Archivio del Tag ‘Frankyn Delano Roosevelt’
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Rottamare il popolo, Renzi realizza il sogno della destra
“Missione compiuta”, gigioneggia Matteo Renzi a fronte delle regionali emiliano-romagnole e calabresi. Certo che sì. Ma non tanto per la presumibile conquista della poltrona di governatore da parte dei due candidati sponsorizzati, personaggi tutto sommato insignificanti, latori di proposte politiche inesistenti. Niente di tutto questo. La vera missione giunta a compimento è l’aver rottamato, in un colpo solo, circa il dieci per cento del corpo sociale italiano; le donne e gli uomini che – in quanto cittadini – intendono concorrere a determinare la volontà generale. E l’effetto “piazza pulita” fa maggiormente impressione se il soggetto collettivo, in più fragoroso allontanamento da una concezione attiva della politica, è proprio l’antica “maglia rosa” nazionale del civismo: l’Emilia Romagna appassionata e socialdemocratica. Il nostro premier può farsi scrivere dal ghost-writer di fiducia tutti i temini che vuole sulla sua presunta natura di sinistra, può precettare la Gioconda Boschi allo sbandieramento dell’essenza newdealistica ed egualitaria del Jobs Act (ma perché questi anglicismi, visto che il Renzi si incarta quando bazzica l’anglofonia? Lo chiami Asfaltalavoro così ci capiamo meglio). Renzi può raccontarcela come vuole, anche se la gag mostra ormai la corda.Resta il fatto che l’obiettivo della Destra apparsa in Occidente da quattro decenni, diventando dominante da un quarto di secolo, ha come primario obiettivo quello di azzerare il popolo. Obiettivo che il giovanile di Rignano porta avanti con proterva determinazione sotto gli sguardi compiaciuti dei suoi mentori e precettori (Berlusconi e Verdini tra i più cari), di quanti avevano vendette da consumare a sinistra (tipo Sacconi) e con la benevola approvazione dei liquidatori internazionali della tradizione progressista novecentesca keynesiano-rooseveltiana (dai vari Blair ai tecno-killer di Bruxelles, al servizio del sistema bancario internazionale). Il senso generale dell’operazione discende da due inestirpabili retropensieri del nostro tempo: la logica finanziaria, in cui la ricchezza per riprodursi non ha più bisogno delle persone (la produzione di denaro a mezzo denaro; a differenza dell’età industrialista, in cui il capitale produceva masse che ne acquistassero i prodotti); la priorità del potere oligarchico che recalcitra ad ogni forma di controllo, in particolare quello democratico.Sicché fa specie, ma non troppo, che gli Orfini – già “giovani turchi, poi rivelatisi “vecchi ottomani” (nel senso di afferrare poltrone) – imbarcati felicemente sul carro renziano non emettano neppure un sospiro davanti alla mattanza in atto. Così, tanto per salvarsi l’anima. Il fatto è che la vicenda regionale si inserisce in un lungo processo di normalizzazione in corso non da oggi. Che nel nostro paese si accompagna alla sostituzione di seppur imperfette forme di democrazia deliberativa con il grande baraccone dello star-system; iniziato con il guitto di Arcore e proseguito da una lunga serie di imitatori, che avevano recepito dal maestro le virtù dell’illusionismo per la conquista del consenso. Quella sequenza di personaggi che pare giunta alla sua più compiuta espressione nel premier che gioisce davanti all’esodo dal voto di sei italiani su dieci; sostanzialmente perché l’intera offerta esposta sui banconi elettorali appariva loro inaccettabile.Certo, così facendo si consente alla banda che presidia il varco della politica di vincere per no-contest, per abbandono della controparte civica. E di questo dovrebbe farsi carico in termini autocritici chi ha dissipato le speranze riposte nel febbraio 2013 nell’Altra Politica da parte di un quarto di italiani. Intanto continua l’opera di abrogazione del popolo. Un vecchio sogno delle plutocrazie, se già all’inizio dell’età industriale l’abate Sismondi poteva scrivere: «In verità non resta che desiderare altro se non che il re, rimasto solo nell’isola, girando una manovella, faccia eseguire per mezzo di congegni meccanici tutto il lavoro dell’Inghilterra».(Pierfranco Pellizzetti, “Rottamare il popolo”, da “Micromega” del 24 novembre 2014).“Missione compiuta”, gigioneggia Matteo Renzi a fronte delle regionali emiliano-romagnole e calabresi. Certo che sì. Ma non tanto per la presumibile conquista della poltrona di governatore da parte dei due candidati sponsorizzati, personaggi tutto sommato insignificanti, latori di proposte politiche inesistenti. Niente di tutto questo. La vera missione giunta a compimento è l’aver rottamato, in un colpo solo, circa il dieci per cento del corpo sociale italiano; le donne e gli uomini che – in quanto cittadini – intendono concorrere a determinare la volontà generale. E l’effetto “piazza pulita” fa maggiormente impressione se il soggetto collettivo, in più fragoroso allontanamento da una concezione attiva della politica, è proprio l’antica “maglia rosa” nazionale del civismo: l’Emilia Romagna appassionata e socialdemocratica. Il nostro premier può farsi scrivere dal ghost-writer di fiducia tutti i temini che vuole sulla sua presunta natura di sinistra, può precettare la Gioconda Boschi allo sbandieramento dell’essenza newdealistica ed egualitaria del Jobs Act (ma perché questi anglicismi, visto che il Renzi si incarta quando bazzica l’anglofonia? Lo chiami Asfaltalavoro così ci capiamo meglio). Renzi può raccontarcela come vuole, anche se la gag mostra ormai la corda.
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Morto il lavoro, c’è solo la paura: nessuno è al sicuro
Era uno dei principali obiettivi sin dall’inizio, e ci sono arrivati. Forse un po’ in ritardo rispetto ai tempi che si erano prefissati, ma ci sono arrivati. Chi ha capito il progetto dell’Unione Europea sa che le riforme del mercato del lavoro rappresentano lo strumento per ampliare la massa dei precari disposti a tutto e che, seppure con salari bassi e privi di risparmi, saranno costretti a comprare quei servizi essenziali (sanità, acqua, educazione) che nel frattempo verranno privatizzati. Noi tutti lo abbiamo capito da tempo, forse ora anche il sindacato? In realtà anche il sindacato lo aveva capito da tempo, solo che ora gli è impossibile girare la testa dall’altra parte. In diversi lavori la Mmt ha spiegato perché la linea di intervento “per superare la crisi bisogna lavorare sul lato dell’offerta” è sbagliata, perché il presupposto “per crescere, uno Stato deve avere i conti a posto” è in realtà una superstizione e perché il modello export-oriented a cui tende l’Ue è folle.Le riforme del mercato del lavoro hanno un impatto negativo sulla dinamica occupazionale ma anche un effetto disastroso da un punto di vista psicologico sul sentimento del lavoro di chi continuerà a lavorare. Chi come me viene dalle scienze sociali sta assistendo a uno stravolgimento tale che potremmo anche chiamarlo la cancellazione del sentimento e della cultura del lavoro. È come una malattia e si manifesta tramite una serie di sintomi. La destabilizzazione: il continuo dibattito sul mercato del lavoro serve a veicolare il messaggio “nessuno si senta più al sicuro”; in questo senso l’abolizione dell’articolo 18 è simbolico per l’Ue, nel senso che è il simbolo giusto tramite cui mandare questo messaggio. La fine dei valori del lavoro: cioè quel valore personale che una lavoratore cerca nel lavoro e che è alla base della sua soddisfazione (sentirsi utile oppure fare carriera o lavorare in un bell’ambiente). La cultura dell’austerità cancella la scelta e il desiderio nel lavoro: «E’ già tanto se lo hai, un lavoro», ti viene detto, «non puoi pretendere che sia il lavoro che vorresti».Per chi si ostina ad avere questo desiderio (meglio definito come “pretesa”) è prevista la fustigazione; per chi non ha più questa pretesa è prevista la frustrazione. La morte bianca dell’utilità del lavoro: è stato ucciso l’orgoglio del fare un lavoro utile che proviene anche dal fatto che gli altri lo riconoscano come un lavoro utile (produzione, insegnamento, il lavoro delle forze dell’ordine) che poi era l’essenza del “mestiere”. Ma per lo Stato, sotto scacco dei mercati finanziari, garantire un lavoro non è più una priorità, figurarsi se si pone il problema di far fare cose utili alla collettività, tanto il Pil è dato anche dalle attività illecite. Con la riforma degli ammortizzatori sociali, quei lavoratori in cassa integrazione prima orgogliosi di aver fatto il Pil della nazione saranno costretti ad accettare il primo lavoro utile proposto dalle agenzie di collocamento, cioè il primo che ti viene offerto, pena la fine del sussidio.Vedere oggi questo discorso di Roosevelt che parla del diritto delle persone ad avere un lavoro utile è come assistere a un documentario sul pianeta Marte. In un contesto in cui aumentano le famiglie povere, difendere il diritto a esprimersi tramite il lavoro, per le proprie capacità e aspirazioni, è etichettato dalla “cultura della scarsità” come un’assurda pretesa. Ma, a ben guardare, così si sta demolendo un altro pezzo della civiltà europea, quella della cultura del lavoro. L’austerità si porta dietro l’azzeramento della soggettività al lavoro, cioè quel mondo di sentimenti e di relazioni che rendevano il lavoro una parte importante della vita delle persone (le relazioni con gli altri, le aspettative, le gratificazioni e delusioni). Vale solo quanto sei disposto a fare un lavoro per un costo minore degli altri, a prescindere da quello che sei. E allora, scienziati sociali, psicologi del lavoro, sociologi, e così via: è o non è anche nostra la battaglia contro l’austerità?(Deanna Pala, “Senza lavoro sei disperato, ma non pensare che con un lavoro sarai tanto allegro”, da “Rete Mmt” del 22 settembre 2014).Era uno dei principali obiettivi sin dall’inizio, e ci sono arrivati. Forse un po’ in ritardo rispetto ai tempi che si erano prefissati, ma ci sono arrivati. Chi ha capito il progetto dell’Unione Europea sa che le riforme del mercato del lavoro rappresentano lo strumento per ampliare la massa dei precari disposti a tutto e che, seppure con salari bassi e privi di risparmi, saranno costretti a comprare quei servizi essenziali (sanità, acqua, educazione) che nel frattempo verranno privatizzati. Noi tutti lo abbiamo capito da tempo, forse ora anche il sindacato? In realtà anche il sindacato lo aveva capito da tempo, solo che ora gli è impossibile girare la testa dall’altra parte. In diversi lavori la Mmt ha spiegato perché la linea di intervento “per superare la crisi bisogna lavorare sul lato dell’offerta” è sbagliata, perché il presupposto “per crescere, uno Stato deve avere i conti a posto” è in realtà una superstizione e perché il modello export-oriented a cui tende l’Ue è folle.