Archivio del Tag ‘Filippo Turati’
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Comunisti, cioè santi: sul Pci, frottole lunghe 100 anni
Antonio Gramsci era un santo. Palmiro Togliatti un fior di riformista, sulla scia del socialista Filippo Turati. Il Partito comunista era non solo del Migliore (Togliatti, appunto), ma anche dei migliori, essendo i suoi elettori colti e moralmente irreprensibili. La svolta della Bolognina e la trasformazione in Partito democratico della sinistra fu una geniale intuizione di Giorgio Napolitano, e non di Achille Occhetto. Botteghe Oscure prese le distanze da Mosca un poco alla volta, ma con decisione, fin dal dopoguerra, quando scelse di partecipare al processo democratico. Budapest non è mai esistita. La Primavera di Praga, neppure. I Gulag sono un’invenzione della propaganda. L’Unione Sovietica era pacifista, a differenza dei guerrafondai statunitensi. I dissidenti erano fascisti sotto mentite spoglie. Questo, a sommi capi, è il ritratto del Partito comunista italiano, nato cento anni fa con la scissione di Livorno, che abbiamo potuto leggere sui quotidiani, in pratica tutti, spesso in articoli firmati da… (ex?) comunisti.Massì. Non facciamo i bastian contrari a tutti i costi. È stupido ricordare fatti sgradevoli. San Gramsci disse che la piccola e media borghesia erano «la barriera di umanità corrotta, dissoluta, putrescente, con cui il capitalismo difende il suo potere economico e politico, umanità servile, abietta, umanità di sicari e di lacchè». Quindi proseguiva, con divino afflato, che la classe sociale in questione bisognava «espellerla dal campo sociale, come si espelle una volata di locuste da un campo semidistrutto, col ferro e col fuoco». Col ferro e col fuoco, che carino. Sul riformismo di Togliatti, sarebbe proprio cercare il pelo nell’uovo il voler ricordare queste parole del Migliore: «Nella persona e nell’attività di Filippo Turati si sommano tutti gli elementi negativi, tutte le tare, tutti i difetti che sin dalle origini viziarono e corruppero il movimento socialista italiano, che lo condannarono al disastro, al fallimento, alla rovina. Per questo la sua vita può bene essere presa come simbolo e, come un simbolo, anche la sua fine. L’insegna sotto cui questa vita e questa fine possono essere poste è l’insegna del tradimento e del fallimento. Nella teoria Turati fu uno zero».Uno zero? Dai, Palmiro, non fare l’invidioso, sappiamo tutti (?) che in realtà Turati fu il tuo maestro. Quanto alla guerra di Liberazione, chiedere informazioni nel triangolo rosso e lungo il confine orientale: regolamento di conti a mano armata (quella comunista), brigate tradite e sotterrate (dai gappisti), infoibamenti (dai gappisti e dai compagni titini). La “svolta” democratica era tatticismo, voluto e ordinato da Mosca, che stava rafforzando la presa sull’Europa dell’Est e non poteva permettersi l’apertura di un fronte in Italia. In quanto alle posizioni del Partito comunista davanti all’ingresso dei carri armati in Ungheria, sono limpide. Ecco qua cosa scriveva Giorgio Napolitano: «L’intervento sovietico ha non solo contribuito a impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, ma alla pace nel mondo». Secondo “l’Unità”, gli insorti non erano socialisti in cerca di riforme ma «teppisti, spregevoli provocatori e fascisti».Beh, direte voi, però a Praga nel 1968… No, signori, davanti alla repressione, il Partito comunista, con Berlinguer in ascesa a fianco di Luigi Longo, non riuscì ad andare oltre un «forte dissenso». Ah, il dissenso. Vogliamo parlare del tentativo, andato a vuoto, di impedire la pubblicazione del “Dottor Zivago” di Boris Pasternak? Rossana Rossanda si prese la briga di far capire all’editore Giangiacomo Feltrinelli che quel romanzo era brutta propaganda anti-comunista. Darlo alle stampe significava «passare il segno». Non solo Rossana Rossanda. Scese in campo tutta la prima linea della dirigenza: Pietro Secchia, Paolo Robotti, Palmiro Togliatti, Luigi Longo, Mario Alicata. E quando il Premio Nobel per la letteratura Aleksandr Solgenitsin fu esiliato? I comunisti di casa nostra giudicarono l’atto proporzionato, una dimostrazione di responsabilità da parte dei sovietici. Certo, l’esilio era una misura restrittiva dei diritti individuali, ma Solgenitsin aveva sfidato lo Stato e sostenuto aberranti tesi controrivoluzionarie.Sì, però dopo… a un certo punto le cose saranno cambiate. Nel 1977, non ancora. Quello fu l’anno della Biennale del dissenso voluta da Carlo Ripa di Meana. Ordine diretto di Mosca, subito raccolto dai compagni italiani: boicottate la mostra veneziana. Inutilmente cercherete notizia di questi o analoghi fatti. Prevale, nella stampa e nell’editoria, l’adorazione per la storia formidabile del comunismo italiano, senza macchia e senza paura. D’altronde, il comunismo ha perso come sistema politico ma ha vinto come sistema culturale, come mentalità di massa. Facciamo un esempio. Chi ha pagato il conto più salato in questi mesi piagati dalla pandemia? La piccola o media borghesia, impossibilitata a lavorare e ingannata dai mitici ristori, ovvero soldi a pioggia che non arriveranno mai nella misura necessaria e promessa. D’altro canto, come potrebbe lo Stato italiano, che non ha un centesimo, provvedere davvero a tutto? Bene, ricordate le parole di Gramsci da cui siamo partiti? La borghesia «da espellere… col ferro e col fuoco»?(Alessandro Gnocchi, “Il Pci celebra cento anni di menzogne”, dal “Giornale” del 19 gennaio 2021).Antonio Gramsci era un santo. Palmiro Togliatti un fior di riformista, sulla scia del socialista Filippo Turati. Il Partito comunista era non solo del Migliore (Togliatti, appunto), ma anche dei migliori, essendo i suoi elettori colti e moralmente irreprensibili. La svolta della Bolognina e la trasformazione in Partito democratico della sinistra fu una geniale intuizione di Giorgio Napolitano, e non di Achille Occhetto. Botteghe Oscure prese le distanze da Mosca un poco alla volta, ma con decisione, fin dal dopoguerra, quando scelse di partecipare al processo democratico. Budapest non è mai esistita. La Primavera di Praga, neppure. I Gulag sono un’invenzione della propaganda. L’Unione Sovietica era pacifista, a differenza dei guerrafondai statunitensi. I dissidenti erano fascisti sotto mentite spoglie. Questo, a sommi capi, è il ritratto del Partito comunista italiano, nato cento anni fa con la scissione di Livorno, che abbiamo potuto leggere sui quotidiani, in pratica tutti, spesso in articoli firmati da… (ex?) comunisti.
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Winkler: l’Italia è scassata, senza difese contro il rigore Ue
L’Italia è scassata: qualcuno ha idea di come funzionasse, davvero, quando le cose andavano infinitamente meglio di oggi? Se lo domanda l’avvocato Pierluigi Winkler: «Le migliori menti si esercitano in analisi sulla crisi economica e sociale che sembra non aver fine», premette. «Ma tutti, in un impulso irrefrenabile di rimozione, imputano le responsabilità del declino a varie cause, tutte fuorivianti e perfette per non affrontare mai i veri nodi», scrive, sul blog del Movimento Roosevelt. Si evocano «populismi, sovranismi, qualunquismi, finanche rigurgiti razzisti». Buio pesto: «Chi per miopia, chi per mera convenienza, chi per paura della perdita di un mondo che fu e che vede sfuggirgli», nessuno riesce a far luce sulla decandenza del Belpaese. Winkler invoca il ritorno in vita di una parola nobile, dimenticata e abusata: riformismo. Letteralmente: «Corrente politica e di pensiero che la storia ci ha trasferito densa di speranze tese al miglioramento graduale della società con particolare riguardo della classe lavoratrice». Nel ‘900, il riformismo è stato incarnato da socialisti come Turati e Treves, Giacomo Matteotti, Geatano Salvemini, Carlo Rosselli. La cifra del riformismo: coniugare il welfare e l’economia di mercato, in armoniosa sintesi. Da noi si è andato estinguendo anche l’imperfetto welfare italico, gestito in modo clientelare da un paese che comunque macinava chilometri grazie alla sua ecomomia mista, pibblico-privata.E’ scolpito nel marmo il risultato storico del riformismo: «Notevole sviluppo, sotto il profilo economico e sociale». Ma le parole possono cambiare verso, se vengono corrotte: ieri il riformismo era sinonino di progresso generale e benessere diffuso, mentre oggi – in mano all’Ue – suona come una campana a morto per società con sempre meno diritti. «Laddove una volta per riformismo si intendeva tutto ciò che gradualmente portava al miglioramento della condizione umana – scrive Winkler – oggi invece la parola, spesso usata in Europa, evoca subito cambiamenti sì, ma in peggio». E in particolare: «Tagli di bilancio, rigidità, sacrifici, col portato inevitabile di disoccupazione, impoverimento, bassi salari e precariato diffuso». Nella sostanza, un futuro senza sviluppo: «Diventa sempre più impervio coniugare welfare, sviluppo e benessere». Problema capitale: «Al centro del sistema politico non c’è più l’uomo ma il bilancio, il freddo dato contabile, che ha portato l’intero continente europeo ad “impiccarsi” alle politiche restrittive che non stanno dando i frutti sperati e che nel nostro paese hanno portato e porteranno nel tunnel di una grave crisi di cui non si vedrà l’uscita. E’ entrato in crisi l’intero sistema istituzionale ed economico».La crisi del sistema bancario ne è un fulgido esempio, osserva Winkler: «Falliscono banche e si stigmatizza l’attività della banca centrale, istituzione da sempre considerata garanzia di serietà e competenza per la tutela di tutti». Le sinistre, in Europa e ancor più in Italia, versano in grave crisi di identità. Se a questo si aggiunge l’effetto della globalizzazione sull’intero pianeta, «non vi è chi non veda che la situazione diviene esplosiva e può tendere al catastrofico». Allora, conclude Winkler, «diventa facile e fuorviante nascondersi dietro slogan ad effetto: il populismo, il sovranismo e altre pretestuosità del genere». Infatti «è lapalissiano dire che le persone non possono che sentirsi prima cittadini del proprio paese, poi cittadini europei e poi, forse, cittadini del mondo. E’ palese il disorientamento generale, specialmente tra i giovani». In virtù della crisi, non trovano più lavoro: quando c’è, è solo un impiego precario e sottopagato. Colpa dell’Europa, si dice, o magari «dello straniero che viene in cerca di fortuna e fugge da luoghi impossibili». Sempre incolpevoli, noi? Non si considera mai, dice Winkler, che vi è la netta carenza di una politica che tuteli il cittadino e attui misure adeguate. Netta carenza politica, appunto: è sparita la sinistra, quella che aveva attutito gli urti e cercato di tenere in equilibrio la società, evitando che gli ultimi fossero abbandonati a se stessi (fino a rifugiarsi, oggi, nell’esasperazione del “populismo”).Generalmente, nella storia recente, l’armonizzazione sociale non è stata svolta «dalle forze politiche di riferimento dell’oligarchia finanziaria o industriale», ma proprio «da quelle forze di sinistra riformista che volevano coniugare sviluppo ed equilibrio economico, meriti e bisogni, concorrenza e competenza, socialità e individualità, nella sostanza libertà e giustizia sociale». Prendiamone atto, insiste Winkler: «Il sistema politico-economico costruito dai nostri padri fondatori è in stato comatoso, allo stato attuale non regge più». Si è rotto qualcosa di importante: il motore sociale, che era coeso. «Il grande accordo tra industria, partiti, sindacati, sistema cooperativo e Chiesa ha garantito sviluppo economico e conseguente benessere», con politiche di spesa «a volte eccessive», che però «il sistema ha retto per molti anni». Mano pubblica nell’economia: lo Stato «assisteva la grande impresa con leggi ad hoc che producevano investimenti», e in più il governo «assisteva il sistema cooperativo con benefici fiscali tutt’ora esistenti». Piccole e medie imprese, dal canto loro, praticavano «massiccia evasione, per lo più tollerata». Inoltre, da Roma cadevano «contributi a pioggia per lo sviluppo del Mezzogiorno», con risvolti deteriori: «Si praticava un clientelismo sfrenato, con assunzioni nel pubblico oltre il consentito, sia nelle aziende a partecipazione pubblica che negli enti». Di fatto, comunque, «non vi era settore che non avesse qualche beneficio, il tutto in una sorta di consociativismo politico-economico diffuso e generale. Tutto si teneva».Poi nel ’92, con la fine della cosiddetta Prima Repubblica, «espressione esclusivamente giornalistica», sotto i colpi di Mani Pulite si estinguevano vecchi i partiti (salvo uno, il Pci, che cambiava nome diventando Pds) ma «non veniva meno quel sistema, né sul piano morale né sul piano dei precedenti assetti economici». Ovvero: «Il sistema di assistenza diffusa rimaneva intatto», divenendo aperto malcostume, che poi «si implementava in maniera esponenziale: ai ladri di partito si sostituivano i ladri e basta, che crescevano a dismisura». Per Winkler, l’unico cambiamento vero e sostanziale di quegli anni «è stata la dismissione dell’Iri con la privatizzazione di imprese a partecipazione pubblica di ottimo livello». Secondo l’analista, «non è stato un cambiamento di sistema politico-economico, ma solo una gattopardesca trasformazione, tanto che se si guardano i dati il debito pubblico dal ’92 ad oggi, esso è superiore a quello formatosi dal ’46 al ’92». Altro che Seconda Repubblica: solo un’evolzuione della Prima. «Con la successiva introduzione della moneta unica e l’applicazione di rigide politiche di bilancio imposte dall’Europa – aggiunge Winkler – la visione di quel sistema, mai estintosi, diviene chiara, trasparente, senza possibilità di equivoci: il re è nudo».Siamo alle forche caudine dell’Unione Europea: «L’Europa del bilancio, alle quale si è sovrapposta la globalizzazione, mette in grave crisi più di tutti il sistema Italia, che non ha avuto mai una vera e propria economia di mercato». Il welfare italiano, poi, «si reggeva non tanto sullo sviluppo prodotto, ma soprattutto sull’espansione del debito, senza limiti di sorta». L’economia? «Era ed è per lo più assistita». E quel poco di economia che non fruisce di assistenze, specialmente nei settori della piccola e media impresa, «è talmente gravata da oneri burocratici, sociali e fiscali che le è sempre più difficile rimanere sul mercato». Le piccole imprese sono numerose e concorrono in modo rilevante al Pil, ma «non possono fuggire all’estero come le grandi», e quindi «subiscono la concorrenza spesso sleale di piccole attività straniere operanti senza controlli negli stessi settori, con manodopera impiegata spesso in nero e in condizioni di sfruttamento e con più vantaggiose regole amministrative e fiscali». A questo, prosegue Winkler, va poi aggiunto un fenomeno tutto italiano: «Gli investimenti di un enorme flusso di denaro proveniente dai proventi delle organizzazioni criminali». Decine di miliardi di euro, «che costituiscono parte significativa del Pil nazionale».Alcuni, per nascondere alla gente i veri problemi, la “buttano in caciara” agitando lo spettro del razzismo, che in realtà contagia esigue minoranze. Il problema non è la presunta xenofobia, ma il tenore di vita: «Coloro che si vedono andare in pensione alla soglia dei 70 anni, che vedono aumentare i costi sanitari e che sono costretti a sostenere i figli che rischiano di essere precari a vita (mal pagati, se non sfruttati), mal digeriscono coloro i quali, ancora più disperati, si affacciano dall’estero ad un mercato del lavoro privo di ogni regola». Non è razzismo, ma disperazione: tristemente, è solo guera tra poveri. Una situazione che non piove dal cielo, ma ha precise responsabilità: «Le politiche di rigidità causano il sottosviluppo e soprattutto sono causa della cosa più odiosa dell’umanità: la lotta tra gli emarginati». E lo scontro tra i meno abbienti «prescinde totalmente dal colore della pelle». Così, «la forbice sociale si allarga sempre più, e ancor più la forbice generazionale». A conti fatti: escluse le quasi tremila medie imprese che fatturano da 50 milioni di euro a due miliardi, e a parte «il fiume di denaro illecito e poco altro», il resto dell’economia nazionale è per lo più assistito, «a meno che non si voglia considerare la grande impresa indenne da sostegni statali».Secondo Winkler, si è cercato di spacciare politicamente il precariato per flessibilità, «ma questa esiste solo dove c’è una dinamica di mercato, che nel nostro paese non è mai esistita». In Italia, «tutto è controllato con un complesso di procedure amministrative degne dei migliori paesi illiberali». Tradotto: «L’onesto imprenditore viene dissuaso dall’intraprendere nuove attività. Viene invece favorito, attraverso il mancato controllo, lo sfruttamento dei lavoratori, che nei casi di immigrati è a volte vera e propria schiavitù», In più, «viene tollerata ogni forma di illegalità nell’ambito commerciale e nei servizi privati». Troppa burocrazia, da snellire usando la scure. E troppe mega-cooperative, «che nei fatti sono grandi imprese che operano nei settori finanziari, bancari, assicurativi e della grande distribuzione», con assurdi vantaggi fiscali rispetto alle imprese che operano come società di capitale negli stessi settori. «Riportiamo il cooperativismo all’iniziale vocazione, quando lo scopo era favorire il lavoro degli associati e la loro sicurezza», scrive Winkler. E poi, occorre «separare le banche di raccolta da quelle di affari, affinché il risparmiatore sappia che si fa del suo denaro, se ci si gioca “a dadi” con i derivati o se lo si impiega per crediti a famiglie e attività produttive».E ancora: regolare il commercio semplificando le procedure e ristabilendo una leale concorrenza. Vigilanza e controlli devono stroncare «il caporalato, lo sfruttamento e la schiavitù (vedi in agricoltura)». E poi: «Equiparare le pensioni sociali al costo per lo Stato del migrante». La lista è lunga: rendere umani i tempi della giustizia, proteggere i giovani lavoratori limitando i contratti a termine, costringere la pubblica amministrazione a risarcire i danni causati dalle sue lentezze burosauriche. E’ pacifico: «Chi investe deve poter programmare le proprie attività». Giovani imprenditori: hanno diritto a un «sereno avviamento», con sgravi fiscali per i primi cinque anni. Tocca a noi, dice Winkler: il paese deve saper «prendere la strada delle vere riforme che possano rendere veramente dinamica e flessibile la nostra economia». Se invece «saprà solo attuare politiche restrittive imposte dall’Europa», allora addio Italia: «Non ci sarà speranza per il futuro, se non per una opulenta oligarchia senz’anima», quella che domina la scena da almeno 25 anni – da noi come a Bruxelles – dopo aver trasformato la parola “riforme” in un incubo per tutti.L’Italia è scassata: qualcuno ha idea di come funzionasse, davvero, quando le cose andavano infinitamente meglio di oggi? Se lo domanda l’avvocato Pierluigi Winkler: «Le migliori menti si esercitano in analisi sulla crisi economica e sociale che sembra non aver fine», premette. «Ma tutti, in un impulso irrefrenabile di rimozione, imputano le responsabilità del declino a varie cause, tutte fuorivianti e perfette per non affrontare mai i veri nodi», scrive, sul blog del Movimento Roosevelt. Si evocano «populismi, sovranismi, qualunquismi, finanche rigurgiti razzisti». Buio pesto: «Chi per miopia, chi per mera convenienza, chi per paura della perdita di un mondo che fu e che vede sfuggirgli», nessuno riesce a far luce sulla decandenza del Belpaese. Winkler invoca il ritorno in vita di una parola nobile, dimenticata e abusata: riformismo. Letteralmente: «Corrente politica e di pensiero che la storia ci ha trasferito densa di speranze tese al miglioramento graduale della società con particolare riguardo della classe lavoratrice». Nel ‘900, il riformismo è stato incarnato da socialisti come Turati e Treves, Giacomo Matteotti, Geatano Salvemini, Carlo Rosselli. La cifra del riformismo: coniugare il welfare e l’economia di mercato, in armoniosa sintesi. Da noi si è andato estinguendo anche l’imperfetto welfare italico, gestito in modo clientelare da un paese che comunque macinava chilometri grazie alla sua economia mista, pubblico-privata.
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Il compasso, la mitra e la corona: i veri burattinai del Duce
Il compasso, il fascio e la mitra. Ma anche la corona: probabilmente è stato proprio l’elusivo Vittorio Emanuele III il vero arbitro segreto delle sorti di Benito Mussolini, passato dal socialismo al fascismo, dal neutralismo all’interventismo più acceso, e poi dall’appoggio occulto della massoneria a quello, meno occulto ma forse più insidioso, del Vaticano, impegnato – a partire dal Patto Gentiloni – a rientrare (dapprima in sordina) nel grande gioco della politica italiana, dal quale era stato estromesso nel 1861 ad opera del nuovo Stato unitario, liberale e anticlericale, messo in piedi dai massoni Garibaldi, Mazzini e Cavour. Scorci di una storia di cui si occupa Gianfranco Carpeoro, già “sovrano gran maestro” della Serenissima Gran Loggia d’Italia, espressione del Rito Scozzese. Carte alla mano, Carpeoro ricostruisce il ruolo spesso decisivo del Re nella vicenda mussoliniana: prima il non-intervento di polizia ed esercito nella Marcia su Roma, quindi l’incarico a Mussolini, poi addirittura il ruolo (finora inedito) del sovrano nel delitto Matteotti: il leader socialista aveva scoperto, a Londra, che proprio al Savoia era stata concessa una cospicua partecipazione azionaria della Sinclair Oil, compagnia petrolifera statunitense targata Rockefeller, alla quale il governo fascista aveva elargito enormi privilegi nell’estrazione del greggio in Italia e nelle ricerche di giacimenti in Libia.La pubblicistica più recente sta mettendo a fuoco il ruolo della massoneria nella storia italiana, sempre liquidata in poche righe nei libri scolastici (alla voce “carboneria”) tra le pagine del Risorgimento. L’ideale illuministico – libertà, uguaglianza e fraternità, in antitesi al sistema di privilegi dell’Ancien Régime incarnato dalla teocrazia vaticana – era tra le componenti ideologiche dei massoni libertari che, al netto delle contingenze geopolitiche (il ruolo strategico dello Stivale nel Mediterraneo, crocevia degli interessi anglo-francesi) alimentarono in modo decisivo la spinta unitaria, fino alla Breccia di Porta Pia. Ma poi, come sempre, le cose non andarono come i più idealisti avevano sperato, secondo Carpeoro anche e soprattutto per la perdita prematura di una mente come quella di Cavour. L’Italia nacque zoppa, dopo la feroce repressione del Sud affidata ai generali sabaudi Alfonso La Marmora ed Enrico Cialdini. Un altro generale di sua maestà, il pluridecorato Fiorenzo Bava Beccaris, prese a cannonate la folla milanese affamata dalle tasse. Due anni dopo, nel 1900, l’anarchico Gaetano Bresci fece giustizia a suo modo, assassinando il sovrano, Umberto I di Savoia. L’Italia dei notabili liberali stava per esplodere, sotto la spinta del proletariato rurale e industriale: sulle barricate innanzitutto i socialisti, guidati da un leader come Filippo Turati, massone anche lui, e poi dal giovane giornalista Benito Mussolini, tumultuoso direttore dell’“Avanti”.A scommettere sul fascismo, racconta la storiografia, furono gli agrari, i latifondisti del Sud e il grande capitale industriale del Nord. Obiettivo: arrestare l’onda rossa del socialismo, “comprando” un leader di cui il popolo socialista si fidava. E faceva male, sottolinea Carpeoro, rivelando che Mussolini era da tempo a libro paga degli inglesi, come loro agente regolarmente stipendiato. Per gradi, è emerso il ruolo della massoneria all’ombra del primo fascismo, quello ancora “sociale” e anticlericale di Piazza San Sepolcro: era imbottito di massoni il vertice fascista, anche in lizza tra loro – da una parte il Grande Oriente, ancora anticlericale, e dall’altra la Gran Loggia, più vicina al tradizionalismo cattolico. Un errore ottico, quello di molti massoni, costretti a pentirsi amaramente di aver sostenuto il Duce, fino a puntare ben presto a sostituirlo con un altro massone, Italo Balbo, poi caduto a Tobruk alla guida del suo velivolo colpito “per errore” dalla contraerea italiana. Non ha portato fortuna, a Mussolini, il divorzio dalla massoneria, giunta infine a schierarsi con la Resistenza, fino a trasformare in atroce rituale (pena del contrappasso) il macabro scempio di Piazzale Loreto, con “l’imperatore” rovesciato e simbolicamente capovolto come l’Appeso dei tarocchi.Già decenni prima, si domanda Carpeoro, cosa sarebbe successo se Mussolini non fosse riuscito ad allontanare i massoni dal partito socialista? Se quel braccio di ferro l’avesse vinto il massone progressista Matteotti, contrario all’interventismo, l’Italia sarebbe entrata lo stesso nella tragedia della Prima Guerra Mondiale, da cui poi nacquero le tensioni sociali all’origine del fascismo? E cosa sarebbe accaduto se il Duce non avesse scaricato una seconda volta la massoneria, mettendo le logge addirittura fuorilegge per ingraziarsi il Vaticano con cui avrebbe firmato i Patti Lateranensi, mettendo fine al limbo giuridico in cui l’ex Stato Pontificio era rimasto confinato, dal 1861? Per contro, lo stesso potere vaticano non esitò a emarginare il nascente impegno politico dei cattolici, il neonato partito di Sturzo, pur di non ostacolare il nuovo Duce del fascismo, brutale con gli oppositori ma improvvisamente munifico con le gerarchie dell’Oltretevere. Così il regime transitò dal masso-fascismo iniziale al catto-fascismo concordatario, ma – ancora una volta – rimasero fuori dai riflettori i fili più segreti, destinati a collegare in modo insospettabile l’élite di potere, attraverso personaggi come il massone monarchico Badoglio e figure ancora più invisibili come quella dell’inafferrabile Filippo Naldi, primo finanziatore dell’ex socialista Mussolini con i soldi dei gruppi Eridania, Edison e Ansaldo, spaventati dalle crescenti rivendicazioni operaie.Proprio a Naldi, sopravvissuto a tutte le tempeste e intervistato nel dopoguerra da Sergio Zavoli, Carpeoro dedica svariate pagine del suo saggio: «Naldi era il Licio Gelli dell’epoca, capace di passare indenne da un tavolo all’altro, nel frattempo accumulando fortune economiche». Massone, Naldi, in contatto con gli alleati, con la Corona e con il Vaticano. Uno dei registi della liquidazione di Mussolini, il leader che proprio lui aveva aiutato ad emergere, e che – il 25 luglio del ‘43 – aveva tentato (fuori tempo massimo) di uscire dalla tragedia della guerra e dall’alleanza con Hitler, facendosi mettere in minoranza dal Gran Consiglio del Fascismo. Il piano: far nascere, a Salò, un’entità “sociale”, di nome e di fatto, non più monarchica né così generosa con il clero. Un progetto sabotato da manovre diplomatiche sotterranee: a informare i nazisti furono emissari vaticani, imbeccati da Naldi. Di fronte alla rivelazione di retroscena inediti, c’è chi storce prontamente il naso: la storia, si sostiene, più che da singoli dettagli (magari occulti) è determinata da condizioni molteplici, che coinvolgono milioni di persone, idee, eventi e progetti. Già, ma una cosa non esclude l’altra: sapere ad esempio che era massone l’eroe socialista Giacomo Matteotti, primo vero martire dell’antifascismo, può regalare più profondità di sguardo, evitando di cadere nei più classici stereotipi che dividono il mondo in buoni e cattivi.Carpeoro – all’anagrafe Gianfranco Pecoraro, avvocato di lungo corso – è un intellettuale di formazione anarco-socialista: idealmente anarchico e vicino al socialismo “utopistico” pre-marxista nel quale risuonano le speranze dei primissimi manifesti rosacrociani, che già all’inizio del ‘600 sognavano un mondo senza più sfruttati, senza più proprietà privata né confini tra le nazioni. Di quell’habitat culturale – esoterico, meta-storico – Carpeoro si è occupato a lungo, come esperto simbologo, fino a sviluppare un progetto editoriale come “Summa Symbolica”, di cui è uscito il primo volume. Anche quest’ultimo lavoro sui retroscena “velati” del Ventennio, cioè la strana alleanza provvisoria tra massoneria e Vaticano all’ombra del Duce, in fondo conferma la tesi di fondo che Carpeoro sostiene: il potere, quale che sia, adotta sempre modalità magico-illusionistiche nel creare leader e uomini del destino, condannati a poi a essere puntualmente rottamati dal momento in cui diventano inutili, e magari ingombranti come Mussolini. Inglesi e americani, massoni e cardinali? Certamente, ma il vero potere resta uno schema astratto, pronto a cambiare maschera all’occorrenza, evitando anche di esporre troppo i suoi esponenti più prossimi e più decisivi: come il Re, vero dominus della parabola mussoliniana.(Il libro: Giovanni Francesco Carpeoro, “Il compasso, il fascio e la mitra”, Uno Editori, 141 pagine, euro 12,90).Il compasso, il fascio e la mitra. Ma anche la corona: probabilmente è stato proprio l’elusivo Vittorio Emanuele III il vero arbitro segreto delle sorti di Benito Mussolini, passato dal socialismo al fascismo, dal neutralismo all’interventismo più acceso, e poi dall’appoggio occulto della massoneria a quello, meno occulto ma forse più insidioso, del Vaticano, impegnato – a partire dal Patto Gentiloni – a rientrare (dapprima in sordina) nel grande gioco della politica italiana, dal quale era stato estromesso nel 1861 ad opera del nuovo Stato unitario, liberale e anticlericale, messo in piedi dai massoni Garibaldi, Mazzini e Cavour. Scorci di una storia di cui si occupa Gianfranco Carpeoro, già “sovrano gran maestro” della Serenissima Gran Loggia d’Italia, espressione del Rito Scozzese. Carte alla mano, Carpeoro ricostruisce il ruolo spesso decisivo del Re nella vicenda mussoliniana: prima il non-intervento di polizia ed esercito nella Marcia su Roma, quindi l’incarico a Mussolini, poi addirittura il ruolo (finora inedito) del sovrano nel delitto Matteotti: il leader socialista aveva scoperto, a Londra, che proprio al Savoia era stata concessa una cospicua partecipazione azionaria della Sinclair Oil, compagnia petrolifera statunitense targata Rockefeller, alla quale il governo fascista aveva elargito enormi privilegi nell’estrazione del greggio in Italia e nelle ricerche di giacimenti in Libia.
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Delitto Matteotti: vero mandante il Re, socio dei petrolieri
Non fu Mussolini il vero mandante del delitto Matteotti, ma il Re: Vittorio Emanuele III decretò la morte del parlamentare socialista Giacomo Matteotti, assassinato a Roma il 10 giugno 1924 dalla squadraccia fascista capeggiata da Amerigo Dumini. Lo afferma Gianfranco Carpeoro, nel suo nuovissimo saggio “Il compasso, il fascio e la mitra”, che ricostruisce – sulla base di archivi inediti – il vero ruolo dei due massimi sponsor occulti del fascismo, la massoneria e il Vaticano. Due poteri che “coltivarono” un regime che forse mostrò il suo vero volto, per la prima volta, proprio con l’omicidio Matteotti. Il leader socialista, si disse per decenni, fu punito per il suo straordinario coraggio: il 30 maggio 1924 denunciò alla Camera i brogli e le intimidazioni che avevano permesso ai fascisti di vincere le elezioni, il 6 aprile. Solo in questi ultimi anni è progressivamente emerso l’altro movente, più segreto: la maxi-tangente pagata al governo italiano dalla società petrolifera Sinclair Oil, per lo sfruttamento del greggio in Emilia e in Sicilia. Lo stesso Matteotti, dopo un viaggio a Londra, aveva scoperto la verità e stava per renderla pubblica. Lo scandalo avrebbe travolto il neonato regime, dato che risultava implicato anche Arnaldo Mussolini, fratello del Duce. Ma quello era solo il “primo livello” della tangente: perché il maggiore beneficiario dell’affare non sarebbe stato Mussolini, bensì il Re.Era lui, Vittorio Emanuele III, il vero dominus del business petrolifero, e quindi anche del delitto Matteotti. A gettare nuova luce sul “peccato originale” del fascismo sono le carte dell’obbedienza massonica di Piazza del Gesù, il Rito Scozzese italiano, di cui lo stesso Carpeoro è stato “sovrano gran maestro”. «Attenzione: lo stesso Matteotti era un 33° grado del Rito Scozzese», premette l’autore, presentando alcune anticipazioni del libro nel corso della diretta web-streaming “Carpeoro Racconta”, condotta da Fabio Frabetti di “Border Nights”. Massone Matteotti, e massoni i “fratelli” inglesi che lo informarono dell’affare Sinclair Oil, spiegandogli – carte alla mano – che a intascare il grosso della colossale tangente petrolifera (addirittura una ingente quota azionaria della compagnia) non sarebbe stato il Duce, ma direttamente il numero uno di casa Savoia. A indagare sul ruolo occulto della massoneria all’origine del fascismo è anche il recente saggio “Mussolini e gli Illuminati”, del giovane Enrico Montermini, suffragato da un politologo del calibro di Giorgio Galli.Montermini ricostruisce il ruolo delle società segrete nell’affermazione del fascismo “antemarcia”, a partire dalla manifestazione di piazza San Sepolcro, fino al macabro epilogo di piazzale Loreto, dove il cadavere del Duce viene simbolicamente “capovolto”, appeso a testa in giù, dopo esser stato fotografato con in mano uno scettro (come l’Imperatore dei tarocchi) e poi un ramo di acacia, inequivocabile “firma” massonica. Carpeoro conferma: prima di concorrerre ad abbattere il Duce, «la massoneria ha certamente appoggiato il primo fascismo, anche perché era Mussolini stesso a presentarsi come “vero socialista”». Poi, come sappiamo, il dittatore – mai iniziato alla libera muratoria – arrivò a mettere al bando le logge, in ossequio agli accordi di potere con il Vaticano che avrebbero portato ai Patti Lateranensi. C’era stato un piccolo precedente antimassonico del Duce, quando ancora era un dirigente socialista: impegnò il partito a escludere i massoni dai propri ranghi. «Ma era solo una ritorsione: Mussolini aveva ripetutamente chiesto di essere accolto, nella massoneria, ma non era stato accettato».Un’anomalia episodica, quell’improvvisa allergia socialista per i grembiulini: «E’ stata proprio la massoneria a partorire il socialismo», sostiene Carpeoro: «Anche all’epoca del fascismo, erano massoni i maggiori esponenti del partito socialista, a cominciare dal leader storico, Filippo Turati». Autore di accurati studi sui Rosacroce, leggendaria confraternita iniziatica, Carpeoro spiega che furono proprio i manifesti rosacrociani – come la “Fama Fraternitatis” del 1614 – a delineare l’orizzonte sociale egualitario (la fine dei privilegi di casta) che peraltro si riverbera in opere altrettanto “rosacrociane” del periodo, come “Utopia” di Thomas More, “La nuova Atlantide” di Francis Bacon e “La città del sole” di Tommaso Campanella. La stessa “Fama Fraternitatis” accenna, per la prima volta, a un mondo senza più la proprietà privata né i confini tra le nazioni: sono gli albori del futuro internazionalismo socialista, che riflette le sue luci persino nel primissimo fascismo delle origini, quello di piazza San Sepolcro, tenuto a battesimo dal Grande Oriente d’Italia (Domizio Torrigiani) e poi anche da Piazza del Gesù, il cui gran maestro era Raoul Palermi – ma il vero capo del Rito Scozzese, ipotizza lo stesso Montermini, probabilmente era il sovrano in persona, Vittorio Emanuele III.Di origine scozzese è la stessa famiglia Sinclair: gli antenati dei petrolieri coinvolti nell’affare costato la vita a Matteotti, racconta Carpeoro, in qualità di eminenti rappresentanti del network rosacrociano britannico, alla fine del ‘700 avrebbero fatto segretamente tradurre nel Regno Unito le spoglie del “confratello” Mozart, ufficialmente sepolto in una fosse comune in Austria. Ma, a parte i Sinclair – passati dalla musica al petrolio – il saggio di Carpeoro ricostruisce i passaggi cruciali (e occulti) all’origine del fascismo, mettendo a fuoco il ruolo della massoneria, e non solo. Se Montermini accende i riflettori sulle società segrete che allevarono il regime fascista, Carpeoro segnala il ruolo dell’altro grande potere, antagonista della massoneria eppure suo “socio in affari” durante il ventennio: il Vaticano. Entrambi i centri potere, quello massonico e quello cattolico, puntarono su Mussolini e cercarono di pilotarlo. E il Duce, «peraltro già a libro paga dei servizi segreti inglesi, nonché collaboratore dell’intelligence statunitense e di quella francese», tentò a sua volta di destreggiarsi, ritagliandosi una sua autonomia: «Si passò così dal masso-fascismo iniziale al catto-fascismo seguente», quello dei Patti Lateranensi.Figura cruciale e onnipresente, in quegli anni di precario equilibrio, il massone Filippo Naldi, che Carpeoro definisce «il Licio Gelli dell’epoca», capace di passare con disinvoltura da un tavolo all’altro, uscendone sempre indenne e traendone il massimo vantaggio personale. Carpeoro ricorda una celebre intervista televisiva all’anziano Naldi, a cura del grande Sergio Zavoli: «Riuscì a ottenere quell’intervista perché era massone anche Zavoli», rivela Carpeoro, che ricostruisce un altro momento decisivo della parabola del Duce, la destituzione del 25 luglio ‘43: «Era un piano progettato dallo stesso Mussolini, che voleva farsi arrestare per poi uscire dall’alleanza con Hitler, instaurando a Salò una vera repubblica di orientamento socialista». Ma fu tradito, Mussolini, proprio dall’uomo-ombra della massoneria (e della monarchia), che svelò gli intenti del Duce alla segreteria pontificia. A sua volta, la diplomazia vaticana si rivolse prontamente ai nazisti: temenva che a Salò potesse davvero nascere una repubblica anticlericale.“Il fascio, il compasso e la mitra” getta luce sui retroscena più oscuri del ventennio mussoliniano, rivelando il peso dei due superpoteri – massoneria e Vaticano – nelle decisioni del governo Mussolini. Anche la monarchia giocò le sue carte, comprese quelle (coperte) su cui aveva messo le mani Giacomo Matteotti. «Io il mio discorso l’ho fatto, ora voi preparate il discorso funebre per me», disse il deputato ai colleghi socialisti, in aula, consapevole che gli sarebbe costata carissima la sua clamorosa denuncia sui brogli elettorali. «Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere», rispose Mussolini, mesi dopo, di fronte alle proteste per l’insabbiamento delle indagini sull’omicidio. Ma non si trattò solo di una denuncia politica sulla regolarità delle elezioni del ‘24: il primo a rivelarlo, alla fine degli anni ‘80, è stato un ricercatore fiorentino, Paolo Paoletti, dopo aver scovato negli archivi di Washington una lettera in cui Dumini, il capo del commando omicida, rivela che Matteotti fu ucciso soprattutto per impedirgli di mettere in piazza lo scandalo petrolifero, che coinvolgeva Arnaldo Mussolini.Poche settimane prima del delitto, proprio alla Sinclair Oil (John Davison Rockefeller), il governo italiano aveva concesso l’esclusiva per la ricerca e lo sfruttamento per 50 anni di tutti i giacimenti petroliferi presenti in Emilia e in Sicilia. La compagnia aveva ottenuto condizioni di esclusivo vantaggio, tra cui l’esenzione da imposte. Per questo Matteotti doveva essere ucciso: aveva saputo della super-tangente. Tesi confermata dallo storico Mauro Canali nel ‘97 e poi da un ex dirigente Eni, Benito Li Vigni, nel saggio “Le guerre del petrolio” uscito nel 2004. All’inizio degli anni Venti, in Italia, l’80% del fabbisogno di idrocarburi era garantito dalla Standard Oil, tramite la “Società Italo-Americana pel Petrolio”, mentre la restante quota era fornita dalla filiale italiana della Royal Dutch Shell. Secondo Canali, la Standard Oil avrebbe stipulato un accordo sottobanco con la Sinclair Oil, delegando ad essa un’operazione strategica: bloccare la temuta espansione del Regno Unito sul mercato italiano. Guardando al Medio Oriente, a Londra faceva gola la posizione geografica dell’Italia, nel cuore del Mediterraneo: perfetta, per il trasporto del greggio. Per questo gli inglesi avevano sviluppato progetti con l’Italia, anche l’impianto di una raffineria, al punto da preoccupare gli Usa – che a quel punto risposero mettendo in campo la Sinclair Oil, a suon di dollari pagati sottobanco.Lo stesso Canali documenta come a intascare una maxi-rata dell’affare Sinclair fu Filippo Filippelli, un personaggio molto influente, legato ad Arnaldo Mussolini e fondatore del “Corriere Italiano”, giornale a cui – fra l’altro – era stato intestato il noleggio dell’auto con cui venne prelevato Matteotti. Gli accordi con la Sinclair Oil furono stipulati il 29 aprile del ‘24: sempre in cambio di cospicue mazzette, la compagnia ottenne dall’Italia la garanzia che nessun ente petrolifero statale avrebbe intrapreso trivellazioni nel deserto libico. All’accordo, Londra reagì a modo suo: tramite politici laburisti, rivelò a Matteotti i veri termini dell’accordo. Lo stesso Canali conferma che il leader socialista acquisì le carte che provavano la corruzione del governo italiano. Dopo l’omicidio, il “Daily Herald” accusò apertamente Arnaldo Mussolini di essere tra i politici destinatari di una tangente di 30 milioni di lire pagata dalla Sinclair Oil per ottenere la concessione. Sulla rivista “English Life” venne pubblicato (postumo) un articolo dello stesso Matteotti, in cui il deputato affermava di avere la certezza che vi era stata corruzione tra la Sinclair Oil e alcuni esponenti del governo.Tutto giusto? Sì, ma è una verità incompleta, spiega Carpeoro: perché finora le ricostruzioni sul delitto Matteotti non hanno inquadrato il principale colpevole, il Re d’Italia. «Mettendo a disposizione i killer, Mussolini ha fatto un favore innanzitutto alla monarchia», afferma Carpeoro, nel colloquio in streaming su YouTube con Fabio Frabetti. «Matteotti aveva fiutato che sull’Italia, tramite il fascismo, stavano mettendo le mani determinati poteri, in particolare petroliferi – uno su tutti, quello della Siclair Oil». Il leader socialista, continua Carpeoro, «andò a Londra con regolari referenze massoniche e venne accolto con tutti gli onori da una loggia inglese». Loggia che gli mise a disposizione una documentazione decisiva, che gli permise di scoprire «che la Sinclair Oil aveva dato delle quote azionarie a Vittorio Emanuele III». Tornò in patria di corsa, per far scoppiare lo scandalo. «E guardacaso, venne assassinato proprio al ritorno da quel viaggio quasi clandestino». Il regista dell’assassinio? «E’ colui che affittò le auto a noleggio e si fece dare da Mussolini i manovali del delitto: il massone Filippo Naldi, rappresentante degli interessi della Sinclair Oil in Italia ma, soprattutto, fedelissimo del Re».Lui, l’uomo-ombra: «E’ vero che Naldi aiutò Mussolini a uscire dal Psi e gli finanziò il “Popolo d’Italia”, ma sempre e soltanto per conto di poteri forti che volevano che in Italia rimanesse la monarchia e ci fosse sempre un certo tipo di regime». Tant’è vero che i soldi per finanziare il “Popolo d’Italia”, oltre a quelli della Sinclair Oil, sono quelli di Eridania (colosso mondiale dello zucchero) e di Ansaldo, leader dell’acciaio. «Sono i soldi che creano il fascismo, ma lo creano per mantenere un preciso assetto politico rispetto a forze che rischiavano di metterlo in discussione, come i socialisti e i repubblicani». Baricentro del potere, la monarchia. Clamorosa, la rivelazione di Carpeoro: sua maestà in persona era addirittura diventato socio della Sinclair, mentre il governo Mussolini si apprestava a favorire la compagnia. E da dove ricava, Carpeoro, le sue esplosive informazioni? Ovvio: dagli stessi archivi (massonici) ai quali, nel 1924, ebbe accesso l’eroe socialista Giacomo Matteotti, massone del 33° grado del Rito Scozzese.Non fu Mussolini il vero mandante del delitto Matteotti, ma il Re: Vittorio Emanuele III decretò la morte del parlamentare socialista Giacomo Matteotti, assassinato a Roma il 10 giugno 1924 dalla squadraccia fascista capeggiata da Amerigo Dumini. Lo afferma Gianfranco Carpeoro, nel suo nuovissimo saggio “Il compasso, il fascio e la mitra”, che ricostruisce – sulla base di archivi inediti – il vero ruolo dei due massimi sponsor occulti del fascismo, la massoneria e il Vaticano. Due poteri che “coltivarono” un regime che forse mostrò il suo vero volto, per la prima volta, proprio con l’omicidio Matteotti. Il leader socialista, si disse per decenni, fu punito per il suo straordinario coraggio: il 30 maggio 1924 denunciò alla Camera i brogli e le intimidazioni che avevano permesso ai fascisti di vincere le elezioni, il 6 aprile. Solo in questi ultimi anni è progressivamente emerso l’altro movente, più segreto: la maxi-tangente pagata al governo italiano dalla società petrolifera Sinclair Oil, per lo sfruttamento del greggio in Emilia e in Sicilia. Lo stesso Matteotti, dopo un viaggio a Londra, aveva scoperto la verità e stava per renderla pubblica. Lo scandalo avrebbe travolto il neonato regime, dato che risultava implicato anche Arnaldo Mussolini, fratello del Duce. Ma quello era solo il “primo livello” della tangente: perché il maggiore beneficiario dell’affare non sarebbe stato Mussolini, bensì il Re.
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Carpeoro: ucciso il socialismo, era l’antidoto all’orrore Ue
Hanno ucciso Olof Palme, il migliore dei leader, per assassinare il socialismo in Europa, intimidire e poi togliere di mezzo personaggi come Schmidt e Mitterrand (e volendo, lo stesso Craxi). Obiettivo: far stravincere l’oligarchia finanziaria e mettere in piedi l’attuale obbrobrio chiamato Unione Europea. Faceva paura, il premier svedese? Eccome: acerrimo avversario di ogni totalitarismo, in Svezia aveva varato un’economia mista, con quote di controllo allo Stato, nelle aziende, e quote di partecipazione assegnate ai lavoratori. Pragmatismo, coraggio. E soprattutto idee: «E’ di quelle che ha paura, il potere. Per questo ha trasformato la parola “ideologia” in una specie di insulto. Ma l’ideologia è il futuro, il progetto. E senza idee, non puoi fare nessun progetto». Parola di Gianfranco Carpeoro, simbologo e romanziere, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, intervenuto in un recente convegno a Roma. L’occasione per una riflessione anche storica sull’eredità del socialismo: se la nostra società occidentale è ridotta così, alla solitudine dell’homo homini lupus, è perché è stato scientificamente, chirurgicamente asportato il virus benefico del socialismo. Anche con il terrorismo, e non da oggi.Alla tragedia del leader socialdemocratico svedese, ucciso a Stoccolma nel 1986 da un killer mai identificato, Carpeoro ha dedicato lunghe pagine del suo lavoro sui legami occulti tra massoneria, servizi segreti e terroristi (il sistema della “sovragestione”). Ed è tornato sul tema a margine del simposio “Le forme della democrazia”, promosso dal Movimento Roosevelt, fondato da Gioele Magaldi. Cos’è stato, il socialismo? Cos’è oggi, e cosa potrebbe essere domani? «Non è stato un pensiero statico, ha avuto un’evoluzione storica, politica», e ora è stato letteralmente rimosso. «Da dov’era partito, il socialismo? Da molto lontano», esordisce Carpeoro: da un periodo di grande riflessione spirituale. «Senza scomodare i Rosacroce», già nel ‘600 si trovano svariate opere proto-socialiste: “Utopia” di Tommaso Moro, “La città del sole” di Tommaso Campanella, “La nuova Atlantide” di Francesco Bacone. Fino ad arrivare a opere meno conosciute, come quelle di Johann Valentin Andreae, presunto autore dei manifesti rosacrociani dell’epoca, che chiude la sua esistenza scrivendo “Christianopolis”, dove racconta il naufragio in un’isola (Caphar Salama) che viene governata in maniera socialista.«Perché la chiamo socialista? Perché una serie di capisaldi di queste opere caratterizzeranno la fase che Marx, con intento quasi spregiatorio, chiamerà “socialismo utopistico”». Ma la parola “utopia”, ricorda Carpeoro, non esisteva nemmeno, prima di Tommaso Moro. «L’ha inventata lui. E’ un neologismo di origine greca, significa “non luogo”. Lo stesso Marx, dunque, citando il “socialismo utopistico”, si richiama a Tommaso Moro». E come nasce, il socialismo utopistico? Ha varie declinazioni: è anarchica quella di Pierre-Joseph Proudhon, quasi mistica quella di Henri de Saint-Simon. Ci sono interpretazioni più pragmatiche, e c’è una declinazione, «forse la più illuminata», che è quella di Auguste Blanqui. «Ma in tutte queste declinazioni ci sono i capisaldi di quello che, secondo gli utopisti del ‘600, doveva essere lo Stato perfetto, la comunità perfetta, con l’abolizione della proprietà privata». In sostanza, «si cominciava a riconoscere il diritto delle persone a vivere secondo dignità e aspettative». Perché questi diritti vengano finalmente riconosciuti in modo istituzionale ci vorrà Eleanor Roosevelt, con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo alle Nazioni Unite nel 1948. «Ma queste idee erano state in qualche modo anticipate già quattro secoli prima». Giustizia e libertà. Tradotto: una società che riconosca il giusto a ognuno, dando a ciascuno la possibilità di scegliere. «Sembra una cosa semplice, no? Eppure, noi ancora non l’abbiamo creata, una società così».Nella sua storia, aggiunge Carpeoro, il movimento socialista si è continuamente frammentato. Lo dimostra la stessa storia del Psi italiano, fondato a Genova nel 1892 da Filippo Turati, «che sarà forse il socialista più coerente», fedele all’impostazione iniziale del progetto ottocentesco, rivoluzionario. Obiettivo: la “guerra” alla società classista del sistema capitalistico, che sottomette e sfrutta contadini e operai. Due mosse: prima la rivoluzione, per abbattere il sistema padronale, e poi l’abolizione delle classi sociali. Come? “Socializzando” i mezzi di produzione, l’economia, le industrie, e distribuendo le terre ai contadini. Poi irrompe Marx, che «istituzionalizza questa sorta di diagnosi», e pensa a come realizzare il disegno rivoluzionario e la fase successiva. «Marx chiama tutto questo “socialismo scientifico”, da contrapporre a quello che lui, disprezzandolo un po’, chiamava “socialismo utopistico”». Ma l’obiettivo, aggiunge Carpeoro, non era forse arrivare comunque all’utopia? «L’eliminazione delle classi cos’è, se non la realizzazione di “Utopia”, della “Nuova Atlantide”, della “Città del Sole”?». In ogni caso, poteva il “fiume” socialista restare interamente ancorato a questo schema? No, ovviamente. E così cominciano le divisioni.«La prima scissione, nel mondo socialista, è quella degli anarchici», ricorda Carpeoro. «Per loro non esiste la fase intermedia, si annulla tutto: nella loro visione, la dissoluzione dello Stato capitalistico è una fase contestuale all’impulso rivoluzionario». Poco dopo, vanno per la loro strada anche i comunisti: «Hanno una visione schematica, per la quale bisogna arrivare con quei passaggi, alla soluzione», che è sempre rivoluzionaria. Rimane il nucleo socialista, che – in Italia come in Europa – si divide a sua volta: nascono i “riformisti”, che restano anti-capitalisti e combattono per la giustizia sociale, ma rinunciano alla rivoluzione come mezzo per ottenerla. Poi ci sono quelli che, successivamente, si chiameranno “socialdemocratici”, come Leonida Bissolati, «i quali aboliscono anche il passaggio finale, l’abbattimento del capitalismo», e quando poi si radicheranno anche nel Pci prenderanno il nome di “miglioristi”. Secondo loro è irrealistica la rinuncia al sistema liberale. Semmai, il capitalismo va corretto con continue migliorie, per guarirne le distorsioni. Nell’800 c’era stato anche il filone dei “socialisti libertari”, che «declineranno il socialismo esclusivamente all’interno dei diritti civili e delle libertà, senza più occuparsi di strategie di governo».Il socialismo libertario, spiega Carperoro, era ciò che era rimasto di un’ulteriore scissione, quella di Mazzini: litigando con Garibaldi, l’ideologo del Risorgimento si era portato via «quel nucleo che poi diventerà l’area laica», repubblicani e Partito d’Azione). Ma, superata la tragedia della Prima Guerra Mondiale – intervisti, neutralisti – e poi il blackout planetario del nazifascismo, nel dopoguerra «dagli anni ‘70 in poi, l’unica direttiva che lentamente si afferma, nel socialismo, è quella socialdemocratica», alimentata anche dalla guerra fredda: nel fatidico 1956 il leader sovietico Khrushev alimenta grandi speranze con la denuncia dei crimini di Stalin, ma nello stesso anno non riesce a evitare la sanguinosa repressione della rivolta popolare scoppiata in Unghieria, replicata nel ‘68 con il soffocamento della “Primavera di Praga”. «In realtà – prosegue Carpeoro – si avvia quella che nel ‘70 si chiamerà “terza via”, cioè la possibilità di trovare una composizione della società, correggendone le deviazioni, verso una maggiore giustizia sociale: cosa che la socialdemocrazia europea considerava assolutamente irrinunciabile».E questa linea, particolarmente efficace perché moderata nelle forme quanto incisiva nei contenuti, «trova un eroe assolutamente straordinario», anche se è «un personaggio di cui non parla mai nessuno». Straordinario «da tutti i punti di vista (anche dal mio, perché era massone come me)», ammette Carpeoro, parlando di Olof Palme. «E’ stato uno dei personaggi più fulgidi del ‘900. Vi invito a leggere i suoi scritti, e soprattutto a rimetterlo sulle bandiere». Il leader svedese, intanto, «è la prima vittima di una congiura contro il socialismo». Attenzione: «Nell’arco di vent’anni, i grandi leader socialisti europei vengono tutti cancellati, in circostanze ambigue. Olof Palme viene ucciso mentre è presidente del Consiglio, in Svezia. E non è che ne sia parlato molto in Europa. Ancora oggi si parla di Che Guevara, non di Olof Palme. Ma è un eroe». E viene ucciso da killer rispetto ai quali «emergono connessioni con ambienti dell’estrema destra e anche, purtroppo, della massoneria: in un telegramma piuttosto equivoco, alla vigilia dell’attentato, Licio Gelli scrive a un parlamentare americano, Philip Guarino, che nel giro di pochi giorni “la palma svedese” sarebbe “caduta”, come la Svezia pullulasse di palme».Lo stesso Craxi, ricorda Carperoro, vinse lo storico congresso del Psi al Midas, da cui nacque la sua leadership, «con un programma che al 50% era quello di Olof Palme, che era il padre nobile di tutti questi socialisti europei». Poi ovviamente «ognuno è libero di considerare i seguaci degni o non degni, ma resta il fatto che Palme aveva dato un programma socialista all’Europa». Dopo il drammatico “avvertimento” rappresentato dall’omicidio di Stoccolma, nessuno dei seguaci di Palme gli sopravviverà – politicamente, quantomeno. «Craxi, in circostanze che non riesco a considerare nitide (e con tutti i suoi errori, certo) viene comunque rimosso dalla vita politica italiana. Poi viene rimosso Mitterrand, in Francia. E viene rimosso Schmidt in Germania, con uno scandaletto. E pensate che, dopo tutte queste concatenazioni nel giro di pochi anni, poi la si faccia casualmente, l’Europa unita, nel modo in cui è stata fatta?». Per Carpeoro, c’è poco da cianciare di complottismo: «Sono stati eliminati i vertici di un movimento politico che aveva un capofila importante».Palme, già attivissimo come leader del suo partito, ha poi svolto due mandati come presidente del Consiglio, in Svezia, «e il secondo l’ha fatto coram populo». Disse: «Io non sono contro il capitalismo, voglio solo tagliargli le unghie ogni tanto». E’ questo il ruolo del socialismo, sottolinea Carpeoro: «Per questo il socialismo è necessario, è indispensabile a questa società. Anche perché, senza socialismo (come, del resto, senza liberismo) questa società non può camminare. Deve avere due ruote, un polo conservatore e un polo progressista. E possibilmente, questi due poli devono essere talmente di qualità che il fatto che si possano alternare al potere deve dipendere solo dalle condizioni del momento». Il liberismo sfrenato? «Non ha fatto male, all’America, appena è stato introdotto da Reagan. Poi però ci si doveva fermare. Se qualcuno ti progetta un regime oligarchico ultraliberista e senza regole per vent’anni, ti vuoi meravigliare se poi il risultato sono le banche che saltano, i soldi che non viaggiano, l’economia che non gira? E’ una forma di staticità della società, e la società non può essere statica».Di fronte alla drastica possibilità di nazionalizzare le aziende, Olof Palme adottò una soluzione intermedia, ispirata alla teoria dell’economista Rudolf Meidner: una quota ai lavoratori, una quota di controllo allo Stato e una quota al privato. «Non per tutto: solo per le aziende in difficoltà. E ha funzionato, in Svezia. Il problema è che poi Palme l’hanno ammazzato». E in Italia? «Se avessero adottato lo schema Meidner, anche da noi, forse molte aziende in difficoltà sarebbero sopravvissute, e i sacrifici richiesti alle nostre maestranze sarebbero stati vissuti in maniera diversa». Non c’è bisogno di tornare all’antico, all’assistenzialismo dell’Iri, basterebbe la leva dei benefici fiscali, alla portata di uno Stato che possedesse quote di aziende. Perché nonè successo? «Perché noi non abbiamo avuto il coraggio di fare quello che Palme ha osato fare, in Svezia, dal ‘69 in poi». Rimettere mano, oggi, alla “contaminazione” socialista? Assolutamente sì, come stimolo ideologico: «Progetto e ideologia sono la stessa cosa: non puoi fare un progetto se non hai un’ideologia. E l’aver trasformato l’ideologia in un insulto è la riprova che a questo sistema, le cose che hanno idee, fanno paura. Il potere le teme, vuole cose senza idee. Vogliono un encefalogramma piatto come quello di Renzi, dove non ci sono onde».Hanno ucciso Olof Palme, il migliore dei leader, per assassinare il socialismo in Europa, intimidire e poi togliere di mezzo personaggi come Schmidt e Mitterrand (e volendo, lo stesso Craxi). Obiettivo: far stravincere l’oligarchia finanziaria e mettere in piedi l’attuale obbrobrio chiamato Unione Europea. Faceva paura, il premier svedese? Eccome: acerrimo avversario di ogni totalitarismo, in Svezia aveva varato un’economia mista, con quote di controllo allo Stato, nelle aziende, e quote di partecipazione assegnate ai lavoratori. Pragmatismo, coraggio. E soprattutto idee: «E’ di quelle che ha paura, il potere. Per questo ha trasformato la parola “ideologia” in una specie di insulto. Ma l’ideologia è il futuro, il progetto. E senza idee, non puoi fare nessun progetto». Parola di Gianfranco Carpeoro, simbologo e romanziere, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, intervenuto in un recente convegno a Roma. L’occasione per una riflessione anche storica sull’eredità del socialismo: se la nostra società occidentale è ridotta così, alla solitudine dell’homo homini lupus, è perché è stato scientificamente, chirurgicamente asportato il virus benefico del socialismo. Anche con il terrorismo, e non da oggi.
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Giannuli: paura di agire, Syriza e Podemos come i riformisti
Nessuno si stupisca se, negli ultimi decenni, tocca sempre al centrosinistra fare il “lavoro sporco”, che – se gestito da destra – provocherebbe rivolte: non a caso, col Jobs Act, è stato il Pd renziano a rottamare lo Statuto dei Lavoratori, obbiettivo solo e sempre sognato dal “truce” Cavaliere, contro il quale si sarebbero scatenati sinistra e sindacati. Compressione dei salari, tagli alle pensioni, erosione costante e continua del welfare: è l’applicazione del vecchio “Tina” della Thatcher, “there is no alternative”. Chi può persuadere le masse popolari? Non il centrodestra, ma la sinistra ufficiale – dall’Italia fino alla Grecia di Tsipras. Il che non deve sorprendere: la socialdemocrazia ha rivelato, storicamente, di non essere in grado di gestire nessuna crisi grave, ma solo di limitare i danni “in tempo di pace”. Lo afferma Aldo Giannuli, storico e politologo dell’ateneo milanese. «Quel che resta della sinistra europea (salvo nicchie occasionali di aree radicali, peraltro, non sempre molto aggiornate) ormai si divide fra un’ala neoliberista appena mascherata che va sotto il nome di “Internazionale Socialista”, o socialdemocrazia, e una sinistra che si dice radicale (Sel, Rifondazione, Syriza, Linke e, per certi versi Podemos) ma che, in realtà, è una pallida sinistra socialdemocratica».Nel suo saggio “Il più grande crimine”, Paolo Barnard spiega che, senza la collaborazione organica dei dirigenti della sinistra europea – partiti e sindacati – l’élite neoliberista non sarebbe mai riuscita a imporre la gigantesca restaurazione sociale, di cui oggi stiamo pagando il prezzo, progettata da Wall Street già all’inizio degli anni ‘70 col Memorandum di Lewis Powell: stroncare la sinistra radicale e “comprare” i leader della sinistra moderata, in modo che spacciassero per “riforme” l’abrogazione progressiva dei diritti dei lavoratori, dopo decenni di storiche conquiste. Di lì, a seguire: il neoliberismo come pensiero unico, imposto dal Wto e dai trattati internazionali (Europa in primis), governato da potentissimi organismi lobbistici (Commissione Trilaterale, Bilderberg, Forum di Davos) e imposto, come dogma, a partire dalle università e dai media. Lo Stato è un’inutile orpello, solo il Mercato ha sempre ragione. E quindi, globalizzazione delle merci, dei capitali, della forza lavoro, con la finanziarizzazione dell’economia e la privatizzazione della finanza pubblica. Risultato: delocalizzazioni, disoccupazione, spirale di crisi senza vie d’uscita. E la sinistra dov’era? E’ stata “comprata”, dice Barbard: cooptata dal potere. Per la verità, aggiunge lo storico Giannuli, la sinistra riformista aveva già dato pessime prove, prima ancora dell’assalto finale del grande capitale finanziario.«Per capirlo – scrive Giannuli nel suo blog – è utile fare un passo indietro di quasi un secolo e mezzo». Al suo sorgere, ricorda il professore, il movimento socialista fu tutto rivoluzionario e antisistema (salvo gli inglesi, che sono sempre stati riformisti), tanto in Francia quanto in Italia, in Spagna e in Germania. «La svolta venne dopo il 1871, con la repressione della Comune di Parigi: un massacro di ferocia senza precedenti, con migliaia di comunardi fucilati o deportati. Lo shock fu molto forte e se, in seguito, questo spingerà le frange più di sinistra sulla strada dell’insurrezione armata ma preparata scientificamente (il leninismo, in primo luogo), nell’immediato la lezione venne vissuta piuttosto come un perentorio invito alla moderazione». La vittoria degli orientamenti riformisti, prima di tutto in Francia e Germania, poi in Italia e Spagna, venne fra gli anni ‘70 e i primi ‘90, proprio sulla base della riflessione sul tragico esito della Comune. «Parve che la via elettorale e riformista fosse una manifestazione di saggezza: scambiare la velocità del processo con la solidità dell’avanzata, e la sicurezza di non dover affrontare una repressione di quella gravità».Lo stesso Engels, nell’ultimo decennio della sua vita (Marx era morto nel 1883) fu molto cauto nel criticare questi orientamenti. Peraltro il clima culturale, dominato dall’evoluzionismo positivista, assecondava e sosteneva questo corso di cose: la storia aveva una sua direzione di marcia, dominata dalla legge fatale dell’evoluzione, che avrebbe spinto “naturalmente” il socialismo verso la vittoria. «Ne derivò una idea della lotta politica senza “salti”, come la natura; pertanto ogni rottura era rifiutata come un’avventura foriera di gravi pericoli. Sfortunatamente, non è vero che “natura non facit saltus”, e tantomeno la storia e la politica». Al contrario: «Esistono, quei salti, che dopo abbiamo imparato a chiamare “biforcazioni catastrofiche”, e la riprova venne subito con la crisi finanziaria del 1907, con la I guerra mondiale, con il fascismo, con la crisi del 1929… Tutti fenomeni che la socialdemocrazia non capì e non seppe affrontare: di fronte alla guerra si piegò anche a votare i crediti di guerra, poi di fronte alla crisi del dopoguerra non seppe lontanamente che fare».In Italia, il leader socialista Filippo Turati «non capì nulla del fascismo, e così i capi della socialdemocrazia tedesca di fronte al nazismo». La sconfitta del movimento operaio? «Fu equamente responsabilità delle impazienze del movimento comunista (per tutte ricordiamo l’insurrezione spartachista)», quella di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, «e delle “prudenze” della socialdemocrazia». Da allora, riassume Giannuli, «tutte le volte che un partito del movimento operaio si è trovato ad affrontare una lunga guerra di posizione è impercettibilmente scivolato in una sonnolenta routine riformista che lo ha reso incapace di riconoscere i momenti di crisi». Motivo: «Il riformismo, più o meno socialdemocratico, è pensiero politico adatto ai momenti ordinari della vita politica. Ma quando arrivano i momenti di crisi del sistema, la socialdemocrazia, essendo interna al sistema stesso, non riesce a rendersene conto e regolarmente finisce travolta più degli altri, non avendo, come i liberali, il sostegno dei poteri forti». In altre parole, «un socialdemocratico si riconosce da una cosa: che vuol fare la frittata, ma ha paura di rompere le uova. Il guaio è che quando arriva una crisi di sistema si solleva un’ondata di protesta popolare e, se a dirigerla non sei tu, lo farà un altro. Che è precisamente quello che sta accadendo».Giannuli è pessimista: «La crisi finanziaria, che è diventata crisi dell’economia reale e sta diventando crisi dell’ordine politico militare, ormai è iniziata da sette anni (forse direi otto), e le sinistre sedicenti anti-sistema (dal “Front de Gauche” alla Linke, dalla sinistra arcobaleno a “Izquierda unida”) che, in teoria avrebbero dovuto avvantaggiarsene, in realtà sono andate in crisi, hanno perso voti e in qualche caso (come l’Italia) sono proprio scomparse, mentre montano fenomeni populisti che ne coprono lo spazio». E quello che colpisce, continua Giannuli, è che militanti e dirigenti di questi partiti non si chiedano minimamente il perché dei loro insuccessi e dei successi altrui. «Hanno fatto eccezione sinora Syriza e Podemos, perché non sono stati percepiti partiti di sistema, ma aspettate che venga fuori la loro natura sostanzialmente socialdemocratica e vedrete». E il M5S? «E’ un movimento in bilico che fa un po’ eccezione, ma prima o poi dovrà misurarsi anche lui con le dinamiche della crisi». Morale: «A volte è l’essere troppo prudenti ad essere la posizione meno realistica».Nessuno si stupisca se, negli ultimi decenni, tocca sempre al centrosinistra fare il “lavoro sporco”, che – se gestito da destra – provocherebbe rivolte: non a caso, col Jobs Act, è stato il Pd renziano a rottamare lo Statuto dei Lavoratori, obbiettivo solo e sempre sognato dal “truce” Cavaliere, contro il quale si sarebbero scatenati sinistra e sindacati. Compressione dei salari, tagli alle pensioni, erosione costante e continua del welfare: è l’applicazione del vecchio “Tina” della Thatcher, “there is no alternative”. Chi può persuadere le masse popolari? Non il centrodestra, ma la sinistra ufficiale – dall’Italia fino alla Grecia di Tsipras. Il che non deve sorprendere: la socialdemocrazia ha rivelato, storicamente, di non essere in grado di gestire nessuna crisi grave, ma solo di limitare i danni “in tempo di pace”. Lo afferma Aldo Giannuli, storico e politologo dell’ateneo milanese. «Quel che resta della sinistra europea (salvo nicchie occasionali di aree radicali, peraltro, non sempre molto aggiornate) ormai si divide fra un’ala neoliberista appena mascherata che va sotto il nome di “Internazionale Socialista”, o socialdemocrazia, e una sinistra che si dice radicale (Sel, Rifondazione, Syriza, Linke e, per certi versi Podemos) ma che, in realtà, è una pallida sinistra socialdemocratica».
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Giannuli: la televisione è finita, come i leader che fabbricava
Non nascerà un altro Berlusconi, perché sta andando in pensione, per sempre, la vecchia fabbrica del consenso, la televisione, ormai disertata dal pubblico perché unidirezionale e quindi obsoleta. Lo sostiene Aldo Giannuli, che segnala «il collasso della televisione, il media principe dell’ultimo mezzo secolo». Per sessant’anni, la Tv pubblica ha svolto una funzione di socializzazione culturale e politica: «Se la società del Novecento è diventata una società della cultura di massa e della partecipazione politica di massa lo deve più di tutti alla televisione». Ma oggi la formula è stanca e la televisione perde costantemente ascolti. «E’ probabile che nel giro di pochi anni l’interazione fra Tv e computer produrrà l’abbandono del palinsesto», sostiene Giannuli. «La Tv trasmetterà in diretta solo i notiziari ed eventi sportivi o spettacoli, mentre, per il resto, le televisioni si trasformeranno in società produttrici di format televisivi a pagamento, che gli spettatori sceglieranno da un menù per guardarli quando meglio gli parrà».In fondo accade già con YouTube. E il fenomeno produrrà ricadute non banali: «Spingerà le Tv ad abbandonare sempre più l’impegno culturale e formativo a favore del taglio commerciale», diversificando peraltro l’offerta. Ormai la vecchia Tv ha perso troppo terreno nei confronti del Web. «La Tv è stata l’ultimo media mono-direzionale, e, nella sua versione commerciale è stato il media ideale del successo berlusconiano. Il Web è il primo media interattivo e bidirezionale, e in questo senso è terreno sfavorevole al Pd e soprattutto a Fi, mentre ha propiziato il successo del M5S». Se per vent’anni l’Italia è stata condizionata da un personaggio come Berlusconi, oggi la televisione come collettore elettorale non funziona più. Per Giannuli, il tramonto della vecchia Tv è il sintomo di una nuova trasformazione radicale del sistema politico, che va molto oltre l’occasionale performance di questo o quel leader. «Inizia a sentirsi davvero l’urto della crisi finanziaria internazionale e della prolungata stagnazione dell’economia italiana, che ormai brucia primati in discesa».Il sistema, ricorda Giannuli, era rimasto stabile dopo il crollo della Prima Repubblica, «nonostante la classe politica fosse assai meno capace di quella che l’aveva preceduta». Nell’euforia finanziaria internazionale, «l’economia italiana galleggiava sul mare della globalizzazione senza troppi scossoni». Oggi invece la situazione è molto più difficile, «e con pochissime speranze di miglioramento a breve». Inoltre, «si stanno liquefacendo le forme della politica che avevamo conosciuto». Fine dei partiti con insediamento sociale: più ancora di Forza Italia e del M5S, il Pd «sta diventando “partito del capo” che azzera ogni dissidenza interna e non ha neppure un vero e proprio gruppo dirigente collettivo», l’unico magnete elettorale è l’ascendente del condottiero e i congressi diventeranno «liturgie del karaoke». La minoranza, che sogna riscosse interne, «non ha capito che non sta più nel Pds e neppure nel Pd, ma nel prossimo “Partito della Nazione”, diverso per struttura interna, per funzione e collocazione politica: questo sarà un partito di centro con decise puntate a destra». Bersani e Speranza? «Stanno a Renzi come Turati stava a Mussolini: uomini del secolo precedente, del tutto inadeguati di fronte all’arroganza violenta del nuovo inquilino del potere».Non nascerà un altro Berlusconi, perché sta andando in pensione, per sempre, la vecchia fabbrica del consenso, la televisione, ormai disertata dal pubblico perché unidirezionale e quindi obsoleta. Lo sostiene Aldo Giannuli, che segnala «il collasso della televisione, il media principe dell’ultimo mezzo secolo». Per sessant’anni, la Tv pubblica ha svolto una funzione di socializzazione culturale e politica: «Se la società del Novecento è diventata una società della cultura di massa e della partecipazione politica di massa lo deve più di tutti alla televisione». Ma oggi la formula è stanca e la televisione perde costantemente ascolti. «E’ probabile che nel giro di pochi anni l’interazione fra Tv e computer produrrà l’abbandono del palinsesto», sostiene Giannuli. «La Tv trasmetterà in diretta solo i notiziari ed eventi sportivi o spettacoli, mentre, per il resto, le televisioni si trasformeranno in società produttrici di format televisivi a pagamento, che gli spettatori sceglieranno da un menù per guardarli quando meglio gli parrà».