Archivio del Tag ‘frutta’
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Salva-banche, risparmiatori traditi e rovinati: oltre 2 miliardi
Il governo salva le banche, lasciando che siano rovinati i risparmiatori. Una truffa: oltre 2 miliardi di euro di risparmi azzerati, di colpo, senza preavviso. «Siamo tantissimi, siamo la nuova Parmalat», protestano rivolgendosi a “Repubblica”, che presenta un vasto reportage effettuato da Maurizio Bolognini e Laura Montanari. Parlano gli italiani rovinati del decreto salva-banche varato in sordina, una domenica pomeriggio, dal governo Renzi: «Siamo la macelleria sociale, quelli che è stato facile ingannare». Pensionati, casalinghe, operai, impiegati, piccoli risparmiatori, gente distante anni luce dalle alchimie finanziarie o dalle acrobazie azionarie. Quelli che si presentano allo sportello e dicono: «Ho da parte questi soldi, cosa mi consiglia?». Cercavano investimenti sicuri, e sono finiti «nella roulette russa delle azioni volatili, dei bond subordinati al veleno». Come Mario, pensionato di Empoli: «Ho perso trentamila euro, la metà dei risparmi di una vita. All’Etruria mi hanno fatto vedere un foglio, dei miei soldi non resta niente». I casi come il suo rimbalzano da Chieti a Terni, da Pescara a Ferrara, da Grosseto ad Arezzo.Il fulmine è caduto dalla Banca Etruria alla Banca Marche, dalla Cassa di Risparmio di Chieti alla Cassa di Risparmio di Ferrara. «Dai posti insomma in cui ci si fida», dove l’impiegato di banca «si trasforma in una specie di consulente finanziario». Per la prima volta, in Italia, spiega “Repubblica”, quattro banche (Carife, CariChieti, Banca Etruria e Banca Marche) sono state “risolte” con un meccanismo che anticipa in parte il bail-in (salvataggio interno) che entrerà in vigore dal 1° gennaio prossimo e in parte ricorre al vecchio bail-out (salvataggio esterno), già andato in scena durante la crisi finanziaria, ma questa volta senza prevedere l’iniezione diretta di soldi pubblici nel capitale delle banche in difficoltà. Il primo aspetto è quello che coinvolge direttamente i risparmiatori. Nel decreto di salvataggio si prevede che le azioni e le obbligazioni subordinate delle “vecchie” banche siano interamente svalutate: «Sono diventati pezzi di carta. E rappresentano quindi una perdita al 100% per chi le ha sottoscritte». Moody’s parla di 2 miliardi di euro di azioni azzerate, più 788 milioni di euro in “obbligazioni subordinate”. «Sono strumenti che, in caso di difficoltà dell’emittente, prevedono il rimborso del capitale solo “in subordine” rispetto ad altri titoli, cioè le obbligazioni “senior”, che hanno un grado di protezione maggiore».Il problema che emerge dalle testimonianze raccolte, scrive sempre “Repubblica”, è che ben pochi dei sottoscrittori di queste obbligazioni erano a conoscenza del rischio al quale andavano incontro. Dopo che azioni e obbligazioni hanno assorbito le perdite, i crediti in sofferenza (cioè morosi) delle vecchie banche sono stati svalutati: da 8,5 miliardi, il loro valore è stato abbattuto a 1,5 miliardi (il 17% circa del valore originario, un dato di gran lunga inferiore al valore medio di copertura delle “sofferenze” in Italia). Sono poi stati trasferiti in una bad bank, una “banca cattiva” che non ha la licenza per l’attività tradizionale: è una scatola per le “sofferenze”, per venderle a operatori specializzati, sperando di recuperare i denari in gioco. Gli altri attivi delle vecchie banche, cioè le parti “buone”, sono finiti in quattro nuove entità, dotate di un capitale necessario per operare, in vista della loro cessione. Le risorse necessarie a queste operazioni, circa 3,6 miliardi, sono arrivate dal sistema bancario attraverso un Fondo di risoluzione, al quale torneranno i proventi della vendita dei crediti in sofferenza e delle banche risanate.Per questo, continua “Repubblica”, alcuni parlano ancora di bail-out, salvataggio da fuori, ma senza soldi diretti dei contribuenti (come era invece accaduto in alcuni paesi, durante la crisi, quando gli Stati avevano messo direttamente capitali nelle banche in crisi). La Commissione Ue ha accertato comunque che ci sono aiuti di Stato, ma in una misura tale da non generare una distorsione del mercato e quindi ha dato il via libera all’operazione. Per di più, su una parte di quei fondi (1,65 miliardi di finanziamento delle maggiori banche), c’è una garanzia della Cdp che scatterà se il Fondo di risoluzione non sarà capiente per rimborsare quella linea di credito, alla scadenza tra un anno e mezzo. «La morale della vicenda è tirata da un report di Moody’s: è la prima volta che gli obbligazionisti subordinati subiscono un azzeramento del loro capitale, in queste proporzioni, per l’Italia». Visto che molti investitori erano piccoli e privati, ciò potrà accrescere la consapevolezza della rischiosità dei meccanismi di risoluzione per gli obbligazionisti, irrigidendo ulteriormente la vendita di bond attraverso la rete di filiali a vantaggio dei depositi, maggiormente garantiti.«Una lezione amara, che in molti sperimentano sulla pelle. Senza considerare, poi, che dal 2016 il meccanismo del “salvataggio interno” si dispiegherà in tutta la sua forma, colpendo potenzialmente anche altri soggetti interessati alla banca». Se domani una banca in difficoltà non avrà un piano di risanamento ritenuto consono dall’autorità, la ristrutturazione peserà fino all’8% delle passività su, nell’ordine: azionisti, obbligazionisti “junior” (meno garantiti, i subordinati già chiamati a pagare con le quattro banche in questione), obbligazionisti “senior” e correntisti oltre i 100.000 euro. Se ancora ciò non fosse sufficiente, interverrà il Fondo unico di risoluzione per un ammontare fino al 5% della banca in crisi. Cosa significa questo? Uno studio recentemente commissionato dal Parlamento Europeo ha simulato cosa sarebbe accaduto se le regole del bail-in fossero state valide durante la crisi finanziaria tra il 2007 e il 2014. «Su un campione di 72 banche salvate, che hanno totalizzato perdite per 313 miliardi, 153 miliardi sarebbero stati assorbiti con i fondi propri e il coinvolgimento dei creditori. Nei fatti, il bail-out andato in scena ha spalmato su tutti i cittadini, attraverso l’intervento dello Stato che usa i soldi dell’erario, il costo degli errori di manager e stakeholder».Il reportage di “Repubblica” è un viaggio nel dolore e nella rabbia: «Siamo le vittime di quel decreto», racconta Roberta Gaini, 50 anni, toscana, impiegata in una ditta chimica: «Non riesco più a dormire da giorni. Mi hanno preso i soldi che mi aveva lasciato mio padre, ho perso 62.000 euro in obbligazioni subordinate, 20.000 li ha persi mia madre e diecimila mia sorella. Come la chiamiamo se non una truffa?». Rabbia, sconforto e sospetti per migliaia di risparmiatori delle quattro banche “salvate” dal governo con un conto che pagano – e salato – loro. Silvia Trovò abita a Voghiera, in provincia di Ferrara, ha un’azienda agricola che produce frutta e seminativi: «Dal venerdì alla domenica del 22 novembre per noi è cambiato tutto, abbiamo perso 26.000 euro in obbligazioni subordinate e azioni della CariFerrara. Erano i soldi che mio padre, anche lui agricoltore, ci aveva lasciato: non può capire il dispiacere e la rabbia». Storie strazianti, come quella di Francesca, da Civitavecchia: «Mio padre, correntista Banca Etruria da 40 anni, invalido al 100% e cardiopatico cronico, aveva affidato i suoi risparmi di una vita da operaio (40.000 euro) all’istituto di credito succitato, in virtù di un rapporto di estrema fiducia».Nessuno, racconta Francesca, l’aveva avvisato dei rischi che correva con le obbligazioni subordinate: «Lui era tranquillo, si fidava ciecamente del dipendente che gliele aveva proposte, pur avendo un profilo di rischio basso (secondo la Mifid). In un momento lui si è visto azzerare i suoi risparmi, che gli servono per curarsi». E aggiunge: «Sono una dei tanti disperati, una vittima della macelleria socio-umana di questo governo, della gestione dissennata dei dirigenti di Banca Etruria. E non so come comunicarlo a mio padre, perché potrebbe verificarsi un serio attentato alla sua fragile salute, oltre al danno finanziario subito». E tutto grazie a quel decreto, «emanato in un pomeriggio domenicale di novembre, in sordina, artatamente pianificato», che ha ridotto sul lastrico centomila o forse duecentomila risparmiatori italiani.Il governo salva le banche, lasciando che siano rovinati i risparmiatori. Una truffa: oltre 2 miliardi di euro di risparmi azzerati, di colpo, senza preavviso. «Siamo tantissimi, siamo la nuova Parmalat», protestano rivolgendosi a “Repubblica”, che presenta un vasto reportage effettuato da Maurizio Bolognini e Laura Montanari. Parlano gli italiani rovinati del decreto salva-banche varato in sordina, una domenica pomeriggio, dal governo Renzi: «Siamo la macelleria sociale, quelli che è stato facile ingannare». Pensionati, casalinghe, operai, impiegati, piccoli risparmiatori, gente distante anni luce dalle alchimie finanziarie o dalle acrobazie azionarie. Quelli che si presentano allo sportello e dicono: «Ho da parte questi soldi, cosa mi consiglia?». Cercavano investimenti sicuri, e sono finiti «nella roulette russa delle azioni volatili, dei bond subordinati al veleno». Come Mario, pensionato di Empoli: «Ho perso trentamila euro, la metà dei risparmi di una vita. All’Etruria mi hanno fatto vedere un foglio, dei miei soldi non resta niente». I casi come il suo rimbalzano da Chieti a Terni, da Pescara a Ferrara, da Grosseto ad Arezzo.
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La nutrizionista: scordatevi la carne, se volete star bene
Il report dell’Oms conferma quanto già era noto dal 2007, e cioè che il consumo di carne favorisce il cancro. Già otto anni fa, infatti, il Fondo mondiale per la ricerca sul cancro affermava che l’aumento del rischio del cancro al colon-retto era riconducibile al consumo di carni rosse e trasformate. E le indicazioni di abolire, eliminare, limitare erano già chiare da allora: “Limitare il consumo di carni rosse ed evitare il consumo di carni trasformate”. Certo è che ogni medico, specialista, nutrizionista può sostenere quello che vuole, ma queste raccomandazioni sono molto chiare e lo erano da tempo. Per esempio: fumare una sigaretta fa bene o male? C’è chi sosterrà che dieci sigarette fanno più male che una ma non per questo una sigaretta non fa male. Lo stesso vale per le carni trasformate, quelle non trasformate e per molti altri cibi. Bisogna stare attenti a tutti i cibi di origine animale: al latte; ai formaggi, soprattutto se stagionati; alle uova, correlate al rischio di tumore al seno, alle ovaie e alla prostata; al pesce, che comunque è carne ed è uno degli alimenti più inquinati di metalli pesanti come mercurio e piombo, ricchissimo di grassi saturi e colesterolo e, nel caso di pesce di allevamento, ricco di antibiotici promotori della crescita.E poi grande attenzione alla carne tutta in generale e, soprattutto, ai salumi. I cibi di origine animale fanno male e ormai di evidenze scientifiche a confermarlo ce ne sono in abbondanza. Poi che ci siano in ballo altri interessi è fuori discussione: quelli dell’industria della carne, ovviamente, che si è affrettata fin da subito a negare persino l’evidenza proveniente dall’Oms, ma anche quelli dell’economia italiana, del mercato, delle case farmaceutiche. Non si può lasciare che queste informazioni spaventino la popolazione, perché l’unico rischio che sta a cuore a certi settori è quello che calino i consumi, non certo quello per la salute umana. Per questo sia io che la Società Scientifica di Nutrizione Vegetariana che molti colleghi esortiamo tutti i consumatori a informarsi per non assistere impotenti a questa nuova mistificazione, che vede ancora la salute sottomessa al profitto, esattamente come già accaduto per il fumo di sigaretta. Ci dicevano che bastava fumarla con il filtro, proprio come ci dicono che basta consumare carne italiana, e stare tranquilli… come se potesse fare differenza il dove la carne è prodotta.E’ imperativo non fidarsi delle rassicurazioni dei produttori, visto il loro palese conflitto di interessi, e occuparsi invece in prima persona della propria salute. Il problema non è la carne in sé ma il metodo di lavorazione? La cosa vera è che l’Europa e l’Italia sulla carne hanno controlli più stretti, più precisi e più efficaci. Per questo siamo maggiormente tutelati. Ma ciò non significa che, in Italia come altrove, la carne non sviluppi sostanze cancerogene dannose e, soprattutto, non significa che la frequenza di consumo, più che la provenienza, non siano incisive. E poi sfido qualsiasi consumatore di carne a vedere con certezza da dove la carne è arrivata, dove è stata prodotta o lavorata… C’è tantissima ignoranza, disinteresse e disinformazione in merito. Interessi economici, gola e abitudini alimentari scorrette delle persone credo che siano i fattori maggiori. Sicuramente la non voglia di prendere coscienza, di cambiare per se stessi, per la propria salute ma anche per la tutela degli animali e del pianeta. L’industria della carne e dei derivati è uno dei maggiori inquinanti in ambito ambientale.In tanti sostengono che è normale, invece, che sia così. Che l’uomo è da sempre onnivoro e che i nostri nonni sono arrivati a novant’anni grazie a questa alimentazione. Rispondo che non è assolutamente così. L’uomo nasce frugivoro, non onnivoro. Nasce raccoglitore di frutta, bacche, radici, ortaggi. La carne la mangiava quando riusciva a raggiungere, catturare e uccidere un animale. Quindi sicuramente non spesso e comunque con un grande dispendio calorico. Anche i nostri nonni mangiavano carne molto raramente e quella che mangiavano non era di certo prodotta come al giorno d’oggi. Un tempo l’animale era libero, si cibava di alimenti sani, non era costretto a vivere in allevamenti intensivi, a cibarsi artificialmente e ad essere imbottito di sostanze chimiche. Dopo la notizia dell’Oms cambierà qualcosa?Di certo questi dati hanno dato una bella scoccata all’industria della carne. Sempre più persone oggi, vuoi per paura o per maggiore consapevolezza, stanno iniziando a informarsi. Sempre più gente decide ogni giorno di intraprendere una dieta a base vegetale perché più sana, meno costosa, più etica o perché meno dannosa per l’ambiente. Ormai, per fortuna, i prodotti vegani sono ovunque e anche la ristorazione tradizionale si sta adeguando: stiamo facendo passi da gigante. Sono totalmente convinta che l’alimentazione del futuro sia quella a base vegetale. L’unica alimentazione in grado di migliorare lo stato di salute delle persone, del pianeta e degli animali è quella vegana.(Michela De Petris, dichiarazioni rilasciate a Elena Tioli per l’intervista “L’unico futuro possibile è quello senza carne”, pubblicata da “Il Cambiamento” il 13 novembre 2015. La dottoressa De Petris, specializzata nell’alimentazione terapeutica in oncologia, è membro della Società Scientifica di Nutrizione Vegetariana e dell’Icea, Istituto per la Certificazione Etica e Ambientale. Già ricercatrice in studi di intervento alimentare presso l’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, è stata docente di nutrizione clinica in diversi corsi in Lombardia).Il report dell’Oms conferma quanto già era noto dal 2007, e cioè che il consumo di carne favorisce il cancro. Già otto anni fa, infatti, il Fondo mondiale per la ricerca sul cancro affermava che l’aumento del rischio del cancro al colon-retto era riconducibile al consumo di carni rosse e trasformate. E le indicazioni di abolire, eliminare, limitare erano già chiare da allora: “Limitare il consumo di carni rosse ed evitare il consumo di carni trasformate”. Certo è che ogni medico, specialista, nutrizionista può sostenere quello che vuole, ma queste raccomandazioni sono molto chiare e lo erano da tempo. Per esempio: fumare una sigaretta fa bene o male? C’è chi sosterrà che dieci sigarette fanno più male che una ma non per questo una sigaretta non fa male. Lo stesso vale per le carni trasformate, quelle non trasformate e per molti altri cibi. Bisogna stare attenti a tutti i cibi di origine animale: al latte; ai formaggi, soprattutto se stagionati; alle uova, correlate al rischio di tumore al seno, alle ovaie e alla prostata; al pesce, che comunque è carne ed è uno degli alimenti più inquinati di metalli pesanti come mercurio e piombo, ricchissimo di grassi saturi e colesterolo e, nel caso di pesce di allevamento, ricco di antibiotici promotori della crescita.
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Carne e cancro, di colpo l’ovvio fa notizia e dilaga sui media
L’oncologia – che considera il cancro un “male incurabile” – continua a somministrare dosi letali di chemioterapia, trascurando l’alimentazione dei pazienti? Normale, in un paese in cui si grida persino alla “truffa delle cure alternative”, canzonando chi ricorre (in genere, con ottimi risultati) a una dieta priva di proteine animali. Scontata, dunque, la bufera scatenata dalla “scoperta dell’acqua calda”, ufficializzata nientemeno che dall’Iarc, la branca dell’Oms che si occupa di ricerca sul cancro. Un rapporto redatto sulla base di oltre 800 studi precedenti sul legame tra alimetazione e tumore conferma quello che i terapeuti “alternativi” hanno sempre saputo: è pericoloso per la salute consumare carne, in particolare carni rosse (maiale e manzo, vitello, agnello, pecora, cavallo e capra). Peggio ancora gli insaccati e le carni grigliate. «La cosa tragicomica – afferma Paolo Franceschetti, autore di un blog sulle cure alternative contro il cancro – è che tuttora, negli ospedali, ai pazienti oncologici in trattamento vengono tranquillamente somministrate merendine confezionate e fette di prosciutto».Ora fa molto rumore lo studio dell’Oms, secondo cui, per ogni porzione di 50 grammi di carne al giorno, il rischio di cancro del colon-retto aumenta del 18%, così come per i tumori al pancreas e alla prostata. Nel mirino in particolare le “carni lavorate”, come i wurstel, equiparati – come sostanze cancerogene – a fumo, amianto, arsenico e benzene. Sotto accusa, secondo i tecnici Onu, la trasformazione “attraverso processi di salatura, polimerizzazione, fermentazione, affumicatura”, oppure le carni “sottoposte ad altri processi per aumentare il sapore o migliorare la conservazione”. Massima prudenza, avverte l’Oms, con gli hot dog, prosciutti e salsicce, nonché la carne in scatola e le salse a base di carne. Il rischio di sviluppare cancro all’intestino a causa del consumo di carne “processata” aumenta in proporzione al quantitativo consumato, avverte il dottor Kurt Straif, capo dello Iarc Monographs Programme. Il più celebre oncologo italiano, il professor Umberto Veronesi, da decenni ha deciso di rinunciare alla carne: «Il mio consiglio da vegetariano – dice – è quello di eliminare del tutto il consumo di carne».Veronesi saluta come «un grande passo avanti» la “scoperta” della relazione fra alimentazione e tumori: «L’identificazione certa di una nuova sostanza come fattore cancerogeno è sempre e comunque una buona notizia in sé, perchè aggiunge conoscenza e migliora la prevenzione». La raccomandazione per un regime alimentare “vegano” non è però presente nel protocollo ufficiale anti-cancro del ministero della sanità italiano, la cui attuale titolare, Beatrice Lorenzin, ora si limita a consigliare, in generale, la “dieta mediterranea”. Secondo le statistiche, il 9% degli italiani mangia carne rossa o insaccati tutti i giorni, e il 56% 3-4 volte a settimana. Il tumore più diffuso in Italia è proprio quello al colon-retto, con quasi 55.000 diagnosi nel 2013. Salumi a parte, se sotto accusa sono le carni grigliate (che sviluppano idrocarburi) sono gli statunitensi, seguiti da australiani, francesi e tedeschi. In Italia ogni anno si calcola vengano consumate “solo” 24 milioni di grigliate all’anno.Il Codacons ha deciso di presentare un’istanza urgente al ministero della salute e un esposto al Pm di Torino Raffaele Guariniello, affinché siano valutate misure a tutela della salute. «L’Oms non lascia spazio a dubbi», sostiene il presidente, Carlo Rienzi. «Il principio di precauzione impone in questi casi l’adozione di misure anche drastiche», compresa eventualmente «la sospensione della vendita per quei prodotti che l’Oms certifica come cancerogeni». Per i produttori di carne, la tempesta mediatica può trasformarsi in catastrofe commerciale: secondo la Coldiretti, le carni italiane sono più sane perché magre, non trattate con ormoni e ottenute nel rispetto di rigidi disciplinari di produzione. «Hot dog, bacon e affumicati non fanno parte della tradizione italiana», sottolinea l’associazione degli agricoltori. Inoltre, da noi il consumo di carne (78 chili a testa) è molto al di sotto di quelli di paesi come gli Usa (125 chili a persona) o l’Australia (120 chili), ma anche dei cugini francesi (87 chili). Secondo Assocarni e Assica, l’associazione dei salumifici industriali, gli italiani mangiano in media due volte la settimana 100 grammi di carne rossa e solo 25 grammi al giorno di carne trasformata. «Un consumo che è meno della metà dei quantitativi individuati come potenzialmente a rischio cancerogeno».Carne e cancro? Anna Villarini, nutrizionista dell’Istituto Nazionale dei Tumori, non si scompone: «Lo sapevamo già dal 2007, ma c’erano studi precedenti: le carni conservate sono associate a tumore dello stomaco, sia per la presenza di conservanti che vengono aggiunti che si trasformano in cancerogeni all’interno dello stomaco, sia per la presenza eccessiva di sale che è un fattore di rischio». E aggiunge: «Le carni rosse, oltre che per la cottura, sono di per sé un fattore di rischio per il tumore del colon. Dovrebbero essere consumate veramente poco, e invece sono entrate in maniera preponderante sulle nostre tavole». Dieta alternativa per chi ha il cancro? Zero carne: solo frutta, verdura e cereali. Se ne occupa anche la “medicina oncologica integrata”, spiega il dottor Massimo Bonucci a “Panorana”. E ormai è una realtà in molti paesi, dove esistono persino ospedali con reparti interamente dedicati all’alimentazione anti-cancro.«A livello internazione la medicina integrata è una realtà», spiega il medico. «Negli Stati Uniti ci sono ben 52 università dove viene insegnata». Una strada «ormai percorsa e riconosciuta, così come in Giappone: l’efficacia di molte sostanze è avvalorata non solo da studi scientifici, ma anche da “trial” clinici molto importanti». All’estero, aggiunge Bonucci, la possibilità di avere benefici da un’alimentazione mirata (e da sostanze naturali) nella cura delle patologie oncologiche «non è messa in dubbio». Si parla di curcuma, artemisia e altre essenze, dotate di potenti principi attivi. Un guru della nutrizione “integralista” come Valdo Vaccaro raccomanda di consumare solo frutta e verdura, in caso di insorgenza tumorale. Ma negli ospedali italiani l’aspetto alimentare (fonte primaria del problema, a quanto pare) è completamente trascurato. Ai malati vengono somministrate chemioterapia e radioterapia. E magari una bella fetta di prosciutto.L’oncologia – che considera il cancro un “male incurabile” – continua a somministrare dosi letali di chemioterapia, trascurando l’alimentazione dei pazienti? Normale, in un paese in cui si grida persino alla “truffa delle cure alternative”, canzonando chi ricorre (in genere, con ottimi risultati) a una dieta priva di proteine animali. Scontata, dunque, la bufera scatenata dalla “scoperta dell’acqua calda”, ufficializzata nientemeno che dall’Iarc, la branca dell’Oms che si occupa di ricerca sul cancro. Un rapporto redatto sulla base di oltre 800 studi precedenti sul legame tra alimentazione e tumore conferma quello che i terapeuti “alternativi” hanno sempre saputo: è pericoloso per la salute consumare carne, in particolare carni rosse (maiale e manzo, vitello, agnello, pecora, cavallo e capra). Peggio ancora gli insaccati e le carni grigliate. «La cosa tragicomica – afferma Paolo Franceschetti, autore di un blog sulle cure alternative contro il cancro – è che tuttora, negli ospedali, ai pazienti oncologici in trattamento vengono tranquillamente somministrate merendine confezionate e fette di prosciutto».
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La super-banana di Bill Gates, che finge di aiutare l’Africa
L’ultima invenzione della Fondazione Bill e Belinda Gates è stata l’investimento di 15 milioni di dollari nello sviluppo di una banana transgenica con alto contenuto di vitamina A, vitamina E e ferro, con l’obiettivo di lottare contro la denutrizione in paesi africani come Uganda, Kenia, Tanzania, Ruanda, Congo, soprattutto diretto alla popolazione infantile. Stimano che possa evitare la morte di più di 700.000 bambini e che possa evitare che altri 300.000 perdano la vista. Questa ricerca la sta sviluppando la Università Tecnologica del Queensland attraverso il lavoro diretto dal professor James Dale, ed è già in fase di prova con esseri umani. Spiegato in questo modo, chiunque potrebbe pensare che è una buona iniziativa filantropica contro la fame. Nonostante ciò, ricordo la conversazione con un amico che fece un viaggio in luna di miele girando l’Etiopia. Quando mi raccontava il viaggio al suo ritorno gli chiesi come aveva mangiato, dato che era stato in uno dei paesi con l’indice più basso di nutrizione al mondo. La sua risposta fu chiara: la carta Visa funzionava perfettamente.Non si tratta quindi di un deficit di vitamine e nutrienti che necessita urgentemente l’intervento di un angelo filantropico per aumentare la produzione di superalimenti. Si tratta di accesso al cibo. Si tratta di povertà e distribuzione della ricchezza. Però, oltre le discussioni teoriche, cosa pensano i contadini africani? Gli ugandesi, ad esempio, pensano che le loro banane autoctone sono perfette e che è secoli che le coltivano e si alimentano di esse. «Questa banana Ogm è un insulto al nostro cibo, alla nostra cultura, a noi come nazione, e la condanniamo fermamente», disse Bridget Mugambe, membro dell’Alleanza per la Sovranità Alimentare in Africa (Afsa). Questa settimana, la sua piattaforma si è unita a più di 120 organizzazioni di tutto il mondo con l’obiettivo di inviare una carta aperta condannando la Superbanana e la ricerca finanziata da Gates. Allora, se gli africani non l’hanno chiesto, qual’è l’interesse nello sviluppare questa coltivazione transgenica?Una risposta senza dubbio l’avremo nelle conlcusioni dello studio della organizzazione “Community Alliance for Global Justice”, che afferma che la Fondazione Bill e Belinda Gates è già proprietaria di 500.000 azioni della principale multinazionale di semi transgenici, la tristemente celebre Monsanto. Altri studi, oltre a ciò, indicano che l’obiettivo della coltivazione di queste banane non sarebbe l’Africa, ma sarebbe l’affidarsi a una licenza diretta ai mercati dei paesi del nord, dove la banana continua ad essere uno dei frutti tropicali più apprezzati e in aumento. Sia quale sia il consumatore finale, quello che sappiamo è che si tratta del piano che le grandi multinazionali della biotecnologia hanno stabilito per continuare l’espansione delle loro coltivazioni. Dopo il loro fallimento in Europa, ora il nuovo El Dorado si chiama Africa, e la scusa si chiama fame.(Javier Guzman, “La super-banana di Billa Gates”, da “Rebelion” del 18 dicembre 2014, tradotto da “Come Don Chisciotte”).L’ultima invenzione della Fondazione Bill e Belinda Gates è stata l’investimento di 15 milioni di dollari nello sviluppo di una banana transgenica con alto contenuto di vitamina A, vitamina E e ferro, con l’obiettivo di lottare contro la denutrizione in paesi africani come Uganda, Kenia, Tanzania, Ruanda, Congo, soprattutto diretto alla popolazione infantile. Stimano che possa evitare la morte di più di 700.000 bambini e che possa evitare che altri 300.000 perdano la vista. Questa ricerca la sta sviluppando la Università Tecnologica del Queensland attraverso il lavoro diretto dal professor James Dale, ed è già in fase di prova con esseri umani. Spiegato in questo modo, chiunque potrebbe pensare che è una buona iniziativa filantropica contro la fame. Nonostante ciò, ricordo la conversazione con un amico che fece un viaggio in luna di miele girando l’Etiopia. Quando mi raccontava il viaggio al suo ritorno gli chiesi come aveva mangiato, dato che era stato in uno dei paesi con l’indice più basso di nutrizione al mondo. La sua risposta fu chiara: la carta Visa funzionava perfettamente.
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Russian Compact, addio export: l’Italia perde 300 milioni
È forte la preoccupazione tra gli imprenditori italiani dell’agroalimentare dopo il blocco delle importazioni annunciato dalla Russia: le sanzioni di Mosca costeranno almeno 100 milioni di euro per il 2014, e più del doppio – circa 220 milioni – nel 2015, colpendo duramente un comparto che nell’export verso la Russia vale oltre 700 milioni di euro. Un embargo totale su carne di manzo, suina e avicola, frutta e verdura, latte e formaggi provenienti dai paesi dell’Unione Europea, ma anche da Stati Uniti, Canada, Australia e Norvegia. Durerà un anno il divieto di importazione disposto dalla Russia in risposta alle sanzioni contro Mosca adottate da Stati Uniti e Unione Europea, spiega Adolfo Marino di “Pandora Tv” in un post ripreso da “Megachip”. «La via delle sanzioni è un vicolo cieco», sostiene il premier russo Dmitrij Medvedev, «ma la Russia è stata costretta a reagire». Stando ai calcoli del “Sole 24 Ore”, in un’economia in recessione come quella italiana le tensioni con la Russia bastano da sole a mettere in ginocchio l’export e il Pil.Le imprese italiane temono «una duplice, pesante ricaduta in un settore già in difficoltà come l’agroalimentare», perché lo stop di Mosca «apre la porta a forniture da Bielorussia, Argentina e Brasile, con la perdita di quote di mercato che l’Italia difficilmente potrà riconquistare». Inoltre, con l’embargo russo, «la produzione ortofrutticola di Grecia e Spagna si scaricherà sull’Europa con effetti drammatici», sottolinea il presidente di Confcooperative, Maurizio Gardini. «L’impressione – scrive Marino – è che la portata della crisi ucraina sia stata molto sottovalutata: le recenti tensioni internazionali rimettono in questione l’Europa nel suo complesso, che dovrà adesso pensare a una politica che superi la ricetta tedesca del rigore». Ovvero: «Non sarà più possibile continuare a mortificare i consumi interni, coltivando l’illusione di una crescita basata sulle esportazioni».Proprio sulla compressione della domanda interna, attraverso il blocco decennale dei salari, si è basato il super-export tedesco di questi anni, agevolato dall’avvento dell’euro e dai conti pubblici “a doppio fondo” della Germania, che attraverso un ente di credito come la Kfw trasferisce denaro al sistema privato: in pratica, “spesa pubblica fantasma” che la Germania effettua sottobanco, aggirando la rigida normativa di Bruxelles. E’ la stessa Germania che poi impone agli altri paesi europei il massimo del rigore, fino alla super-stangata del “Fiscal Compact”. Ora, avverte Marino, che il rischio concreto che ad esso si aggiunga «un altrettanto disastroso “Russian Compact”», col taglio delle esportazioni verso Mosca. Per la prima volta, attraverso la crisi esplosa in Ucraina, si incrociano in modo drammaticamente evidente le due linee di frattura che stanno mettendo in ginocchio la nostra economia: da un lato la pretesa neoliberista di azzoppare lo Stato sovrano come soggetto economico, fondamentale partner di imprese e famiglie, e dall’altro il precipitare della crisi geopolitica accelerata dal declino Usa: molti osservatori internazionali denunciano il pericolo che Washington forzi lo scontro con Mosca per sfuggire alla contabilità della recessione attraverso la peggiore delle scorciatoie, la guerra.È forte la preoccupazione tra gli imprenditori italiani dell’agroalimentare dopo il blocco delle importazioni annunciato dalla Russia: le sanzioni di Mosca costeranno almeno 100 milioni di euro per il 2014, e più del doppio – circa 220 milioni – nel 2015, colpendo duramente un comparto che nell’export verso la Russia vale oltre 700 milioni di euro. Un embargo totale su carne di manzo, suina e avicola, frutta e verdura, latte e formaggi provenienti dai paesi dell’Unione Europea, ma anche da Stati Uniti, Canada, Australia e Norvegia. Durerà un anno il divieto di importazione disposto dalla Russia in risposta alle sanzioni contro Mosca adottate da Stati Uniti e Unione Europea, spiega Adolfo Marino di “Pandora Tv” in un post ripreso da “Megachip”. «La via delle sanzioni è un vicolo cieco», sostiene il premier russo Dmitrij Medvedev, «ma la Russia è stata costretta a reagire». Stando ai calcoli del “Sole 24 Ore”, in un’economia in recessione come quella italiana le tensioni con la Russia bastano da sole a mettere in ginocchio l’export e il Pil.
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Da Hitler a Bush, dietro la guerra c’è sempre una banca
I banchieri? Sempre stati in costante comunicazione con la Casa Bianca. Non solo riguardo a temi finanziari e di politica economica, ma anche per argomenti molto meno tecnici: prima la Grande Guerra, poi la Seconda Guerra Mondiale, quindi la Guerra Fredda. Scenari esaminati «in termini di piani di espansione politica dell’America come superpotenza mondiale, alimentata dalla sua crescita finanziaria attraverso lo sviluppo della sua comunità bancaria». Parola di Nomi Prins, analista internazionale alla Bear Stearns di Londra e già amministratore delegato della Goldman Sachs. In altre parole: dietro a ogni conflitto c’è sempre una banca, rileva il “Washington’s Blog”. O meglio: c’è la grande famiglia (mondiale, ormai) delle banche, la “comunità bancaria”. Che traffica con la politica, detta le regole, incassa miliardi. E, nel caso, si attrezza per quello che da sempre è il miglior affare in assoluto: la guerra. Anche se il “socio” si chiama Hitler, e il collega americano Bush.Tutto inizia alla vigilia del primo conflitto mondiale, quando la Banca Morgan spinge il neutralista Woodrow Wilson a spedire le truppe in Europa. La Morgan era la più potente banca del tempo, ricorda il blog statunitense, ripreso da “Come Don Chisciotte”, e aveva raccolto oltre il 75% dei finanziamenti per le forze alleate. Voglia di guerra, non importa su che fronte: la National City Bank, che pure lavorava a fianco della Morgan nel rifornire inglesi e francesi, «non si faceva problemi a lavorare anche per finanziare alcune cose sul fronte tedesco, come anche fece la Chase». Molti anni dopo, sotto Eisenhower, il business era quello del sostegno ai paesi considerati a rischio-comunismo. «Quello che fecero i banchieri fu l’insediamento di presidi in zone come Cuba e Beirut in Libano per stabilire roccaforti statunitensi nella Guerra Fredda contro l’Unione Sovietica: e fu così che finanza e politica estera iniziarono a essere molto ben allineate». Poi, negli anni ’70, sempre i banchieri «scoprirono il petrolio, facendo uno sforzo immane per attivare nuove relazioni in Medio Oriente». In Arabia Saudita «ottennero l’accesso ai petrodollari per poi riciclarli in debiti dell’America Latina e altre forme di prestiti nel resto del mondo», in accordo col governo americano.«La Jp Morgan, inoltre, aveva acquisito il controllo dei 25 principali quotidiani americani». Obiettivo: «Propagandare l’opinione pubblica statunitense pilotandola in favore dell’entrata degli Stati Uniti nella Prima Guerra Mondiale», scrive il “Washington’s Blog”. «E possiamo dirlo: molte grandi banche hanno realmente finanziato i nazisti». Nel 1998, la Bbc riportò la seguente notizia: «La Barclays Bank ha accettato di pagare 3,6 milioni di dollari a favore degli ebrei i cui beni erano stati sequestrati dai rami francesi della banca britannica durante la seconda guerra mondiale». Anche la Chase Manhattan Bank «ha ammesso di aver sequestrato», sempre durante il secondo conflitto mondiale, circa 100 conti intestati ad ebrei nella sua filiale di Parigi. «A quanto pare – scrive “Newsweek” citando il “New York Daily News” – i rapporti tra la Chase e i nazisti erano piuttosto amichevoli, a tal punto che Carlos Niedermann, capo della filiale Chase di Parigi, scrisse al suo supervisore di Manhattan che la banca godeva “di molta stima presso i funzionari tedeschi” e vantava “una rapida crescita dei depositi”».La lettera di Niedermann – precisa il “Washington’s Blog” – fu scritta nel maggio del 1942, ovvero cinque mesi dopo che i giapponesi avevano bombardato Pearl Harbor e che gli Stati Uniti erano entrati in guerra contro la Germania. Una commissione governativa francese, rivela la Bbc, indagando sul sequestro dei conti bancari ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale ha riferito che erano coinvolte cinque banche americane: Chase Manhattan, Jp Morgan, Guaranty Trust Co. di New York, la Banca della città di New York e l’American Express». Secondo il “Guardian”, il senatore Prescott Bush (padre di George Bush e nonno di George W.), «era amministratore e socio in società che trassero largo profitto dal loro coinvolgimento nel finanziare la Germania nazista». La società di “nonno Bush”, aggiunge il “Guardian” sulla base di fonti d’archivio Usa, era «direttamente coinvolta con gli architetti finanziari del nazismo». E i suoi rapporti di affari continuarono fino a che il patrimonio della società fu sequestrato nel 1942 nell’ambito del “Trading with Enemy Act”, la legge americana che sequestrava i beni di chi aveva fatto affari col nemico in tempo di guerra.Alcune recenti ricostruzioni rivelano che attraverso la Bbh (Brown Brothers Harriman), Prescott Bush agì come supporto statunitense per l’industriale tedesco Fritz Thyssen, che contribuì a finanziare Hitler nel 1930 prima di cadere con lui alla fine del decennio. Il “Guardian” sostiene di poter provare che lo stesso Bush sia stato il direttore della Ubc, la Union Banking Corporation di New York, che rappresentava gli interessi di Thyssen negli Stati Uniti, e continuò a lavorare per la banca anche dopo che l’America entrò in guerra. L’Ubc era stata fondata da Harriman e dal suocero di Bush per mettere una banca statunitense al servizio dei Thyssen, la più potente famiglia di industriali della Germania.Alla fine del 1930, la Brown Brothers Harriman, che si considerava la più grande banca privata d’investimento del mondo, e la Ubc, avevano acquisito e trasferito milioni di dollari in oro, petrolio, acciaio, carbone e buoni del tesoro Usa alla Germania, alimentando e finanziando l’ascesa di Hitler fino alla guerra.«Tra il 1931 e il 1933 la Ubc acquisì più di 8 milioni di dollari in oro, di cui 3 milioni inviati all’estero». Anni dopo, la banca «fu colta in flagrante a gestire una società di comodo americana per la famiglia Thyssen otto mesi dopo che l’America era entrata in guerra, e si scoprì che era questa la banca che aveva finanziato in parte l’ascesa di Hitler al potere». Business is business, non importa da che parte si è schierati: «Il “San Francisco Chronicle” documentò che anche Rockefeller, Carnegie e Harriman finanziarono i programmi eugenetici nazisti». Dal “racket della guerra” ai tempi del nazismo, fino ai giorni nostri: «Le grandi banche hanno anche riciclato denaro sporco per i terroristi», aggiunge il “Washington’s Blog”, riferendo la “soffiata” di un bancario sulle operazioni di riciclaggio di denaro per terroristi e cartelli della droga: «La gente deve sapere che il denaro è tuttora convogliato attraverso la Hsbc direttamente verso chi compra le armi ed i proiettili che uccidono i nostri soldati».Banchieri e politica, golpe inclusi: secondo la Bbc, Prescott Bush e la Jp Morgan, con altri investitori importanti, avrebbero anche finanziato un colpo di Stato contro il presidente Roosevelt, nel tentativo di «attuare un regime fascista negli Stati Uniti». Gli americani, scrive Kevin Zeese, «stanno imparando a riconoscere il legame tra il comparto militare-industriale e gli oligarchi di Wall Street, una connessione che risale agli inizi dell’impero americano moderno». Le banche? «Hanno sempre tratto profitto dalla guerra, perché il debito creato dalle banche si traduce in un grasso bottino di guerra per la grande finanza. E perché sono state utilizzate per aprire i paesi esteri agli interessi corporativi e bancari degli Stati Uniti». Ammise William Jennings Bryan, segretario di Stato durante il primo conflitto mondiale: «C’erano grandi interessi bancari legati alla guerra mondiale poiché grandi erano le opportunità di profitto». Il problema: tutelare gli interessi commerciali degli statunitensi, che avevano fortemente investito negli alleati europei. Almeno 2 miliardi e mezzo di dollari dell’epoca, prestati a francesi e inglesi a partire dal 1915. «I banchieri ritennero che, se la Germania avesse vinto la guerra, i loro prestiti agli alleati europei non sarebbero stati rimborsati».Il più grande banchiere statunitense dell’epoca, John Piermont Morgan, fece di tutto per trascinare gli Stati Uniti in guerra a fianco dell’Inghilterra e della Francia, finendo per convincere il presidente Wilson: obiettivo, «proteggere gli investimenti delle banche americane in Europa». Il marine più decorato nella storia, Smedley Butler, dice al “Washington’s Blog” di aver combattuto essenzialmente «per le banche americane». Racconta: «Ho alle spalle 33 anni e 4 mesi di servizio militare attivo e ho trascorso la gran parte di questo tempo a fare il super-soldato per quelli del Big Business, per Wall Street e per tutti i grandi banchieri. In poche parole, sono stato un camorrista, un gangster del capitalismo. Nel 1914 ho aiutato a mettere in sicurezza il Messico e soprattutto Tampico per gli interessi petroliferi degli Stati Uniti. Ho contribuito a rendere Haiti e Cuba dei luoghi decenti per i “ragazzi” della National City Bank; per aiutarli ad arricchirsi ho contribuito allo stupro di una mezza dozzina di repubbliche dell’America Centrale, a beneficio di Wall Street».E ancora: «Dal 1902 al 1912 – continua il soldato Butler – ho aiutato a “purificare” il Nicaragua per la International Banking House dei Brown Brothers. Nel 1916 ho portato alla luce la Repubblica Dominicana per gli interessi americani dello zucchero. Ho aiutato a rendere l’Honduras un posto adeguato per le compagnie frutticole americane nel 1903. In Cina, nel 1927, ho fatto in modo che la Standard Oil passasse indisturbata». Commenta il veterano: «Guardando indietro, avrei potuto dare dei buoni suggerimenti ad Al Capone. Il massimo che è riuscito a fare è stato imporre il suo racket in tre distretti: io l’ho fatto su tre continenti». Nelle sue “Confessioni di un sicario economico”, John Perkins descrive in che modo i prestiti della Banca Mondiale e del Fmi sono utilizzati per generare profitti per le imprese statunitensi e debiti enormi per i paesi in difficoltà, consentendo così agli Stati Uniti di poterli facilmente controllare.«Non è una sorpresa che ex ufficiali come Robert McNamara e Paul Wolfowitz abbiano continuato a dirigere la Banca Mondiale», rileva il “Washington’s Blog”. «Il debito di questi paesi verso le banche internazionali assicura agli Stati Uniti il loro controllo, forzandoli in un certo senso ad entrare nella “coalizione dei volenterosi”, quella che ha contribuito attivamente all’invasione dell’Iraq, o ad acconsentire all’insediamento nel loro territorio di basi militari statunitensi». Piccolo dettaglio: «Se quei paesi si rifiutassero di “onorare” i loro debiti, la Cia o il Dipartimento della Difesa farebbero in modo da fargli rispettare la volontà politica degli Usa, provocando colpi di Stato o compiendo azioni militari». Unica consolazione, per dirla col blog: «Sono sempre più numerose, ormai, le persone coscienti della stretta connessione tra il mondo bancario e il mondo bellico». Oggi, l’orizzonte delle armi americane si spinge ad Oriente, dalla Russia alla Cina, dove si sta dislocando la forza di proiezione navale statunitense. Qualcuno, a Wall Street, avrà già fatto i suoi piani. Ai dettagli, poi, penseranno Obama, Biden, Kerry e le altre comparse della politica.I banchieri? Sempre stati in costante comunicazione con la Casa Bianca. Non solo riguardo a temi finanziari e di politica economica, ma anche per argomenti molto meno tecnici: prima la Grande Guerra, poi la Seconda Guerra Mondiale, quindi la Guerra Fredda. Scenari esaminati «in termini di piani di espansione politica dell’America come superpotenza mondiale, alimentata dalla sua crescita finanziaria attraverso lo sviluppo della sua comunità bancaria». Parola di Nomi Prins, analista internazionale alla Bear Stearns di Londra e già amministratore delegato della Goldman Sachs. In altre parole: dietro a ogni conflitto c’è sempre una banca, rileva il “Washington’s Blog”. O meglio: c’è la grande famiglia (mondiale, ormai) delle banche, la “comunità bancaria”. Che traffica con la politica, detta le regole, incassa miliardi. E, nel caso, si attrezza per quello che da sempre è il miglior affare in assoluto: la guerra. Anche se il “socio” si chiama Hitler, e il collega americano Bush.