e analfabeti funzionali che in economia si sono affidati ai soliti esperti allineati di regime. Così dalla padella del piddì si cadrà nella brace. Le agenzie di rating, nate agli inizi del Novecento negli Stati Uniti, analizzano la solidità finanziaria di soggetti quali Stati, enti, governi, imprese, banche, assicurazioni. Le principali agenzie sono tutte statunitensi: Moody’s, Standard & Poors e Fitch. Il 19 ottobre 2006, due delle tre agenzie di rating internazionali che agiscono in regime di oligopolio, avevano deciso di declassare l’Italia, dando un voto negativo alla capacità dell’Italia di gestire la sua economia. Non era la prima volta che questo accadeva, anche in presenza di governi di differente orientamento politico e le motivazioni della “pagella” sono sempre di una ripetitività e di una banalità quasi disarmanti: i tagli nelle spese di bilancio non sono sufficienti e la “riforma delle pensioni” (leggi privatizzazione delle pensioni) va troppo a rilento.
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L’Italia è senza pilota, ai comandi ora ci sono i passeggeri
La vittoria della Lega di Salvini è la sconfitta del politicamente corretto e della casta politica e istituzionale, mediatica e intellettuale che lo propina, rigettato come gergo asfissiante del potere. La vittoria di Salvini è il superamento dell’antifascismo e del suo uso infame, come dimostra il caso di Macerata, dove la Lega è il primo partito nonostante la campagna per accusare il “fascioleghista” Salvini d’essere il mandante morale di un nuovo presunto terrorismo nero. Lo scempio del corpo di una ragazza da parte di un gruppo di migranti era passato in secondo piano rispetto alla reazione isolata di un esagitato, ed era stata imbastita un’indegna e fuorviante sceneggiata antifascista. Il voto a Salvini è la risposta a quella gazzarra e a quella speculazione assurda, fuori dal tempo. La vittoria di Salvini si spiega pure con la percezione d’invasione e d’insicurezza che c’è nel paese. C’è poi la sfiducia verso l’Europa, il disagio verso l’euro e la dominazione finanziaria e la rivendicazione della sovranità politica, popolare e nazionale. La vittoria di Salvini è la traduzione italiana del populismo nordeuropeo, ma anche americano e perfino russo. E qui le ragioni del successo leghista sconfinano nelle ragioni del trionfo grillino.C’è un fattore su tutti che rende vicini il successo della Lega al trionfo dei 5 Stelle. È il rigetto della classe dominante. L’Italia non ha più una classe dirigente, bocciata a furor di popolo. Gli italiani hanno respinto i partiti e i leader, hanno punito coloro che hanno governato finora, dalla sinistra al centro fino a Berlusconi. Hanno votato uno stato d’animo prima ancora che un movimento e hanno votato se stessi prima che i grillini o i salvini. Un voto selfie, un voto allo specchio, seppure infranto, in cui si riflette l’italiano senza guide e senza modelli. Gli elettori hanno respinto le mediazioni e i filtri, hanno votato contro il sistema, contro l’establishment, contro l’Europa. Un voto contro. Anche Grillo non c’entra più, è un simbolo araldico, non più un leader politico. Non è vero che l’Italia si sia divisa in due: a nord come a sud ha votato in maggioranza ai populisti, con la differenza che a nord il populismo è leghista, a centro-sud è 5 Stelle. Declina la sinistra, prima ancora che il renzismo; il fatto che sparisca in tutta Europa, se non in Occidente, dimostra che Renzi è solo il nome locale di una crisi mondiale. Si salva dall’ecatombe la destra meloniana, pur restando nel piccolo cabotaggio di forza laterale.La pericolosa utopia grillina è che un popolo si possa autogovernare, tramite loro. E che l’ignoranza, l’assenza di storia, esperienza e curriculum, siano indici di purezza. Da questo punto di vista i leghisti hanno saputo dare anche alcune prove di buon governo, almeno a livello locale. Il successo grillino si spiega con una protesta più radicale ma più superficiale. Il pericolo migranti agitato dai leghisti viene sostituito dai grillini dal tema disoccupati e dalla loro puerile soluzione. A 50 anni dal ’68, il grillismo appare come una rivoluzione semi-sessantottina: potere ai giovani e al collettivo che ora si chiama rete; opposizione al sistema, ignoranza in cattedra, reddito di cittadinanza come ieri il voto politico; via i privilegi, morte ai potentati. Non ha avuto più presa Berlusconi, apparso come bollito, allineato all’eurocrazia, aperto agli inciuci col renzismo ed esagerato nelle promesse, comprese quelle che già non mantenne quando ebbe numeri, forza e tempo per realizzarle.Se dovessi tradurre in un’immagine l’impressione generale della situazione dopo il voto, è quella di un aereo da cui è stato buttato fuori il pilota e il personale di bordo, ritenuti inetti e corrotti, e la guida dell’aereo e la gestione della cabina sia affidata direttamente a un gruppo di passeggeri. Di Maio è il passeggero-tipo, come Di Battista e gli altri grillini. Anche Salvini è percepito meno come un leader e più come la voce del nostro scontento. Uno di noi. L’Italia ha perso il capo, riparte dalla coda. Il primo problema sarà vedere se al potere destituente che hanno mostrato i grillini e i leghisti, sapranno ora affiancare un potere costituente. E se il loro percorso si intreccerà, resterà distinto o si perderà nell’indistinto. Non s’intravedono ancora i ponti e i mediatori, i registi e i richelieu per tentare l’ardua intesa. Nell’attesa i leghisti si tengono ancora leali alla coalizione di centro-destra.Dietro ambedue c’è la grande incognita del populismo, risposta sacrosanta al predominio incapace e corrotto delle oligarchie, sempre più lontane dal popolo; ma il populismo vale come punto di partenza, come rivolta e presa di coscienza. Se pretende d’essere un punto d’arrivo saranno dolori e rischieranno di far rimpiangere la detestata casta. Ci vorrebbe una nuova aristocrazia, dotata di un forte senso dello Stato e della comunità. Che non s’intravede. Intanto si parte coi valzer e le quadriglie, cercando l’ardua quadratura del cerchio tra l’integralismo dei puri e le alleanze ibride e necessarie per governare. Entriamo in un mese pazzo e imprevedibile. Auguri, Italia. (Ps: l’onore delle armi a un gran ministro dell’interno, Marco Minniti, battuto a Pesaro da tal Cecconi, un furbetto dei finti rimborsi, eletto a furor di popolo tra i grillini. Onore e lui e disonore al popolo sovrano).(Marcello Veneziani, “Grilloleghisti immaginari”, da “Il Tempo” del 6 marzo 2018, articolo ripreso dal blog di Veneziani).La vittoria della Lega di Salvini è la sconfitta del politicamente corretto e della casta politica e istituzionale, mediatica e intellettuale che lo propina, rigettato come gergo asfissiante del potere. La vittoria di Salvini è il superamento dell’antifascismo e del suo uso infame, come dimostra il caso di Macerata, dove la Lega è il primo partito nonostante la campagna per accusare il “fascioleghista” Salvini d’essere il mandante morale di un nuovo presunto terrorismo nero. Lo scempio del corpo di una ragazza da parte di un gruppo di migranti era passato in secondo piano rispetto alla reazione isolata di un esagitato, ed era stata imbastita un’indegna e fuorviante sceneggiata antifascista. Il voto a Salvini è la risposta a quella gazzarra e a quella speculazione assurda, fuori dal tempo. La vittoria di Salvini si spiega pure con la percezione d’invasione e d’insicurezza che c’è nel paese. C’è poi la sfiducia verso l’Europa, il disagio verso l’euro e la dominazione finanziaria e la rivendicazione della sovranità politica, popolare e nazionale. La vittoria di Salvini è la traduzione italiana del populismo nordeuropeo, ma anche americano e perfino russo. E qui le ragioni del successo leghista sconfinano nelle ragioni del trionfo grillino.
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Pino Cabras: coraggio, ognuno di noi può cambiare il mondo
Ringrazio di cuore gli 80.510 elettori del collegio Sardegna 03 che hanno votato il Movimento Cinque Stelle e mi hanno eletto alla Camera dei Deputati. Così come ringrazio altri che, pur votando altro e altrove, mi hanno manifestato commoventi dichiarazioni di stima e incoraggiamento. Ho sempre considerato l’impegno politico una parte importante del mio legame con la società. Perciò adesso sono contento di poter fare quel che faccio da una vita misurandolo meglio dentro le istituzioni, sebbene l’occasione si presenti in un momento davvero molto complicato (come potete ben vedere nel rebus che ci lascia in eredità la legge elettorale). Il contesto politico attuale è sì difficile, ma sono fiducioso. Mi viene in mente una frase dell’antropologa Margaret Mead: «Mai dubitare che un piccolo gruppo di cittadini pensanti e impegnati possano cambiare il mondo. In effetti è l’unico modo in cui sempre è stato cambiato». Non è una frase elitaria, anche se a prima vista potrebbe sembrare così. È semmai un modo per dire che l’esempio può essere trascinante: una fermezza morale, l’abnegazione, il coraggio, contagiano positivamente anche le moltitudini, e le azioni che si intrecciano provocano reazioni positive che si riproducono.Se penso a quel che è già diventato il Movimento Cinque Stelle nella storia della Repubblica italiana, vedo il successo di un impegno che ha incoraggiato grandi masse popolari a partire da una grande intransigenza che ha spazzato via mille ipocrisie, denudando il progressismo che non muoveva un sasso e castigando gli abusi di potere perpetrati da figuranti che si credevano indispensabili e irremovibili. Li vediamo ora coperti dai fumi delle loro macerie, consegnati al passato. Solo Renzi resiste, con la sua nuova invenzione: le dimissioni post-datate. Un pensiero particolare lo merita perciò l’esito elettorale della Sardegna. Percentuali del 42,5% non si vedevano dai tempi della Prima Repubblica. Quello del Movimento Cinque Stelle è un risultato che esprime una volontà collettiva potente, che risalta tanto di più nel momento in cui le forze che sostengono la giunta Pigliaru hanno preso un miserrimo 17,7%. Ai colonnelli del renzismo, a partire proprio da Pigliaru, non è bastato schierare in modo militare gli organi di informazione più grossi che li hanno fiancheggiati in ogni loro indecente promessa elettoralistica. La loro sconfitta è stata catastrofica a dispetto di ogni trucco e clientela. Fecero la stessa cosa in occasione del referendum costituzionale del 2016 e furono puniti dal risultato più severo di tutta la Repubblica italiana.È proprio vero: a quelli che vogliono rovinare, le divinità tolgono per prima cosa la ragione. Solo che con i renziani hanno esagerato. Tanto che in vista delle urne hanno ripetuto nel 2018 lo schema già usato nel 2016 (arroganza più promesse milionarie più clientele più occupazione dei media) con gli stessi inevitabili esiti disastrosi. Si sono comportati con il popolo sardo come i plenipotenziari di una colonia e lo hanno voluto prendere in giro con un ulteriore giro di strafottenza. Ai miei occhi, in vista delle elezioni regionali ormai vicine, la scelta del popolo sardo di questo splendido marzo significa una cosa semplice e grandiosa, una cosa che si presenta con questa nettezza per la prima volta: davvero possiamo cambiare la storia della Sardegna. Il che non significa solo cambiare persone, ma cambiare metodo, selezionare anche un’altra idea di Sardegna, ripensare insieme il ruolo della nostra isola nel mondo, trasformare istituzioni e programmi grazie alle energie straordinarie che libereremo in seno alla società sarda. Ognuno di noi può fare la sua parte, ne vale la pena.(Pino Cabras, “Ognuno di noi può fare la sua parte, ne vale la pena”, messaggio con cui Cabras ha ringraziato pubblicamente i suoi elettori, ripreso da “Megachip” il 6 marzo 2018).Ringrazio di cuore gli 80.510 elettori del collegio Sardegna 03 che hanno votato il Movimento Cinque Stelle e mi hanno eletto alla Camera dei Deputati. Così come ringrazio altri che, pur votando altro e altrove, mi hanno manifestato commoventi dichiarazioni di stima e incoraggiamento. Ho sempre considerato l’impegno politico una parte importante del mio legame con la società. Perciò adesso sono contento di poter fare quel che faccio da una vita misurandolo meglio dentro le istituzioni, sebbene l’occasione si presenti in un momento davvero molto complicato (come potete ben vedere nel rebus che ci lascia in eredità la legge elettorale). Il contesto politico attuale è sì difficile, ma sono fiducioso. Mi viene in mente una frase dell’antropologa Margaret Mead: «Mai dubitare che un piccolo gruppo di cittadini pensanti e impegnati possano cambiare il mondo. In effetti è l’unico modo in cui sempre è stato cambiato». Non è una frase elitaria, anche se a prima vista potrebbe sembrare così. È semmai un modo per dire che l’esempio può essere trascinante: una fermezza morale, l’abnegazione, il coraggio, contagiano positivamente anche le moltitudini, e le azioni che si intrecciano provocano reazioni positive che si riproducono.
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Magaldi: a casa, con Renzi, tutti i dirigenti dell’ipocrita Pd
E dire che l’aveva avvertito: Matteo, cambia politica o vai a sbattere. Oggi, a previsione regolarmente avveratasi, Gioele Magaldi rilancia: se Renzi va a casa, dopo essersi sottomesso ai diktat dell’oligarchia di Bruxelles, dovrebbe dimettersi l’intero gruppo dirigente del Pd. Non si salva nessuno, hanno tutti tradito qualsiasi idea di giustizia sociale: «Il sedicente centrosinistra italiano egemonizzato dal Pd ha rinnegato l’anima stessa del socialismo liberale keynesiano, calpestata dall’ordoliberismo dell’Ue, il brutale mercantilismo degli opposti nazionalismi competitivi su cui si fonda la Disunione Europea». Con buona pace dei recenti deliri di Emma Bonino, giustamente punita – insieme a Renzi – dagli elettori italiani, stanchi della finzione falso-europeista del rigore “teologico” imposto come dogma. E a proposito: c’è da sperare che Luigi Di Maio e Matteo Salvini, «vincitori relativi» del 4 marzo, non deludano chi li ha appena votati. Guai se dimenticano che l’Italia non può continuare a stare in Europa in questo modo, subendo qualsiasi decisione «presa a tavolino da Macron, dalla Merkel e dai loro satelliti nord-europei». Deve rialzarsi in piedi, l’Italia, e dire la sua per mettere fine a questa pseudo-Europa antidemocratica, «concepita come il Sacro Romano Impero di Carlo Magno, con i tecnocrati al posto dei vassalli feudali».Le elezioni? Tutto come previsto: il grande sconfitto è Renzi, che ha solo finto di alzare la voce con l’Ue. L’altro perdente annunciato è Berlusconi, «quindi esce sconfitto quell’auspucio, caldeggiato anche da ambienti sovranazionali, che è stato uno dei moventi di questa legge elettorale». Sipario sul “Renzusconi”, cioè sulle larghe intese «convergenti verso questa melassa centrista infeconda che ha caratterizzato anche le passate legislature, da Monti in poi: esecutivi che hanno fatto tutti lo stesso mestiere, a quanto pare inviso agli italiani, che questa volta hanno dato una bella bastonata a questa prospettiva». Così Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, ai microfoni di “Colors Radio” il giorno dopo il voto. Una tornata ricca di conferme: «Come immaginato, nessuno ha vinto davvero: grandi exploit da Salvini e dai 5 Stelle, ma nessuno di loro ha i numeri per governare da solo». Terza previsione azzeccata: «Nulla sarà più come prima», ma siamo piombati in una palude: «E le paludi sono feconde, come il concime». Mattarella darà la precedenza al centrodestra, la coalizione meglio piazzata, o ai 5 Stelle primo partito? Un’alleanza tra grillini e Pd de-renzizzato «sarebbe un abbraccio singolare, dopo che il Pd ha demonizzato i 5 Stelle come fossero gli Unni». Eppure, «questa alleanza potrebbe vedere il favore di Mattarella, ed è quella verso cui si è mosso Di Maio». Per contro, escludere i 5 Stelle, cioè i più votati in assoluto, «sarebbe una beffa: impensabile, ai tempi della Prima Repubblica».Per Magaldi «cambieranno molte cose di giorno in giorno: ciò che oggi appare improbabile potrebbe mutare prospettiva, oltre questo scenario così ostico». Emergeranno soluzioni «difficili da concepire con gli schemi di prima del voto». Alla fine, «sulle difficoltà politiche prevarranno le possibilità numeriche». Molto dipenderà dal presidente della Repubblica: nel 2013, Napolitano dette a Bersani solo un incarico esplorativo ufficioso. «Constatando l’eccezionalità della situazione», aggiunge Magaldi, «anziché lasciare tutto all’interno nel Palazzo», il Quirinale potrebbe passare la palla al Parlamento, «per vedere chi ci sta, sulla base di un programma, a formare un governo». Certo, la “palude” è infida. Ma almeno, il voto ha stabilito una tendenza: ha reso chiaro «quello che gli italiani non vogliono». Ovvero: «C’è il desiderio di affrancarsi da un corso politico: direi che l’ingloriosa storia della Seconda Repubblica finisce qui». C’è da rivalutare semmai la tanto vilipesa Prima Repubblica, «in cui un paese in ginocchio dopo la guerra, dopo la sconfitta della barbarie nazifascista, in pochi decenni era diventato una grande potenza industriale». Ma c’era un paradigma vigente – la spesa pubblica strategica, chiave del successo storico del “made in Italy”: paradigma abbattuto dal ‘92 in poi. «E questi signori, che sono venuti a raccontarci le “magnifiche sorti e progressive” che con la Seconda Repubblica si sarebbero avverate in Italia e in Europa, oggi escono di scena», sintetizza Magaldi. «Compaiono altri attori, dalle prospettive incerte».Un voto “utile”, comunque, a ramazzare via gli orpelli polverosi. Come “Liberi e Uguali”, che Magaldi definisce «una follia pianificata». E spiega: «Solo l’immaginazione malsana e l’assenza di senso della realtà e lungimiranza di Bersani e D’Alema, Civati e Speranza, poteva immaginare che Grasso potesse essere il portavoce carismatico e ricco di appeal per un elettorato di sinistra critico verso il Pd». Se in Grasso e Bersani prevale l’ipocrisia, nel dirsi “di sinistra” sottoscrivendo il protocollo dell’euro-austerity, in Emma Bonino versione 2018 ha invece stravinto il delirio: «Sconcertante, la Bonino, nel venirci a proporre “più Europa”. Un messaggio thatcheriano: lo statista come il buon padre di famiglia che deve preoccuparsi di ripagare i debiti, come se il debito pubblico fosse il debito privato, che va ripagato perché c’è la cambiale che scade». In una macroeconomia, cioè in un sistema economico complesso, il debito pubblico – insieme all’inflazione, agli investimenti a deficit – è uno dei fattori da maneggiare con oculatezza, «sapendo che uno Stato con sovranità monetaria gestisce le cose non come una famiglia privata (che non può stampare i soldi in cantina): uno Stato più fare deficit per aumentare il Pil e diminuire così, anziché coi tagli alla sanità, il rapporto malsano tra debito e Pil».Da Emma Bonino abbiamo sentito assurdità mostruose: bloccare la spesa pubblica per i prossimi due anni, alzare l’Iva. «Questo è un paese martoriato dalle tasse, dove i consumi sono crollati e c’è l’esigenza di far circolare moneta e tenere più bassa la pressione fiscale», puntualizza Magaldi. «Soltanto dei pazzi potrebbero pensare di tagliare ancora la spesa e aumentare ulteriormente le tasse». E in campagna elettorale questo delirio ha avuto libero corso, «complice anche un linguaggio mediatico alterato». Già, infatti: «A che livello è scesa la comunicazione giornalistica, in Italia? Rappresenta le cose per come non sono. E’ lo stesso giornalismo che aveva fatto credere a Mario Monti di avere un consenso maggioritario nel paese, nel 2013, quando i giornaloni titolavano che finalmente l’Italia eta governata da illuminati professori. Monti e la Fornero ci sono stati proposti come sacerdoti del “vero” economico, per settimane, da quell’altro bel tomo di Giovanni Floris». Oltre al vecchio ceto politico, insiste Magaldi, «dovremmo rottamare un ceto mediatico corporativo, con giornalisti che si intervistano a vicenda, elevando la figura del giornalista a grande intellettuale e politologo – ma spesso è gente che non conosce nemmeno i rudimenti della storia patria, non parliamo dell’economia internazionale».Altra mistificazione: gli apostoli della Costituzione “più bella del mondo” che si professano nemici della massoneria – Di Maio in primis – dimenticando il massone conclamato Meuccio Ruini, presidente della “Commissione dei 75” incaricata di redigerne il testo (e il capo di gabinetto di Ruini era il grande economista Federico Caffè, insigne keynesiano). «Se vuole governare l’Italia – dichiara Magaldi – Di Maio dovrà affrancarsi dalle proprie fobie e immaturità illiberali e anticostituzionali. Nella lista di possibili ministri che ha presentato ci si richiama a John Maynard Keynes, altro notorio massone al pari di Franklin Delano Roosevelt: colonne portanti del mondo post-bellico, cioè di ciò che ha consentito il ritorno della libertà in Europa e nel mondo. Quindi merita riconoscenza quella corrente maggioritaria di massoneria che ha prima costruito e poi difeso le società aperte, liberali, parlamentarizzate e democratiche». Sono verità storiche che per Magaldi vanno finalmente acquisite, se si vuole fronteggiare davvero questa Disunione Europea «in cui vige il mercantilismo più spudorato da parte della Germania».Mercantilismo: dottrina econonica (superata dal libero mercato) secondo cui la ricchezza della nazione sta nel surplus di esportazioni. «La Germania ha violato anche i pessimi trattati vigenti, che pur essendo pessimi non consentirebbero il mercantilismo», insiste Magaldi. «Siamo al di là del pessimo: abbiamo una costruzione europea non democratica, nata dalla Dichiarazione Schuman scritta dall’ex progressista Jean Monnet convertito all’idea economicistica dell’Europa, sulle idee di Kalergi, ideatore di una costruzione quasi neo-feudale dell’Europa», a imitazione del feudalesimo carolingio. E’ un’Europa pericolosa, «fondata su un’idea di sfiducia verso la democrazia e verso la politica». Orrore: «O il potere spetta al popolo sovrano, oppure spetta a sedicenti illuminati – poco importa che utilizzino strumenti finanziari, diplomatici, militari, religiosi o mediatici. O il popolo è sovrano, o è sovrano qualcun altro», aggiunge Magaldi. «Dovremmo avere un Parlamento Europeo che rappresenta il popolo sovrano, con una potestà legislativa piena, con facoltà di fiduciare o sfiduciare un esecutivio europeo reale, al posto di questa barzotta Commissione Europea. Juncker e Tajani? Figure stucchevoli, a cui non lascerei gestire neppure un condominio, e invece sono ai vertici. Dovremmo avere un dipartimento del Tesoro e buoni del Tesoro europei che taglino alla radice qualunque cataclisma da spread, vero o presunto». Di Maio e Salvini presentati come antieuropeisti? Errore: «I veri antieuropeisti sono quelli che oggi infestano le cancellerie europee e gli organi tecnocratici di questa Unione Europea». Ma i neo-vincitori sapranno cambiare passo, verso Bruxelles?«Non vorrei che le istanze euro-critiche del Movimento 5 Stelle si andassero appannando, nel percorso politico che si avvia con queste consultazioni», dice Magaldi. «Mi piacerebbe che tutti gli schieramenti in Parlamento avessero un nuovo modo di guardare all’Europa». C’è anche un problema di legittima rappresentanza delle istanze nazionali: «L’Italia è un grande contraente dell’Ue e dell’Eurozona, eppure ha visto sfumare anche un riconoscimento simbolico come l’attribuzione dell’Ema, l’Agenzia Europea del Farmaco. E’ finita in farsa, l’Italia è stata defraudata anche di questa piccola cosa. E il peggio è che si è vista la latitanza delle istituzioni italiane nel far valere le ragioni del nostro paese». Disunione Europea, appunto: «Un equilibrio di cancellerie, che perseguono scopi nazionali mascherati da un’impalcatura burocratica. Spero che tutti – non solo i vincitori relativi di queste elezioni – ripensino il modo in cui l’Italia deve stare in Europa». L’Italia? «Deve essere più autorevole: non lo è stata affatto quando è venuto il tecnocrate Mario Monti, inviato direttamente dai salotti buoni europei. L’elemento più sublime della sua narrazione era che dovessimo fare quel che ci diceva “l’Europa”, perché l’avevamo interiorizzato. Uno scenario da Grande Fratello orwelliano: abdicare al proprio libero pensiero critico e fare qualcosa che viene imposto da altri, perché eseguire senza discutere è cosa buona e giusta».Nei fatti, alla “teologia” dell’Ue si è sottomesso anche Renzi, che ora trasforma in farsa le sue dimissioni, dopo aver corso a capofitto verso la disfatta. «Sarebbe passato quasi per eroe – dice Magaldi – se solo avesse avuto il coraggio di inserire nel fatale referendum almeno il pareggio di bilancio in Costuzione, lasciando esprimere gli italiani». L’obbligo costituzionale del bilancio in pareggio, afferma Magaldi, «riporta il sedicente centrosinistra egemonizzato dal Pd alla destra storica di Quintino Sella, che conseguì il pareggio di bilancio nella seconda metà dell’800, quando al governo c’era il liberismo storico più bieco e spietato, che mandava Bava Beccaris a massacrare contadini, operai e povera gente che manifestava contro la tassa sul macinato e per le condizioni sociali allora davvero inique». Attenzione: su un tema come il pareggio di bilancio, di importanza capitale per la vita di tutti, non c’è stato uno straccio di dibattito mediatico: «Questo è un paese che parla a reti unificate solo di questioni irrisorie, mentre quando si votata il pareggio di bilancio gli eletti in Parlamento hanno agito come soldatini obbedienti, senza nessuna eccezione». Dov’era, il Pd? In aula, a votare: uso obbedir tacendo. «Via Renzi, il nuovo che avanza sarebbe Gentiloni, che ha fatto un governo renziano in linea con quelli di Monti e Letta? E gli altri che stanno nel Pd? Quando mai hanno levato la loro voce per proporre una traiettoria diversa? Sono tutti responsabili di questa bastosta. E’ una classe politica, quella del Pd, che deve andare a casa».Vale anche per l’Europa, aggiunge Magaldi: il Pd sta nell’alleanza dei socialisti democratici, e in tutta Europa «i socialisti sono chiaramente in regressione perché non hanno nessuna proposta socialista». Magaldi si definisce liberalsocialista: «L’elemento socialista ci deve essere: è la capacità di costruire un contesto di giustizia e mobilità sociale, in cui lo Stato abbia un ruolo dinamico e complementare a quello del libero mercato (e dove ci sia davvero libero mercato, senza monopoli, oligopoli e conflitti d’interesse)». Tutto ciò è mancato: poi qualcuno si lamenta se “la sinistra” è in estinzione. «E poi c’è il grande rimosso: John Maynard Keynes. Oggi, in tanti dicono che vogliono riscoprirlo: li aspettiamo al varco». L’eventuale Pd post-renziano? Può avere un senso solo a una condizione: che si dimetta, insieme a Renzi, chiunque abbia avuto un ruolo dirigente. «E se si deve eleggere un nuovo segretario, lo si faccia con un dibattito corale e democratico molto ampio, molto lungo e molto doloroso», perché la sincerità è una medicina amara. Sempre che ne valga la pena, di salvare il Pd: i tempi stanno cambiando velocemente. E Magaldi (promotore dell’ipotesi Pdp, Partito Democratico Progressista) è fra quanti pensano che forse sia il caso di «costruire qualcosa di nuovo, da offrire a un paese vistosamente lacerato».E dire che l’aveva avvertito: Matteo, cambia politica o vai a sbattere. Oggi, a previsione regolarmente avveratasi, Gioele Magaldi rilancia: se Renzi va a casa, dopo essersi sottomesso ai diktat dell’oligarchia di Bruxelles, dovrebbe dimettersi l’intero gruppo dirigente del Pd. Non si salva nessuno, hanno tutti tradito qualsiasi idea di giustizia sociale. Il pareggio di bilancio? Lo fece Quintino Sella, all’epoca in cui la destra mandava Bava Beccaris a sparare sulla folla. «Il sedicente centrosinistra italiano egemonizzato dal Pd ha rinnegato l’anima stessa del socialismo liberale keynesiano, calpestata dall’ordoliberismo dell’Ue, il brutale mercantilismo degli opposti nazionalismi competitivi su cui si fonda la Disunione Europea». Con buona pace dei recenti deliri di Emma Bonino, giustamente punita – insieme a Renzi – dagli elettori italiani, stanchi della finzione falso-europeista del rigore “teologico” imposto come dogma. E a proposito: c’è da sperare che Luigi Di Maio e Matteo Salvini, «vincitori relativi» del 4 marzo, non deludano chi li ha appena votati. Guai se dimenticano che l’Italia non può continuare a stare in Europa in questo modo, subendo qualsiasi decisione «presa a tavolino da Macron, dalla Merkel e dai loro satelliti nord-europei». Deve rialzarsi in piedi, l’Italia, e dire la sua per mettere fine a questa pseudo-Europa antidemocratica, «concepita come il Sacro Romano Impero di Carlo Magno, con i tecnocrati al posto dei vassalli feudali».