Archivio del Tag ‘follia’
-
Kiev, la guerra sporca di Obama per fermare la Cina
«Le provocazioni degli Stati Uniti in Ucraina non possono essere comprese se si prescinde dal “Pivot Asiatico”», ovvero il grande piano strategico concepito da Washington «porre sotto controllo la crescita cinese, in modo da renderla compatibile con le ambizioni egemoniche degli Stati Uniti». I “cacciatori di draghi”, sostiene Mike Whitney, sono per una strategia di contenimento, mentre i “panda huggers”, cioè gli occidentali filo-Pechino, vorrebbero un “fidanzamento”. Non si sa chi riuscirà a prevalere, ma è chiaro fin d’ora che «dipenderà in modo pesante dalla forza militare», considerando anche le ostilità in atto nel Mar Cinese Meridionale e nelle isole Senkaku, contese al Giappone. Cos’ha a che fare il controllo della Cina con il polverone alzato in Ucraina? Facile: Washington teme la Russia come formidabile fornitore di energia, lungo l’asse eurasiatico. Ecco perché «ha deciso di utilizzare l’Ucraina come banco di prova per un attacco contro la Russia: una Russia forte ed economicamente integrata con l’Europa è una minaccia per l’egemonia degli Stati Uniti».Washington, scrive Whitney in un post su “Counterpunch” ripreso da “Come Don Chisciotte”, vuole una Russia debole, impossibilitata a sfidare la presenza americana in Asia Centrale, dove gli Usa puntano a controllare le risorse energetiche vitali. «La Russia fornisce attualmente circa il 30% del gas naturale necessario all’Europa Centrale e all’Occidente, il 60% del quale transita attraverso l’Ucraina. Le popolazioni e le imprese europee dipendono dal gas russo per riscaldare le loro case e per fornire energia ai loro macchinari». Il rapporto di scambio tra Ue e Russia? E’ «reciprocamente vantaggioso», perché «rafforza sia il compratore che il venditore», mentre escude gli Usa, che «non guadagnano nulla dal partenariato Ue-Russia, ragione per cui Washington vuole bloccare l’accesso di Mosca ai mercati “critici”: questa forma di sabotaggio commerciale va considerato come un atto di guerra».I rappresentanti delle “Big Oil”, le più grandi multinazionali del settore energetico, conosciute anche come “supermajors”, tempo fa pensavano di poter competere con Mosca attraverso la costruzione di sistemi alternativi, come il Nabucco. «Ma il piano è fallito, e così Washington è passata al piano-B, ovvero al taglio del flusso di gas dalla Russia verso l’Ue». Interponendosi tra i due partner commerciali, continua Whitney, gli Stati Uniti «sperano di poter sovrintendere alla futura distribuzione delle forniture energetiche, e di controllare la crescita economica dei due continenti». Il problema che Obama sta per avere? «Convincere i cittadini dell’Ue che i loro interessi siano stati effettivamente serviti, visto che dovranno pagare il gas, nel 2015, il doppio di quanto hanno fatto nel 2014 – che è quello che succederà se il piano statunitense dovesse riuscire». Per centrare l’obiettivo, gli Stati Uniti «stanno facendo di tutto per attirare Putin in un “confronto”, in modo che i media lo possano trattare alla stregua di un vizioso aggressore che minaccia la sicurezza europea».La demonizzazione di Putin, aggiunge Whitney, fornirà le giustificazioni necessarie per fermare il flusso di gas fra la Russia e l’Ue, indebolendo ulteriormente l’economia russa e dando nuove opportunità alla Nato per impiantare basi operative sul perimetro occidentale della Russia. «Non fa alcuna differenza, per Obama, se le persone saranno strozzate dai prezzi del gas, o se dovranno semplicemente morire congelate dal freddo. Ciò che conta davvero è la politica del “pivot” nei riguardi dei mercati più prosperi e promettenti del prossimo secolo». Ciò che conta, per la Casa Bianca, «è schiacciare Mosca tagliando le sue vendite di gas naturale, erodendo al contempo la sua capacità di difesa ed i suoi interessi». Per cui, «seguire gli incidenti giornalieri in Ucraina come se fossero separati dal quadro generale è semplicemente ridicolo», osserva Whitney. «Fanno tutti parte della stessa folle strategia».Ne parla apertamente uno stratega come Zbigniew Brzezinski, che a “Foreign Affairs” spiega che «l’Eurasia è ora la scacchiera geopolitica decisiva: non si può più adottare una politica per l’Europa ed un’altra per l’Asia», visto che l’obiettivo è «il primato globale dell’America». Per questo, dice Whitney, «la Cia ed il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti hanno attuato il colpo di Stato per rovesciare il presidente ucraino Viktor Yanukovich, per poterlo rimpiazzare con un loro fantoccio», il premier Arseniy Yatsenyuk, che a sua volta ha ordinato due “operazioni antiterrorismo” per «reprimere gli attivisti disarmati dell’Ucraina Orientale che si oppongono alla giunta di Kiev». Obama, inoltre, «ha evitato d’impegnarsi con Putin in un dialogo costruttivo, volto a trovare una soluzione pacifica alla crisi attuale», perché «vuole impegnare il Cremlino in una lunga guerra civile per indebolire la Russia, screditare Putin e spostare l’opinione pubblica dalla parte degli Stati Uniti e della Nato».Putin sa già quello che vuole Obama: la guerra. «Ecco perché il direttore della Cia, John Brennan, è apparso a Kiev il giorno precedente a quello in cui il premier-golpista Yatsenyuk ha ordinato il primo giro di vite sui manifestanti pro-russi nell’est del paese». Ed ecco perché il vicepresidente americano Joe Biden è apparso a Kiev «solo poche ore prima che Yatsenyuk lanciasse il suo secondo giro di vite su quei manifestanti». Alimentare l’incendio: è quello a cui mira Washington, cercando di coinvolgere l’Europa in sempre nuove sanzioni contro Mosca. Dettaglio decisivo: a rimetterci è soprattutto l’Europa. Il peggio, ovviamente, è l’escalation militare. «Sembra che Washington abbia la necessità di attirare le truppe russe in un conflitto», aggiunge Whitney. «Putin ha dichiarato ripetutamente che “risponderà”, se dei russi dovessero essere uccisi in Ucraina. E’ questa la linea rossa da non superare». L’ha ripetuto il ministro degli esteri Sergej Lavrov, solitamente pacato, definendo «criminale» l’attacco di Yatsenyuk ai civili ucraini: «Un attacco ai cittadini russi – avverte Lavrov – sarà considerato come un attacco alla Federazione Russa». Putin finirà nella mischia? Nel caso, è meglio non dimentare la posta in gioco: Mosca, per Obama, è solo l’antipasto. Poi viene Pechino.«Le provocazioni degli Stati Uniti in Ucraina non possono essere comprese se si prescinde dal “Pivot Asiatico”», ovvero il grande piano strategico concepito da Washington «porre sotto controllo la crescita cinese, in modo da renderla compatibile con le ambizioni egemoniche degli Stati Uniti». I “cacciatori di draghi”, sostiene Mike Whitney, sono per una strategia di contenimento, mentre i “panda huggers”, cioè gli occidentali filo-Pechino, vorrebbero un “fidanzamento”. Non si sa chi riuscirà a prevalere, ma è chiaro fin d’ora che «dipenderà in modo pesante dalla forza militare», considerando anche le ostilità in atto nel Mar Cinese Meridionale e nelle isole Senkaku, contese al Giappone. Cos’ha a che fare il controllo della Cina con il polverone alzato in Ucraina? Facile: Washington teme la Russia come formidabile fornitore di energia, lungo l’asse eurasiatico. Ecco perché «ha deciso di utilizzare l’Ucraina come banco di prova per un attacco contro la Russia: una Russia forte ed economicamente integrata con l’Europa è una minaccia per l’egemonia degli Stati Uniti».
-
Licenziamo i cialtroni del gas: solo rinnovabili dal 2030
Attenti ai soliti furbastri dell’energia sporca: saranno i primi ad approfittare della crisi tra Usa e Russia sull’Ucraina, secondo la più classica “Shock Doctrine”, che consiste nel creare un allarme a tavolino per imporre soluzioni d’emergenza che frutteranno miliardi. Lo sostiene Naomi Klein, secondo cui le pressioni americane per sganciare l’Europa dal gas russo sono una autentica follia, addirittura letale per l’ecologia statunitense, il cui territorio verrebbe letteralmente terremotato dal fracking. Ma la vera pazzia è illudersi che il metano sia una sorta di energia pulita, un “ponte” tra le fonti fossili – petrolio e carbone – e le rinnovabili. Unica soluzione veramente strategica e intelligente? Pensare da subito all’adozione di tecnologie di massa per rimpiazzare la vecchia energia, gas compreso, puntando a una produzione “pulita” al 100%, fatta solo di acqua, sole e vento.La crescente isteria anti-russa, scrive la Klein in un intervento sul “Guardian” ripreso da “Come Don Chisciotte”, ha produtto due disegni di legge presentati frettolosamente al Congresso Usa, che propongono l’esportazione di gas naturale liquefatto (Lng), in nome di un aiuto all’Europa per svincolarla dalla dipendenza dai combuatibili fossili di Putin e migliorare la sicurezza nazionale statunitense. Dietro alla manovra, non è difficile individuare la “firma” di colossi come Chevron e Shell, che beneficiano dello “stato d’emergenza” creato con le tensioni con Mosca. «Perché questa strategia funzioni, è importante non cercare mai il pelo nell’uovo. Come il fatto che gran parte del gas non andrà mai in Europa – perché gli accordi dicono che il gas deve essere venduto sul mercato mondiale a qualsiasi paese faccia parte del Wto, l’Organizzazione Mondiale del Commercio. O il fatto che per anni l’industria ha fatto passare il messaggio che l’America debba accettare il rischio che corrono, a causa del fracking idraulico, il territorio, l’acqua e l’aria, pur di aiutare il paese a raggiungere “l’indipendenza energetica”».E adesso, aggiunge la Klein, «all’improvviso e di nascosto, l’obiettivo è stato spostato sulla “sicurezza energetica”», il che significa «vendere sul mercato mondiale il gas “fracked”», creando «una dipendenza energetica all’estero». Ma la cosa più importante, secondo la saggista, è che nessuno dica mai che «la costruzione delle infrastrutture necessarie per esportare il gas su larga scala richiede molti anni». Un singolo terminale Lng «può arrivare a costare sette miliardi di dollari, deve essere alimentato da una fitta rete a incastro di metanodotti e di centrali di compressione, e ha bisogno di una propria centrale elettrica solo per generare l’energia che serve per liquefare il gas attraverso il super-raffreddamento». Nell’attesa che questi progetti industriali tanto complessi entrino in funzione, Germania e Russia potrebbero anche essere diventati amici tra di loro. «Ma poi qualcuno si ricorderà che la crisi in Crimea fu solo una scusa colta al volo dall’industria dei petrolieri per far avverare il loro eterno sogno di esportare il gas, a prescindere dalle conseguenze per la società che provoca il fracking e quello che sarà di un pianeta sempre più cotto».Per Naomi Kleni, quello delle “sette sorelle” è «un vero talento nello sfruttare le crisi», realizzando profitti stellari. «Sappiamo tutti come funziona: in tempi di crisi – vera o artificiosa – le nostre élites riescono sempre a far imporre scelte politiche impopolari che sono dannose per tutti, ma che vengono adottate per motivi di emergenza. Certo che ci sono obiezioni – dagli scienziati del clima che avvertono dell’elevato potere di riscaldamento di metano, o dalle comunità locali che non vogliono che i porti delle loro amate coste diventino zone ad alto rischio – ma chi ha tempo per parlarne? E’ un’emergenza! Bisogna chiamare il 911, subito! Prima approviamo le leggi, al resto penseremo più tardi. Ci sono un sacco di imprese brave in questa strategia, ma nessuna è tanto brava a sfruttare con tanta razionalità i tentennamenti prodotti dalle crisi come l’industria del gas a livello mondiale».Negli ultimi quattro anni, prosegue Naomi Klein, la lobby del gas si è servita della crisi economica in Europa per raccontare a paesi come la Grecia che il modo migliore per uscire dal debito e dalla disperazione è far trapanare le loro coste e i loro bei mari. «E ha usato le stesse argomentazioni per razionalizzare il fracking in tutto il Nord America e nel Regno Unito». Il conflitto in Ucraina? «Viene utilizzato come un ariete per abbattere le forti restrizioni sulle esportazioni di gas naturale e per sostenerle forzando un controverso accordo di libero scambio con l’Europa. E’ proprio un bell’affare: si mettono insieme le economie delle imprese più aperte al libero scambio, quelle più inquinanti e quelle che intrappolano il calore del gas nell’atmosfera. Tutti lavorano per risolvere il problema di una crisi energetica, che in gran parte è tutta un’invenzione».Proprio l’industria del gas naturale, ricorda la Klein, è stata la più abile a sfruttare la crisi del cambiamento climatico stesso. «Non importa che la singolare soluzione trovata dall’industria per la crisi climatica sia una notevole espansione del processo di estrazione con il fracking, che emette enormi quantità di metano destabilizzante per il clima e per la nostra atmosfera». Attenzione: «Il metano è uno dei gas serra più potenti – 34 volte più potente dell’anidride carbonica, secondo le ultime stime del Intergovernmental Panel on Climate Change. E questo per un periodo di 100 anni, quanto è il tempo che impiega il metano a ridurre i suoi effetti nel tempo». Per il biochimico Robert Howarth della Cornell University, uno dei maggiori esperti mondiali sulle emissioni di metano, è molto più importante osservare l’impatto del gas nel raggio dei prossimi 15-20 anni, «periodo nel quale si svilupperà il potenziale di riscaldamento globale del metano», anche 100 volte superiore a quello dell’anidride carbonica. «E’ in questo lasso di tempo che rischiamo noi stessi di sprofondare in un riscaldamento globale molto rapido».Altra regola, sistematicamente violata: mai costruire infrastrutture multimilionarie a meno che non si pensi di usarle per almeno 40 anni. «E invece noi rispondiamo alla crisi del riscaldamento del nostro pianeta con la costruzione di una rete di forni atmosferici ultra-potenti», senza neppure conoscere l’esatto peso dell’impatto sull’ambiente dell’intera filiera del gas: estrazione, trasformazione, distribuzione. «Ma siamo pazzi?». La stessa industria del gas, nel 1981, sostenne che il gas naturale sarebbe stato un “ponte” verso un futuro di energia pulita. «Questo succedeva 33 anni fa. Un lungo ponte. E la costa, dall’altra parte, ancora non si vede». Nel 1988 – l’anno in cui il climatologo James Hansen avvertiva il Congresso, con una testimonianza storica, del problema urgente del riscaldamento globale – la American Gas Association cominciò a pubblicizzare esplicitamente il suo prodotto come una risposta all’“effetto serra”. «Non perse tempo, in altre parole, a vendersi come la soluzione a una crisi globale che aveva contribuito a creare».Ora, però, di fronte al pretesto della crisi ucraina – l’emergenza travestita da soluzione per la “sicurezza energetica” – siamo in molti di più a sapere «dove stanno le vere bugie sulla sicurezza energetica». Secondo ricercatori come Mark Jacobson e il suo team di Stanford, «sappiamo che il mondo può, entro il 2030, alimentarsi completamente con energia rinnovabile». E, grazie agli ultimi rapporti allarmistici dell’Ipcc, il panel scientifico dell’Onu, sappiamo che seguire queste indicazioni adesso è un imperativo esistenziale. «Questa è l’infrastruttura che dobbiamo sbrigarci a costruire, non quei colossali progetti industriali che ci bloccheranno ancora dentro una pericolosa dipendenza dai combustibili fossili per altri decenni». Per la transizione, basteranno petrolio e carbone, senza ricorrere ai metodi di estrazione ultra-inquinanti come le sabbie bituminose e il fracking. In vent’anni, dice Jacobson, usando solo il petrolio e l’attuale gas convenzionale, potremmo arrivare ad alimentare il mondo con «nuove infrastrutture interamente pulite e rinnovabili: infrastrutture eoliche, idriche e solari». Più che a emanciparsi dal gas russo, conclude Naomi Klein, l’Europa dovrebbe pensare soprattutto alla riconversione ecologica dell’energia, completamente autoprodotta, lasciando perdere le pericolose offerte americane.Attenti ai soliti furbastri dell’energia sporca: saranno i primi ad approfittare della crisi tra Usa e Russia sull’Ucraina, secondo la più classica “Shock Doctrine”, che consiste nel creare un allarme a tavolino per imporre soluzioni d’emergenza che frutteranno miliardi. Lo sostiene Naomi Klein, secondo cui le pressioni americane per sganciare l’Europa dal gas russo sono una autentica follia, addirittura letale per l’ecologia statunitense, il cui territorio verrebbe letteralmente terremotato dal fracking. Ma la vera pazzia è illudersi che il metano sia una sorta di energia pulita, un “ponte” tra le fonti fossili – petrolio e carbone – e le rinnovabili. Unica soluzione veramente strategica e intelligente? Pensare da subito all’adozione di tecnologie di massa per rimpiazzare la vecchia energia, gas compreso, puntando a una produzione “pulita” al 100%, fatta solo di acqua, sole e vento.
-
Terza Guerra Mondiale: ci stanno abituando all’idea
Barack Obama e gli strateghi alla Dottor Stranamore: il genio profetico del film di Stanley Kubrick, che negli anni ‘60 «ha rappresentato con precisione la follia e i pericoli della guerra fredda» mettendo in scena «personaggi basati su persone reali e maniaci veri», oggi illumina la drammatica attualità mondiale, con gli Usa che minacciano le frontiere russe tradendo la solenne promessa fatta nel 1990 a Gorbaciov – la Nato non avanzerà di un pollice verso est – e si preparano ad assediare la Cina. In un arco che si estende dall’Australia al Giappone, Pechino dovrà affrontare i missili e bombardieri nucleari Usa. Una base navale strategica è in costruzione sull’isola coreana di Jeju a meno di 400 chilometri dalla metropoli cinese di Shanghai, il cuore industriale dell’unico paese il cui potere economico sta per superare quello degli Stati Uniti. Il “Pivot” di Obama, sostiene John Pilger, è stato progettato per minare l’influenza della Cina nella regione: «È come se fosse cominciata un’altra guerra mondiale, ma con altri mezzi».L’obiettivo dell’ultima missione asiatica di Obama, scrive Pilger in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, è quello di convincere i suoi “alleati” nella regione, principalmente il Giappone, a riarmarsi e a prepararsi per una eventuale possibilità di guerra con la Cina. «Entro il 2020, quasi i due terzi di tutte le forze navali statunitensi in tutto il mondo saranno trasferite nella zona Asia-Pacifico. Dopo la seconda guerra mondiale, questa è la più grande concentrazione militare in quella vasta regione». Non è una fantasia da Stranamore: il segretario alla difesa di Obama, Charles “Chuck” Hagel, è stato a Pechino per consegnare un avvertimento minaccioso: la Cina, come la Russia, potrebbero trovarsi isolate e in pericolo di guerra se non si piegheranno alle richieste degli Stati Uniti. Hagel paragona l’annessione russa della Crimea con la ben più complessa disputa territoriale che ha in atto la Cina con il Giappone sulle isolette disabitate nel Mar Cinese Orientale, da tempo contese.La situazione è sempre più pericolosa, avverte Pilger, considerata la capacità di menzogna della Casa Bianca e dei media mainstream: se negli anni ‘60 finsero di sopravvalutare la potenza missilistica dell’Urss per creare il “terrore rosso”, oggi lo stesso scenario si ripete nei confronti di Russia e Cina. E’ un copione, quello della “false flag”, che è stato adottato in modo sistematico negli ultimi 13 anni: il ruolo-fantasma di Bin Laden nell’11 Settembre, le inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam, le stragi di Gheddafi e quelle di Assad. Lo scorso febbraio, continua Pilger, gli Usa hanno messo a punto uno dei loro favolosi “colpi per procura” contro il governo dell’Ucraina, regolarmente eletto. «Le truppe d’assalto, però, stavolta erano fasciste. Per la prima volta dal 1945 un partito nazista, apertamente antisemita, ha preso il controllo delle aree-chiave del potere statale in una capitale europea. E non c’è stato un solo leader dell’Europa occidentale che abbia condannato questa rinascita del fascismo sui confini della Russia».Morirono trenta milioni di russi, ricorda Pilger, quando i nazisti di Hitler invasero il loro paese, appoggiati dall’esercito collaborazionuista ucraino, l’Upa, che si rese responsabile di tanti massacri di ebrei e polacchi. L’Upa era il braccio armato che ispira oggi il partito Svoboda, insediato al potere a Kiev dai miliziani addestrati dalla Nato. «Dal putsch di Washington a Kiev – e la risposta inevitabile di Mosca nella Crimea russa, per proteggere la sua Flotta del Mar Nero – la provocazione e l’isolamento della Russia hanno sostituito nelle notizie la “minaccia russa” del 1964. Un piano d’azione per l’adesione alla Nato, «orchestrato direttamente dalla stanza della guerra di Stranamore», è il regalo americano «alla nuova dittatura in Ucraina». Un “Attacco a Tridente” porterà le truppe Usa sul confine russo dell’Ucraina e una “Brezza di Mare” metterà navi da guerra americane in vista dei porti russi. «Allo stesso tempo, i giochi di guerra della Nato in tutta l’Europa orientale serviranno a intimidire la Russia: non è difficile immaginare quale sarebbe stata la reazione se questa follia fosse avvenuta a ruoli invertiti». Ed è solo l’inizio. La minaccia si sta già estendendo alla Cina. La miccia è pronta: le isolette contese dal Giappone.Barack Obama e gli strateghi alla Dottor Stranamore: il genio profetico del film di Stanley Kubrick, che negli anni ‘60 «ha rappresentato con precisione la follia e i pericoli della guerra fredda» mettendo in scena «personaggi basati su persone reali e maniaci veri», oggi illumina la drammatica attualità mondiale, con gli Usa che minacciano le frontiere russe tradendo la solenne promessa fatta nel 1990 a Gorbaciov – la Nato non avanzerà di un pollice verso est – e si preparano ad assediare la Cina. In un arco che si estende dall’Australia al Giappone, Pechino dovrà affrontare i missili e bombardieri nucleari Usa. Una base navale strategica è in costruzione sull’isola coreana di Jeju a meno di 400 chilometri dalla metropoli cinese di Shanghai, il cuore industriale dell’unico paese il cui potere economico sta per superare quello degli Stati Uniti. Il “Pivot” di Obama, sostiene John Pilger, è stato progettato per minare l’influenza della Cina nella regione: «È come se fosse cominciata un’altra guerra mondiale, ma con altri mezzi».
-
Augè: noi, l’umanità, contro l’utopia nera dell’oligarchia
Gli ideologi neoliberisti come Francis Fukuyama ci avevano annunciato la “fine della storia”, cioè la grande narrazione in base alla quale avremmo conquistato una “democrazia universale” fondata sul libero mercato? Tutto sbagliato, come s’è visto. Sotto i nostri occhi, sostiene il filosofo Marc Augé, c’è «l’utopia nera dell’oligarchia planetaria»: nel mondo delle reti globalizzate, la competenza scientifica e il potere economico e politico si concentrano in poche mani. Non una democrazia diffusa su tutta la Terra, bensì «un’oligarchia planetaria dominata da tutti coloro che sono in qualche modo collegati alla sfera del potere politico, scientifico ed economico, mantenuto e riprodotto dalla massa degli utilizzatori passivi quali sono i consumatori costretti al dovere di consumare, ma anche dalla massa sconfinata di tutti gli esclusi dal sapere e dai consumi». Altro che “fine della storia” concepita come accordo unanime sulla forma definitiva di governo degli uomini. Uscite di sicurezza? Una, l’utopia: rimettere la conoscenza al centro della nostra vita, declassando il culto della produttività.Voler scindere economia e educazione, scrive Augè in una riflessione su “La Stampa” ripresa da “Micromega”, ha significato il fallimento di entrambi i campi. «Dissociarli significa infatti cedere alla grande tentazione postmoderna: rifiutare di porsi la questione delle finalità». Oggi, sotto i morsi della grande crisi, la priorità viene sempre data agli obiettivi a breve termine: aiuti d’emergenza, piani sociali, formazione professionale. Ma, intanto, viene elusa la questione centrale: «In vista di cosa si lavora o si studia?». Il nostro fine ultimo, la nostra umanità profonda. «È considerata una sorta di lusso, un sogno da intellettuali idealisti a beneficio di altri sognatori», da dimenticare in fretta per ripiegare prontamente sugli obiettivi a breve termine. «Come in altri ambiti, il problema dei fini ultimi è abbandonato alle divagazioni talvolta letali dei fanatici e dei folli». Ma le conseguenze sono catastrofiche: non siamo più sicuri di sapere perché facciamo quello che facciamo, in una sorta di pericolosa alienazione sempre più funestata dal peggiorare delle condizioni socio-economiche.«Nel momento in cui si invocano requisiti di redditività per giustificare i ridimensionamenti che provocano un calo del potere d’acquisto, a sua volta causa del rallentamento della crescita (è uno dei circoli viziosi del capitalismo nella sua fase attuale), le politiche educative sono sempre meno orientate all’acquisizione del sapere in sé e per sé», scrive Augè. Risultato: a cominciare da quelli “economicamente svantaggiati”, i bambini hanno una possibilità alquanto scarsa se non nulla di accedere a determinati tipi di insegnamento. Così, il sistema educativo tende a riprodurre le disuguaglianze sociali. E persino l’apertura delle università a tutti «è ufficialmente considerata come un mutamento della loro vocazione: le si invita a rispondere anzitutto ai bisogni del mercato del lavoro». Forse, continua Augè, un giorno ci ricorderemo che «non v’è altra finalità per gli uomini sulla Terra se non l’imparare a conoscersi e a conoscere l’universo che li circonda», un compito “infinito” che definisce l’umanità: «La conoscenza è l’unico modo di conciliare le tre dimensioni dell’uomo: individuale, culturale e generica».Se decidessimo di sacrificare tutto all’istruzione, alla ricerca e alla scienza, «facendo investimenti massicci e senza precedenti, nel settore dell’insegnamento a ogni livello», secondo Augè avremmo «più occupazione e maggior prosperità», perché l’ideale della conoscenza «non ha bisogno di disuguaglianze sociali o economiche ma, all’opposto, tali disuguaglianze sono fattori di stagnazione, sono ostacoli, una notevole dispersione di energia, un attentato al potenziale intellettuale dell’umanità». È certo, invece, che lasciare aumentare lo scarto tra i più istruiti e i non istruiti significa «aggravare irrimediabilmente l’impoverimento della stragrande maggioranza». Idea utopica? Per contro, quelle che guidano le politiche reali sono «follie», nutrite di «settarismo e ignoranza». Sicché, «obbligandoci a porre nuovamente la questione dei fini», proprio l’utopia «può aiutarci a definire un programma». In fondo, continua Augè, «quali individui mortali, siamo tutti condannati all’utopia. In vista di cosa viviamo? Malgrado la forma interrogativa, questa domanda è l’unica risposta – risposta critica, risposta di crisi – che si possa dare a coloro che pretendono di gestire la nostra vita quotidiana e al contempo di incaricarsi del nostro avvenire».È probabile che la crisi del mondo globalizzato «firmi l’atto di morte dell’ultimo “grande racconto”», per citare l’espressione di Jean-François Lyotard. Era il racconto liberale di Fukuyama: la felicità universale garantita da democrazia rappresentativa e libero mercato. Come sappiamo, la storia ha ripreso a correre – ma purtroppo in direzione opposta: siamo in balia di una élite nient’affatto democratica, anzi dispotica e oligarchica. Capace di infliggere infinite sofferenze all’umanità: diventa abissale il divario tra ricchi e poveri, pure «in un universo socio-economico in espansione», crescita che peraltro contrasta «con le dimensioni limitate del pianeta: ecco cosa la crisi ci ha manifestamente rivelato o confermato». A forza di «cullarci nell’illusione di un eterno presente», finiremo per scoprire di colpo che «i problemi attuali non erano che le premesse di uno sconvolgimento più radicale». Stiamo già vivendo «un ridimensionamento, al quale il nostro sguardo non si è ancora abituato e di cui la crisi è una delle conseguenze». Non possiamo sapere se a vincere sarà «l’utopia nera dell’oligarchia» o l’umanità, magari grazie «a un capovolgimento storico imprevisto, a qualche importante scoperta scientifica». Ma intanto già conosciamo l’utopia di domani: sarà la Terra, «il pianeta in quanto tale».Gli ideologi neoliberisti come Francis Fukuyama ci avevano annunciato la “fine della storia”, cioè la grande narrazione in base alla quale avremmo conquistato una “democrazia universale” fondata sul libero mercato? Tutto sbagliato, come s’è visto. Sotto i nostri occhi, sostiene il filosofo Marc Augé, c’è «l’utopia nera dell’oligarchia planetaria»: nel mondo delle reti globalizzate, la competenza scientifica e il potere economico e politico si concentrano in poche mani. Non una democrazia diffusa su tutta la Terra, bensì «un’oligarchia planetaria dominata da tutti coloro che sono in qualche modo collegati alla sfera del potere politico, scientifico ed economico, mantenuto e riprodotto dalla massa degli utilizzatori passivi quali sono i consumatori costretti al dovere di consumare, ma anche dalla massa sconfinata di tutti gli esclusi dal sapere e dai consumi». Altro che “fine della storia” concepita come accordo unanime sulla forma definitiva di governo degli uomini. Uscite di sicurezza? Una, l’utopia: rimettere la conoscenza al centro della nostra vita, declassando il culto della produttività.
-
Col Dottor Stranamore, l’austerity estesa fino al Don
Se la Germania impone anche all’Ucraina la super-austerità della Troika, la guerra con la Russia sarebbe alle porte: il malessere sociale infatti farebbe letteralmente esplodere le regioni russofone dell’est, come quella di Donetsk, le più avanzate e industrializzate, popolate da milioni di russi. Lo afferma l’economista Joseph Halevi, allarmato per le dichiarazioni di un super-falco come il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble, secondo cui il programma di rigore che ha ucciso la Grecia dev’essere esteso all’Ucraina. Una pazzia da Dottor Stranamore, dice Halevi: la politica di Schäuble, che vuole «estendere l’austerità fino al Don», di fatto «implica una guerra con la Russia», perché «l’ultra-catastrofe economica» provocherebbe sofferenze che «verrebbero imputate a Mosca, con estrema virulenza, dal governo di Kiev appoggiato da Usa, Nato e Ue». Tutto questo, mentre la Bank of England ha appena demolito la teoria del rigore, “ammettendo” che le banche creano moneta dal nulla, «cioè non la scavano da qualche miniera, né la pompano da qualche giacimento».Non esistono dunque vincoli monetari, sottolinea Halevi: «Scuole, ospedali, ferrovie, pensioni, università e ricerca possono essere finanziate senza vincoli di bilancio». La banca centrale può sempre convalidare qualsiasi richiesta da parte del Tesoro, emettendo moneta per sostenere debito e deficit pubblici. Gli unici vincoli? Quelli reali, che dipendono dalle capacità produttive esistenti e utilizzabili. Ma senza più totem come quello del 3%. E’ ovvio, continua Halevi, che se alla banca centrale – in questo caso la Bce – viene impedito di alimentare i necessari flussi monetari, il circuito economico va in crisi. Verità notissime e persino banali, eppure fino a ieri taciute, un po’ come accadeva «durante l’età di Galileo Galilei, quando per la navigazione oceanica verso le Americhe la Chiesa permetteva l’uso da parte della Spagna della concezione copernicana della Terra, mentre in Europa, in Italia in particolare, imponeva la visione tolemaica, bruciando chi la confutava pubblicamente». Le ammissioni ufficiali della Banca d’Inghilterra sono dunque «un’ulteriore ragione per non dare alcun credito all’Ue», quando impone di tagliare la spesa perché “non ci sono soldi”.Il dramma, osserva Halevi, è che l’Unione Europea è una struttura burocratica non responsabile, non elettiva, non democratica. Bisognerebbe «cambiarne le fondamenta», il che implicherebbe «demolire e rifare la costruzione che su queste poggia». Peccato si vada nella direzione opposta: già prima di Mitterrand, sostiene Halevi, la Francia «ha preceduto Bruxelles di parecchi anni», con un turbo-presidenzialismo che ora, con Hollande, ha sottratto all’Assemblea Nazionale il controllo parlamentare della finanza pubblica, demandato all’Alta Autorità sulla spesa pubblica e il debito, creata dall’Eliseo. Elezioni sempre più inutili anche in Italia, dove «la dimensione extra-parlamentare del sistema di governo cresce a vista d’occhio». Il paese europeo che meglio riesce a difendere il suo ordinamento democratico è proprio la Germania: la sua politica potrà non piacere, ma certo rispetta – al contrario dell’Ue – la volontà popolare.Il guaio è che a Berlino oggi siedono ministri come Schäuble, sostenuti da ultra-conservatori che sognano una “moneta fissa” (ancora più rigida dell’oro) e influenti economisti come Werner Sinn, secondo cui l’export tedesco è «un sacrificio», anziché una fonte colossale di profitto per il grande capitale tedesco. Il conservatorismo economico, conclude Halevi, produce un pericoloso cortocircuito – sia il rigore che Schäuble impone all’Europa attraverso la Troika, sia la concezione del surplus di Sinn. «Ne consegue – scrive Halevi – che è estremamente importante assorbire ciò che hanno scritto gli economisti della Bank of England», i quali «non partono da una visione normativa, bensì analizzano come effettivamente funzionano la moneta e il sistema bancario, arrivando ad affermare cose che in Italia si trovavano già in Augusto Graziani», il grande economista napoletano, maestro di Emiliano Brancaccio. Se non altro, ora «la verità è venuta a galla», come ha affermato il “Guardian”: «A galla per il pubblico», certo, «ed è ciò che conta». Il testo della Banca d’Inghilterra «costituisce un’importante base di partenza per pensare se e – eventualmente – come rifare le fondamenta» dell’Unione Europea. Prima che i “Dottor Stranamore” – di Berlino e della Nato – arrivino davvero sulle rive del Don.Se la Germania impone anche all’Ucraina la super-austerità della Troika, la guerra con la Russia sarebbe alle porte: il malessere sociale infatti farebbe letteralmente esplodere le regioni russofone dell’est, come quella di Donetsk, le più avanzate e industrializzate, popolate da milioni di russi. Lo afferma l’economista Joseph Halevi, allarmato per le dichiarazioni di un super-falco come il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble, secondo cui il programma di rigore che ha ucciso la Grecia dev’essere esteso all’Ucraina. Una pazzia da Dottor Stranamore, dice Halevi: la politica di Schäuble, che vuole «estendere l’austerità fino al Don», di fatto «implica una guerra con la Russia», perché «l’ultra-catastrofe economica» provocherebbe sofferenze che «verrebbero imputate a Mosca, con estrema virulenza, dal governo di Kiev appoggiato da Usa, Nato e Ue». Tutto questo, mentre la Bank of England ha appena demolito la teoria del rigore, “ammettendo” che le banche creano moneta dal nulla, «cioè non la scavano da qualche miniera, né la pompano da qualche giacimento».
-
Della Luna: indipendentisti veneti e violenza di Stato
Pericolo indipendista? Non scherziamo, dice l’avvocato Marco Della Luna: «In Italia, le uniche organizzazioni capaci di condurre una vasta e metodica azione militare sono le mafie». Gli indipendentisti irlandesi che conquistarono la libertà nel 1922 dopo otto secoli di occupazione britannica «lo fecero con metodi che i veneti e i padani non sono assolutamente in grado di replicare né di digerire moralmente». Della Luna, sul suo blog, ricorda di aver personalmente conosciuto alcuni degli attivisti veneti ora arrestati con l’accusa di aver commesso reati eversivi: «Erano persone del tutto incapaci di violenza organizzata e metodica. Spirito marziale zero. Dissi loro che non è pensabile conquistare l’indipendenza con la forza, mancando la mentalità, il temperamento, la volontà di combattere realmente, indispensabili per l’auto-liberazione sul modello irlandese». Riformare lo Stato in senso democratico per vie legali? «E’ pure impossibile, perché il potere costituito non molla la gallina dalle uova d’oro. E aspettare poi che siano gli stranieri a liberarci, è semplicemente assurdo».Secondo Della Luna, ogni unione tra aree geografiche con diversi livelli di produttività «funziona male e tende a degenerare», perché «esclusi gli Usa, che scaricano i costi sul resto del mondo attraverso il dollaro», per tenere insieme le parti tendenzialmente divergenti lo Stato «deve trasferire reddito dalle aree più produttive a quelle meno produttive, col risultato di super-tassare le prime». Si finisce per tagliare fondi per l’investimento e l’innovazione e si provica una fuga di capitali, imprese e cervelli. Sicché, sempre secondo Della Luna, col tempo le aree “forti” si impoveriscono, e così non riescono neppure più a «sussidiare le aree meno produttive». In questo modo, anziché correggere il sistema, si incentivano e si stabilizzano «le caratteristiche disfunzionali delle aree meno produttive», cioè «sprechi, mafie, corruzione, parassitismo», favorendone la propagazione verso le aree “forti” attraverso l’emigrazione interna, «in Italia soprattutto attraverso il pubblico impiego».Per Della Luna, si genera «un livellamento al basso, un degrado civile, un impoverimento globale» che destabilizza il sistema-paese «quando lo Stato centrale non è più in grado di “comprare” il consenso o perlomeno la quiete mediante l’assistenzialismo», e dunque «si mette a consumare con le tasse e con le privatizzazioni il risparmio e le risorse». Si raschia il fondo del barile, esaurendo le riserve. «Aree di diversa produttività (e mentalità) abbisognano di bilanci, monete e politiche economiche separate», insiste Della Luna. «Questa è la ragione oggettiva per la quale, insieme all’Eurozona, anche l’Italia – come assemblato di aree eterogenee – funziona male». Problemi a cascata: «Funzionando male», gli aggregati disomogenei «per sopravvivere arrivano alla violenza», che nel caso dell’Eurozona è «la violenza distruttiva di regole finanziarie economicamente assurde e controproducenti, con la quali la Germania si difende dal pericolo della solidarietà coi paesi mediterranei», a cui nel nostro caso si aggiunge «la violenza famelica, cieca e distruttiva della casta italiana».Una casta che, «per procurarsi i soldi necessari a mantenere i suoi redditi e privilegi», ben sapendo di essere «in un paese che affonda», da un lato «si asservisce agli interessi tedeschi», e dall’altro lato «spreme ciecamente il Nord e soprattutto il Veneto (40 miliardi l’anno) mentre chiude uno o due occhi sugli sprechi e sull’evasione fiscale e contributiva delle regioni più sussidiate, incurante delle imprese che muoiono, degli imprenditori che si suicidano, dei flussi migratori di aziende, imprese e lavoratori». Questa, aggiunge Della Luna, «è violenza reale di ogni giorno, che distrugge e uccide, che annienta il futuro». Violenza «perpetrata attraverso il fisco e il braccio armato dello Stato contro i lavoratori e interi popoli produttivi da parte di gente spinta da una bramosia di denaro simile a quella degli eroinomani disposti ad ammazzare i genitori per trovare i soldi della dose quotidiana». L’avvocato la definisce «violenza organizzata, armata, legale, ingiusta. Violenza al potere. Violenza che col Parlamento si fa le leggi per blindarsi e assolversi. Ad oltranza».L’Italia, sostiene Della Luna, è «preda di 10 milioni di voti, mafiosi o clientelar-parassitari». Con questa base di partenza «non si potrà mai cambiare veramente». Le mafie, tra l’altro, «si rinforzano con l’immigrazione incontrollata», che «provoca una concorrenza sleale tra lavoratori nostrani e no: chi non lavora cerca assistenzialismo». Così, «il cancro aumenta vertiginosamente le sue metastasi: poi il malato (Italia) muore generando un mostro incontrollabile che si dirigerà spavaldamente verso una più evidente forma di tirannia».Della Luna è pessimista: per lui, l’unica via d’uscita da questo sistema oppressivo e concertato con le potenze economiche estere è la «secessione pacifica». Ovvero: «Andarsene, trasferirsi con beni e risparmi in qualche paese migliore, lasciando gli italiani ad arrangiarsi. Trasferirsi in gruppo, in modo organizzato, dopo aver concordato con le autorità dei paesi di destinazione condizioni favorevoli per una nuova vita».Pericolo indipendentista? Non scherziamo, dice l’avvocato Marco Della Luna: «In Italia, le uniche organizzazioni capaci di condurre una vasta e metodica azione militare sono le mafie». Gli indipendentisti irlandesi che conquistarono la libertà nel 1922 dopo otto secoli di occupazione britannica «lo fecero con metodi che i veneti e i padani non sono assolutamente in grado di replicare né di digerire moralmente». Della Luna, sul suo blog, ricorda di aver personalmente conosciuto alcuni degli attivisti veneti ora arrestati con l’accusa di aver commesso reati eversivi: «Erano persone del tutto incapaci di violenza organizzata e metodica. Spirito marziale zero. Dissi loro che non è pensabile conquistare l’indipendenza con la forza, mancando la mentalità, il temperamento, la volontà di combattere realmente, indispensabili per l’auto-liberazione sul modello irlandese». Riformare lo Stato in senso democratico per vie legali? «E’ pure impossibile, perché il potere costituito non molla la gallina dalle uova d’oro. E aspettare poi che siano gli stranieri a liberarci, è semplicemente assurdo».
-
Sveglia, sinistra: i nemici dell’Europa sono l’euro e l’Ue
La sinistra vorrebbe “un’altra Europa”, completamente rifondata? Errore: prima bisogna radere al suolo «l’attuale architettura dell’Unione Europea» e, letteralmente, «demolire i presupposti alla base dell’unione monetaria». Riformare i trattati vigenti? Missione impossibile, spiega Enrico Grazzini: per modificare il Trattato di Maastricht e lo statuto della Bce occorre l’unanimità del voto di tutti i 28 paesi Ue. A bloccare tutto basterebbe l’opposizione di un solo Stato, di un solo governo. «E’ più facile ripudiare o abolire i trattati che modificarli». L’Unione Europea, semplicemente, non è riformabile. E’ un non-Stato, un mostro giuridico che «opprime i popoli». Nient’altro che «una istituzione intergovernativa diretta dalla finanza e guidata da una sola nazione, la Germania», nonché «debolmente legittimata da un Parlamento senza potere», peraltro «eletto nel 2009 solo dal 43% dei cittadini europei». Ergo: impossibile fondare “l’Europa dei popoli” partendo da questa Unione Europea.«Oggi – scrive Grazzini su “Micromega” – bisogna avere il coraggio di affrontare dei punti di frattura con il governo di questa Ue che nessun cittadino europeo ha eletto, che toglie sovranità alle nazioni e schiaccia i popoli in difficoltà». I promotori della “Lista Tsipras” hanno scelto di non fidarsi più della socialdemocrazia europea, e in Italia del Pd, «che sono tra i promotori e complici di obbrobri ultraliberisti come il Fiscal Compact – cioè il taglio selvaggio della spesa pubblica in tempi di crisi – e il pareggio in bilancio in Costituzione». Anche il governo Renzi, dopo quelli di Letta e di Monti, «si fa garante del rispetto dei crescenti vincoli europei». Grazzini non ha dubbi: «Siamo già allo stremo, ma se seguiremo la politica della Ue e di Renzi faremo la fine della Grecia». E dal centrosinistra, solo e sempre propaganda: a parole, Martin Schulz è contro la disastrosa politica europea di intransigenza liberista, ma la Spd «ha finora promosso la deregolamentazione finanziaria e la famigerata politica autoritaria europea di disoccupazione e di immiserimento della Ue».La cieca politica di austerità dettata dalla Ue e dalla Troika (Bce, Fmi, Ue) sarà sempre più intrusiva, rigida e antisociale, continua Grazzini. «La Ue impone ai governi di tagliare il costo del lavoro e il welfare in nome della competitività. La sua politica è destinata a provocare crisi economiche e democratiche dei paesi sottoposti ai suoi diktat, o anche a provocare il crollo dell’euro (e quindi della Ue stessa)». Romano Prodi, già presidente della Commissione Europea e protagonista dello sciagurato ingresso dell’Italia nell’Eurozona, oggi ha preso atto della politica egemonica tedesca e propone di costruire un’alleanza alternativa tra Italia, Francia e Spagna e gli altri paesi del Sud Europa per contrastare «la folle (ma lucida) politica della Merkel». Soluzione impraticabile, avverte l’ex ministro dell’economia Fabrizio Saccomanni, intervistato dal “Corriere della Sera”: la Francia del socialista Hollande non accetterà mai di allearsi con noi, perché ha fatto della partnership con la Germania sull’euro il suo scudo (di latta) di fronte alla speculazione internazionale.Nulla all’orizzonte che preluda a qualcosa di diverso dal disastro nel quale stiamo sprofondando: «Ormai i bilanci dei paesi Ue vengono decisi non dai parlamenti e dai governi nazionali ma in maniera preventiva a Bruxelles, Francoforte e Berlino. E chi sgarra avrà delle sanzioni e poi verrà commissariato dalla Troika». Il disinvolto Renzi? «Magari otterrà qualche contentino da Bruxelles, ma il suo governo probabilmente cadrà proprio perché sarà costretto a trasmettere le politiche impopolari dettate dalla Ue», fatte di «lavoro sempre più precario, chiusura di aziende, disoccupazione dilagante ed eliminazione dei servizi sociali». Risultato: «Così dalla crisi non usciremo mai. E la crisi, soprattutto in Italia, potrebbe diventare irreversibile. La Grecia è vicina».Per rifondare l’Europa, dice Grazzini, occorre essere euroscettici. La sinistra respinge l’euroscetticismo come marchio infamante, denunciando le destre nazionaliste, xenofoba e neofasciste, il populismo nazionalista anti-europeo, senza vedere il vero pericolo, cioè l’autoritarismo dell’Ue e che fa a pezzi la nostra libertà, la nostra democrazia. «L’euroscetticismo ci riporta alla realtà», avverte Grazzini, citando uno dei maggiori storici marxisti, Eric Hobsbawn, fa poco scomparso, pessimista sul futuro europeo: «Penso che bisognerà abbandonare la speranza di trasformare l’Unione Europea in qualcosa di più di una semplice alleanza di Stati e di una zona di libero scambio». Troppo diversi gli interessi delle diverse aree, troppo liberista l’ideologia della Ue e troppo forte l’egemonia della Germania, ciecamente convinta «dell’austerità forzata e di questa architettura deflazionista e repressiva dell’euro perché sia possibile invertire facilmente la direzione di marcia».L’Europa unita, continua Grazzini, è importante se offre cooperazione, pace, democrazia e benessere dei popoli, non se genera povertà, disoccupazione, divisione e democrazie autoritarie e magari conflitti sanguinosi. «L’unione europea va, se possibile, salvaguardata nelle sue parti migliori, ma non adorata». Sicché, «occorre lottare per democratizzare la Ue e per dare al Parlamento Europeo il potere di fare proposte di legge», potere oggi affidato alla sola Commissione. La parola chiave, per uscire dal tunnel, si chiama sovranità. «E’ indispensabile rivalutare la sovranità nazionale, e quindi anche la sovranità monetaria», perché «solo recuperando la sovranità nazionale è possibile che i popoli possano difendersi dalle rigide politiche liberiste e neocoloniali della Ue e della Germania, e sperimentare nuovi modelli di sviluppo sostenibile. Solo così i governi europei potranno trovare delle forme efficaci di cooperazione per resistere alla speculazione finanziaria internazionale».Grazzini propone apertamente un’uscita concordata dall’euro, non-moneta palesemente insostenibile. «Bisognerebbe abolire il Trattato di Maastricht e concordare politicamente il ritorno alla sovranità monetaria degli Stati». Per prevenire la speculazione internazionale, la Ue e la Bce dovrebbero però anche creare e gestire, sulle orme di quanto proponeva Keynes a Bretton Woods, una moneta comune europea, l’Euro-Bancor, di fronte al dollaro e allo yen. «Purtroppo però gran parte (ma non tutta) della sinistra radicale ritiene che la questione della sovranità nazionale sia da demonizzare perché di destra. Eppure senza sovranità nazionale non ci può essere neppure un’ombra di democrazia».Senza moneta sovrana, resta solo questa Europa di oggi, «che schiaccia le nazioni» e le lascia in balia dello strapotere speculativo della finanza. «La sinistra – in particolare quella che si richiama al marxismo – dovrebbe ricordare le nozioni di imperialismo e di dominazione straniera, e dovrebbe sapere che le forze progressiste hanno sempre appoggiato e promosso le lotte di liberazione nazionale, in Sud America, in Africa e in tutti i paesi del mondo, di fronte all’oppressione straniera». Ora che più evolute forme di neocolonialismo economico minacciano per la prima volta anche i paesi europei, conclude Grazzini, sembra che una parte della sinistra afflitta da masochismo chieda “ancora più Europa”.La sinistra vorrebbe “un’altra Europa”, completamente rifondata? Errore: prima bisogna radere al suolo «l’attuale architettura dell’Unione Europea» e, letteralmente, «demolire i presupposti alla base dell’unione monetaria». Riformare i trattati vigenti? Missione impossibile, spiega Enrico Grazzini: per modificare il Trattato di Maastricht e lo statuto della Bce occorre l’unanimità del voto di tutti i 28 paesi Ue. A bloccare tutto basterebbe l’opposizione di un solo Stato, di un solo governo. «E’ più facile ripudiare o abolire i trattati che modificarli». L’Unione Europea, semplicemente, non è riformabile. E’ un non-Stato, un mostro giuridico che «opprime i popoli». Nient’altro che «una istituzione intergovernativa diretta dalla finanza e guidata da una sola nazione, la Germania», nonché «debolmente legittimata da un Parlamento senza potere», peraltro «eletto nel 2009 solo dal 43% dei cittadini europei». Ergo: impossibile fondare “l’Europa dei popoli” partendo da questa Unione Europea.
-
Facebook: dieci anni di cazzeggio, solitudini e menzogne
Facebook compie dieci anni, ma solo negli ultimi cinque si è diffuso come veicolo di menzogna, luogo in cui poter essere ciò che non si è. Per questo Facebook ha ucciso Second Life, dove il gioco della finzione era dichiarato. L’abilità sta nel trasformare lo squallore in esclusività e follia. Il post dell’amica zitella che al sabato sera scrive «finalmente il lusso di una serata tutta per me, tra musica, un bagno caldo, profumi esotici e telefono staccato» va tradotto così: «Nemmeno questa sera mi hanno invitata a uscire e sto guardando “Ti lascio una canzone” dopo aver sistemato alla meglio lo scarico del water che è esploso, mentre i vicini cingalesi pare stiano cucinando dei cadaveri e mi è pure finito il credito del cellulare». Fossero solo le menzogne. Facebook in questi pochi anni si è rivelato la migliore palestra dove esercitarsi nei sei vizi capitali.Certo, i vizi capitali sono sette, ma su Facebook ce n’è uno, l’avarizia, che non ha cittadinanza. Qui conducono tutti vite splendide e dispendiose. Tutti impegnati a farsi gli autoscatto ai tropici con i muscoli in evidenza. O con gli occhialoni da sole davanti a un’infinita serie di gate negli aeroporti di tutto il mondo. O, ancora, in qualche locale esclusivo, insieme ad amiche con la stessa capigliatura bionda e liscia, magari mostrando la lingua con il piercing. Questo tipo di foto è molto ricercato dai cronisti quando la proprietaria dell’account finisce coinvolta in un caso di “nera”. Gli altri, quelli che non riescono nemmeno a fingere un alto tenore di vita, si danno all’invidia. Non lanciano proclami che inneggiano alla decrescita felice, ma si iscrivono a quelle sempre più numerose pagine in cui si fomenta l’odio verso la Casta strapagata.Nei loro volgarissimi post, questi individui non sognano una ripartizione più equa delle ricchezze, ma un semplice passaggio nelle proprie tasche di tutto quel denaro, che poi dilapiderebbero in fuoriserie, cocaina, vacanze da cinepanettone e notti con quelle stesse donnine che insultavano quando le vedevano al fianco di qualche anziano premier. Il passo dall’invidia alla lussuria è breve, su Facebook. I fastidi più grandi però vengono causati dalla mole di foto che inseriscono quelli che cedono alla gola e all’accidia. I primi vivono per mettere online le immagini di qualunque piatto abbiano divorato, con la certezza che al mondo interessi sapere che «ho fatto colazione con pane al sesamo, caffè turco e uova». Perché su Facebook ci si deve sempre distinguere e il cappuccino con la brioche surgelata del bar si lascia alla massa.Peggio ancora sono gli accidiosi, quelli che, negli uffici, rubano lo stipendio perché passano le giornate inserendo decine di brutte foto della propria brutta prole travestita da Principessa Disney o da motociclista. Mamme e papà convinti che i propri pargoli siano i più belli e i più furbi. Succedeva anche ai tempi di Cornelia madre dei Gracchi, ma almeno quella non postava ogni giorno cinquanta foto dei suoi gioielli. Io sono particolarmente infastidito dalla categoria dei superbi, soprattutto quelli di ambito intellettuale. Facebook accoglie un numero straordinario di scrittori e poetesse che inseriscono come immagine del profilo la copertina, solitamente pessima, del proprio libro stampato per qualche editore truffaldino a pagamento. E nel diario ecco tutta una serie di autocitazioni, alternate a strali contro gli scrittori di successo, bollati come ignoranti, mentre loro sono geni misconosciuti.Sono quelli che ti mandano almeno cinque inviti giornalieri alle loro presentazioni in qualche bar rionale, «modera la professoressa dottoressa Concetta Lo Moscio» o a letture collettive di “autori emergenti” al circolo Magna Grecia 2000. Eh sì: gli intellettuali superbi sono per lo più del sud. Al nord si trovano più spesso gli iracondi. Gente che senza un preciso motivo ti insulta, anche se non ti conosce. Ti insulta se sa che ti radi, che possiedi il televisore, che non ti convince il fumettaro trentenne di moda, che non ti è piaciuto il polpettone candidato agli Oscar. Li cancelli, ma è inutile: sono una massa infinita. L’unica via di uscita sarebbe abbandonare Facebook. Purtroppo l’umanità reale non è migliore di quella virtuale. E sui social network almeno esiste la funzione “blocca utente”.(Tommaso Labranca, “Dieci anni di cazzeggio, la parabola di Facebook – da social network per giovanissimi a droga quotidiana”, da “Libero” del 4 febbraio 2014, ripreso da “Dagospia”).Facebook compie dieci anni, ma solo negli ultimi cinque si è diffuso come veicolo di menzogna, luogo in cui poter essere ciò che non si è. Per questo Facebook ha ucciso Second Life, dove il gioco della finzione era dichiarato. L’abilità sta nel trasformare lo squallore in esclusività e follia. Il post dell’amica zitella che al sabato sera scrive «finalmente il lusso di una serata tutta per me, tra musica, un bagno caldo, profumi esotici e telefono staccato» va tradotto così: «Nemmeno questa sera mi hanno invitata a uscire e sto guardando “Ti lascio una canzone” dopo aver sistemato alla meglio lo scarico del water che è esploso, mentre i vicini cingalesi pare stiano cucinando dei cadaveri e mi è pure finito il credito del cellulare». Fossero solo le menzogne. Facebook in questi pochi anni si è rivelato la migliore palestra dove esercitarsi nei sei vizi capitali.
-
Solo il Pd difende ancora l’euro, odiato dagli italiani
Cosa pensano gli italiani della moneta unica? Le elezioni europee si avvicinano, e la questione dell’euro diventerà assolutamente centrale nel dibattito politico. Anche perché «euro e mercato unico sono le uniche “conquiste” dell’Unione Europea dal momento che la Ue non ha una politica sociale, industriale, una politica estera e di difesa comune», ricorda Enrico Grazzini. Gran parte della sinistra radicale intende opporsi alla politica di suicida austerità imposta con metodi autoritari e antidemocratici dalla Troika alla Grecia e ai paesi debitori del Sud Europa. Ma, di là della solidarietà di intellettuali e movimenti a Tsipras, quali possono essere le proposte vincenti per superare lo scoglio dello sbarramento elettorale del 4%? Obiettivo minimo: due milioni di voti, per eleggere almeno tre parlamentari a Strasburgo. Impresa non facilissima, considerando che nove italiani su dieci non sanno nemmeno chi sia, Alexis Tsipras.Secondo tutti i sondaggi, i cittadini europei sono ancora favorevoli all’Europa unita, ma la maggioranza degli italiani (il 49%) non vuole più l’euro, e il 24% (cioè un italiano su quattro) si dice pronto a votare subito un partito schierato contro l’euro. I più contrari alla moneta della Bce sono operai, disoccupati e casalinghe, ma anche imprenditori, liberi professionisti e impiegati (favorevoli solo pensionati e dipendenti pubblici, cioè chi ha un reddito garantito). «Ma la cosa più strabiliante», scrive Grazzini su “Micromega”, è che la stragrande maggioranza del popolo di centrosinistra è schierato al 90% a favore dell’euro, mentre la grande maggioranza degli elettori di centrodestra e del M5S è a favore del ritorno alla lira. Lettura sociologica: «Sembra che molti elettori del centrosinistra appartengano al ceto medio superiore, colto e anziano, con meno problemi economici». Per questo, in nome dell’ideale europeista, «accettano la moneta unica e le conseguenti politiche monetarie e fiscali recessive, che provocano disoccupazione e desertificazione produttiva». Di conseguenza, a rappresentare i sentimenti più popolari sono Berlusconi, Grillo e la Lega.«Ormai – osserva Grazzini – quasi tutti gli economisti riconoscono che l’austerità scaraventata sulle spalle dei lavoratori, del ceto medio e delle piccole e medie aziende è generata dall’euro, che non è solo una moneta ma una politica monetaria ed economica mirata a salvare solo la finanza a scapito dei redditi da lavoro, dell’occupazione e dello stato sociale». Anche se Giorgio Napolitano riesce a fare dell’ossimoro una teoria economico-politica (no all’austerità, sì all’euro – come se non fosse l’euro a determinare il rigore), gli stessi economisti «riconoscono che sarebbe stato meglio non entrare affatto nella moneta unica», aggiunge Grazzini, dal momento che «un regime di moneta unica amplifica gli shock economici». A differenza degli Usa, l’Europa «non ha le caratteristiche necessarie per costituire un’unica area valutaria», e che inoltre «l’euro è una moneta unica incompleta, perché non ha alle spalle una banca centrale prestatrice di ultima istanza». L’euro non ha politiche solidali di bilancio: la politica monetaria dell’Ue è «sostanzialmente guidata e dominata in maniera del tutto miope, in questo momento, dalle classi dirigenti tedesche».E’ certo che la situazione europea peggiorerà, continua Grazzini. Il Fiscal Compact, sottoscritto dal governo Monti e approvato anche da Berlusconi e dal Pd di Bersani, imporrà all’Italia il rientro automatico dal deficit a ritmi forsennati, 80 miliardi all’anno. Un trattato impossibile da rispettare, pena la morte clinica del sistema-paese. Non solo: in base ai trattati Two Packs e Six Packs, i nostri bilanci pubblici subiscono l’esame preventivo della Commissione Ue prima ancora di essere presentati al Parlamento di Roma. «Questi vincoli non sono però ancora completamente noti al popolo italiano e sono tenuti accuratamente in ombra dal governo Letta». A guadagnarci sono soltanto la Germania e le altre nazioni creditrici (Finlandia, Austria, Olanda), ma la «folle politica di austerità» sta facendo diventare l’Europa «il malato del pianeta». Infatti, «perfino gli Usa e i cinesi sono preoccupati dell’avida e restrittiva politica tedesca della coalizione Cdu-Spd della Merkel, che guida senza molte resistenze (certamente non quella del presidente francese François Hollande) l’economia sociale di mercato europea verso la distruzione e il baratro».Per attuare questa politica, continua Grazzini, la Ue spinge verso l’estrema concentrazione di potere verso organismi non eletti: nessuno nella Troika è stato votato dai cittadini europei. «I governi, come quello italiano, sono diventati la cinghia di trasmissione delle politiche decise dalla Bundesbank e dalla Merkel, con il supporto (critico?) del socialismo tedesco, la Spd». L’Europa unita e solidale? «Era un bel sogno», come quello dell’euro che «doveva garantirci stabilità e crescita». E quindi: «Come fare oggi a uscire dall’incubo?». Certo non seguendo il centrosinistra, che – a partire da Napolitano – difende l’euro «nonostante il suo evidente fallimento, anche a costo di perdere completamente la sua tradizionale base sociale». Già, «perché il centrosinistra confonde la moneta unica – criticata dalla grande maggioranza degli economisti – con la possibilità di costruire una Europa unita e solidale?».La verità è che il centrosinistra “assolve” l’Unione Europea, «la cui adesione è stata decisa dalle élite dirigenti italiane, per assimilarsi a queste». Da più di vent’anni, ricorda Grazzini, le forze di centrosinistra «declamano acriticamente le sorti magnifiche e progressive della Ue: diventa allora per loro difficile cambiare direzione di marcia», anche se Romano Prodi ha tentato di prendere tardivamente le distanze da Bruxelles, sostenendo che questa Ue «non è più quella di prima». Di ben altro avviso le voci più critiche – come quelle di Paolo Barnard, Bruno Amoroso, Giulio Sapelli, Emiliano Brancaccio – secondo cui la stessa costruzione dell’Ue, fin dall’inizio – moneta unica non sovrana, Commissione Europea non eletta – era un disegno palesemente insostenibile, neo-feudale, funzionale all’élite finanziaria degli oligarchi, incarnato nel nuovo super-potere della tecnocrazia pilotata dalle grandi lobby planetarie.«E’ difficile affermare che gran parte del popolo italiano sbagli per ignoranza», dice oggi Grazzini. «La sinistra dovrebbe trarre più di una lezione dai risultati dei sondaggi di opinione: dovrebbe prendere atto che la maggioranza della popolazione vorrebbe una opposizione molto dura a questa Unione anti-democratica dell’austerità e dell’euro». Gli Stati Uniti d’Europa vagheggiati dal federalista Altiero Spinelli «rappresentano un’ottima prospettiva, ma solo se innanzitutto viene rispettata la sovranità nazionale». La Ue oggi non è affatto democratica, «ma autoritaria e completamente subordinata ai voleri della finanza». Primo traguardo: pretendere che il Parlamento Europeo – per il quale voteremo a maggio – ottenga un vero potere legislativo che attualmente non ha. E subito dopo: rivedere radicalmente tutti i trattati-capestro, da Maastricht al Fiscal Compact, fino a minacciare di uscire veramente dall’euro, pur di ottenere un cambio di rotta dalla Germania. L’arma di pressione che non si vuole usare, dice un economista come Brancaccio, è il mercato comune europeo: se l’Italia minacciasse di uscirne, Berlino sarebbe costretta a scendere a più miti consigli, per proteggere il suo export.Se la Ue non ribalterà la sua politica economica e sociale, immagina Grazzini, il popolo italiano deciderà autonomamente la sua politica economica: «L’Italia dovrebbe essere pronta a proporre agli altri paesi europei di uscire in maniera concordata dall’euro per riprendersi la sovranità monetaria e per avviare un cammino di sviluppo sostenibile e di piena occupazione». Anche perché «le politiche economiche non possono essere decise da riunioni a tavolino della Troika, ma dai popoli sovrani, dai loro Parlamenti e dai loro governi». L’Italia è ancora una grande nazione europea, «e dovrebbe avere il coraggio di opporsi duramente a questo euro, anche perché è proprio la Germania il paese che senza dubbio avrebbe più da perdere dalla rovina della moneta unica». Per cui, «se si ha timore di andare decisamente contro questo euro e contro questa Ue», le elezioni le vinceranno Berlusconi e Grillo (e in Francia Marine Le Pen) mentre la sinistra «si condannerà per l’ennesima volta all’irrilevanza».Cosa pensano gli italiani della moneta unica? Le elezioni europee si avvicinano, e la questione dell’euro diventerà assolutamente centrale nel dibattito politico. Anche perché «euro e mercato unico sono le uniche “conquiste” dell’Unione Europea dal momento che la Ue non ha una politica sociale, industriale, una politica estera e di difesa comune», ricorda Enrico Grazzini. Gran parte della sinistra radicale intende opporsi alla politica di suicida austerità imposta con metodi autoritari e antidemocratici dalla Troika alla Grecia e ai paesi debitori del Sud Europa. Ma, di là della solidarietà di intellettuali e movimenti a Tsipras, quali possono essere le proposte vincenti per superare lo scoglio dello sbarramento elettorale del 4%? Obiettivo minimo: due milioni di voti, per eleggere almeno tre parlamentari a Strasburgo. Impresa non facilissima, considerando che nove italiani su dieci non sanno nemmeno chi sia, Alexis Tsipras.
-
La Germania sta spolpando le nostre migliori aziende
«Si chiama Spirale della Deflazione Economica Imposta. Ne ho scritto per la prima volta 4 anni fa ne “Il Più Grande Crimine”», ricorda Paolo Barnard. «Dissi che la Germania e la Francia avevano progettato la distruzione dei paesi industrializzati del sud Europa con l’adozione dell’euro, in particolare dell’Italia, perché era la Piccola Media Impresa italiana che aveva stroncato quella tedesca, al punto che nel 2000, prima dell’euro, l’Italia era il maggior produttore e la Germania l’ultimo (dati Banca d’Italia)». Oggi lo scenario si è ribaltato, puntualmente. E le imprese tedesche vengono a fare shopping da noi, perché «in quel comparto industriale abbiamo il miglior sapere al mondo». E, grazie alla trappola dell’euro, che ha «deprezzato l’economia italiana a livello albanese», i tedeschi comprano le aziende italiane a prezzi stracciati. Lo conferma un recente report del “Financial Times”: «Le piccole medie imprese tedesche si sono gettate in un’abbuffata trans-alpina, rendendole le più attraenti acquirenti straniere in Europa di aziende italiane».«Aziende della base industriale del Mittelstand tedesco ottengono accesso al sapere tecnologico di aziende italiane in difficoltà, mentre in alcuni casi spostano i loro quartieri generali oltr’alpe», scrive il quotidiano finanziario il 27 gennaio, sottolineando l’importanza del “sapere tecnologico italiano”. «Le aziende tedesche stanno afferrando opportunità d’espansione mentre la recessione sospinge verso il basso il prezzo degli affari nel sud Europa in difficoltà». Per Barnard, è esattamente «la Spirale della Deflazione Economica Imposta, per comprarci con due soldi» grazie alle restrizioni promosse dal sistema Ue-Bce. Marcel Fratzscher, direttore dell’istituto economico tedesco Diw, ammette che il terreno di caccia del business tedesco è soprattutto l’area in crisi, dove i tedeschi possono “aiutare” le piccole e medie aziende italiane, che «spesso faticano a ottenere credito». Ovvio: «A noi la Germania ha proibito di avere una “banca pubblica” come la tedesca Kfw», protesta Barnard. Una banca che, «barando sui deficit di Stato tedeschi, ha versato miliardi in crediti alle aziende tedesche».«Le acquisizioni – continua il “Financial Times – sono spesso descritte come accordi strategici, ma degli insider ci dicono che il linguaggio nasconde una serie di acquisizioni aggressive». Di fatto, è la “conquista” di aziende italiane, contro la volontà dei proprietari italiani costretti a vendere. «In alcuni casi gli accordi sono strutturati in modo che il marketing e il management sono esportati dall’Italia, spogliando l’azienda acquistata fino alle sue strutture produttive». Carlos Mack, di Lehel Invest Bayern, dice al “Financial Times” che la logica dietro al trasferimento delle sedi delle aziende italiane «è di avere sia i beni di valore che il marketing e il management in Germania, perché così si ha accesso più facile al credito bancario da banche non italiane». Sempre Mack dice che le aziende tedesche «non sono interessate al mercato italiano, ma solo al prodotto italiano». Ovvero, «sono interessate a vendere il prodotto italiano altrove». Per Barnard, è «la conferma che noi abbiamo le più straordinarie piccole medie imprese del mondo, e ora ci portano via i gioielli della nostra produzione».«A differenza delle aziende italiane – continua il “Financial Times” – le tedesche hanno poche difficoltà a trovare crediti». Una ricerca ha evidenziato che «le banche italiane lavorano bene con le succursali tedesche in Italia, facendogli credito, per proteggersi dai loro investimenti nelle aziende italiane in difficoltà». Ma come, non erano in difficoltà le nostre banche? «Perché prestano ai tedeschi e non a noi?». E’ un “trucco”, innescato dalla Deflazione Economica Imposta dall’euro: «Le nostre aziende affogano, quindi le banche italiane strangolano le aziende italiane perché sono in difficoltà, e arrivano i tedeschi a papparsi i nostri marchi di prestigio a 2 soldi, e le banche italiane ci fanno affari». Norbert Pudzich, direttore della Camera di Commercio Italo-Tedesca a Milano, dice che anche prima della recessione le aziende italiane avevano difficoltà a trovare crediti, perché ad esse manca lo stretto rapporto con le banche “di casa”, che invece le aziende tedesche del Mittelstand hanno. Infatti, osserva Barnard, la stessa Kfw «ha versato miliardi di euro di spesa pubblica sottobanco alle aziende tedesche, barando, mentre costringevano noi a rantolare senza un centesimo dal governo».«Tutto questo – conclude Barnard – io lo denunciai 4 anni fa, e mi davano del pazzo. Questa è la distruzione pianificata di una civiltà, quella italiana, delle nostre famiglie, dei nostri ragazzi. Questo è un crimine contro l’umanità, perché lo stesso accade in altri paesi europei. Questo è nazismo economico». I tedeschi? «Non cambieranno mai», sono «sterminatori nell’anima», andrebbero «commissariati dall’Onu per sempre». Barnard l’ha ripetuto in decine di conferenze, mostrando una slide dell’“Economist”: ora, con la nostra economia retrocessa a condizioni da terzo mondo «proprio a causa dell’Eurozona voluta da Germania e Francia», la Germania e altre potenze vengono a rastrellare aziende italiane pagandole quattro soldi. Tutto previsto: era un piano preciso. Se cessi di immettere denaro nel sistema, proibendo allo Stato di spendere, vince chi bara – in questo caso la Germania, in cu lo Stato finanzia (di nascosto) le aziende, creando un enorme vantaggio competitivo, completamente sleale. La politica italiana? Non pervenuta. E’ per questo che i “predatori” hanno campo libero. E il paese precipita.«Si chiama Spirale della Deflazione Economica Imposta. Ne ho scritto per la prima volta 4 anni fa ne “Il Più Grande Crimine”», ricorda Paolo Barnard. «Dissi che la Germania e la Francia avevano progettato la distruzione dei paesi industrializzati del sud Europa con l’adozione dell’euro, in particolare dell’Italia, perché era la Piccola Media Impresa italiana che aveva stroncato quella tedesca, al punto che nel 2000, prima dell’euro, l’Italia era il maggior produttore e la Germania l’ultimo (dati Banca d’Italia)». Oggi lo scenario si è ribaltato, puntualmente. E le imprese tedesche vengono a fare shopping da noi, perché «in quel comparto industriale abbiamo il miglior sapere al mondo». E, grazie alla trappola dell’euro, che ha «deprezzato l’economia italiana a livello albanese», i tedeschi comprano le aziende italiane a prezzi stracciati. Lo conferma un recente report del “Financial Times”: «Le piccole medie imprese tedesche si sono gettate in un’abbuffata trans-alpina, rendendole le più attraenti acquirenti straniere in Europa di aziende italiane».
-
Gallino: il totalitarismo dell’Ue sarà la nostra rovina
La nostra stagnazione economica durerà anni: serve una trasformazione politica e un altro paradigma per il benessere e l’occupazione. Se 2013 la Cina è cresciuta del 7,7% (e nel 2014 il suo Pil sarà all’8,2%), l’Europa – Italia in primis – resterà al palo, mentre gli Usa arriveranno a +2,9%. Per Luciano Gallino, però, la situazione degli Stati Uniti non è affatto quella che si dipinge: «L’attuale presidente della Fed, Ben Bernanke, ha detto che ormai il tasso di disoccupazione è un parametro poco rappresentativo. Infatti la disoccupazione effettiva, che comprende sia gli “scoraggiati” o i part-time che vorrebbero lavorare a tempo pieno, è molto più elevata di quanto sembri». La differenza tra noi e loro? Presto detto: grazie alla moneta sovrana, «gli Stati Uniti hanno potuto permettersi di pompare migliaia di miliardi di dollari nell’economia», anche se poi «i risultati sono stati abbastanza modesti», dal momento che lo stimolo monetario «è risultato meno efficace sull’occupazione di quanto si creda», anche perché molto del denaro emesso non è stato investito in posti di lavoro.Sul mercato del lavoro sono entrate quindi meno persone di quelle stimate, quindi il tasso di disoccupazione è più alto, mentre oltre 100 milioni di persone vivono in condizioni di povertà: per proteggerle non basta nemmeno il salario minimo che Obama intende aumentare a 10 dollari all’ora. «Il salario è fermo ai livelli del 1978, il che vuol dire meno reddito per le famiglie che hanno dovuto mettere al lavoro tutti, nonni e figli compresi», sostiene Gallino in un’inervista realizzata da Roberto Ciccarelli per “Doppiozero” e ripresa da “Megachip”. L’ex segretario Usa al Tesoro, Lawrence Summers, parla addirittura di «stagnazione secolare». Colpa della globalizzazione, delle nuove tecnologie e delle delocalizzazioni. «Ciò ha portato al paradosso per cui gli Usa contribuiscono alla crescita della Cina ma non alla propria». La stagnazione è devastante in Europa, dove allarga le diseguaglianze in tutti i suoi paesi. «Non si dice mai che in Germania esiste una parte della popolazione che ha inflitto costi umani e sociali elevati alla maggioranza e ne prende grandi vantaggi». In questo meccanismo, continua Gallino, ha influito negativamente sui bilanci degli altri paesi l’eccesso dell’export tedesco.Per Gallino, l’euro rappresenta l’incubo numero uno. «È nato con gravi difetti e resta una moneta straniera. È una cosa da pazzi, non succede in nessun posto al mondo. Avere una moneta meno rigida aiuterebbe molto». Il sociologo torinese teme però che dalla trappola dell’Eurozona non sia così facile uscire: «Il marco sarebbe rivalutato del 40%, milioni di contratti tra enti privati e pubblici dovrebbero essere ridiscussi. Ci vorrebbero 20 anni per farlo, entreremmo in una spirale drammatica». L’aspetto più inquietante è che la moneta unica rappresenta in Europa lo strumento operativo principale del “totalitarismo neoliberista”, quello delle politiche di rigore, concepite per rendere gli Stati incapaci di proteggere i cittadini, impedendo loro di promuovere l’occupazione attraverso un impiego strategico degli investimenti pubblici. «Queste politiche sono un suicidio programmato, ben venga qualunque intervento per allieviarne le conseguenze». E se sull’euro c’è scritto “chi tocca, muore”, si può cominciare dalla politica: e cioè costringendo Bruxelles (e la Bce) a invertire la rotta, allargando i cordoni della borsa.Uscire dalla recessione col rilancio della produzione e dei consumi di massa come nel “trentennio glorioso” tra il 1945 e 1973? «Lo pensano i governanti e alcuni economisti che hanno sempre in mente il modello che ha provocato la crisi: produrre di più tagliando il costo del lavoro, i salari, aumentando la precarietà». Gallino non crede a questa prospettiva. Inoltre, se mai avvenisse, un nuovo “miracolo economico” sarebbe «un vero disastro», perchè la crisi «non è solo finanziaria o produttiva, è anche evidentemente una crisi ecologica che produce la desertificazione del pianeta, distrugge risorse che hanno impiegato migliaia di anni per accumularsi». In più «rischiamo di essere seppelliti dai rifiuti, uno dei problemi provocati dall’esplosione nel 2007 del modello produttivo, come dimostra la Campania, che è un caso esemplare di quanto sta accadendo».L’Ocse avverte che la crescita tornerà, ma non produrrà nuova occupazione stabile. Senza considerare che i milioni di posti fissi bruciati nella crisi sono irrecuperabili. Che fare, allora? «Bisogna ridiscutere i trattati europei e modificare lo statuto della Banca Centrale Europea, innanzitutto». La legislazione europea è infatti soffocante: le 300.000 leggi in vigore in Italia (come le 9-10.000 esistenti in Francia e in Germania) sono all’80% ispirate e comunque vincolate alle direttive europee. «Se non si passa di lì, penso che sia molto difficile fare politiche economiche che non siano quelle sconsiderate fatte negli ultimi tre anni: i governi continueranno a battere i tacchi e a firmare qualsiasi cosa che Bruxelles, la Bce o l’Fmi gli propongono». Gallino trova «scandaloso» che sia il Trattato di Maastricht che lo statuto della Bce «ignorino quasi del tutto il problema della nostra epoca: la creazione di occupazione».L’articolo 123 del Trattato Ue vieta alla Bce di concedere scoperti di conto o qualsiasi forma di facilitazione creditizia alle amministrazioni statali: è un divieto unico tra le banche centrali esistenti sul pianeta, un’altra assurdità del trattato. È difficile modificarlo, a causa della contrarietà dei tedeschi. Ed è «curioso» notare che questo stesso articolo non vieta alla Bce l’acquisto dei titoli sul mercato secondario, cosa che la Bce ha fatto tra il 2010 e il 2011 quando acquistò 218 miliardi di titoli di Stato, di cui 103 italiani. «Se lo si volesse usare, la Bce potrebbe prestare miliardi di euro in cambio dell’impegno di un piano industriale che preveda l’assunzione netta di nuova manodopera». Invece, Draghi «ha prestato mille miliardi alle banche senza porre condizioni», e in più «si è reso ridicolo quando ha ammesso di non avere la minima idea di cosa ne abbiano fatto le banche». In realtà quei soldi sono stati usati per scambi bancari o per acquistare titoli. Meno di un terzo sono andati alle imprese, ma anche in questo caso senza porre condizioni.«Senza risorse – sottolinea Gallino – le politiche contro la disoccupazione fatta dal nostro governo, come da tutti quelli europei, sono pannicelli caldi rispetto ai 26 milioni di disoccupati e ai 100 milioni a rischio di povertà in Europa». Molti economisti, tra cui quelli della Banca Mondiale, ritengono ormai che il Pil non sia più l’unico indicatore per misurare la salute dell’economia, e propongono altri indicatori per valutare il tasso di sviluppo umano. «Cambiare paradigma produttivo non implica solo cambiare indicatori, comporta una trasformazione politica». In questa fase, però, «mancano le premesse politiche per realizzarla». Per Gallino, i discorsi che i governi europei fanno sull’economia, in Italia come in Germania, «sono di un’ottusità incomparabile». Ovvero: «Vanno tutti in direzione contraria a quello che bisogna fare, e di certo non servono per riformare la finanza, mutare il modello produttivo e operare una transizione di milioni di lavoratori verso nuovi settori ad alta intensità di lavoro», cioè green economy, ricerca, alimentazione, beni culturali, manutenzione idrogeologica del territorio. «La crisi deve essere affrontata in tutti gli aspetti e non solo su quello finanziario e produttivo. Purtroppo la discussione pubblica è a zero».La nostra stagnazione economica durerà anni: serve una trasformazione politica e un altro paradigma per il benessere e l’occupazione. Se 2013 la Cina è cresciuta del 7,7% (e nel 2014 il suo Pil sarà all’8,2%), l’Europa – Italia in primis – resterà al palo, mentre gli Usa arriveranno a +2,9%. Per Luciano Gallino, però, la situazione degli Stati Uniti non è affatto quella che si dipinge: «L’attuale presidente della Fed, Ben Bernanke, ha detto che ormai il tasso di disoccupazione è un parametro poco rappresentativo. Infatti la disoccupazione effettiva, che comprende sia gli “scoraggiati” o i part-time che vorrebbero lavorare a tempo pieno, è molto più elevata di quanto sembri». La differenza tra noi e loro? Presto detto: grazie alla moneta sovrana, «gli Stati Uniti hanno potuto permettersi di pompare migliaia di miliardi di dollari nell’economia», anche se poi «i risultati sono stati abbastanza modesti», dal momento che lo stimolo monetario «è risultato meno efficace sull’occupazione di quanto si creda», anche perché molto del denaro emesso non è stato investito in posti di lavoro.
-
Prud’homme: la Torino-Lione è pura follia economica
Il progetto «faraonico» della linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione è «una follia economica». A dirlo è Rémy Prud’homme, economista, professore emerito di Paris XII e docente al Mit – Massachussetts Institute of Technology – per anni docente all’Institut d’Urbanisme de Paris. La Torino-Lione, sostiene Prud’homme, è più costosa del Tunnel della Manica, ovvero dell’intera linea Parigi-Londra, i cui ricavi non coprono né gli investimenti effettuati né il mantenimento; la Torino-Lione non arriverebbe a coprire neanche il 10% dei costi. Le cause sono ormai note: preventivo destinato a salire, traffico stagnante prima e in declino poi. Ma ciò che preoccupa Prud’homme è che il progetto non potrà mai contare su investitori o banche, dovendosi poggiare esclusivamente su denaro pubblico anche se «ci viene detto che l’Unione Europea contribuirà per il 10-15% alla spesa, con soldi nostri. Curiosa istituzione drogata e schizofrenica: da un lato esige che Italia e Francia riducano il debito pubblico e la pressione fiscale, ma dall’altro le incoraggia ad affrontare pesanti, inutili spese».Chi beneficia delle sovvenzioni statali sono sempre gli stessi: le lobbies dei grandi appalti e i politici eletti nelle regioni interessate, Piemonte e Rhône-Alpes. Ben prima che si cominciasse a parlare seriamente di recessione (agosto 2012), in Francia la Corte di Conti fu molto critica nei riguardi della linea Torino-Lione, raccomandando di «non accantonare troppo in fretta l’alternativa di migliorare la linea esistente», che secondo Prud’homme era un modo per dire “Abbandonare il progetto!”. Ma la situazione è cambiata all’ombra dell’Arco di Trionfo, se anche la Sncf sostiene di malavoglia la realizzazione della nuova linea ad alta velocità, ben cosciente del fatto che le verrà attribuita la responsabilità dell’incremento del debito pubblico. Lo stesso ministero dell’economia è «fortemente contrario» a incrementare una spesa supplementare di queste proporzioni. Sarebbe meglio rileggere attentamente, almeno in Francia, quanto il 21 giugno scorso la commissione “Mobilité 21” ha deposto nelle mani del governo in tema di investimenti sui trasporti, abbandonare i sogni faraonici e tornare a metter mano alle reti locali.La dirompente esternazione di Prud’homme, precisa “Tg Valle Susa” in un post ripreso da “NoTav.info”, risale allo scorso 18 dicembre, pubblicata in forma di editoriale tra le colonne dell’autorevole quotidiano di economia e finanza “Les Echos”. Pietra dello scandalo, la maxi-opera inutile, messa a confronto con la gravità della crisi economica in corso anche in Francia, dove cresce la disoccupazione e il Pil continua a scendere. Già a metà maggio, i dati diffusi da Eurostat sull’economia dell’Eurozona decretavano senza mezzi termini l’entrata della Francia in recessione dal primo trimestre 2013, dopo quattro trimestri di progressiva erosione del Pil. Rilevazioni non rosse per nessuno (tiepida crescita solo per Germania, Belgio e Slovacchia) ma la Francia è diventata “il nuovo malato d’Europa”, con quasi un milione di giovani – secondo “Le Monde” – ormai rassegnati a non cercare neppure più un lavoro. Le strade si sono riempite di proteste: studenti, operai, agricoltori, autotrasportatori, postini, i “berretti rossi” bretoni e tanti altri. La crisi morde: e allora perché mai, dice Prud’homme, bisognerebbe gettare nella spazzatura tutti quei miliardi per l’inutile Torino-Lione?Il progetto «faraonico» della linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione è «una follia economica». A dirlo è Rémy Prud’homme, economista, professore emerito di Paris XII e docente al Mit – Massachussetts Institute of Technology – per anni docente all’Institut d’Urbanisme de Paris. La Torino-Lione, sostiene Prud’homme, è più costosa del Tunnel della Manica, ovvero dell’intera linea Parigi-Londra, i cui ricavi non coprono né gli investimenti effettuati né il mantenimento; la Torino-Lione non arriverebbe a coprire neanche il 10% dei costi. Le cause sono ormai note: preventivo destinato a salire, traffico stagnante prima e in declino poi. Ma ciò che preoccupa Prud’homme è che il progetto non potrà mai contare su investitori o banche, dovendosi poggiare esclusivamente su denaro pubblico anche se «ci viene detto che l’Unione Europea contribuirà per il 10-15% alla spesa, con soldi nostri. Curiosa istituzione drogata e schizofrenica: da un lato esige che Italia e Francia riducano il debito pubblico e la pressione fiscale, ma dall’altro le incoraggia ad affrontare pesanti, inutili spese».