Archivio del Tag ‘flessibilità’
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Carpeoro: ma il “no” agli sbarchi è come gli 80 euro di Renzi
Portare a casa un risultato subito, quale che sia: che differenza c’è tra il blocco delle navi delle Ong imposto da Salvini e la mancia degli 80 euro concessi da Renzi? Se lo domanda Gianfranco Carpeoro, convinto che alla fermezza di Salvini – pur legittima, e contestata in modo strumentale dal mainstream – non corrisponda una visione strategica, un impegno almeno decennale: «Succede sempre, quando sparisce l’ideologia: se togli la parte progettuale, la politica si riduce a pura gestione elettoralistica, preoccupata solo dell’oggi». E’ una conseguenza sistemica, dice Carpeoro, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”: da mezzo utile e neutro, il denaro è diventato un fine. «Dal liberalismo (massonico e anche progressista) siamo passati al neoliberismo più reazionario, e i risultati sono questi»: la gente si aspetta “tutto e subito”, e la politica la accontenta con misure-spot destinate a non cambiare niente, dagli 80 euro al divieto per gli sbarchi. «So benissimo che l’immigrazione mediterranea è pilotata, ma so anche che il blocco delle navi non risolve il problema, che va affrontato alla partenza», sostiene Carpeoro, che – insieme a Paolo Mosca, altro esponente del Movimento Roosevelt – propone la creazione di un’agenzia europea per filtrare i migranti in modo intelligente sulla sponda sud del Mediterraneo.Carpeoro ricorda che fu Bettino Craxi, nel lontano 1990, a fotografare col necessario tempismo un problema che, nei decenni seguenti, sarebbe diventato assillante. In sede Onu, il leader del Psi fece una proposta forte e chiara: cancellare il debito dei paesi poveri e promuovere ingenti investimenti europei per creare lavoro direttamente nel Terzo Mondo, attraverso una cooperazione progettata per produrre sviluppo e benessere diffuso. Un discorso che oggi apparirebbe lunare: Craxi propose all’Occidente di investire qualcosa come il 10% del suo Pil, con l’obiettivo strategico di annullare l’abnorme diseguaglianza tra nord e sud del mondo entro il 2020. Oggi in Europa ci si azzanna per decimali di Pil, e un paese come la Francia – che più di altri ha “rapinato” l’Africa, scatenando il grande esodo cui stiamo assistendo – prova a contrastare l’Italia fingendo di apprezzare la moderazione del premier Giuseppe Conte solo per tentare di dividere il governo gialloverde, allontanando il 5 Stelle dalla Lega di Salvini, vero protagonista dell’esordio del nuovo esecutivo “populista”. Facile profeta, Carpeoro? Con largo anticipo, ha formulato un doppio pronostico preoccupante: il rischio che il governo cada, e il pericolo di attentati terroristici in Italia, paese finora risparmiato dalla “sovragestione” e protetto da servizi segreti particolarmente efficienti.Nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo” (Revoluzione, 2016), Carpeoro svela l’identità atlantica del terrorismo in apparenza islamico, targato Isis, che ha martoriato l’Europa. Già a capo della più antica comunione massonica italiana di rito scozzese – da lui stesso poi disciolta, in polemica con il degrado della massoneria italiana – Carpeoro punta il dito contro una sorta di strategia della tensione a livello internazionale, orchestrata da un’élite supermassonica neo-conservatrice, in grado di pilotare (in modo criminale) interi settori dell’intelligence, fino a rendere sistematico lo stragismo. Allarme rosso in Italia, se il nuovo governo vorrà “smontare” gli attuali vertici della struttura deputata alla sicurezza, a maggior ragione dopo l’inquietante insulto (“vomitevole”) riservato alla politica italiana dal partito di Macron, uomo Rothschild, vicinissimo alla pericolosa oligarchia “nera” che, per imporre il rigore finanziario contestato dal “populismo”, non ha esistato a imboccare la strada dell’auto-terrorismo, che in Francia ha portato a leggi speciali, dopo l’insabbiamento dell’inchiesta sulla mattanza di Chalie Hebdo, “seppellita” dal segreto di Stato per oscurare imbarazzanti collegamenti tra i servizi segreti e il commando terrorista.L’Italia è in pericolo perché è politicamente fragile, insiste Carpeoro: è vero, Salvini ha costretto l’Ue ad ammettere che il nostro paese è solo, di fronte alla marea africana. Ma il “nemico” è potente, e la politica di Salvini non basta: le navi delle Ong continueranno a imbarcare profughi smistati dalla mafia dei negrieri, se un’altra Europa – certo non questa – non comincerà a investire, davvero, sul futuro di masse a cui l’élite industriale e finanziaria ha portato via tutto, in nome del neoliberismo più cieco che oggi ci condanna all’inferno alla crisi. E’ l’autolesionismo del gangster: anziché creare condizioni accettabili per tutti, le aziende hanno rincorso il lavoro schiavistico a costo zero, da noi tagliando i salari e nel Terzo Mondo provocando un esodo che non ha eguali nella storia. Non se ne esce bloccando qualche nave, finanziata da Soros e protetta dall’ipocrisia assistenziale di un sistema marcio, che si rifiuta di denunciare le cause del dramma e impone alla sola Italia di sostenere i costi dell’accoglienza marittima, negando al nostro paese la necessaria flessibilità nei conti pubblici. E’ l’ennesimo capolavoro di quest’Europa-fantasma, dominata dalle stesse élite neo-feudali che hanno esiliato un politico come Craxi, dopo aver assassinato in Svezia il leader socialista Olof Palme e in Burkina Faso il presidente Thomas Sankara, leader del riscatto sovranista dell’Africa. Nomi che a pochissimi, oggi, dicono qualcosa.Portare a casa un risultato subito, quale che sia: che differenza c’è tra il blocco delle navi delle Ong imposto da Salvini e la mancia degli 80 euro concessi da Renzi? Se lo domanda Gianfranco Carpeoro, convinto che alla fermezza di Salvini – pur legittima, e contestata in modo strumentale dal mainstream – non corrisponda una visione strategica, un impegno almeno decennale: «Succede sempre, quando sparisce l’ideologia: se togli la parte progettuale, la politica si riduce a pura gestione elettoralistica, preoccupata solo dell’oggi». E’ una conseguenza sistemica, dice Carpeoro, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”: da mezzo utile e neutro, il denaro è diventato un fine. «Dal liberalismo (massonico e anche progressista) siamo passati al neoliberismo più reazionario, e i risultati sono questi»: la gente si aspetta “tutto e subito”, e la politica la accontenta con misure-spot destinate a non cambiare niente, dagli 80 euro al divieto per gli sbarchi. «So benissimo che l’immigrazione mediterranea è pilotata, ma so anche che il blocco delle navi non risolve il problema, che va affrontato alla partenza», sostiene Carpeoro, che – insieme a Paolo Mosca, altro esponente del Movimento Roosevelt – propone la creazione di un’agenzia europea per filtrare i migranti in modo intelligente sulla sponda sud del Mediterraneo.
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Maddalena a Mattarella: arrendersi ai mercati è un crimine
Di fronte alla scelta di Mattarella di negare a Paolo Savona la nomina ministeriale ho provato disorientamento e abbattimento. Dal punto di vista strettamente costituzionale poteva dire “io non firmo”, perché l’articolo 90 della Costituzione conferisce al presidente potere di nomina. Ma nel caso di specie, dopo aver consentito a Di Maio e Salvini di fare un programma di governo e dopo aver dato l’incarico a Conte, la contrarietà a un singolo ministro per un fatto individuale trovo sia perlomeno politicamente inammissibile, comunque contraria alla volontà del popolo italiano e al corpo elettorale, che si è espresso chiaramente per cambiare il sistema. Gli italiani hanno espresso un voto antisistema, invece Mattarella – chiamando Cottarelli, che proviene dal Fmi – ha voluto ribadire il suo apprezzamento per il sistema neoliberista. Su questo il presidente sbaglia: tutto si può dire, tranne che il sistema neoliberista abbia portato dei buoni frutti. Ha aumentato le disuguaglianze in tutto il mondo. Ha cominciato Pinochet, che ha distrutto il Cile. Poi c’è stata la Thatcher in Inghilterra, dove il divario tra ricchi e poveri ha raggiunto livelli mai visti. Il neoliberismo è stato applicato da Reagan e poi soprattutto da Clinton negli Stati Uniti (che ora hanno reagito non confermando la Clinton e votando Trump: dalla padella alla brace).Il sistema valido è quello keynesiano, che permise agli Usa di superare la Grande Depressione degli anni Trenta. Si tratta di distribuire il denaro alla base della piramide sociale cioè ai lavoratori, facendo sì che i negozi aprano e le imprese assumano, in un circolo virtuoso. Invece, secondo la tesi neoliberista lanciata all’inizio degli anni ‘60 da un certo Milton Friedman della Scuola di Chicago, bisogna concentrare la ricchezza nelle mani di pochi e bisogna estromettere lo Stato dall’economia – cioè, il popolo intero non può partecipare all’economia come comunità statale: non si possono dare aiuti alle imprese, ci vuole una forte competività. Questo crea le premesse per cui il lavoro diventa merce, e quindi si tradisce l’idea stessa di Stato-comunità che è in Costituzione. La comunità è formata dal popolo, che contribuisce alla comunità col suo lavoro, dal territorio che offre i mezzi di sostentamento e le fonti di ricchezza necessarie per il progresso materiale e spirituale della società. La sovranità lascia al popolo l’appartenenza, a titolo di sovranità, del territorio, nonché la possibilità di decidere. Mi sembra che tutti gli elementi dello Stato-comunità vengano attaccati dal pensiero neoliberista, e mi spiace molto.Lo spread? Noi legittimiamo – non so in base a quale principio giuridico – l’azione speculativa, che è vietata dal nostro codice. E’ una sopraffazione, la speculazione: non è che possiamo dire che i mercati sono liberi di fare quello che vogliono. Quando gli Stati si sottomettono ai mercati, compiono un crimine fortissimo: i governanti devono appunto governare il mercato, non esserne governati. Il mercato fa i suoi interessi, e la speculazione non è lo strumento per fare i nostri. E’ vietata, la speculazione: può recare danno e farci morire tutti. E’ vietata dall’articolo 501 del codice penale, che punisce chi rompe la stabilità dei prezzi delle merci. Questa sottomissione al mercato, da parte dei governi di tutto il mondo – specie del mondo occidentale – è un errore madornale. Avere un mercato aperto non significa dare accesso a leggi di mercato arbitrarie. Il mercato dovrebbe seguire una sola legge naturale, quella della domanda e dell’offerta. In realtà, oggi tende solo ad appropriarsi dei beni altrui. Noi abbiamo dato tutto, ormai. Ci hanno tolto tutto: sono rimasti solo i nostri immobili privati, qualche piccola industria. Dobbiamo dare anche questo? Mi pare assurdo. E l’assurdità sta proprio in questo assecondare il pensiero neoliberista, e soprattutto l’azione – non legittima, per usare un eufemismo – che opera la finanza. La speculazione finanziaria è costituzionalmente illegittima: non è possibile darle legittimità. La riteniamo una cosa intoccabile, quasi sacra, quando in televisione stiamo a sentire com’è andata la Borsa.Nel rifiutare Savona, Mattarella ha detto di voler tutelare i piccoli risparmiatori italiani? Su questo sono completamente in disaccordo, tant’è vero che lo spread è salito. Non si possono assecondare i mercati, che agiscono in base a principi egoistici. Noi abbiamo bisogno di una cooperazione internazionale per controllare i mercati, ma lo stesso trattato internazionale sul commercio si è votato a favore della speculazione finanziaria. A mio avviso, la scelta di Sergio Mattarella – che rispetto, come persona – è completamente sbagliata. Ha buttato a mare un percorso che era durato 85 giorni. Lo stesso Savona gli aveva offerto una soluzione, dichiarandosi a favore dell’Europa: un’Europa con più uguaglianza tra gli Stati. La finanza agisce in modo malevolo, come la criminalità organizzata: se alla criminalità organizzata vai a dire “io faccio il tuo interesse”, quella fa il suo interesse e ti uccide lo stesso. Ci stanno uccidendo ugualmente, infatti: non si tratta, col nemico criminale. La trattativa Stato-mafia? Allora furono le stragi a portarci alla trattativa, adesso è la guerra economica cavalcata soprattutto dalla Germania. L’unica nostra salvezza è attuare la Costituzione. Anche se dovessimo andare verso una “decrescita felice”, come afferma Latouche, sarebbe preferibile: manterremmo le nostre cose e non saremmo esposti alla schiavitù. Perché a questo punto ci tolgono tutto il territorio ed è finita la comunità italiana – com’è avvenuto in Grecia, dove i cittadini fanno i camerieri per gli stranieri a cui hanno svenduto le loro case.Ho capito da tempo che nel pensiero neoliberista c’è un meccanismo pratico che prevede la creazione del denaro dal nulla e la commercializzazione di denaro fittizio, come quello dei derivati. Tutto a favore delle multinazionali e contro gli interessi del popolo italiano. Addirittura l’ultimo Gentiloni ha approvato il decreto legislativo incostituzionale “taglia-foreste”, destinate ad alimentare le centrali a biomassa dei nostri grandi imprenditori. Nell’ordinamento italiano è stato recepito il bail-in, cioè: se falliscono le banche, pagano i depositanti. Bella roba: questo è il sistema neoliberista, adottato dal Trattato di Maastricht e dal Trattato di Lisbona. Si tenga presente che, sui trattati europei, prevale la Costituzione della Repubblica italiana: a partire dal 1973, la giurisprudenza della Corte Costituzionale ha più volte affermato che nell’ordinamento italiano non possono entrare le norme comunitarie contrarie ai diritti fondamentali, ai diritti dell’uomo e ai principi fondanti della Costituzione repubblicana. Il diritto al lavoro è un diritto fondamentale: come facciamo a sostenere questo sistema economico predatorio neoliberista e ridurre il lavoro a merce? Dobbiamo ripristinare il diritto, e l’ha fatto l’Islanda con grande successo – nazionalizzando tutti i fattori della produzione. Se invece in Italia andiamo avanti così, sensa nazionalizzare niente, è sicuro che moriremo tutti.La finanza ci annienta con denaro fittizio: i derivati sono diventati 20 volte il Pil di tutti gli Stati del mondo. Noi italiani cosa siamo, degli imbecilli? Li potremmo far crollare abrogando leggi insulse che abbiamo approvato, facendo il male nostro. Addirittura i nostri rappresentati al Parlamento Europeo hanno detto sì al Ttip e al Ceta, cioè o trattati euro-atlantici che pretendono il risarcimento del danno se le multinazionali non riescono a piazzare in Italia i loro prodotti, che producono magari tumori. Per contro, quando sta succedendo potrebbe aiutare gli italiani a rendersi conto che devono essere uniti e opporsi al sistema predatorio e neoliberista. Evitando le delocalizzazioni, le liberalizzazioni e le privatizzazioni, e nazionalizzando il più possibile, gli italiani devono riprendersi il territorio che ci è stato tolto. Tornando al Quirinale: chi ha consigliato male il nostro presidente vuole il male dell’Italia, non in bene degli italiani. Il meccanismo neoliberista si fonda su precisi passaggi. Primo, creazione del denaro dal nulla. Derivati, cartolarizzazioni, Jobs Act, project-bond e tante altre cose, fatte con leggi incostituzionali. Quindi: privatizzazioni, liberalizzazioni. Nel 1990 abbiamo privatizzato tutte le banche pubbliche, primo atto assolutamente inconcepibile. Poi nel ‘92 abbiamo privatizzato l’Ina, l’Eni, l’Enel e l’Iri, con tutte le sue industrie. Ci siamo spogliati di tutto: il popolo italiano non produce più niente, è emarginato dall’economia. Come facciamo a pagare i nostri debiti? Anche quelli sono diventati una prestazione impossibile, ai sensi del codice civile. In un sistema predatorio, ogni giorno ci impoveriamo di più, ogni giorno il debito cresce.Poi addirittura questi signori pretendono che il debito diminuisca mettendo denaro da parte: ma il denaro non basta più neppure per arrivare a fine mese, è il sistema che deva cambiare. Questo sistema poi finisce con le svendite: tutto il settore alimentare se l’è preso la Francia insieme a quello della moda, il settore meccanico se l’è preso la Germania, mentre la Cina s’è preso il settore agricolo. Siamo mancanti di tutto, e manteniamo ancora questo sistema? Per fortuna la gente sta capendo che bisogna cambiare, sente che questo sistema fa male. E i due partiti che hanno avuto più voti sono stati antisistema. Vogliamo un altro sistema? Questo dovrebbe chiarito, alle prossime elezioni: vogliamo ancora il sistema predatorio che ci fa morire o vogliamo il sistema produttivo che ci fa vivere? Non ci sono più destra, sinistra e centro: sopra c’è la finanza speculativa e sotto ci sono gli schiavi, ci siamo noi. E gli schiavi ci sono anche negli Stati Uniti, in Cile, in Sudamerica, in Germania, in Francia. Bisogna rivitalizzare il senso della comunità politica e il senso della civiltà, perché è nella “civitas” che nasce la comunità. Altrimenti torniamo all’uomo-branco, dove piccoli branchi di speculatori finanziari uccidono tutti gli altri. E li stiamo anche legalizzando: quando il crimine diventa totale, allora lo si legalizza. Ma è un sistema suicida, illogico e riprovevole, dal quale dobbiamo uscire.(Paolo Maddalena, dichiarazioni rilasciate a Roberto Citrigno per l’intervista “E’ il momento di cambiare sistema”, trasmessa da “Pandora Tv” il 31 maggio 2018. Il professor Maddalena è vicepresidente emerito della Corte Costituzionale. Per l’editore Donzelli, Maddalena ha pubblicato nel 2014 il saggio “Il territorio bene comune degli italiani. Proprietà collettiva, proprietà privata e interesse pubblico”, seguito nel 2016 da “Gli inganni della finanza. Come svelarli, come difendersene”).Di fronte alla scelta di Mattarella di negare a Paolo Savona la nomina ministeriale ho provato disorientamento e abbattimento. Dal punto di vista strettamente costituzionale poteva dire “io non firmo”, perché l’articolo 90 della Costituzione conferisce al presidente potere di nomina. Ma nel caso di specie, dopo aver consentito a Di Maio e Salvini di fare un programma di governo e dopo aver dato l’incarico a Conte, la contrarietà a un singolo ministro per un fatto individuale trovo sia perlomeno politicamente inammissibile, comunque contraria alla volontà del popolo italiano e al corpo elettorale, che si è espresso chiaramente per cambiare il sistema. Gli italiani hanno espresso un voto antisistema, invece Mattarella – chiamando Cottarelli, che proviene dal Fmi – ha voluto ribadire il suo apprezzamento per il sistema neoliberista. Su questo il presidente sbaglia: tutto si può dire, tranne che il sistema neoliberista abbia portato dei buoni frutti. Ha aumentato le disuguaglianze in tutto il mondo. Ha cominciato Pinochet, che ha distrutto il Cile. Poi c’è stata la Thatcher in Inghilterra, dove il divario tra ricchi e poveri ha raggiunto livelli mai visti. Il neoliberismo è stato applicato da Reagan e poi soprattutto da Clinton negli Stati Uniti (che ora hanno reagito non confermando la Clinton e votando Trump: dalla padella alla brace).
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Prove tecniche di rivoluzione, contro il racket del potere Ue
Rivoluzione o cospirazione? Come crolla, un regime autoritario? In genere a farlo implodere non è direttamente la piazza, ma il dissenso interno, pur tra mille contraddizioni e opache trame manipolatorie. Sembra un copione ricorrente, come nel caso della Libia di Gheddafi rovesciata su iniziativa degli ex alleati di Bengasi – incoraggiati dalla Francia, e comunque reduci da una lunghissima cogestione del potere insieme al Colonnello. A smontare il maggiore “impero rigido” del Novecento, l’Unione Sovietica, è stato Mikhail Gorbaciov: non un outsider, ma un alto dirigente del Kgb. Esattamente come Vladimir Putin, l’uomo che poi la Russia l’ha rimessa insieme pezzo su pezzo. Vuoi provare a “smontare” l’Unione Europea per trasformarla in qualcosa di meglio dell’attuale aborto? Non puoi fare a meno di un “insider” di altissimo livello, di un veterano come Paolo Savona (non a caso temutissimo dagli attuali gestori dell’infernale crisi che tiene in ostaggio l’intera Europa, sotto il ricatto finanziario permanente). Altro dettaglio: quando la storia cambia passo, il vecchio potere sembra improvvisamente antico, paleozoico, surreale. Lo sono le sue parole arcaiche e logore, i suoi slogan polverosi. Balbettano, i potenti, increduli di fronte al baratro che si va aprendo. E balbettano, altrettanto disorientati, i grandi media – quelli che hanno smesso di raccontare il mondo, e quindi hanno subito le sorprese della Brexit, di Trump, del referendum contro Renzi, delle ultime elezioni italiane.Finisce nella bufera, in Italia, il presidente della Repubblica, accusato di non aver saputo resistere – in nome della dignità nazionale – alle midiciali pressioni del grande potere apolide che ha in mano l’Europa. E’ un potere senza patria, industriale e finanziario, neo-aristocratico e segretamente supermassonico. Un potere globalista e ricchissimo, infinitamente più forte – per il momento – delle piccole, residue sovranità nazionali ridotte a elemosinare decimali di deficit e briciole di flessibilità. Un sistema che, per primo, Paolo Barnard ha definito neo-feudale: svuotata la democrazia, piegata o “comprata” l’ex sinistra sindacale dei diritti, i signori del neoliberismo (peggiorato ulteriormente, in Europa, dalla versione ordoliberista teutonica, stolidamente ottocentesca e ottusamente mercantile, sleale e imbrogliona) hanno compiuto una restaurazione storica e drammaticamente spettacolare. Il potere, semplicemente, è tornato nelle mani di un’élite pre-democratica e pre-moderna, di tipo medievale. Gli ordini non si discutono: se il vero potere decreta che uno Stato non può più ricorrere al deficit, la discussione è finita. Pena, lo scatenarsi dei “mercati”. Una logica intimidatoria e brutalmente esplicita, di stampo mafioso. Una sorta di racket, al quale gli Stati ex-sovrani devono sottoporsi, senza che i cittadini-elettori siano mai stati interpellati. Fin qui, il copione di ieri. Quello che oggi sta letteralmente franando.Nelle parole che Sergio Mattarella ha rivolto alla nazione immediatamente dopo il “gran rifiuto” opposto alla nomina di Savona, risuona la visione macro-economica del sistema che il neoliberismo – vera e propria teologia dogmatica – ci ha fatto credere l’unica possibile. Per questo, Mattarella la presenta come ovvia: nel suo pensiero c’è posto per un solo modo di risolvere le crisi, e cioè tagliando il deficit pubblico. Una sola fede, una sola religione: quella che il neoliberismo ha imposto a mano armata, con formidabile efficacia, colonizzando l’immaginario universale – scuole, media, governi, editoria, università. Lo Stato deve dimagrire: non ci sono alternative, diceva Margaret Thatcher nel 1980. Peccato che la cura dimagrante imposta dal vero potere e inaugurata da Mario Monti abbia depresso l’economia al punto da far esplodere quel debito che si pretendeva di abbattere. Sono state colpite famiglie e aziende: meno lavoro, risparmi erosi, meno entrate fiscali. Risultato scontato: si è allargata la forbice tra debito e Pil. Come uscirne? Nell’unico modo possibile: facendo esattamente l’opposto. Investimenti a deficit, quindi più lavoro e più Pil, più entrate fiscali e, alla fine, riduzione proporzionale del debito. E’ semplice, in teoria. Ma sembra impossibile.I peggiori politici che un paese come l’Italia abbia mai avuto – gli eroi della Seconda Repubblica – hanno potuto sgranare impunemente il rosario dei falsi dogmi del neoliberismo. L’hanno fatto sempre, a reti unificate, mai contraddetti né interrogati dalla stampa. Un quarto di secolo si è giocato interamente solo all’interno di una soltanto delle narrazioni possibili, quella del neoliberismo, ulteriormente limitato dai vincoli dell’ordoliberismo europeo. Nessuno s’è mai chiesto come abbia fatto, il Giappone, a vivere benissimo con un debito pubblico al 200% del Pil, senza l’ombra di attacchi speculativi – impossibili, con moneta sovrana e una banca centrale che fa il suo mestiere di prestatore di ultima istanza. Nessuno in fondo si è mai chiesto niente di fondamentale, nell’Italia ipnotizzata per vent’anni dal finto duello tra Prodi e Berlusconi, entrambi al servizio (Prodi più di Berlusconi) del sommo potere neoliberista e privatizzatore. Ora, improvvisamente, il Re si scopre nudo: arriva a bloccare la nomina di un ministro, solo perché sgradita ai boss della finanza che occupano militarmente i palazzi europei. Gli italiani, a loro volta, scoprono che il loro voto è stato perfettamente inutile, e ormai diffidano delle istituzioni: temono che siano state colonizzate da poteri stranieri. C’è gente che queste cose le ha dette e scritte per vent’anni. La novità è che ora sono entrate clamorosamente a far parte dell’agenda politica, grazie a due movimenti eterodossi: uno ex-secessionista, l’altro creato dal nulla sul web.Rivoluzione o cospirazione? Come crolla, un regime autoritario? In genere a farlo implodere non è direttamente la piazza, ma il dissenso interno, pur tra mille contraddizioni e opache trame manipolatorie. Sembra un copione ricorrente, come nel caso della Libia di Gheddafi rovesciata su iniziativa degli ex alleati di Bengasi – incoraggiati dalla Francia, e comunque reduci da una lunghissima cogestione del potere insieme al Colonnello. A smontare il maggiore “impero rigido” del Novecento, l’Unione Sovietica, è stato Mikhail Gorbaciov: non un outsider, ma un alto dirigente del Kgb. Esattamente come Vladimir Putin, l’uomo che poi la Russia l’ha rimessa insieme pezzo su pezzo. Vuoi provare a “smontare” l’Unione Europea per trasformarla in qualcosa di meglio dell’attuale aborto? Non puoi fare a meno di un “insider” di altissimo livello, di un veterano come Paolo Savona (non a caso temutissimo dagli attuali gestori dell’infernale crisi che tiene in ostaggio l’intera Europa, sotto il ricatto finanziario permanente). Altro dettaglio: quando la storia cambia passo, il vecchio potere sembra improvvisamente antico, paleozoico, surreale. Lo sono le sue parole arcaiche e logore, i suoi slogan polverosi. Balbettano, i potenti, increduli di fronte al baratro che si va aprendo. E balbettano, altrettanto disorientati, i grandi media – quelli che hanno smesso di raccontare il mondo, e quindi hanno subito le sorprese della Brexit, di Trump, del referendum contro Renzi, delle ultime elezioni italiane.
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L’opulenta macchina del fango di parassiti senza vergogna
Per una volta mi sforzerò di scrivere un articolo più breve in risposta ad una macchina del fango infinitamente più potente rispetto alla mia “penna”; breve, ma che esprime sincera solidarietà al professor Conte e soprattutto a M5S e Lega. Conte, diciamolo immediatamente, è a tutti gli effetti un politico, in quanto presentato da Di Maio come membro di quella potenziale squadra di governo che successivamente è stata votata dai cittadini il 4 marzo: una legittimazione più che sufficiente. Dalle mie parti usiamo dire “come la fai, la sbagli”: state certi, e lo dico pure col cuore, mettendo da parte un attimo quella “asettica professionalità” che un opinionista dovrebbe tenere, che chiunque Salvini e Di Maio avessero proposto come presidente del Consiglio (che non è un capo ma un “primo tra pari” perché non è un premier) non sarebbe andato bene a questa popò di servitù chiamata “stampa”, notoriamente mantenuta a cascata dall’“euromungitura”. Non solo! Conte non è un tecnico perché i tecnici sono legati a quei poteri forti che stanno operando per non vederlo in sella. Eppure il vero obbiettivo di questa campagna reazionaria ed oligarchica è Paolo Savona…L’economista è temuto per le proprie posizioni economiche, posizioni che non sono “euroscettiche”, come riferito erroneamente dalla combriccola dell’Ancien Régime (cui dobbiamo dire grazie per 40 anni di corruzione, macelleria sociale, parassitismo ed alto tradimento), bensì pro-italiani. E’ uomo di potere, certo, non è una novità politica; ma ben vengano figure di questo livello, rimaste indipendenti di fronte alle lusinghe del sistema finanziario internazionale (che ha in mano la nostra informazione), personalità che possano “dare del tu” e ricevere rispetto da Merkel e Macron. Come scrissi nel saggio che presentai alla Camera nel 2016 (collaborando con l’ex deputato 5S Massimiliano Bernini e con la deputata Ciprini), la stampa da “cane da guardia della democrazia” si è trasformata nel “dobermann del potere” (e forse non è casuale che il dobermann sia una razza tedesca). I media tuttavia stanno sottovalutando un fattore: non sempre i manipolatori delle emozioni umane vincono la partita. Sono certo che Lega e 5S abbiano accusato un contraccolpo in termini di consenso, in questi giorni; eppure allo stesso tempo spero che ai cittadini interessi altro: una ingente riduzione della pressione fiscale anche alla luce della tipologia di paese in cui viviamo(!); l’espulsione di tutti coloro, non profughi, che sono giunti e vogliono giungere in Italia senza un permesso di soggiorno, senza un contratto di lavoro “in tasca”; una reale flexicurity (flessibilità nei contratti unita a diritti sociali universali come il salario orario e il Reddito Minimo Garantito di Cittadinanza); il collocamento di una bella pietra tombale su corruzione, parassitismo e rendite speculativo-finanziarie, un salasso per il nostro paese.Pd e Silvio Berlusconi (Responsabili sì, ma del declino italiano!) non concederebbero mai riforme degne di questo nome; molto meglio per loro un paese di cittadini in difficoltà, perciò in svendita. Il “governo del cambiamento”, ricordo a lor signori, non ha mai parlato di “uscita dall’euro” (quanto mai opportuna) bensì di trattativa nell’interesse del nostro popolo, di rispetto della centralità della Costituzione: ciò significa centralità del nostro benessere. Gli altri paesi trattano e ottengono; all’Italia è vietato farlo perché chi ha preceduto il “governo del cambiamento” ha abituato i “partner” dell’Eurozona (in realtà competitors che non regalano niente) a una totale sottomissione, in cambio di quelle prebende personali che piovono dalla macchina finanziaria ad essi connessa. Il tutto mentre il cittadino è privato anche della dignità col combinato disposto “tasse, disoccupazione e assenza di diritti sociali universali”. L’ Articolo 1 è l’articolo fondamentale della Costituzione italiana; nel momento in cui venga dimostrato che qualche accordo internazionale generi perdita di posti lavoro (su cui siamo fondati), o/e macelleria sociale, è automaticamente anticostituzionale, si pone fuori dallo Stato di diritto e va ridiscusso finché non risulti coerente con la Carta, finché non si dimostri conveniente per gli interessi nazionali.Chi governa ha quindi l’obbligo istituzionale (non ha scelta) di aprire un tavolo con le altre nazioni; eppure questa prospettiva è ciò che soggetti multinazionali ed esteri non vogliono accada. L’articolo 1 recita che “la sovranità appartiene al popolo”, quindi essa non può emigrare e si esercita con il voto democratico, ergo non è possibile imporre “un Cottarelli” nel momento in cui la maggioranza del paese (5S e Lega) indichi un altro nome. La verità celata ai cittadini è che l’Italia, rispetto al proprio Pil, ha un livello di debito estero (peraltro generato proprio dalla moneta unica, a causa del rapporto-truffa di cui abbiamo GIA’ DETTO QUI già detto qui) più o meno pari a quello tedesco (vedi il “Sole 24 Ore”): per il resto è indebitata verso se stessa!!! Questo, unitamente alla solidità delle partite correnti, dovrebbe essere il criterio cui dovrebbero riferirsi (quando parlano di noi o di qualsiasi nazione al mondo) Fmi, Ue, Ue-M e i grandi giornalisti italiani e stranieri. Il famoso aumento dell’Iva, tanto desiderato dai parassiti cui dedico questo articolo, non serve nemmeno per idea a rendere sostenibili i conti pubblici, ma semmai a peggiorarli; genera un meccanismo (noto a tutti nell’ambiente economico) che, a cascata, trasferisce risorse dall’Italia a quelle banche private tedesche che devono essere salvate; e con esse emigra anche l’occupazione.Le cosiddette sinistre (italiane ed europee), i radicali, il noto possessore di grosse SpA e tutti i quotidiani (nessuno escluso, e domandatevi perché!) hanno dimostrato di essere pronti ad anteporre a milioni di cittadini i loro interessi privatistici (quando non addirittura aziendali) pur di portarci in un mondo globalista il quale, in nome di una finanza ordoliberista e di promesse fantasiose, renderebbe gli esseri umani pari a numerini privi di spinta individuale e creativa (privati della libertà). Concludo con una critica. In questa fase, se si vuole bene al proprio paese, di fronte a questo macello mediatico si ha l’onesto obbligo di rimanere compatti e non ci si presta alla strumentalizzazione, non ci si riposiziona politicamente (conosco i miei polli e ho sempre disprezzato l’opportunismo fino a non partecipare più alla politica attiva) anche se farlo, un domani, a qualcuno, potrebbe fare comodo. Soprattutto quando si ha ben chiaro che i nemici del popolo italiano non sono i leghisti ma ben altri…(Marco Giannini, “L’opulenta macchina del fango di parassiti senza vergogna”, pubblicato su “Libreidee” il 24 maggio 2018. Già attivista del Movimento 5 Stelle, Giannini è autore del saggio “Il neoliberismo che sterminò la mia generazione”, sottotitolo “Corso di sopravvivenza per chi non sa niente di economia”, edito da Andromeda nel 2015, presentato anche alla Camera. Nel gennaio 2017 Giannini si è distanziato dal movimento fondato da Grillo dopo la tentata adesione del M5S al gruppo ultra-europeista dell’Alde in seno al Parlamento Europeo).Per una volta mi sforzerò di scrivere un articolo più breve in risposta ad una macchina del fango infinitamente più potente rispetto alla mia “penna”; breve, ma che esprime sincera solidarietà al professor Conte e soprattutto a M5S e Lega. Conte, diciamolo immediatamente, è a tutti gli effetti un politico, in quanto presentato da Di Maio come membro di quella potenziale squadra di governo che successivamente è stata votata dai cittadini il 4 marzo: una legittimazione più che sufficiente. Dalle mie parti usiamo dire “come la fai, la sbagli”: state certi, e lo dico pure col cuore, mettendo da parte un attimo quella “asettica professionalità” che un opinionista dovrebbe tenere, che chiunque Salvini e Di Maio avessero proposto come presidente del Consiglio (che non è un capo ma un “primo tra pari” perché non è un premier) non sarebbe andato bene a questa popò di servitù chiamata “stampa”, notoriamente mantenuta a cascata dall’“euromungitura”. Non solo! Conte non è un tecnico perché i tecnici sono legati a quei poteri forti che stanno operando per non vederlo in sella. Eppure il vero obbiettivo di questa campagna reazionaria ed oligarchica è Paolo Savona…
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Sindacati e Confindustria uniti nella lotta contro i lavoratori
Pochi giorni fa la Corte dei Conti ha espresso un giudizio negativo sui contratti già stipulati nel pubblico impiego. Troppi i soldi dati a tutti e troppo pochi quelli legati al merito individuale, ha sentenziato. Il fatto è che i dipendenti pubblici hanno subìto quasi dieci anni di blocco contrattuale. Solo il recupero del costo della vita avrebbe comportato aumenti attorno ai trecento euro. Invece, come si sa, gli aumenti reali delle buste paga, quelli che ricevono tutti, sono stati tra i 50 e gli 80 euro lordi, cioè tra i 30 e 50 netti. E la magistratura contabile ora considera questi incrementi salariali eccessivi. Quindi per lo Stato il salario dei suoi dipendenti deve ridursi. Per i privati va meglio? Neanche per sogno. L’accordo sul sistema contrattuale firmato con scene di giubilo comune tra i vertici di Cgil, Cisl, Uil e quelli di Confindustria è la peggiore politica di depressione salariale fatta contratto. Esso conclude un percorso iniziato nel 2009 da un’ intesa che la Cgil inizialmente non sottoscrisse, salvo poi cambiare idea successivamente. L’ultimo contratto dei metalmeccanici sottoscritto anche dalla Fiom – il peggiore della storia della categoria con quasi zero aumenti salariali, la flessibilità a go go e i fondi sanitari – ha dato il via libera definitivo a quest’intesa.L’accordo interconfederale programma la riduzione dei salari reali nei contratti nazionali e lega rigidamente quelli aziendali ai massimi profitti dell’impresa. A livello nazionale i soli aumenti previsti saranno quelli che rivalutano i minimi tabellari, che sono solo una parte della retribuzione effettiva di un lavoratore. Si dovrà calcolare quanto cresce il costo della vita, sottrarre da esso i costi energetici e dei beni importati – l’aumento della bolletta elettrica, del gas, della benzina che non si recupera in busta paga – e infine si arriverà a definire quanto sarà l’aumento reale in busta paga. Con questo sistema i metalmeccanici hanno ricevuto l’incremento favoloso di 3 euro mensili. Si crea così più spazio per la contrattazione a livello aziendale, come dicono i firmatari dell’accordo e i soliti esperti liberisti e confindustriali? Certo che no. I lavoratori non possono rivolgersi alla loro azienda dicendole: visto che il contratto nazionale non ci ha dato i soldi che ci spettano, ora ce li dai tu. Eh no, risponderà l’azienda, l’accordo interconfederale stabilisce che ogni centesimo in più debba essere guadagnato con lavoro in più e legato all’andamento dei profitti aziendali. Per essere chiari, se l’azienda va benissimo ai lavoratori tocca qualcosa, che però può essere loro tolto se la situazione cambia.Il salario aziendale diventata totalmente variabile, verso l’alto ma anche verso il basso. Il salario fisso vale sempre meno e quello che dovrebbe integrarlo è sempre più aleatorio: oggi c’è, domani no. Insomma i lavoratori vengono trattati come i manager, ma con retribuzioni mille volte inferiori. In sintesi con questo sistema contrattuale il salario reale può solo calare. Del resto lo stesso concetto di aumento della retribuzione viene bandito dalle regole del gioco. I sindacati non possono rivendicare più soldi solo perché i lavoratori non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese. Guai, questo significherebbe alimentare la vecchia lotta di classe e rifiutare la moderna collaborazione con l’impresa! Ci sono voluti quasi trenta anni di accordi, dal taglio della scala mobile negli anni ’80, alle varie intese degli anni ’90 e dell’ultimo decennio; alla fine l’obiettivo storico delle classi imprenditoriali è stato raggiunto: il salario costituzionale, quello che definisce la dignità del lavoro indipendentemente dal mercato, non esiste più. E con esso non esiste neppure più la contrattazione. I sindacati che accettano questo modello non possono e non devono chiedere più nulla, devono solo applicare delle formule rinunciando a fare il loro mestiere.I metalmeccanici tedeschi hanno raggiunto le 28 ore settimanali assieme all’aumento dei salari. L’accordo sul sistema contrattuale italiano non solo impedisce che simili risultati possano essere mai acquisiti, ma vieta persino che possano essere richiesti. La piattaforma della IgMetall, nel sistema sottoscritto da Camusso e compagnia, sarebbe semplicemente fuorilegge. Neppure i vertici della Ue avrebbero saputo imporre ai lavoratori italiani un sistema così capace di farli lavorare sempre di più e guadagnare sempre di meno. Cgil, Cisl, Uil e Confindustria cancellano la possibilità per i lavoratori di ottenere contratti degni di questo nome, ma si mettono definitivamente assieme in affari. Fondi pensione, sanità privata, formazione e traffici vari sul lavoro, di questo si occuperanno davvero.Alla firma dell’intesa i leader sindacali e confindustriali si sono abbracciati e hanno fatto sapere alla politica che essa non deve occuparsi di loro, che i lavoratori sono cosa loro. Pensano così di essersi salvati dal crollo del Pd, partito che, pur con finte polemiche, hanno sempre sostenuto. Hanno organizzato un sindacato unico di regime in cui padroni e vertici sindacali operano affratellati in una sola corporazione. A sua volta lo Stato, con le parole della Corte dei Conti, ha teorizzato la riduzione dei salari dei propri dipendenti. Il Fiscal Compact e il pareggio di bilancio obbligatorio costituzionalmente si fanno contratto. È il tallone di ferro che schiaccia tutto il mondo del lavoro, un regime di austerità e di impoverimento permanente che si afferma con la complicità di Cgil, Cisl e Uil. La ricostruzione del valore costituzionale del lavoro e del suo salario passa attraverso la rottura del sistema di relazioni sindacali che si è affermato in questo decenni. E ovviamente questa rottura dovrà anche riguardare i grandi sindacati confederali, che per salvare sé stessi hanno abbandonato i lavoratori al mercato ed ai tagli della spesa pubblica.(Giorgio Cremaschi, estratto da “E’ nato il nuovo sindacato unitario: Cgil, Cisl, Uil e Confindustria”, da “Carmilla” del 22 aprile 2018).Pochi giorni fa la Corte dei Conti ha espresso un giudizio negativo sui contratti già stipulati nel pubblico impiego. Troppi i soldi dati a tutti e troppo pochi quelli legati al merito individuale, ha sentenziato. Il fatto è che i dipendenti pubblici hanno subìto quasi dieci anni di blocco contrattuale. Solo il recupero del costo della vita avrebbe comportato aumenti attorno ai trecento euro. Invece, come si sa, gli aumenti reali delle buste paga, quelli che ricevono tutti, sono stati tra i 50 e gli 80 euro lordi, cioè tra i 30 e 50 netti. E la magistratura contabile ora considera questi incrementi salariali eccessivi. Quindi per lo Stato il salario dei suoi dipendenti deve ridursi. Per i privati va meglio? Neanche per sogno. L’accordo sul sistema contrattuale firmato con scene di giubilo comune tra i vertici di Cgil, Cisl, Uil e quelli di Confindustria è la peggiore politica di depressione salariale fatta contratto. Esso conclude un percorso iniziato nel 2009 da un’ intesa che la Cgil inizialmente non sottoscrisse, salvo poi cambiare idea successivamente. L’ultimo contratto dei metalmeccanici sottoscritto anche dalla Fiom – il peggiore della storia della categoria con quasi zero aumenti salariali, la flessibilità a go go e i fondi sanitari – ha dato il via libera definitivo a quest’intesa.
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Ciccarelli: reddito di base, il web fa miliardi col nostro lavoro
Dovrebbero pagarci per il solo fatto di esistere: ogni giorno, infatti, produciamo un’immensa mole di “lavoro”, non riconosciuto né contrattualizzato. Il reddito di base, universale e senza condizioni, oggi andrebbe sganciato dal lavoro, essendo «una delle possibili forme di remunerazione delle attività che già svolgiamo nella società e nell’economia, anche in quella digitale». Dunque «non una forma di riparazione o di assistenza contro la povertà», ma una nuova frontiera della convivenza: è la tesi che Roberto Ciccarelli, giornalista e filosofo, esprime nel saggio “Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale” (DeriveApprodi). Sharing economy, gig economy, free lance, robot: l’ufficio e la fabbrica non sono più le uniche sorgenti del “plusvalore”. Un valore invisibile, come quello al quale attinge Facebook: più tempo passiamo a mettere “like” o a esprimere opinioni, più il social network ci profila, acquisisce dati, li rielabora ad uso dell’offerta pubblicitaria, che è il cuore del suo business. Come dimostra il caso di Cambridge Analytica, scrive Giacomo Russo Spena su “Micromega”, il nostro lavoro è usato per costruire “frame” interpretativi «sempre più decisivi nella produzione del consenso, attraverso sofisticate strategie di marketing elettorale nelle post-democrazie neoliberali della demagogia elettronica». Così si crea profitto: «Un enorme guadagno su quel valore che abbiamo prodotto attraverso il nostro intrattenimento digitale».Lo stesso avviene per i motori di ricerca, Google in primis. Ciccarelli lo descrive dettagliatamente nel suo libro. «I nuovi monopoli digitali che, sfruttando la retorica idiota dell’utopia web, accumulano ricchezze su ricchezze creando nuove disuguaglianze, sfruttando ogni più piccolo aspetto delle nostre vite, producendo in modo opaco nuove strutture di potere verticistiche, più che di discussione e partecipazione paritaria». E’ evidente: «Questo gigantesco apparato in cui siamo immersi non esisterebbe senza di noi. Senza la nostra forza lavoro, la nostra intelligenza, i nostri “amici” e le relazioni che costruiamo con loro». Ciccarelli ridefinisce questa realtà materiale del funzionamento dell’economia digitale ricorrendo alla definizione di “forza lavoro” data da Karl Marx: categoria con facoltà di produrre valori d’uso. «Chi oggi ha capito meglio questa definizione sono i nuovi capitalisti della Silicon Valley che, attraverso le piattaforme del Web 2.0, hanno inventato un sistema che permette di sfruttare, senza intermediari, la potenza di questa forza lavoro senza tuttavia riconoscere un centesimo – o poco più – a chi lavora per loro, pur non avendone consapevolezza».Nel saggio di Ciccarelli, i robot non sono considerati un nemico: basta rovesciare l’algoritmo che oggi impiega la macchina a discapito dell’uomo. Il reddito di base? «In sé non basta, perché altrimenti rischierebbe di essere una “mancia” data dai capitalisti ai loro schiavi». Occorre invece «una politica coraggiosa, che associ a una misura universalistica di reddito nuova disciplina fiscale, contro le diseguaglianze, una riforma del welfare». Il reddito di base, aggiunge Ciccarelli, è anche un modo per contrastare precarietà, “working poors” e dumping salariale. Una via per riaffermare la dignità dell’individuo. «Il reddito permetterebbe di respingere ogni forma di subordinazione e afferma l’autonomia dell’essere umano. Abbiamo bisogno anche di salario, diritti sociali, tutele universalistiche e un’etica dell’autodifesa digitale». Alla rivendicazione di questi aspetti – scrive – va associata una prospettiva più ampia: non basta un rapporto di lavoro ben regolato per interrompere lo sfruttamento continuo di ogni aspetto della nostra vita, «vanno trovati strumenti per dare la libertà a ciascuno di rifiutare i ricatti». E quello strumento è il reddito incondizionato. «Non è una proposta né utopistica né da scansafatiche, ma l’unico modo per arginare disuguaglianze, lavoro povero e precarietà: una proposta al passo con la trasformazione delle nostre società».La battaglia sul reddito di cittadinanza – patrimonio culturale e politico della sinistra – è passata ad essere pilastro del Movimento 5 Stelle, che l’ha inserito tra i propri punti programmatici. Di recente, sul suo blog, Beppe Grillo ha parlato di “reddito di nascita”, sganciato dalla produttività capitalistica, anche in realtà si configura come una forma di pura assistenza per i disoccupati, condizionata alla ricerca di un impiego. Il movimento Diem25, fondato dall’ex ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis, fa un’altra proposta: attingere ai profitti delle grandi corporations invece che alla tassazione generale. La tesi: le grandi innovazioni tecnologiche si appoggiano quasi sempre su investimenti pubblici in ricerca di base, mentre le compagnie più innovative sfruttano una produzione collettiva di ricchezza, come quella dei Big Data. Ma gli immensi profitti che ne derivano vengono ripartiti esclusivamente fra un numero limitato di azionisti. Il “dividendo di base universale” di Diem25, invece, propone di allargare i benefici a tutta la collettività. Come? Riservando una piccola percentuale delle azioni di tutte le compagnie quotate in Borsa ad un fondo comune di proprietà pubblica, che li riverserebbe poi alla cittadinanza in forma di reddito di base.(Il libro: Roberto Ciccarelli, “Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale”, DeriveApprodi, 219 pagine, 18 euro).Dovrebbero pagarci per il solo fatto di esistere: ogni giorno, infatti, produciamo un’immensa mole di “lavoro”, non riconosciuto né contrattualizzato. Il reddito di base, universale e senza condizioni, oggi andrebbe sganciato dal lavoro, essendo «una delle possibili forme di remunerazione delle attività che già svolgiamo nella società e nell’economia, anche in quella digitale». Dunque «non una forma di riparazione o di assistenza contro la povertà», ma una nuova frontiera della convivenza: è la tesi che Roberto Ciccarelli, giornalista e filosofo, esprime nel saggio “Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale” (DeriveApprodi). Sharing economy, gig economy, free lance, robot: l’ufficio e la fabbrica non sono più le uniche sorgenti del “plusvalore”. Un valore invisibile, come quello al quale attinge Facebook: più tempo passiamo a mettere “like” o a esprimere opinioni, più il social network ci profila, acquisisce dati, li rielabora ad uso dell’offerta pubblicitaria, che è il cuore del suo business. Come dimostra il caso di Cambridge Analytica, scrive Giacomo Russo Spena su “Micromega”, il nostro lavoro è usato per costruire “frame” interpretativi «sempre più decisivi nella produzione del consenso, attraverso sofisticate strategie di marketing elettorale nelle post-democrazie neoliberali della demagogia elettronica». Così si crea profitto: «Un enorme guadagno su quel valore che abbiamo prodotto attraverso il nostro intrattenimento digitale».
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Cacciari e Farinetti: Salvini e 5 Stelle insieme, senza illusioni
Signori, abbiamo scherzato: «Le promesse, con questa legge elettorale, non valgono niente: sono solo promozionali. E quindi non vale niente la campagna elettorale: è tutta demagogia». Parola di Oscar Farinetti, “vedovo” di Renzi come Massimo Cacciari ma rinfrancato dalla conversione dei 5 Stelle verso il negoziato: «Mi auguro che, alla fine, venga fuori un governo con 5 Stelle e Salvini», dice il filosofo, ospite di Lilli Gruber insieme al patron di Eataly. «In questo caso si crea una discontinuità: finalmente comincia un’altra storia». Se i due estimatori del renzismo “brindano” al neo-moderato Di Maio, le giravolte post-elettorali dei grillini angustiano i tifosi della prima ora come Massimo Mazzucco, intervistato a “Border Nights”, trasmissione web-radio in cui Paolo Franceschetti (avvocato e saggista) infierisce: «I 5 Stelle stanno dimostrando di essere quello che erano fin dall’inizio, un abile artificio del potere per drenare il dissenso». Mazzucco, autore di documentari-verità (cancro, 11 Settembre, Uomo sulla Luna), non concorda: «I 5 Stelle mi hanno deluso evitando di contrastare la legge Lorenzin sui vaccini, ma non credo ci sia premeditazione: è l’avvicinamento al potere che, inevitabilmente, ti costringe a fare i conti con realtà che nemmeno conoscevi».In pratica, dice Mazzucco, è come se qualcuno ti battesse una mano sulla spalla dicendoti: stai ben attento a quel che fai, potresti pentirtene. Al che, c’è il bivio: o ci si piega, per quieto vivere, oppure si trova il coraggio di andare fino in fondo, restando fedeli alle proprie idee, peraltro appena “vendute” agli elettori. Di Maio? E’ diventato flessibile: morbidissimo con l’Unione Europea, con gli Usa e con la Nato, e meno “amico” della Russia. Cosa che a Cacciari va benissimo. E poi, dice, è sbagliato parlare di traformismo: «Quando mai un partito ha continuato a dire, sic e simpliciter, quello che diceva in campagna elettorale? E’ chiaro che la campagna ha necessariamente un aspetto demagogico, di promesse». Farinetti spera che Mattarella convinca i partiti a fare una nuova legge elettorale sul modello francese, col ballottaggio tra i primi due partiti. «Con una legge elettorale a doppio turno come quella per eleggere i sindaci – dice – i partiti sarebbero costretti a dire quello che vogliono davvero, quello che veramente sentono di poter fare». E il Di Maio europeista? Ottima notizia, per Cacciari: certifica «il pieno riconoscimento del nostro destino europeo: o la democrazia si ripensa su scala continentale, o cesserà di funzionare». E questo cambiamento, nei 5 Stelle, «segna un discrimine netto rispetto ai fondamenti culturali della Lega».Per il filosofo, grillini e leghisti dovrebbero raggiungere un accordo di governo, segnando almeno «una discontinuità generazionale», sapendo però di essere incompatibili: «E alla lunga, questa incompatibilità strategica – come base sociale, come idee – verrà fuori». L’incremento elettorale dei 5 Stelle, ricorda Cacciari, viene dal Pd. In più, il 50% degli elettori grillini si dichiara “di sinistra” (solo il 20% si considera “di destra”). «Sul piano culturale – aggiunge – l’incompatibilità tra Lega e 5 Stelle è evidentissima, ma bisogna che maturi e che si esprima. Certo la loro sarebbe un’alleanza a termine: non è la prospettiva su cui si risolveranno i problemi del paese, che richiedono scelte drastiche». E il Pd? Il rischio è che decida di suicidarsi: «Se fa un congresso vero, rapidamente (prima dell’estate) ed elegge un nuovo segretario, allora può esserci un nuovo inizio. Ma se aprono adesso – come hanno intenzione di fare – una campagna elettorale tra 15-20 persone per fare le primarie in autunno, muoiono: scompaiono. E allora l’unica forza di centrosinistra, in questo paese, diventeranno i 5 Stelle». Al posto di Renzi e colleghi, Cacciari avrebbe fatto il contrario dell’Aventino: «Io auspicavo che il Pd, riconoscendo la vittoria dei 5 Stelle e ribadendo la sua estraneità al centrodestra nel suo insieme, dicesse: sono disposto a far partire un governo monocolore 5 Stelle, verificando poi di volta in volta i provvedimenti, da valutare singolarmente».Al reggente Maurizio Martina, Farinetti suggerisce di non sbattere la porta in faccia ai 5 Stelle, come invece fecero i grillini nel 2013 con Bersani: «Cercherei di capire se il loro reddito di cittadinanza è visto come misura strategica o solo d’emergenza, verso la creazione dell’unica prospettiva seria, cioè la creazione di posti di lavoro, specie al Sud, tenendo conto delle grandi vocazioni di questo paese». Utopia, riconoscono Farinetti e Cacciari: il Pd non sembra intenzionato ad aprire un vero dialogo, temendo di suicidarsi politicamente in caso di alleanza coi 5 Stelle. A loro volta, i grillini considerano un suicidio l’intesa con Berlusconi. E Salvini, infine, sa benissimo che rompere oggi col Cavaliere gli impedirebbe di continuare a dissaguare Forza Italia. Stallo assoluto? Non è detto. Il nodo è Berlusconi, dice Cacciari: basterebbe convincerlo che un governo Salvini-Di Maio sarebbe il male minore. Restando defilato per non imbarazzare i 5 Stelle, avrebbe ministri «tipo Cancellati» e garanzie precise sui suoi vastissimi interessi. L’alternativa? Non esiste: «In caso di elezioni anticipate, Berlusconi scompare. Gli conviene, un governo con Salvini e Di Maio». I grillini “annacquati”? Inevitabile, chiosa Farinetti: «Serve tempo, per vedere se c’è la possibilità di fare un meraviglioso compromesso. Non vedo l’ora – aggiunge – di vedere all’opera partiti che, giustamente, dall’opposizione portavano avanti teorie assolute: comprenderanno che l’unica cosa perfetta, in natura, è proprio il compromesso».Signori, abbiamo scherzato: «Le promesse, con questa legge elettorale, non valgono niente: sono solo promozionali. E quindi non vale niente la campagna elettorale: è tutta demagogia». Parola di Oscar Farinetti, “vedovo” di Renzi come Massimo Cacciari ma rinfrancato dalla conversione dei 5 Stelle verso il negoziato: «Mi auguro che, alla fine, venga fuori un governo con 5 Stelle e Salvini», dice il filosofo, ospite di Lilli Gruber insieme al patron di Eataly. «In questo caso si crea una discontinuità: finalmente comincia un’altra storia». Se i due estimatori del renzismo “brindano” al neo-moderato Di Maio, le giravolte post-elettorali dei grillini angustiano i tifosi della prima ora come Massimo Mazzucco, intervistato a “Border Nights”, trasmissione web-radio in cui Paolo Franceschetti (avvocato e saggista) infierisce: «I 5 Stelle stanno dimostrando di essere quello che erano fin dall’inizio, un abile artificio del potere per drenare il dissenso». Mazzucco, autore di documentari-verità (cancro, 11 Settembre, Uomo sulla Luna), non concorda: «I 5 Stelle mi hanno deluso evitando di contrastare la legge Lorenzin sui vaccini, ma non credo ci sia premeditazione: è l’avvicinamento al potere che, inevitabilmente, ti costringe a fare i conti con realtà che nemmeno conoscevi».
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Euro e Russia: grillini beffati, Di Maio cambia il programma
Due cattivoni assoluti – la guerra e l’euro – sono letteralmente spariti dalla fiaba “flessibile” dei 5 Stelle: prima delle elezioni funzionavano per ottenere voti, ma ora sono stati “sbianchettati” in funzione governativa. Della serie: perché nulla cambi, delle cose che contano davvero. Nessuno tocchi l’egemonia corrente: a contrastare i bombardamenti Usa, le sanzioni alla Russia e il dominio oligarchico di Bruxelles resta solo Salvini, visto che Di Maio, con l’ovvio placet del padrone Casaleggio, ha sostituito il programma votato dagli iscritti con un altro, assai più morbido e sfuggente sui temi che dovrebbero impegnare il “governo del cambiamento” richiesto da almeno il 55% degli italiani votanti (senza contare il 27% rimasto a casa, forse temendo di assistere esattamente a questo tipo di spettacolo post-elettorale). Il classico imbroglio? Alla faccia del “primo e unico programma politico basato sulla partecipazione e sulla democrazia diretta online grazie al sistema operativo Rousseau”. «La versione del programma elettorale attualmente disponibile sul sito del movimento è completamente diversa da quella che c’era a febbraio», scrive Luciano Capone sul “Foglio”. «Una manipolazione della volontà degli iscritti, una presa in giro degli elettori, una violazione delle regole del partito (democrazia diretta e trasparenza), la negazione della retorica sul cittadino vero “sovrano” e il politico semplice “portavoce”».Per recuperare il vecchio programma, scrive il “Foglio”, basta andare su “Internet Archive” – la più grande biblioteca della rete – e utilizzare la funzione “Wayback Machine”, che consente di risalire alle pagine web modificate o cancellate. Fino al 2 febbraio sul sito del M5S c’era un programma, ma il 7 marzo – tre giorni dopo le elezioni – ce n’era già un altro, «totalmente diverso e spesso diametralmente opposto». E’ il caso del “programma Esteri”, di stringente attualità vista la crisi in Siria. «Gli iscritti avevano votato per un’impostazione radicale, terzomondista, filo-russa e anti-atlantica. Il nuovo “programma Esteri” è stato bonificato: tolte le contestazioni alla Nato e agli Stati Uniti, addolcite le critiche all’euro e all’Ue, smussati gli elogi alla Russia». Il capitolo su “Sovranità e indipendenza” si apriva così: “Il caos che regna in Libia dimostra che l’unilateralismo dell’intervento umanitario è fallito”. E ancora: “Ripudiamo ogni forma di colonialismo, neocolonialismo e ingerenza straniera”. Tutto sparito, rileva il “Foglio”. «Nella nuova versione si parla di “affrontare insieme in Europa” le sfide del domani “come Stati sovrani liberi e indipendenti” nel mondo multipolare. Un’altra musica, più soft».Il capitolo sul “Ripudio della guerra” partiva secco: “Iraq, Somalia, ex Jugoslavia, Afghanistan, Libia, Ucraina, Siria. L’elenco dei paesi distrutti dall’unilateralismo occidentale potrebbe essere molto più lungo”. E proseguiva catastrofico: “Le guerre di conquista dell’ultimo periodo hanno portato il mondo a un passo dall’Apocalisse e hanno prodotto centinaia di migliaia di morti, feriti, mutilati e sfollati. Territori devastati, smembrati, economie fallite, destabilizzazioni estese a intere regioni e milioni di persone”. Tutto cancellato, osserva Capone sul “Foglio”: «Ora il tono è più posato e burocratico, si parla di “ricerca del multilateralismo, della cooperazione e del dialogo tra le popolazioni” e si ribadisce che “le operazioni per il mantenimento della pace debbano svolgersi in stretta ottemperanza ai principi della Carta dell’Onu”». Ma il passaggio dall’“Apocalisse” alla “stretta ottemperanza” è niente, rispetto alla metamorfosi della posizione sulla Nato: “Il ‘sistema di sicurezza occidentale’ non solo non ci ha reso più sicuri, ma è il primo responsabile del caos odierno. Dall’invasione della Libia fino alla distruzione pianificata della Siria – c’era scritto – il sistema di sicurezza occidentale ha registrato una serie di fallimenti che hanno portato alle popolazioni dei paesi membri, miliardi di euro di perdite, immigrazione fuori controllo e destabilizzazione di aree fondamentali per la sicurezza e l’economia dell’Europa”.L’alleanza atlantica veniva descritta come la causa principale dell’instabilità globale, arrivando a vagheggiare una rottura del patto: ci sarebbe ormai “una discordanza tra l’interesse della sicurezza nazionale italiana con le strategie messe in atto dalla Nato”. Per questo il M5S proponeva un “disimpegno da tutte le missioni militari della Nato in aperto contrasto con la Costituzione”. Tutti gli attacchi alla Nato sono stati eliminati, prende nota il “Foglio”. «Nella nuova versione, cambiata poco prima o poco dopo le elezioni, il passaggio più duro parla dell’“esigenza di aprire un tavolo di confronto in seno alla Nato”». Anche la parte sul Medio Oriente era una dura accusa all’Occidente: “I nostri governi hanno distrutto intere popolazioni, come quella siriana, seguendo l’interventismo occidentale della Nato, cui l’Italia ha colpevolmente prestato il fianco rompendo le relazioni diplomatiche con Damasco”. Ora è stato tolto ogni riferimento al regime di Assad e compaiono le responsabilità dei paesi arabi, che hanno “un sistema di governo a dir poco inadeguato agli standard universali”. Il capitolo sulla Russia? E’ stato emendato da alcune critiche sulle sanzioni. “L’Ue, adeguandosi agli Usa – c’era scritto – ha gradualmente imposto misure restrittive nei confronti della Russia”. Le “azioni di Mosca” in Crimea e Ucraina? Erano “volte al mantenimento della sua sfera di influenza nello spazio ex sovietico a fronte del progressivo allargamento della Nato”. Tutto sparito.Analogamente, aggiunge il “Foglio”, sono state riviste le critiche all’euro: dal passaggio-chiave iniziale (“La situazione italiana nella zona euro è insostenibile, siamo succubi della moneta unica”), il neo-programma di Di Maio approda a lidi più rassicuranti per l’establishment: “Questo non significa abbandonare perentoriamente la moneta unica”. Non che i 5 Stelle siano mai stati chiari, in materia: hanno persino cercato di approdare al gruppo iper-eurista dell’Alde a Strasburgo, senz’altro proporre – in Italia – che la vaghezza di un ipotetico referendum consultivo sulla moneta unica. Hanno sparato volentieri sull’euro, a parole, ma senza mai impegnarsi in una posizione politica ufficiale (come ad esempio quella espressa da Borghi e Bagnai, in quota Lega). Ora la retromarcia di Di Maio conferma agli elettori no-euro che sì, hanno proprio sbagliato a votare 5 Stelle. «Questi esempi – scrive il “Foglio” – riguardano solo le dieci paginette del “programma esteri”, ma vanno moltiplicati per le altre diciannove aree tematiche, più le quattro aggiunte senza alcuna votazione». Nel “programma Banche” sono state inserite proposte mai votate, dal “programma Lavoro” è stato rimosso il capitolo sui “Sindacati senza privilegi”.Ci sono programmi stravolti come quello sullo “Sviluppo economico”, sceso da 92 a 9 pagine, e altri rielaborati da capo a piedi come quello sull’agricoltura. Chi ha scritto il nuovo programma e deciso di sostituirlo a quello votato dagli iscritti? «Probabilmente Di Maio e la sua cerchia ristretta», scrive Capone. «Ma di certo il ruolo di Davide Casaleggio, che materialmente attraverso Rousseau ha cambiato i documenti, mostra come chi si è posto al di sopra di tutti non sia il “garante” della democrazia diretta ma il suo “manipolatore”». Questa manovra, che per il “Foglio” riguarda il principio più sacro (la democrazia diretta) nonché lo strumento più importante (il programma) della vita politica del partito, «svela la grande finzione del M5S e la potenza totalitaria del suo meccanismo». Aggiunge Capone: «La storia è piena di partiti che hanno tradito il programma elettorale, non è la prima volta e non sarà l’ultima. Ma qui si fa un passo ulteriore: il programma viene stravolto in segreto per far credere a militanti ed elettori che è quello che loro hanno sempre voluto e consacrato con il voto. Più che la volontà generale di Rousseau, è un sistema che ricorda la fattoria degli animali di Orwell».Due cattivoni assoluti – la guerra e l’euro – sono letteralmente spariti dalla fiaba “flessibile” dei 5 Stelle: prima delle elezioni funzionavano per ottenere voti, ma ora sono stati “sbianchettati” in funzione governativa. Della serie: perché nulla cambi, delle cose che contano davvero. Nessuno tocchi l’egemonia corrente: a contrastare i bombardamenti Usa, le sanzioni alla Russia e il dominio oligarchico di Bruxelles resta solo Salvini, visto che Di Maio, con l’ovvio placet del padrone Casaleggio, ha sostituito il programma votato dagli iscritti con un altro, assai più morbido e sfuggente sui temi che dovrebbero impegnare il “governo del cambiamento” richiesto da almeno il 55% degli italiani votanti (senza contare il 27% rimasto a casa, forse temendo di assistere esattamente a questo tipo di spettacolo post-elettorale). Il classico imbroglio? Alla faccia del “primo e unico programma politico basato sulla partecipazione e sulla democrazia diretta online grazie al sistema operativo Rousseau”. «La versione del programma elettorale attualmente disponibile sul sito del movimento è completamente diversa da quella che c’era a febbraio», scrive Luciano Capone sul “Foglio”. «Una manipolazione della volontà degli iscritti, una presa in giro degli elettori, una violazione delle regole del partito (democrazia diretta e trasparenza), la negazione della retorica sul cittadino vero “sovrano” e il politico semplice “portavoce”».
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Giannini: farsa anti-Silvio, i 5 Stelle verso l’inciucio col Pd
Lega, 5 Stelle e Fratelli d’Italia. Ce l’avranno il coraggio di presentarsi uniti, nel caso di elezioni anticipate, visto che tra Salvini e Di Maio resta l’ingombro dell’alleato Berlusconi? L’alternativa è la peggiore: un euro-governo targato 5 Stelle, col Pd a fare da garante, di fronte a Bruxelles, per la continuità “eterna” dell’austerity. «Il rispetto del voto democratico è ormai un’utopia, perché siamo maestri nel trasformare i fatti in opinioni», premette Marco Giannini, esperto di economia vicino ai pentastellati fino al momento della loro grottesca “conversione” al super-eurismo in seno al Parlamento Europeo. Altra premessa: secondo le agenzie di stampa, Mattarella assegnerebbe l’incarico solo a figure “fedeli” alla moneta unica e «alle autolesionistiche politiche di bilancio» imposte dall’Ue, «che sono un indirizzo non solo politico-economico ma soprattutto geopolitico». Di fatto: «Indirizzi “europei” contro gli interessi del popolo italiano, come hanno lasciato intendere sia l’ex presidente della Confindustria e della Ibm tedesca Henkel, sia i principali economisti del paese teutonico». Conclude Giannini: «Rimanendo nell’euro, l’austerity è immutabile». E anche se questo «in Italia non è afferrato da tutti (se non da una minoranza qualificata)», c’è però il vero significato nel voto del 4 marzo 2018: «Se c’è una questione su cui l’80% degli italiani ha votato compatto, è quello di una ferma opposizione alle politiche di austerità».Non si sono mai viste pressioni ed urgenze così “infestanti” per sostenere «il neoliberismo finanziario, estremista e globale», che in Italia «è equivalso a recessioni finanziarie e politiche di macelleria sociale». Ebbene: «Sarà un caso, ma subito dopo la prima “udienza” al Colle, Di Maio si è sperticato in elogi e lodi verso la permanenza nell’euro, nell’Ue e nel “Patto Atlantico”», scrive Giannini in una riflessione su “Come Don Chisciotte”. Intanto le settimane passano, e i vincitori delle elezioni «non si sono ancora accordati per cambiare l’Italia», voltando pagina rispetto al rigore che ha disastrato il paese. Prima del voto, continua Giannini, la Lega aveva fatto promettere solennemente al Cavaliere che non avrebbe tradito la coalizione con un nuovo “Nazareno” col Pd, ma a sua volta si era impegnata a non abbandonare Forza Italia per i 5 Stelle. A proposito: «Di Maio lo sa che quando dice “non rifaremo un Nazareno” si riferisce in primis al Pd? Allora perché ha dichiarato che è disponibile ad allearcisi?». Non può non sapere, Di Maio, che Salvini non potrebbe mai abbandonare Berlusconi: «Quindi evidentemente non vuole allearsi con la Lega, bensì col Pd».Resta una sola possibilità, «per trasformare il voto democratico in un fatto». Questa: tornare alle urne con una inedita coalizione. «Se Lega, e 5S (e FdI) davvero vogliono governare insieme – scrive Giannini – devono riportarci al voto presentandosi coalizzati, dando il colpo di grazia a chi ci ha portato nella catastrofe negli ultimi 25 anni». In quel modo si avrebbe «una maggioranza chiara e solida, rispettosa della volontà dei cittadini stufi di alchimie e alleanze post-elettorali diverse dalle coalizioni pre-voto». Alchimie di quel genere, ricorda Gianni, «hanno sempre generato governi catastrofici (Ciampi, Dini, D’Alema, Monti, Letta, Renzi». Non sarà per per timore di questa inedita coalizione che Calenda (Pd) adesso vorrebbe governare coi 5 Stelle addirittura creando una Bicamerale per cambiare legge elettorale? Un cartello con Salvini e Meloni costringerebbe i grillini a uscire allo scoperto: si vedrebbe «se davvero vogliono governare per il paese o se Berlusconi è per loro solo una scusa per finire comodamente all’esecutivo col Pd (e la Bonino)». Per i 5 Stelle, in ogni caso, è finita l’epoca del rifiuto delle alleanze. Parlamentari neo-eletti già “affezionati” alla poltrona? Si può comprendere, ma un governo-salvezza vale ben di più.L’inedita coalizione tra Di Maio, Salvini e Meloni avrebbe anche il merito di saldare il Sud al Nord, mentre un governo 5 Stelle-Lega con l’appoggio esterno di Forza Italia «renderebbe Berlusconi l’ombelico del mondo, in un costante e strumentale malpancismo». Per Giannini, «i cittadini italiani hanno il diritto di comprendere se ciò che passano i partiti e le Tv è reale o virtuale». Ovvero: si lotta per avere al timone una guida patriottica (euroscettica) oppure euro-entusiasta e quindi anti-italiana? «Nel primo caso, al tavolo con Merkel e Macron a decidere qualità e entità della famosa clausola di uscita concordata dall’euro si siederebbe anche l’Italia». Giannini invece ha il fondato sospetto che Forza Italia e 5 Stelle «stiano in realtà collaborando, mediante i ben noti veti incrociati». Obiettivi: non farcela sedere, l’Italia, a quel tavolo, perché «Berlusconi non può inimicarsi i “mercati” che detengono azioni Mediaset, mentre i 5 Stelle non si sa se sono ancora una forza autonoma o se sono diretti da soggetti con sede a Londra (appunto, i “mercati”)». Giannini ricorda che accettammo un rapporto d’ingresso catastrofico nell’euro (990 lire per 1 marco), che resta «il vero motivo delle nostre attuali sofferenze, perché non rispecchiante la nostra economia reale».Non partecipare al nuovo tavolo europeo «sarebbe una ripetizione della storia in farsa, per la felicità dei vari global-entusiasti Napolitano, Mattarella, Merkel, Draghi, Clinton». Nel frattempo, Di Battista si agita a bordo campo definendo “male assoluto” Berlusconi? «Il forte sospetto – scrive Giannini – è che tutto ciò serva a far passare in secondo piano l’austerity come vero dramma per l’Italia e far digerire la prossima alleanza col Pd». E intanto, al grido “bisogna fare in fretta” (tanto caro a Monti, nel 2011) i media cercano di spaventare l’italiano medio, di manipolarlo e di convincerlo che nuove elezioni sarebbero una catastrofe economica. Così provano a «incatenarci altri anni all’ennesimo governo inciucista, venduto come al solito per “responsabile”». Che poi è la vera specialità del Pd, massimo garante italiano – almeno finora – dell’ordoliberismo europeo fondato sull’austerity. Ce l’avranno il coraggio, i 5 Stelle, si saltare l’ostacolo e puntare a premiare l’espressione popolare del 4 marzo, alleandosi con Salvini e Meloni? Viceversa, dimostrerebbero di essere solo la versione 2.0 del Pd, in salsa populista ma con lo stesso traguardo: rassicurare i grandi poteri neoliberisti e privatizzatori che stanno spolpando l’Italia.Lega, 5 Stelle e Fratelli d’Italia. Ce l’avranno il coraggio di presentarsi uniti, nel caso di elezioni anticipate, visto che tra Salvini e Di Maio resta l’ingombro dell’alleato Berlusconi? L’alternativa è la peggiore: un euro-governo targato 5 Stelle, col Pd a fare da garante, di fronte a Bruxelles, per la continuità “eterna” dell’austerity. «Il rispetto del voto democratico è ormai un’utopia, perché siamo maestri nel trasformare i fatti in opinioni», premette Marco Giannini, esperto di economia vicino ai pentastellati fino al momento della loro grottesca “conversione” al super-eurismo in seno al Parlamento Europeo. Altra premessa: secondo le agenzie di stampa, Mattarella assegnerebbe l’incarico solo a figure “fedeli” alla moneta unica e «alle autolesionistiche politiche di bilancio» imposte dall’Ue, «che sono un indirizzo non solo politico-economico ma soprattutto geopolitico». Di fatto: «Indirizzi “europei” contro gli interessi del popolo italiano, come hanno lasciato intendere sia l’ex presidente della Confindustria e della Ibm tedesca Henkel, sia i principali economisti del paese teutonico». Conclude Giannini: «Rimanendo nell’euro, l’austerity è immutabile». E anche se questo «in Italia non è afferrato da tutti (se non da una minoranza qualificata)», c’è però il vero significato nel voto del 4 marzo 2018: «Se c’è una questione su cui l’80% degli italiani ha votato compatto, è quello di una ferma opposizione alle politiche di austerità».
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Reddito di cittadinanza: è il piano (infernale) degli oligarchi
Mark Zuckerberg non ha bisogno di presentazioni: mister Facebook vale 64 miliardi di dollari. Altro paperone-prodigio: il sudafricano Elon Musk, patron di Tesla e Space-X. Cos’hanno in comune, a parte i giacimenti aurei? La fede nel reddito di cittadinanza. La pensano così anche l’americano Richard Branson della Virgin e il canadese Stewart Butterfield, l’inventore della banca-immagini Flickr e di Slack, applicazioni per messaggerie. Uomini d’oro e potenti oligarchi, improvvisamente anche umanitari: si stanno battendo a favore del reddito di base garantito, osserva Chris Hedges, a lungo corrispondente estero del “New York Times”. «Sembra che siano dei progressisti e che esprimano queste loro proposte con parole che parlano di morale, prendendosi cura degli indigenti e dei meno fortunati». Ma dietro questa facciata, scrive Hedges, c’è una cruda consapevolezza: soprattutto la Silicon Valley «vede un mondo – quello che questi oligarchi hanno contribuito a creare – tanto iniquo che i consumatori di domani, che dovranno sopportare la precarietà del lavoro, salari sotto i minimi, l’automazione e la schiavitù di un debito che blocca tutto, non saranno in condizione di spendere abbastanza per comprare i prodotti e i servizi offerti dalle grandi corporations».
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L’onesto criminale Quintino Sella e la legge Fornero dell’800
Quintino Sella è stato uno dei padri della patria, dal lato dell’economia. Il palazzone romano del ministero delle finanze gli è dedicato. E la sua onestà e il suo rigore nei conti pubblici sono celebrati sin dall’Unità d’Italia. Era davvero una persona onestissima, anzi proba. Divenuto ministro delle finanze nei governi italiani fino al 1880, non accettò stipendi e rimborsi, pagava di tasca propria il treno e i servizi necessari alla sua funzione. Per Quintino Sella i costi della politica dovevano essere zero. Naturalmente era aiutato, in questo, dal fatto di essere un ricco componente di una ricca famiglia industriale. Ma ciò non gli toglie merito: nel suo mondo c’erano altri ricchi ben più disinvolti nell’uso dei conti pubblici, a partire dal re Vittorio Emanuele II e dalle sue numerose famiglie. Quintino Sella fu dunque un politico onestissimo, ma anche un ministro criminale. Per pareggiare i conti pubblici egli fu uno dei principali fautori della tassa sul macinato. Un balzello infame inventato dai Borboni e poi subito riutilizzato nell’Italia unita, un prelievo che gravava sul pane, sui cereali, sul cibo dei poveri. Che quando non avevano di che pagarlo dovevano rinunciare a mangiare.Migliaia di persone, soprattutto donne e bambini, si ammalarono e morirono per quella tassa. Intere popolazioni si ribellarono ad essa, e contro di loro ci furono le spietate repressioni del generale Raffaele Cadorna, il braccio armato della tassa sul macinato. Per questo l’onestissimo ministro Sella va considerato socialmente un criminale. Risanò i conti pubblici facendo morire di fame, e di pallottole regie, tanta gente. Alla fine la tassa sul macinato fu abolita da Agostino Depretis, un politico molto meno onesto di Sella, anzi un corrotto e corruttore. In questa storia sta un po’ il peccato originale del nostro paese, dove periodicamente il rigore e l’onestà vengono separati e anzi contrapposti alla questione sociale, con la regressione complessiva di tutta la società. Oggi in Italia i tagli alle pensioni hanno la stessa funzione della tassa sul macinato. Che era comoda e facile da riscuotere perché tutti dovevano mangiare. Oggi il sistema pensionistico pubblico è diventato il bancomat dei governi. All’Inps i soldi si trovano subito, basta un decreto legge e lo Stato ce li ha, pronta cassa.Ora la Ue e il Fmi, che han bisogno di altri soldi per finanziare le loro politiche di austerità, chiedono nuovi tagli alle pensioni; e con il loro caravanserraglio di esperti ammaestrati riprende a spiegarci che la previdenza costa troppo. I dati che usano sono falsi e falsificati. Se dalla spesa per la previdenza togliamo i quasi 50 miliardi di tasse che tutti gli anni i pensionati versano allo Stato, tale spesa scende sotto la media europea. Se togliamo l’assistenza, che dovrebbe essere pagata da tutti e non solo dai lavoratori, il bilancio annuale dell’Inps va in attivo. Un attivo sufficiente a pagare l’abolizione della legge Fornero. Anche perché il pensionato italiano maschio, prima di passare a miglior vita, usufruisce dell’assegno pensionistico per 16 anni, mentre la media europea è di 18. E le donne, che (colpevolmente?) vivono di più, vengono pagate per 21 anni contro i 23 degli altri paesi Ue. Quindi già oggi lo Stato italiano si prende due anni di vita in più dai suoi pensionati. Non sappiamo se all’epoca della tassa sul macinato Quintino Sella e gli altri usassero dati falsi per affermare le proprie ragioni. Forse allora non ce n’era tanto bisogno, visto che solo i ricchi votavano. Ma certo l’argomento di fondo era quello stesso di oggi: o i poveri pagano, o lo Stato salta per aria.Per questo l’abolizione della legge Fornero è la cartina di tornasole della politica italiana. Non è una misura sufficiente a far cambiare le cose, bisogna abolire anche Jobsact e Buonascuola, bisogna ricostruire diritti e stato sociale, bisogna rompere con l’austerità Ue e con il pareggio di bilancio. Non è una misura sufficiente, ma è necessaria per indicare che la politica liberista del rigore contro i poveri non può più essere continuata. Se, sulle pensioni, il Parlamento e le forze vincitrici delle elezioni cederanno al ricatto della Ue e della Troika, avranno già concluso la loro funzione. Poi potranno pure tagliare vitalizi e stipendi dei commessi delle Camere, ma questa non sarà giustizia ma solo una misura di facciata per coprire la continuazione del massacro sociale. La stessa facciata dei monumenti all’onestissimo affamatore di poveri Quintino Sella.(Giorgio Cremaschi, “La legge Fornero è la moderna tassa sul macinato”, da “Micromega” del 27 marzo 2018).Quintino Sella è stato uno dei padri della patria, dal lato dell’economia. Il palazzone romano del ministero delle finanze gli è dedicato. E la sua onestà e il suo rigore nei conti pubblici sono celebrati sin dall’Unità d’Italia. Era davvero una persona onestissima, anzi proba. Divenuto ministro delle finanze nei governi italiani fino al 1880, non accettò stipendi e rimborsi, pagava di tasca propria il treno e i servizi necessari alla sua funzione. Per Quintino Sella i costi della politica dovevano essere zero. Naturalmente era aiutato, in questo, dal fatto di essere un ricco componente di una ricca famiglia industriale. Ma ciò non gli toglie merito: nel suo mondo c’erano altri ricchi ben più disinvolti nell’uso dei conti pubblici, a partire dal re Vittorio Emanuele II e dalle sue numerose famiglie. Quintino Sella fu dunque un politico onestissimo, ma anche un ministro criminale. Per pareggiare i conti pubblici egli fu uno dei principali fautori della tassa sul macinato. Un balzello infame inventato dai Borboni e poi subito riutilizzato nell’Italia unita, un prelievo che gravava sul pane, sui cereali, sul cibo dei poveri. Che quando non avevano di che pagarlo dovevano rinunciare a mangiare.
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Austerity, fine della farsa? Se l’Italia si svegliasse davvero
Matteo Renzi bluffava, quando prometteva nuovi miracoli italiani, ma non è stato cestinato per questo: la sua rottamazione, franatagli addosso col referendum costituzionale, è stata decretata dall’ostilità istintiva nutrita da milioni di elettori. Colpa del suo stile troppo disinvolto, arrogante, spaccone. E colpa, anche, del quasi-plebiscito incassato nel 2014 alle europee, con il 40% dei suffragi al Pd: raramente, in Italia, si perdona il successo. Così, Renzi è riuscito a dissipare un patrimonio elettorale enorme, proprio come fece Berlusconi negli anni ‘90 e poi nel 2001, quando annunciò la sua rivoluzione liberale – mai neppure avviata, in vent’anni. Non a caso, come osserva Aldo Giannuli, Berlusconi e Renzi potrebbero sedere, insieme, nel futuro gruppo parlamentare del Partito della Nazione (sconfitta). Sono entrambi ridotti alla quasi-irrilevanza: il vecchio Silvio anche per ragioni anagrafiche, il giovane Matteo per via della sua ambizione sfrenata e basata sul nulla di un programma neoliberista, tristemente identico a quelli dell’atroce Monti e dell’esile Enrico Letta, il premier detronizzato nel modo più sleale. In altre parole: l’estinzione del Pd non corrisponde affatto a un’occasione perduta, per l’Italia, se non per un aspetto solo virtuale – la perdita di un efficace comunicatore come Renzi, che però ha sempre e solo fatto finta di fare il sindacalista degli italiani di fronte all’Europa.In realtà il programma politico di Renzi – puro neoliberismo globalista, sapientemente truccato da presunta italianità – era la fotocopia dell’agenda Monti, poi distillata nei governi Letta e Gentiloni. Niente di diverso, peraltro, dall’azione degli esecutivi Berlusconi e Prodi: la cosiddetta Seconda Repubblica, anticipata nel ‘91 dal referendum Segni (legge elettorale, maggioritario) era stata lungamente preparata da uomini come Andreatta, Ciampi, Dini, Giuliano Amato e Massimo D’Alema. Un quarto di secolo veramente infelice: nient’altro che un lungo commissariamento dell’Italia, vittima numero uno dell’oligarchia eurocratica che ha appaltato l’Unione Europea all’ordoliberismo teutonico, affamato di tagli al welfare e svalutazione dei salari per poter imporre il suo mercantilismo primitivo e ottocentesco, fondato sull’export. L’Europa di Bruxelles è quella non-comunità di paesi che ha potuto assistere, impassibile, alla crocifissione della Grecia: un supplizio senza anestesia, delle cui vittime – anziani senza pensione, bambini senza medicine – non importa assolutamente nulla né alla Bce né all’Ecofin. Non una lacrima, sul martirio ellenico, da nessuna cancelleria: dettaglio tutt’altro che scontato, che mandanti e killer hanno annotato sul loro diario. Vittoria piena: si uccide un innocente, e nessuno protesta. Luce verde, quindi, per altri analoghi delitti seriali.Riuscirà sempre a farla franca, l’assassino? Senz’altro, almeno fino a quando il poliziotto si chiamerà Renzi, oppure Hollande. Bravi a parole, ma smentiti dai fatti: hanno entrambi sparso il veleno dei loro Jobs Act, su richiesta del criminale a cui fingevano di dare la caccia in nome del riscatto sociale delle rispettive nazioni. Sono stati travolti: l’incolore Hollande liquidato dall’inquietante Macron, uomo Rothscild (in Francia il padrone ha occupato direttamente l’Eliseo, senza più intermediari), mentre Renzi e Berlusconi sono stati “asfaltati” da Di Maio e Salvini, cioè l’ex steward dello stadio San Paolo e l’ex hoolingan leghista, già a capo dei “comunisti padani”. Accorti, abili, flessibili, tempestivi: oggi, Di Maio e Salvini stanno sul pezzo. Sotto l’aspetto tattico sembrano all’altezza della situazione. Dispongono di 17 milioni di voti. Sanno perfettamente che, a eleggerli, è stata un’Italia prostrata dalla crisi, ormai insofferente ai bugiardi, cioè ai professorini del rigore e ai loro politici di complemento, ai partiti-sciagura che hanno eroso il paese per 25 anni, allontanandolo dal vertice europeo e mondiale del benessere. Tenteranno, i nuovi poliziotti, di aprire un’indagine seria sull’accaduto? Oseranno filare a sirene spiegate verso Bruxelles? L’unica certezza è che un muro di rassegnazione sta crollando. Per ora Bruxelles sta a guardare, cercando di capire il da farsi: provare a “comprare” anche questi nuovi politici, o sfrattarli brutalmente (come Berlusconi nel 2011). Sempre che il grande dormiente – il popolo – non si svegli del tutto, dopo il primo segnale del 4 marzo.Matteo Renzi bluffava, quando prometteva nuovi miracoli italiani, ma non è stato cestinato per questo: la sua rottamazione, franatagli addosso col referendum costituzionale, è stata decretata dall’ostilità istintiva nutrita da milioni di elettori. Colpa del suo stile troppo disinvolto, arrogante, spaccone. E colpa, anche, del quasi-plebiscito incassato nel 2014 alle europee, con il 40% dei suffragi al Pd: raramente, in Italia, si perdona il successo. Così, Renzi è riuscito a dissipare un patrimonio elettorale enorme, proprio come fece Berlusconi negli anni ‘90 e poi nel 2001, quando annunciò la sua rivoluzione liberale – mai neppure avviata, in vent’anni. Non a caso, come osserva Aldo Giannuli, Berlusconi e Renzi potrebbero sedere, insieme, nel futuro gruppo parlamentare del Partito della Nazione (sconfitta). Sono entrambi ridotti alla quasi-irrilevanza: il vecchio Silvio anche per ragioni anagrafiche, il giovane Matteo per via della sua ambizione sfrenata e basata sul nulla di un programma neoliberista, tristemente identico a quelli dell’atroce Monti e dell’esile Enrico Letta, il premier detronizzato nel modo più sleale. In altre parole: l’estinzione del Pd non corrisponde affatto a un’occasione perduta, per l’Italia, se non per un aspetto solo virtuale – la perdita di un efficace comunicatore come Renzi, che però ha sempre e solo fatto finta di fare il sindacalista degli italiani di fronte all’Europa.