Archivio del Tag ‘Frankfurter Allgemeine Zeitung’
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Ulfkotte: noi giornalisti siamo corrotti e vi abbiamo tradito
«Sono stato un giornalista per circa 25 anni, e sono stato educato a mentire, tradire e a non dire la verità al pubblico». Lo confessa Udo Ulfkotte, uno dei più famosi giornalisti tedeschi. Il 13 gennaio 2017 fu trovato morto, a soli 56 anni. Diagnosi: infarto. «Senza alcuna autopsia, fu cremato immediatamente», ricorda Francesco Santoianni su “L’Antidiplomatico”, salutando il libro “Giornalisti comprati”, ora finalmente in arrivo nelle librerie italiane. «Un libro zeppo di nomi e cognomi di giornalisti (tra i quali lo stesso Ulfkotte) che si sono venduti pubblicando “notizie” inventate da servizi di sicurezza, governi, aziende, lobby», scrive Santonianni. «Un libro che, dopo un successo straordinario in Germania nel 2014, per anni non è stato più ristampato (lo trovavate, usato, sul web a cifre elevatissime) e che ora viene pubblicato in Italia dall’editore Zambon». Anziché soffermarsi «sui tantissimi episodi di conclamata corruzione e di asservimento dei media riportati nel libro», Santoianni preferisce riportare in calce l’indice del volume, clamorosamente eloquente, nonché quella che è stata l’ultima dichiarazione pubblica di Ulfkotte.Libertà di stampa simulata: la verità esclusivamente per i giornalisti? Nel libro si parla di “verità comprate” tra “reti d’élite e servizi segreti”. Ulfkotte racconta «come fui corrotto da una compagnia petrolifera». Titoli di questo tenore: “Frankfurter Allgemeine Zeitung: dietro le sue quinte c’è a volte una testa corrotta”. Oppure: “Come i giornalisti finanziano le loro ville in Toscana”. Ulfkotte definisce «ben lubrificato» quello che chiama «il famigerato sistema dei premi giornalistici». Bel panorama, non c’è che dire: «Interviste compiacenti, viaggi come inviato speciale e frode fiscale». Uno sguardo impietoso, sul “lavoro sporco” dei giornalisti di oggi. Altro titolo: “La spirale del silenzio: cosa non c’è nei giornali”. In alternativa, il sistema media come “manganello”, ovvero: “Oggi su, domani giù: esecuzioni mediatiche”. «I media tedeschi e americani cercano di portare alla guerra le persone in Europa, per fare la guerra alla Russia», scrisse Ulfkotte poco prima di morire. «Questo è un punto di non ritorno, e ho intenzione di alzarmi e dire che non è giusto quello che ho fatto in passato: manipolare le persone per fare propaganda contro la Russia».Aggiungeva Ulfkotte: «Non è giusto quello che i miei colleghi fanno e hanno fatto in passato, perché sono corrotti e tradiscono il popolo: non solo quello della Germania, ma tutto il popolo europeo». Amare conclusioni: «Agli Stati Uniti e all’Occidente non è bastato vincere sul socialismo burocratico dell’Est Europa, ora puntano alla conquista della Russia e alle sue risorse e poi al suo più potente vicino: la Cina». Era la sua allarmante visione geopolitica: «Il disegno è chiaro e solo la codardia dei governi europei e le brigate di giornalisti comprati assecondano questo piano di egemonia globale che, inevitabilmente, determinerà una Terza Guerra Mondiale che non sarà combattuta coi carri armati ma coi missili nucleari». I nostri media? «Omologati, obbedienti all’autorità e riluttanti a fare ricerche», pronti a trasformare la Russia in una minaccia reale. Udo Ulfkotte parla dell’Atlantik-Brucke, il ponte atlantista del massimo potere che costringe l’informazione «nella morsa dei servizi segreti». Parla di «contatti controversi, elogi imbarazzanti, potere sotto copertura». Tecniche di propaganda classica, spacciate per giornalismo: sono tanti «i trucchi per l’inganno verbale della politica e dei media».Il terzo capitolo si apre nel modo più esplicito: “La verità sotto copertura: giornalisti di prima classe in linea con le élite”. Ci sono anche giornalisti “testimoni di nozze”, alla corte del potere politico. Dai “troll” di Obama al fantasma dei Rockefeller, nell’eterna Commissione Trilaterale, fino alle imbarazzanti passerelle del Bilderberg. Come comprarsi un giornalista, istruzioni per l’uso: è quella che Ulfkotte chiama “l’informazione viscida”, sostenendo che «due terzi dei giornalisti sono corrotti». Si va avanti a colpi di “piacevoli favori”, per rendere i media “compatibili” con l’agenda del potere, tra “guadagni aggiuntivi” e “lavaggi del cervello”. In tutto questo, Ulfkotte legge “il fallimento della democrazia”. Scrive: «Ho molta paura per una nuova guerra in Europa e non mi piace avere di nuovo questo pericolo, perché la guerra non è mai venuta da sé». Vero: «C’è sempre gente che spinge per la guerra, e a spingere non sono solo i politici ma anche i giornalisti». Ecco il guaio: «Noi giornalisti abbiamo tradito i nostri lettori, spingiamo per la guerra». Si ribellava, Ulfkotte: «Non voglio più questo, sono stufo di questa propaganda. Viviamo in una repubblica delle banane e non in un paese democratico dove c’è la libertà di stampa».(Il libro di Udo Ulfkotte, “Gekaufte Journalisten”, sarò presto nelle librerie italiane, edito da Zambon, con prefazione di Diego Siragusa).«Sono stato un giornalista per circa 25 anni, e sono stato educato a mentire, tradire e a non dire la verità al pubblico». Lo confessa Udo Ulfkotte, uno dei più famosi giornalisti tedeschi. Il 13 gennaio 2017 fu trovato morto, a soli 56 anni. Diagnosi: infarto. «Senza alcuna autopsia, fu cremato immediatamente», ricorda Francesco Santoianni su “L’Antidiplomatico“, salutando il libro “Giornalisti comprati”, ora finalmente in arrivo nelle librerie italiane. «Un libro zeppo di nomi e cognomi di giornalisti (tra i quali lo stesso Ulfkotte) che si sono venduti pubblicando “notizie” inventate da servizi di sicurezza, governi, aziende, lobby», scrive Santonianni. «Un libro che, dopo un successo straordinario in Germania nel 2014, per anni non è stato più ristampato (lo trovavate, usato, sul web a cifre elevatissime) e che ora viene pubblicato in Italia dall’editore Zambon». Anziché soffermarsi «sui tantissimi episodi di conclamata corruzione e di asservimento dei media riportati nel libro», Santoianni preferisce riportare in calce l’indice del volume, clamorosamente eloquente, nonché quella che è stata l’ultima dichiarazione pubblica di Ulfkotte.
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Tank sul fronte russo, comincia l’ultima guerra di Obama
La notizia ha dell’incredibile, ma è vera: per la stampa tedesca, stiamo assistendo alla più grande operazione di riposizionamento dell’esercito Usa in Germania dal 1990. «Più di 2.000 carri armati, obici, jeep e automezzi stanno per essere impiegati nelle esercitazioni Nato nell’Europa dell’Est che dureranno nove mesi», scrive Johannes Stern. Lo stato maggiore della Bundeswehr conferma: colossale dislocazione di forse Usa e Nato in Polonia e negli Stati baltici, proprio mentre Obama tenta – anche con la “guerra delle spie” – di incendiare la frontiera orientale, alla vigilia dell’insediamento di Donald Trump, ostacolato in ogni modo. La situazione starebbe precipitando, dopo l’impegno della Russia per la liberazione di Aleppo, a lungo ostaggio di milizie “Isis” capeggiate da leader del Caucaso e dai combattenti di Al-Nusra, altrimenti detta “Al-Qaeda in Siria”, formazione creata, protetta e armata dall’intelligence occidentale. Persa la Siria, ora si enfatizza l’operazione “Atlantic Resolve”, spettacolare (e pericolosa) provocazione alle frontiere con la Russia, cui Obama non perdona l’aver reagito al golpe americano in Ucraina mantenendo il controllo della Crimea.A scandire le news, nei primissimi giorni del 2017, sono le fonti delle forze armate tedesche, racconta Stern in un articolo su “Wsws” ripreso da “Come Don Chisciotte”: oltre 2.500 mezzi militari Usa hanno appena raggiunto la Germania «per essere trasportati in Polonia ed in altri paesi dell’Europa Centrale e dell’Est». Il materiale deve «arrivare nel periodo compreso fra il 6 e l’8 gennaio a Bremerhaven via mare e quindi essere trasferito in Polonia per via ferroviaria e convogli militari a partire approssimativamente dal 20 gennaio», cioè il giorno in cui dovrebbe finalmente installarsi Trump alla Casa Bianca. Sempre secondo comunicati diffusi dall’esercito statunitense in Europa, continua Stern, altri 4.000 militari e 2.000 carri armati «contribuiranno a rafforzare la forza di dissuasione e difesa dell’alleanza». Il colonnello Todd Bertulis dell’Eucom, il comando Usa in Europa di stanza a Stoccarda, ha affermato che l’operazione assicurerà che «la potenza di fuoco necessaria verrà schierata in Europa nel posto giusto al momento giusto». E il generale Frederick “Ben” Hodges, comandante delle forze americane in Europa, aggiunge: «E’ una risposta all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ed alla sua illegale annessione della Crimea».Il che è palesemente falso, ricorda Johannes Stern: «In Ucraina non è la Russia l’aggressore, ma lo sono Usa e Nato», dal momento che «Washington e Berlino, in stretta collaborazione con le forze fasciste, hanno organizzato un colpo di Stato contro il presidente filorusso, Viktor Yanukovych, agli inizi del 2014, insediando a Kiev un regime nazionalista, fanaticamente antirusso». Mossa che «ha fatto esplodere la ribellione separatista da parte delle regioni russofone nella parte orientale del paese». Una rivolta che Mosca ha sostenuto, e che il governo di Kiev, sorretto dalle armi e dai soldi occidentali, ha tentato senza successo di reprimere con la forza. «Quanto successo in Ucraina è stato sfruttato dagli Usa, dall’Unione Europea e dalla Nato per imporre sanzioni economiche e diplomatiche alla Russia ed espandere drammaticamente le forze militari della Nato lungo il suo confine occidentale». E ora, «volendo giocare d’anticipo rispetto al 20 gennaio, inizio del mandato del nuovo presidente eletto Usa Donald Trump», che ha chiesto di abbassare il livello della tensione con la Russia, «forze contrarie all’interno dell’intelligence militare Usa e dell’establishment politico stanno cercando un’escalation nel confronto con Mosca».Ad aprire il fuoco è lo stesso generale Hodges, secondo cui la Russia si starebbe «preparando per la guerra», con «ministeri già mobilitati». Nulla di inevitabile, per ora, «ma Mosca si sta preparando per questa evenienza». Lo spiegamento delle truppe da combattimento Usa, osserva Stern, fa parte della preparazione della Nato per una possibile guerra contro la Russia, «il culmine di una continua espansione della Nato verso est», in aperta violazione degli storici accordi conclusi con Gorbaciov in cambio del ritiro dell’Urss dall’Est Europa. Evidente l’altra guerra, sotterranea, in corso a Washington: mentre Trump scoraggia il futuro della Nato in chiave anti-russa, il senatore John McCain (fotografato tempo fa in Siria con il “Califfo” Abu-Bark Al-Baghdadi) ha appena visitato gli Stati Baltici per rassicurarli sul fatto che il supporto degli Stati Uniti continuerà. In un’intervista alla radio dell’Estonia, McCain ha chiesto un ulteriore rafforzamento delle forze Nato contro la Russia. E ha dichiarato che ogni «membro credibile» del Congresso americano vede il presidente russo Vladimir Putin «per quello che è», ovvero «un delinquente, un prepotente e un agente del Kgb».Nella pericolosa escalation nei confronti della potenza nucleare Russia, che pone le premesse per una Terza Guerra Mondiale, la Bundeswehr ha un ruolo centrale, osserva Stern: «Senza il supporto delle forze armate tedesche non possiamo andare da nessuna parte», ha affermato il generale Hodges. E il generale Peter Bohrer, vicecapo del Joint Support Service, è d’accordo: «In passato la Germania era uno Stato di frontiera, oggi siamo una zona di transito ed uno dei compiti-chiave è fornire un comune supporto». Aggiunge Stern, con un occhio alla storia: «La Germania, che avanzò sull’Europa dell’Est nella sua guerra di sterminio 75 anni fa, si prepara a mandare truppe da combattimento nei paesi baltici». In un’intervista al giornale militare “Bundeswehr Aktuell”, il generale Volker Wieker ha confermato che la Germania ha concordato con Stati Uniti, Canada e Gran Bretagna al summit della Nato tenutosi a Varsavia di «prendere il comando con chi formasse un gruppo di battaglia». Si conta di «acquisire la cosiddetta “capacità operativa completa” per la metà dell’anno”». Un video riportato dal “Frankfurter Allgemeine Zeitung” mostra le manovre di un battaglione tedesco a Grafenwöhr, contro «un attacco nemico al confine russo-lituano». Ancora pochi giorni, per capire se Trump – qualora riuscisse a insediarsi davvero nello Studio Ovale – spegnerà rapidamente l’incendio.La notizia ha dell’incredibile, ma è vera: per la stampa tedesca, stiamo assistendo alla più grande operazione di riposizionamento dell’esercito Usa in Germania dal 1990. «Più di 2.000 carri armati, obici, jeep e automezzi stanno per essere impiegati nelle esercitazioni Nato nell’Europa dell’Est che dureranno nove mesi», scrive Johannes Stern. Lo stato maggiore della Bundeswehr conferma: colossale dislocazione di forze Usa e Nato in Polonia e negli Stati baltici, proprio mentre Obama tenta – anche con la “guerra delle spie” – di incendiare la frontiera orientale, alla vigilia dell’insediamento di Donald Trump, ostacolato in ogni modo. La situazione starebbe precipitando, dopo l’impegno della Russia per la liberazione di Aleppo, a lungo ostaggio di milizie “Isis” capeggiate da leader del Caucaso e dai combattenti di Al-Nusra, altrimenti detta “Al-Qaeda in Siria”, formazione creata, protetta e armata dall’intelligence occidentale. Persa la Siria, ora si enfatizza l’operazione “Atlantic Resolve”, spettacolare (e pericolosa) provocazione alle frontiere con la Russia, cui Obama non perdona l’aver reagito al golpe americano in Ucraina mantenendo il controllo della Crimea.
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False flag: usano terroristi per ucciderci sotto falsa bandiera
Da sempre il potere proclama dei valori, attraverso i quali si legittima, ma li nega con una parte delle sue azioni, con le quali si rafforza. È una questione che si ripropone nel corso del tempo. Niccolò Machiavelli affermava del Principe che «è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno de’ dua». Parlava di un potere che all’occorrenza non esitava a mostrare senza maschera la sua faccia più crudele, e guai ai vinti. Nella variante moderna il potere vuol farsi amare dal popolo promettendo la democrazia, ossia il potere del popolo, ma usa ugualmente la paura come strumento di governo, solo che ha bisogno di attribuire ad altri l’intento di causarla, attraverso atti spesso eclatanti. Ecco dunque le “false flag”, aggressioni ricevute sotto falsa bandiera, attentati terroristici da addossare a nemici veri o inventati, contro i quali scatenare l’isteria dei propri media, che a sua volta trascina interi popoli. Le false flag aiutano il nucleo più interno del potere a conquistare sufficiente consenso per imporre la disciplina dettata dalla paura. Gli diventa più facile restringere le libertà, neutralizzare e disperdere il dissenso, pur esibendo ancora agli occhi dei popoli i simulacri delle vecchie costituzioni.Come diceva il maiale Napoleone nella “Fattoria degli animali” di Orwell: «Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri». E oggi i governanti sembrano dirci: «Tutte le libertà sono in vigore, ma alcune sono meno vigenti delle altre». Il prezzo da pagare può essere altissimo. Il preavviso passa attraverso i secoli e ci viene da uno dei padri costituenti degli Stati Uniti d’America, Benjamin Franklin: «Chi è pronto a dar via le proprie libertà fondamentali per comprarsi briciole di temporanea sicurezza non merita né la libertà né la sicurezza». Il libro che avete in mano ricostruisce una serie impressionante di vicende diverse, attribuibili a differenti Stati e legate a circostanze storiche non sempre connesse direttamente fra di loro, ma accomunate da un metodo che sembra essere uno strumento essenziale della moderna “arte di governo”. Enrica Perucchietti entra in dettaglio sui misteri e le scoperte che rivelano da un’altra prospettiva decine di incidenti militari, attentati, azioni terroristiche: di fronte a tanti gialli politici per i quali i governi forniscono su due piedi spiegazioni piatte, sprovviste di profondità, riduttive, banali, riferite a killer solitari e a gruppi isolati che non godrebbero di indecenti connivenze dentro gli apparati dello Stato fra chi potrebbe bloccarli, l’autrice del saggio fa invece affiorare indizi, prove, collegamenti clamorosi, fino a raccontare le storie che la censura di tipo moderno aveva eclissato in mezzo alla sua immensa produzione di notizie inutili.Perciò viene citato regolarmente il saggista statunitense Webster Tarpley, che ha coniato un concetto efficacissimo per descrivere questo sistema, ossia «terrorismo sintetico», che altro non è che «il mezzo con cui le oligarchie scatenano contro i popoli guerre segrete, che sarebbe impossibile fare apertamente. L’oligarchia, a sua volta, ha sempre lo stesso programma politico […] Il programma dell’oligarchia è di perpetuare l’oligarchia». In tante pagine il vostro sguardo potrà posarsi su un secolo intero di vicende storiche innescate o favorite dalle flase flag, fino a notare come queste diventino sempre più numerose. Episodi più lontani nel tempo, come l’affondamento del Lusitania, l’incendio del Reichstag, l’incidente del Tonchino, diventano – decennio dopo decennio – una prassi rodata e frequente, che si moltiplica nel corso degli ultimi 15 anni. E cosa ha inaugurato quest’ultimo periodo? Esattamente la più spettacolare e visionaria delle false flag, lo scenario apocalittico dell’11 settembre 2001. Quel che è venuto dopo – ossia la “guerra infinita”, la “guerra al terrorismo”, lo spionaggio totalitario coperto dal Patriot Act e altre leggi liberticide – una volta illuminato dalla luce terribile dell’11/9, si è avvalso di una sorta di “terapia di mantenimento” a base di attentati piccoli e grandi, perpetrati da gruppi di terroristi presso i quali sono sempre riconoscibili l’ombra e l’impronta dei servizi segreti.I servizi segreti sono il grande convitato di pietra, sempre più ingombrante eppure ancora sottovalutato nelle analisi politiche, storiche e giornalistiche. Anche se gli apparati di intelligence sono formalmente subordinati al potere politico ed esecutivo, hanno risorse enormi in grado di sfuggire ai deboli criteri di trasparenza che possono mettere in campo le eventuali commissioni parlamentari di controllo. Pertanto sono capaci di costruire reti di interessi che in tutta autonomia possono condizionare sia l’agenda politica sia l’agenda dei media. Settori interi di questi servizi giocano partite autosufficienti grazie a budget incontrollabili ed enormi, in grado di mettere in campo forze pervasive. All’interno di quello che certi politologi definiscono “lo Stato profondo” esistono settori ombra del governo, dotati di proprie catene di comando presso le forze armate, di budget non rendicontabili che uniscono risorse pubbliche e autofinanziamento in simbiosi con le attività criminali delle mafie, provvisti di idee proprie in merito al modo di intendere l’interesse nazionale, portati a costruire ogni tipo di rapporto con gruppi terroristici che poi manovrano con “leve lunghe” e irriconoscibili.Le attività sono organizzate e adempiute mascherando ogni responsabilità riconducibile ai governi, tanto che immense risorse sono spese per depistare e neutralizzare le eventuali scoperte con il noto principio della «plausible deniability», ossia la smentita plausibile. Ove rimanesse ancora una notizia impossibile da smentire, la si potrà disinnescare grazie all’immenso arbitrio in mano ai dirigenti dei media più importanti, che hanno mille intrecci con il mondo dei servizi. Il giornalista tedesco Udo Ulfkotte, che ha a lungo lavorato per la “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, uno dei principali quotidiani tedeschi, ha scritto un saggio bestseller, “Gekaufte Journalisten” (giornalisti venduti), in cui rivela che per molti anni la Cia lo aveva pagato per manipolare le notizie, e che questa è la consuetudine ancora attuale nei media germanici. Tutto fa pensare che la consuetudine sia identica anche altrove. Di certo non leggerete su “La Repubblica” una recensione sul libro di Ulfkotte, mentre leggerete le geremiadi dei suoi editorialisti su dove andremo a finire con questi complottisti, signora mia…Come spiegarsi altrimenti il silenzio che circonda certe notizie, che vengono pur date per salvarsi la coscienza, ma non hanno un prosieguo, una campagna di inchieste, nessun impegno? Eppure perfino Human Rights Watch (Hrw) ha denunciato: «L’agenzia Fbi pagava dei musulmani per compiere attentati». Secondo un’indagine su 27 processi e 215 interviste, l’agenzia di intelligence interna americana «ha creato dei terroristi sollecitando i loro obiettivi ad agire e compiere atti di terrorismo». Notare bene: “creato dei terroristi”. In che modo? «In molti casi il governo, usando i suoi informatori, ha sviluppato falsi complotti terroristici, persuadendo e in alcuni casi facendo pressione su individui, per farli partecipare e fornire risorse per attentati», scrive Hrw. Per l’organizzazione, metà dei casi esaminati fa parte di operazioni portate avanti con l’inganno e nel 30% dei casi un agente sotto copertura ha giocato un ruolo attivo nel complotto. «Agli americani è stato detto che il loro governo veglia sulla loro sicurezza prevenendo e perseguendo il terrorismo all’interno degli Stati Uniti», ha detto Andrea Prasow, vice direttore di Hrw a Washington. «Ma se si osserva da vicino si scopre che molte di queste persone non avrebbero mai commesso crimini se non fossero state incoraggiate da agenti federali, a volte anche pagate». La notizia, se non la vogliamo ignorare, è semplice e terribile: gran parte degli attentati terroristici sul suolo Usa sono indotti dalla stessa organizzazione che li dovrebbe combattere, cioè l’Fbi.Gli organi di informazione che hanno lasciato appesa al nulla questa notizia impressionante, sono gli stessi che per anni – ad ogni attentato avvenuto o sventato – avevano ripetuto i comunicati dell’Fbi senza chiedere spiegazioni. Queste veline diventavano titoli urlati in prima pagina, notizie di apertura dei telegiornali. Quando la verità emerge, spesso molti anni dopo, non gode certo degli stessi spazi, rimanendo confinata in qualche insignificante pagina interna, in taglio basso. Chi aveva voluto raggiungere un certo effetto con i titoli cubitali, lo aveva già ottenuto. Resta viceversa la prima impressione dell’allarme, quando l’annuncio strillato e falso si deposita nella coscienza di lettori e spettatori. Ed è per responsabilità di questa informazione – che si è curata solo di aizzare (quando gli è stato comandato), o di “sopire e troncare” (quando era comodo) – che ogni giorno ci è stato depredato un pezzo di libertà, di sovranità, e infine imposto lo spionaggio totalitario della Nsa, l’agenzia che perfino di ciascun lettore di questo libro, in nome della sicurezza, possiede tutte le tracce delle sue comunicazioni, tutte le e-mail, i suoi orientamenti, i segreti personali. Ed è naturalmente in grado di ricattare ogni politico-maggiordomo occidentale, esposto al tempismo di qualche scandalo che lo potrebbe colpire e affondare se dovesse ribellarsi ai padroni dei segreti.Enrica Perucchietti ricompone un vasto mosaico di “false flag” che nell’insieme disegnano un allarme sicurezza permanente che ha fatto da base giuridica e premessa politica delle guerre di aggressione intraprese dal 2001 in poi, nonché delle leggi che hanno consentito lo spionaggio di massa indiscriminato oltre ad aver reintrodotto gli arresti extralegali assieme alla tortura. In questo quadro emerge chiaramente che il terrorismo sintetico è un’interminabile catena di azioni in cui gli attori hanno sempre il fiato sul collo dell’intelligence, che li manipola per i propri fini. Quel che nel senso comune si chiama terrorismo è in prevalenza una forma di manipolazione di massa, coperta da entità statali e usata con l’accordo dei pochi proprietari della quasi totalità dei media mainstream, i quali sono adibiti a organizzare a comando gli isterismi collettivi e a rinfrescare la paura, ricordando certe vittime innocenti e dimenticandone altre.Nel saggio si sottolinea ad esempio come ci sia una notevole compartecipazione tra servizi segreti e gruppi islamisti, compresa l’Isis/Daesh. Enrica Perucchietti pone la domanda che nella maggior parte dei nostri media è tabù: «Spuntando dal nulla nel giro di pochi mesi, l’Isis si è assicurata un gran numero di risorse, armi, attrezzature multimediali high-tech e specialisti in propaganda. Da dove provengono i soldi e le tecniche di guerriglia?». L’Isis, cioè lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Siria), è uno stato-non-stato che nel costituire per definizione un’entità terrorista si prende il “diritto” di non attenersi ad alcuna legalità, come se fossero i corsari dei giorni nostri. Nell’epoca dei paradossi, gli Usa – con buone ragioni – definiscono l’Isis e altre organizzazioni della galassia jihadista come “organizzazioni terroriste”; ma quando sentiamo vecchi astri della politica imperiale statunitense come Zbigniew Brzezinski e John McCain definire i jihadisti come «i nostri asset», sembra quasi che definirli terroristi implichi proprio il diritto-dovere di essere terroristi. Catalogarli così somiglia quasi a una “lettera di corsa” da parte della superpotenza nordamericana, simile a quelle autorizzazioni con cui le potenze di un tempo abilitavano i corsari ad attaccare e razziare navi di altre potenze.Mentre i soldati “normali” sarebbero in una certa misura esposti al dovere di rispettare le Convenzioni di Ginevra e altri elementi del diritto internazionale, i terroristi/corsari, viceversa, costituiscono una legione che infrange questi limiti nascondendo la catena delle responsabilità. Quelli dell’Isis condividono valori oscurantisti e l’uso delle decapitazioni con la dinastia saudita che li appoggia e foraggia. Ma siccome l’Arabia Saudita è «un’Isis che ce l’ha fatta», come dice il “New York Times”: il ruolo della canaglia rimane comodamente attaccato solo alla manovalanza di assassini che si rifà al jihadismo, senza estendersi ai mandanti occulti. Ma poi è arrivato l’intervento in Siria dell’aeronautica russa. Gli aerei di Mosca hanno distrutto quasi tutte le migliaia di autobotti con cui il petrolio razziato dai nuovi corsari veniva smerciato in un paese Nato, la Turchia, proprio con il consenso di Ankara (altro grande sponsor dell’Isis). La mossa strategica di Mosca ha perciò aperto una nuova fase che spinge molti paesi a porsi un semplice problema: che rapporto devo avere adesso con la Russia di Vladimir Putin, ora che i miei alibi sono stati bruciati? Non è un caso che dopo l’intervento russo gli attentati jihadisti, con tutto il loro tipico fumo di false flag, si stiano intensificando drammaticamente, aumentando la pressione e il ricatto sui sistemi politici di mezzo mondo e mostrandosi come una presenza ormai permanente della scacchiera internazionale. Una scacchiera che possono demolire.Sarebbe il momento giusto per fare chiarezza, ma le istituzioni si chiudono a riccio, come nel caso dell’inchiesta sulla strage di Charlie Hebdo: mentre emergevano particolari inquietanti su quell’attentato e i suoi torbidi contorni, il ministro degli interni francese, Cazeneuve, ha deciso che l’inchiesta doveva essere subito insabbiata. Perché? “Segreto militare”. Il che implica – come il lettore vedrà poi in dettaglio in questo saggio – che l’evento terroristico, ancora una volta, andava oltre l’attentato “islamico”, perché erano coinvolti organi di Stato che agivano da complici, se non da pianificatori dell’atto, corresponsabili quindi di un delitto che sacrificava propri cittadini. Le nuove norme eccezionali approvate in Francia si presentano come l’annuncio di una tendenza generale, e già ci sono le avvisaglie del fatto che queste norme saranno usate per restringere le libertà e i diritti, ad esempio di lavoratori o cittadini che manifestino per rivendicare migliori condizioni di vita.Gran parte degli intellettuali – freschi reduci di un’indigestione retorica di “Je suis Charlie” – non leva una sola voce contro le restrizioni della libertà, nemmeno quando toccano in modo massiccio un paese Nato come la Turchia, che ha praticamente schiacciato un’intera generazione di giornalisti che osavano indagare sulle complicità del governo con il terrorismo. Per colmo, accusandoli di terrorismo. Occorre un risveglio intellettuale e morale che accompagni un rinnovamento politico, occorre spostare il pendolo del potere dalle istituzioni modellate dall’«eccezione» e dalla paura verso le istituzioni ispirate alla sovranità popolare e alla corretta informazione. Smascherare il sistema fondato sulle false flag non è una condizione sufficiente per questo risveglio (che ha bisogno anche di coraggio e partecipazione di massa). Ma rivelare ai molti cittadini obnubilati dalla bolla mediatica dominante la verità sugli inganni che hanno subito è una condizione necessaria per difendere e ampliare le proprie libertà. Questo è un buon punto di partenza.(Pino Cabras, prefazione al libro “False flag. Sotto falsa bandiera”, di Enrica Perucchietti, pubblicata sul blog di Cabras. Il libro: Enrica Perucchietti, “False flag. Sotto falsa bandiera”, Arianna Editrice, 256 pagine, euro 12,50).Da sempre il potere proclama dei valori, attraverso i quali si legittima, ma li nega con una parte delle sue azioni, con le quali si rafforza. È una questione che si ripropone nel corso del tempo. Niccolò Machiavelli affermava del Principe che «è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno de’ dua». Parlava di un potere che all’occorrenza non esitava a mostrare senza maschera la sua faccia più crudele, e guai ai vinti. Nella variante moderna il potere vuol farsi amare dal popolo promettendo la democrazia, ossia il potere del popolo, ma usa ugualmente la paura come strumento di governo, solo che ha bisogno di attribuire ad altri l’intento di causarla, attraverso atti spesso eclatanti. Ecco dunque le “false flag”, aggressioni ricevute sotto falsa bandiera, attentati terroristici da addossare a nemici veri o inventati, contro i quali scatenare l’isteria dei propri media, che a sua volta trascina interi popoli. Le false flag aiutano il nucleo più interno del potere a conquistare sufficiente consenso per imporre la disciplina dettata dalla paura. Gli diventa più facile restringere le libertà, neutralizzare e disperdere il dissenso, pur esibendo ancora agli occhi dei popoli i simulacri delle vecchie costituzioni.
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Euro e rifugiati: Germania, i media coprono la catastrofe
Appena un sociologo tedesco pronuncia la parola “migrazione di massa”, i mezzi di informazione tedeschi prorompono in grida di costernazione. Così, si è lasciato al giornale svizzero “Aargauer” il compito di fornirci la spiegazione del professor Heinsohn sulle migrazioni e sulle loro conseguenze. In Germania i mezzi di comunicazione più importanti preferiscono predicarci che parole come “migrazione di massa” non devono essere usate per descrivere i fiumi di persone che si vedono in ogni paese. Come esempio citiamo la rivista Focus, che ci fa una lezioncina sul perché i termini “migrazione di massa” e “flusso di rifugiati” sono profondamente scorretti: «Questi termini suggeriscono che i migranti sono una minaccia incontrollabile». E così il professor Heinsohn ha dovuto fare una deviazione attraverso i media svizzeri semplicemente per spiegarci quello che sta accadendo in Germania. Non c’è da stupirsi che i cittadini tedeschi non comprino più le pubblicazioni che si sforzano di insegnare loro come devono pensare.Da “Focus” al “Frankfurter Allgemeine Zeitung” (Faz), il declino nel numero di lettori nel terzo trimestre del 2015 è ancora una volta sostanziale; una caduta del 13,4%, secondo gli ultimi dati. I grandi editori di media stanno ora cercando di spiegare questo fenomeno col fatto che sono nate altre pubblicazioni, per esempio Kopp Verlag, che guadagnano lettori di anno in anno perché danno voce alle preoccupazioni e alle necessità della gente. Recentemente ho ricevuto una richiesta di intervista dalla redazione di “Frontal-21” della “Zdf”, la televisione pubblica tedesca, che tra le altre cose spiegava: «Il servizio sarà incentrato attorno al perché continua a crescere l’interesse per i libri, le riviste e i servizi online come per esempio quelli della Kopp Verlag. Vorremmo anche approfondire il perché in particolare i suoi libri diventano dei bestseller. Vorremmo intervistarla a questo proposito». La mia sincera risposta: la domanda sul perché i miei libri, come “Gekaufte Journalisten” (giornalisti comprati), “Mekka Deutschland” (Mecca, Germania) e, più recentemente, “Die Asyl-Industrie” (L’industria dell’asilo) sono tutti nella lista dei bestseller dello “Spiegel” (e i curatori mi hanno confermato che nessun autore ha mai avuto tre titoli in lista contemporaneamente) otterrà una risposta migliore se chiedono alla gente per strada.Chi li acquista e li legge è l’unico che può veramente spiegare perché questi libri sono così richiesti. O forse potrebbero rivolgere queste domande all’ex corrispondente della “Ard” Markus Gärtner, che ha appena pubblicato un nuovo testo di riferimento: “Lügenpresse” (la stampa che mente). In ogni caso, tra tutte le opzioni disponibili per la sua inchiesta, la “Zdf” ha scelto di consultare un giornale molto benevolo nei confronti dei rifugiati, “Kontext-Wochenzeitung”, e politici scelti tra le fila della “cultura dell’accoglienza” di sinistra, che preferiscono etichettare l’informazione pubblica sulle conseguenze negative di questa migrazione come “xenofoba” e “razzista”. Che cosa vuole presentare in modo politicamente corretto questa televisione – che lo vogliamo o no, finanziata dalle nostre tasse – è evidente: Kopp Verlag e Udo Ulfkotte, in quanto propalatori di cattive notizie, dovrebbero probabilmente essere crocifissi sui media – o meglio ancora essere tenuti sotto controllo dalla sicurezza pubblica. Nei giorni scorsi, diversi leader europei hanno avvertito che la continua, irrisolta crisi dell’euro, che con ogni probabilità si ripresenterà, in combinazione con l’invasione dei richiedenti asilo, potrebbe portare a un disastro, che potrebbe avere come esito una guerra mondiale.I nostri politici e i media però si prendono gioco di chi ammonisce e mette in guardia, marchiando queste previsioni come “xenofobe” e “nazionaliste”. Lo stesso comportamento è stato tenuto dai nostri media più importanti quando è stato tolto dalla circolazione il marco tedesco, sostituito dall’euro, moneta debole. E anche allora il loro comportamento era parte di un programma fatto per placare i timori dei cittadini quando erano all’ordine del giorno l’allargamento della UE e l’apertura delle frontiere. Chi era critico anche allora è stato apertamente diffamato e definito un idiota. In questi giorni, canali come la “Zdf” non vogliono sentire più nulla. Non sono cambiati. Continuano a lavorare secondo lo stesso schema di propaganda. Per questo, non darò alcuna intervista a “Frontal-21”. Non ho parlato con la “Zdf” per undici anni e posso continuare benissimo a fare a meno di questa televisione che diffonde menzogne. Ora, molto probabilmente, saremo condannati sul mercato dei media come uccelli del malaugurio, con tutte le risorse di disinformazione e di propaganda loro disponibili. Ma questo è un tema vecchio, e adesso ce ne rendiamo sempre più conto.(Udo Ulfkotte, “La crisi dell’euro e dei rifugiati possono combinarsi e portare l’Europa alla distruzione, e in Germania i mass media continuano a coprire la verità”, da “Russia Insider” del 22 ottobre 20165, ripreso da “Voci dall’Estero”).Appena un sociologo tedesco pronuncia la parola “migrazione di massa”, i mezzi di informazione tedeschi prorompono in grida di costernazione. Così, si è lasciato al giornale svizzero “Aargauer” il compito di fornirci la spiegazione del professor Heinsohn sulle migrazioni e sulle loro conseguenze. In Germania i mezzi di comunicazione più importanti preferiscono predicarci che parole come “migrazione di massa” non devono essere usate per descrivere i fiumi di persone che si vedono in ogni paese. Come esempio citiamo la rivista “Focus”, che ci fa una lezioncina sul perché i termini “migrazione di massa” e “flusso di rifugiati” sono profondamente scorretti: «Questi termini suggeriscono che i migranti sono una minaccia incontrollabile». E così il professor Heinsohn ha dovuto fare una deviazione attraverso i media svizzeri semplicemente per spiegarci quello che sta accadendo in Germania. Non c’è da stupirsi che i cittadini tedeschi non comprino più le pubblicazioni che si sforzano di insegnare loro come devono pensare.
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Umberto Eco: erudito e noioso, stimatissimo solo in Italia
“I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”.Durante un incontro con i giornalisti nell’Aula Magna della Cavallerizza Reale a Torino in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Comunicazione e Cultura dei media“Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5.000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… Perché la lettura è un’immortalità all’indietro”.Dall’articolo “Perché i libri allungano la vita” pubblicato sulla rubrica La bustina di Minerva, L’Espresso, 2 giugno 1991“Il computer non è una macchina intelligente che aiuta le persone stupide, anzi, è una macchina stupida che funziona solo nelle mani delle persone intelligenti”.Dalla prefazione a Claudio Pozzoli “Come scrivere una tesi di laurea di laurea con il personal computer”“Di qualsiasi cosa i mass media si stanno occupando oggi, l’università se ne è occupata venti anni fa e quello di cui si occupa oggi l’università sarà riportato dai mass media tra vent’anni. Frequentare bene l’università vuol dire avere vent’anni di vantaggio. È la stessa ragione per cui saper leggere allunga la vita. Chi non legge ha solo la sua vita, che, vi assicuro, è pochissimo. Invece noi quando moriremo ci ricorderemo di aver attraversato il Rubicone con Cesare, di aver combattuto a Waterloo con Napoleone, di aver viaggiato con Gulliver e incontrato nani e giganti. Un piccolo compenso per la mancanza di immortalità. Auguri”.Da un discorso alle matricole del corso di laurea in Scienze della Comunicazione a Bologna nel 2009.Troppo difficile e raffinato, inaccessibile alla massa, a quel volgo profano che, da Orazio in poi, ogni intellettuale d’élite che si rispetti si vanta di odiare e tenere accuratamente a distanza? No, solo troppo noioso. Irrimediabilmente noioso. Talmente noioso da risultare illeggibile, “Il cimitero di Praga”. Raramente, però, compaiono sulla stampa italiana aggettivi così semplici e diretti come “noioso” e “illeggibile” quando un romanzo porta la firma di Umberto Eco; per trovarli bisogna sfogliare le rassegne stampa internazionali. Nel lontano 1995, per citare un esempio che risale a 16 anni fa, in pochi hanno avuto il coraggio di tradurre “boring” con il suo sinonimo italiano, paralizzati da una sorta di timore reverenziale: nelle recensioni italiane a “L’isola del giorno prima” vennero sistematicamente ignorati i commenti poco entusiasti della stampa inglese, e taciute del tutto le spietate e circostanziate diagnosi di “Sunday Telegraph” e “Independent”.In tanti articoli – tra le poche eccezioni, il commento di Riccardo Orizio uscito sul “Corriere della Sera” il 2 ottobre 1995 – veniva censurato perfino l’elegante epiteto “L’Armani dell’Accademia” coniato da Noel Malcolm, che contemperava stima e critica, arguzia e perfidia, in difficile equilibrio tra il complimento e la stroncatura, una definizione “sbianchettata” forse per non rischiare di offendere in un colpo solo due figure simbolo del Made in Italy, il guru della moda e l’intellettuale italiano non necessariamente più apocalittico ma certamente più integrato nel mercato globale. Tanta acqua e altrettanti fiumi di inchiostro sono passati sotto i ponti, molte cose sono cambiate dagli anni Novanta a oggi ma non l’eccesso di prudenza – per usare un eufemismo – dei letterati italiani, la cronica difficoltà a chiamare le cose con il loro nome che rende provinciale e prevedibile gran parte della critica militante (non solo italiana).Nel dilagare del conformismo automatico di giornalisti e recensori, spesso generato più dalla pigrizia che da un opportunismo consapevole, spiccano mosche bianche che confermano la regola con la loro eccezione, come la spericolata sincerità di Alfonso Berardinelli – «Se fosse per le mie opinioni critiche, i romanzi di Umberto Eco e il libro di filosofia di Severino potrebbero sprofondare nella pattumiera» – o la sfrontatezza ironica di Ken Follett («Preferirei non essere così noioso», è la battuta ad effetto che riserva a chi crede di lusingarlo paragonando i suoi romanzi a quelli del semiologo italiano). Last but not least, l’articolo uscito il 9 ottobre scorso su “La Repubblica” alla vigilia della fiera del libro di Francoforte, in cui Andrea Tarquini osa citare una doppia critica all’ultimo libro appena uscito in Germania, una stroncatura bipartisan si direbbe in politichese, perché firmata dai critici letterari della liberalprogressista “Süddeutsche Zeitung” e della liberalconservatrice “Frankfurter Allgemeine Zeitung”. Secondo la prima, “Il cimitero di Praga” «è, nel migliore dei casi, un fallimento di alto livello, un noioso ammasso di inverosimiglianze grottesche».Non appena ci si addentra nella storia reale, continua il quotidiano di Monaco, il romanzo smette di interessare; come testo letterario non è né particolarmente avvincente né divertente e come opera storica risente di un errore strutturale. Non meno duro è il giudizio della “Frankfurter Allgemeine Zeitung”: dopo le prime trecento pagine «non si tratta più di un romanzo ma di uno schedario di persone, mappe stradali e bibliografia», mentre «si leggono di continuo note a pié di pagina senza notare altra cosa se non che il libro prima o poi dà sui nervi, poiché hai capito da tempo ciò che voleva dirti». Umberto Eco, chiosa Gustav Seibt sul quotidiano di Monaco, questa volta se l’è presa comoda: «Il cimitero di Praga non centra quello che è proprio il punto più importante del materiale: la storia collettiva della nascita e l’effetto collettivo dei Protocolli dei Savi di Sion».«Alla scrittura di questo testo tremendo hanno collaborato tre generazioni, e i suoi effetti perdurano da oltre un secolo. Dinanzi alla bassezza dello scritto, questo è molto più misterioso perfino della cloaca di Parigi, nella quale l’assassino Simonini getta i cadaveri. Umberto Eco ha sempre voluto essere uno scrittore dell’illuminismo, ma questa volta si è reso le cose troppo facili». Cadendo nella trappola dello sfoggio di erudizione fine a se stesso ed esponendosi al rischio già chiaramente percepito e oggetto di dibattito tra gli “oulipienes” più seri negli anni Sessanta del Novecento (OuLiPo è l’acronimo di Ouvroir de Littérature Potentielle, l’officina matematico-artistica nata dal sogno di fondere letteratura e scienze esatte): quello di comporre un’opera che diverte molto chi la scrive ma pochissimo chi la legge.(Silvia Guidi, “Il cimitero di Praga e i critici tedeschi, un fallimento di lusso”, da “L’Osservatore Romano” del 13 ottobre 2011, ripreso su “Facebook” dopo la morte di Umberto Eco, avvenuta il 20 febbraio 2016).Troppo difficile e raffinato, inaccessibile alla massa, a quel volgo profano che, da Orazio in poi, ogni intellettuale d’élite che si rispetti si vanta di odiare e tenere accuratamente a distanza? No, solo troppo noioso. Irrimediabilmente noioso. Talmente noioso da risultare illeggibile, “Il cimitero di Praga”. Raramente, però, compaiono sulla stampa italiana aggettivi così semplici e diretti come “noioso” e “illeggibile” quando un romanzo porta la firma di Umberto Eco; per trovarli bisogna sfogliare le rassegne stampa internazionali. Nel lontano 1995, per citare un esempio che risale a 16 anni fa, in pochi hanno avuto il coraggio di tradurre “boring” con il suo sinonimo italiano, paralizzati da una sorta di timore reverenziale: nelle recensioni italiane a “L’isola del giorno prima” vennero sistematicamente ignorati i commenti poco entusiasti della stampa inglese, e taciute del tutto le spietate e circostanziate diagnosi di “Sunday Telegraph” e “Independent”.
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Pilger: quella che sta iniziando si chiama guerra mondiale
Perchè tolleriamo di minacciare un’altra guerra mondiale in nostro nome? Perchè permettiamo menzogne che giustifichino questo rischio? La portata del nostro indottrinamento, scrisse Harold Pinter, è un «brillante, persino arguto, atto di ipnosi di immenso successo», come se la verità «non fosse mai accaduta nemmeno mentre stava accadendo». Ogni anno lo storico statunitense William Blum pubblica il suo “Riassunto aggiornato della politica estera degli Usa”, il quale mostra come, dal 1945, essi abbiano provato a sollevare più di 50 governi, molti dei quali democraticamente eletti, abbiano massicciamente interferito nelle elezioni di 30 paesi, abbiano bombardato la popolazione civile di 30 nazioni, abbiano fatto uso di armi chimiche e biologiche e abbiano attentato alla vita di leader stranieri.In molti casi il Regno Unito ne è stato complice. Il grado di sofferenza umana causato, per non parlare dei crimini perpetrati, è ben poco conosciuto in Occidente, malgrado la presenza del sistema di comunicazioni più avanzato del mondo e del giornalismo nominalmente più libero. Il fatto che la maggior parte delle vittime del terrorismo – il “nostro” terrorismo – sia musulmana non può essere detto. L’informazione che il jihadismo estremo, che portò all’11 Settembre, era stato coltivato come arma dalla politica anglostatunitense (“operazione ciclone” in Afghanistan) è stata soppressa. In aprile, il Dipartimento di Stato Usa ha reso noto che, in seguito alla campagna della Nato del 2011, «la Libia è divenuta un rifugio per terroristi».Il nome del “nostro” nemico è cambiato nel corso degli anni, dal comunismo all’Islam, ma generalmente esso è incarnato da qualsiasi società indipendente dall’egemonia dell’Occidente che occupi un territorio strategicamente utile o disponga di abbondanti risorse naturali. I leader di queste nazioni scomode vengono generalmente deposti con la violenza, come i democratici Muhammad Mossedeq in Iran e Salvador Allende in Cile, o uccisi come Patrice Lumumba in Congo. Tutti loro vengono sottoposti a campagne denigratorie dai media occidentali – pensiamo a Fidel Castro, Hugo Chavez e ora Vladimir Putin. Il ruolo di Washington in Ucraina differisce solo per le sue implicazioni nei nostri confronti. Per la prima volta dalla presidenza Reagan, gli Stati Uniti stanno minacciando di ricondurre il mondo in guerra. L’Europa dell’est e i Balcani sono avamposti della Nato e l’ultimo “Stato cuscinetto” al confine con la Russia viene fatto a pezzi.Noi occidentiali stiamo sostenendo dei neonazisti nel paese in cui i nazisti ucraini sostennero Hitler. Dopo aver architettato il colpo di Stato di febbraio contro il governo democraticamente eletto a Kiev, il piano di Washington per la conquista della storica e legittima base navale Russa in Crimea è fallito. I russi si sono difesi, come hanno fatto per oltre un secolo di fronte ad ogni minaccia e invasione da parte dell’Occidente, ma l’accerchiamento da parte della Nato ha avuto un’accelerazione, insieme agli attacchi orchestrati dagli Stati Uniti contro gli ucraini di etnia russa. Se Putin venisse provato ad accorrere in loro aiuto, il suo ruolo di paria predestinato giustificherebbe la Nato ad intraprendere una guerriglia che potrebbe trasferirsi all’interno dello stesso territorio russo.Putin ha invece frustrato il partito della guerra cercando una distensione con Washington e l’Ue, ritirando le truppe russe dal confine e invitando gli ucraini di etnia russa a non partecipare ai provocatori referendum nelle regioni dell’Est. Questa parte di popolazione russofona e bilingue – un terzo del totale – aspira da tempo a una federazione democratica che rispecchi le differenze etniche del paese e che sia al contempo autonoma e indipendente da Mosca. Molti di loro non sono né separatisti né ribelli, ma cittadini che vogliono vivere sicuri nella loro patria.Come le rovine di Iraq e Afghanistan, l’Ucraina è stata ridotta a un parco divertimenti della Cia – diretto dal direttore della Cia John Brennan a Kiev, assieme ad “unità speciali” che sovrintendano ad attacchi selvaggi su coloro i quali si oppongono al golpe di febbraio. Guardate i video, leggete le denunce dei testimoni oculari del massacro di Odessa di questo mese. Squadre di criminali fascisti hanno bruciato la sede dell’unione del commercio, uccidendo le 41 persone intrappolate al suo interno. Guardate la polizia starsene a guardare. Un dottore ha raccontato di aver tentato di salvare alcune persone, «ma sono stato fermato dai sostenitori dei nazi. Uno di loro mi ha spinto via rudemente, promettendomi che presto io e gli altri ebrei di Odessa avremmo avuto la medesima sorte… mi chiedo perchè il mondo intero se ne stia in silenzio».Gli ucraini russofoni stanno lottando per la loro sopravvivenza. Quando Putin ha annunciato il ritiro delle truppe russe dal confine, il segretario della difesa della giunta di Kiev – un membro fondatore del partito fascista Svoboda – ha rincarato dicendo che gli attacchi contro “i ribelli” sarebbero proseguiti. In perfetto stile orwelliano, la propaganda in Occidente ha ribaltato il tutto in “Mosca cerca di fomentare il conflitto e la provocazione”, secondo il segretario degli Esteri britannico William Hague. Il suo cinismo fa da pari con i grotteschi complimenti di Obama alla giunta per la sua «notevole compostezza» nel seguire il massacro di Odessa. Benchè sia fascista e illegale, la giunta è descritta da quest’ultimo come «propriamente eletta». Ciò che conta non è la verità, ha detto una volta Henry Kissinger, ma ciò che è percepito essere vero.Nei media statunitensi, le atrocità di Odessa sono state presentate come «confuse» e «una tragedia» in cui i «nazionalisti» (neonazisti) hanno attaccato i «separatisti» (persone che raccoglievano firme per un referendum a sostegno della Federazione Ucraina). Il “Wall Street Journal” di Rupert Murdoch ha condannato le vittime: “La sparatoria è stata probabilmente innescata dai ribelli ucraini, dice il governo”. La propaganda in Germania è stata guerra fredda allo stato puro, con il “Frankfurter Allgemeine Zeitung” che avvertiva i suoi lettori della “guerra ancora non dichiarata dalla Russia”. Per i tedeschi è una fantastica ironia che Putin sia l’unico leader a condannare l’ascesa del fascismo nell’Europa del 21° secolo.Una popolare banalità è che “il mondo sia cambiato dopo l’11 Settembre”, ma cosa è veramente cambiato? Secondo il grande informatore Daniel Ellsberg, un golpe silenzioso è già avvenuto a Washington e ora a governare è un militarismo rampante. Il Pentagono ultimamente svolge “operazioni speciali” – guerre segrete – in 124 paesi. In patria, una povertà crescente e una morente libertà sono il corollario ad uno stato di guerra perpetua. Aggiungiamo il rischio di una guerra nucleare e la domanda è: perchè tolleriamo tutto ciò?(John Pilger, “Rompere il silenzio, la guerra mondiale sta iniziando”, da “Asia Times” del 14 maggio 2014, ripreso da “Come Don Chisciotte”).Perchè tolleriamo di minacciare un’altra guerra mondiale in nostro nome? Perchè permettiamo menzogne che giustifichino questo rischio? La portata del nostro indottrinamento, scrisse Harold Pinter, è un «brillante, persino arguto, atto di ipnosi di immenso successo», come se la verità «non fosse mai accaduta nemmeno mentre stava accadendo». Ogni anno lo storico statunitense William Blum pubblica il suo “Riassunto aggiornato della politica estera degli Usa”, il quale mostra come, dal 1945, essi abbiano provato a sollevare più di 50 governi, molti dei quali democraticamente eletti, abbiano massicciamente interferito nelle elezioni di 30 paesi, abbiano bombardato la popolazione civile di 30 nazioni, abbiano fatto uso di armi chimiche e biologiche e abbiano attentato alla vita di leader stranieri.