Archivio del Tag ‘garanzie’
-
Liquidità alle imprese entro questa settimana o sarà default
Dovremo convivere con il coronavirus per lungo tempo e non possiamo distruggere l’economia con provvedimenti punitivi, come è stato fatto per necessità nei mesi scorsi. Oggi dobbiamo assumerci qualche rischio. La vera domanda semmai è: siamo in condizioni di rischio tollerabile? Lo siamo ampiamente, considerando quello che sta succedendo anche negli altri paesi europei e considerando l’unico dato da seguire che è la mortalità: anche se fotografa la situazione con dieci giorni di ritardo, conferma che è in atto una decisa attenuazione del contagio. L’emergenza sanitaria sta rientrando. Quella economica, forse ancora più drammatica, sta invece avanzando a grandi passi. Come valuto l’azione del governo su questo fronte? Male. Per esempio, il decreto liquidità: è stato annunciato in Tv il 6 aprile, dicendo che si era mobilitata una poderosa manovra da 400 miliardi. La pubblicazione in Gazzetta Ufficiale è arrivata il 10 aprile, e quattro giorni in questa emergenza possono essere decisivi. Siamo a inizio maggio, e di quei 400 miliardi alle piccole e medie imprese forse è arrivato un miliardo, probabilmente meno. Se in un mese un decreto considerato fondamentale arriva a dispiegare il suo “vigoroso” impatto dell’1%, mentre negli altri paesi europei lo stesso tipo di provvedimento ha già erogato tutta la sua capacità di finanziamento, siamo in presenza di un grosso problema.In questione non c’è tanto l’attività di decretazione del governo, ma l’attuazione pratica, che risulta essere inaccettabilmente lenta e farraginosa. Conte si è scusato con gli italiani per la lentezza e l’inefficienza con cui stanno arrivando gli aiuti? È vero, ma è solo un’esortazione retorica, sono solo parole. Bisogna guardare ai fatti, e in quel decreto ci sono errori tecnici imperdonabili, che lo rendono inefficace. Ne cito uno sostanziale. Il principio delle garanzie pubbliche al 90% è stato adottato per evitare l’azzardo morale, cioè il rischio di far arrivare questi soldi ad aziende che non li meritano. Ma in questa drammatica emergenza qualche azzardo morale è preferibile al ritardo che si è ingenerato. Con il 90% di garanzia la banca deve per forza fare l’istruttoria, che richiede tempo e un infernale iter burocratico. Come accompagnare le imprese italiane fuori dal lockdown? La prima urgenza è ovviamente la liquidità. Un’azienda, avendo comunque dei costi incomprimibili da sopportare, dall’affitto alle bollette, dai fornitori da pagare alla cassa integrazione (anticipata e non ancora rimborsata), se resta per due mesi senza fatturato, non vive. Due mesi sono un tempo infinito. La liquidità deve arrivare adesso, al massimo entro questa settimana, altrimenti molte aziende chiuderanno.Ma la liquidità promessa arriva sotto forma di debito: e questo è l’altro problema, oltre a quello dei ritardi. In questo modo avremo altre aziende che lentamente moriranno di debito, perché non saranno in grado di rimborsarlo. Chi si illude, dopo che avremo riaperto tutto, che il mondo ritornerà come prima, non ha capito nulla. La gente si sentirà più povera, i consumi rallenteranno, il turismo soffrirà in modo terribile. Sarà una depressione, che è peggio della recessione. Le aziende non solo soffriranno questo mese, ma anche i prossimi dodici mesi in termini di perdite. Bisogna quindi aiutarle, se non si vuole correre un rischio ben peggiore. In Italia la spesa per pensioni, sanità, istruzione e pubblico impiego è sostenuta dalle tasse dei privati, cioè le aziende. Se spariranno, non si incasseranno tasse e a un certo punto si cadrà in una spirale tremenda e insostenibile. Non a caso molti hanno invocato il ricorso a finanziamenti a fondo perduto. Con il pessimo stato di salute dei nostri conti pubblici e del nostro debito pubblico, costantemente nel mirino della Ue, il governo può permetterseli? Quest’anno sì, perché è una sorta di anno sabbatico, in cui vale tutto. Nessun vincolo europeo sarà invalicabile, anzi molti sono già stati rilassati dalla stessa Ue.Il problema è che noi ci trovavamo in una situazione di debito eccessivo già da prima del coronavirus. Questa pandemia aggiungerà altri 25 punti percentuali, portando, secondo le mie stime, il nostro rapporto debito/Pil al 170%. Una soglia non sopportabile. Come uscire da questo crinale? Ci sono due sole strade. La prima, quella che auspico: accelerare violentemente, costi quel che costi, sulla ripresa e sullo sviluppo economico, aumentando il denominatore. Quindi dare anche soldi a fondo perduto, pur di mantenere in vita le aziende. Sembra un “regalo”, ma in realtà è un investimento, a favore della crescita e a garanzia futura dell’occupazione, del prelievo fiscale e della sostenibilità del debito. Ecco perché chi parla di decrescita felice andrebbe criminalizzato, perché prefigura il collasso dello Stato. La seconda strada? Ahimè, è il default. Se il lavoro, le imprese e le tasse non sostengono adeguatamente questo debito, lo Stato non sarà più in grado di ripagarlo. Sarebbe una tragedia, soprattutto per i ceti più deboli. L’Italia ce la farà a superare questa durissima prova? Sì che ce la farà, per forza, anche se quest’anno il Pil calerà del 12% e stiamo precipitando in un buco. A patto, però, che tutti si convincano che la nostra possibilità di uscirne è legata allo sviluppo economico, creando lavoro e intrapresa.(Giovanni Cagnoli, dichiarazioni rilasciate a Marco Biscella per l’intervista “Liquidità alle imprese entro questa settimana o sarà default”, pubblicata dal “Sussidiario” il 4 maggio 2020. Cagnoli è presidente di Carisma, holding di partecipazioni industriali dedicata allo sviluppo delle Pmi italiane, ed esperto di strategia aziendale. E’ stato tra i primi a mettere sul tavolo il tema della riapertura e dell’uscita dal lockdown).Dovremo convivere con il coronavirus per lungo tempo e non possiamo distruggere l’economia con provvedimenti punitivi, come è stato fatto per necessità nei mesi scorsi. Oggi dobbiamo assumerci qualche rischio. La vera domanda semmai è: siamo in condizioni di rischio tollerabile? Lo siamo ampiamente, considerando quello che sta succedendo anche negli altri paesi europei e considerando l’unico dato da seguire che è la mortalità: anche se fotografa la situazione con dieci giorni di ritardo, conferma che è in atto una decisa attenuazione del contagio. L’emergenza sanitaria sta rientrando. Quella economica, forse ancora più drammatica, sta invece avanzando a grandi passi. Come valuto l’azione del governo su questo fronte? Male. Per esempio, il decreto liquidità: è stato annunciato in Tv il 6 aprile, dicendo che si era mobilitata una poderosa manovra da 400 miliardi. La pubblicazione in Gazzetta Ufficiale è arrivata il 10 aprile, e quattro giorni in questa emergenza possono essere decisivi. Siamo a inizio maggio, e di quei 400 miliardi alle piccole e medie imprese forse è arrivato un miliardo, probabilmente meno. Se in un mese un decreto considerato fondamentale arriva a dispiegare il suo “vigoroso” impatto dell’1%, mentre negli altri paesi europei lo stesso tipo di provvedimento ha già erogato tutta la sua capacità di finanziamento, siamo in presenza di un grosso problema.
-
Italia spacciata: solo debiti, col Recovery Fund alla tedesca
Nella nostra valutazione dell’impatto economico delle misure finora concordate, sappiamo già gran parte di quanto è necessario conoscere. Il Consiglio Europeo ha trovato un accordo sulla versione di Angela Merkel, e non sui coronabond né sulla proposta spagnola. Come riportato da “Faz” stamattina, il piano prevede che la Ue aumenti il suo bilancio dall’attuale 1,2% al 2% per un periodo di due o tre anni. Questo aumento non avverrà sotto forma di contributi diretti da parte dei paesi membri, ma sotto forma di garanzie. L’articolo stima il volume annuale a una somma di 100 miliardi di euro, ovvero, secondo i nostri calcoli, lo 0,6% del Pil dell’Unione Europea (Eu-27). Il totale dei prestiti che potrebbero essere fatti sarebbe nell’ordine di 250-300 miliardi di euro nell’arco di due o tre anni. Questi prestiti extra non rappresentano il fondo stesso, sul quale la Commissione spera di fare leva per un ammontare maggiore. Una parte dei fondi sarà resa direttamente disponibile sotto forma di finanziamenti. Un’altra parte genererà investimenti tramite prestiti, e su questi si dovrà fare leva finanziaria per raggiungere l’ammontare target.
-
Ashkenaz, il super-sapiens, ci schiavizza col debito eterno
Menti raffinatissime, le chiamava Giovanni Falcone. Nel suo caso, avevano piazzato una bomba davanti alla sua villetta sul mare, tre anni prima del fatale attentato di Capaci. Sono speciali, quelle menti – e altrettanto criminali – anche per Giovanni Angelo Cianti, che non è un giudice antimafia ma a suo modo si occupa lui pure di criminologia, per così dire, se si volesse leggere come un’epocale, sterminata stagione criminogena quella aperta dalla stessa misteriosa comparsa sulla Terra dell’homo sapiens, tuttora non spiegata (men che meno dall’evoluzionismo darwininano). L’ultima fatica letteraria di Cianti – che esordì addirittura come autore del fumetto-cult “Ken Parker”, creato nel ‘74 da Giancarlo Berardi e Ivo Milazzo – si intitola “Benvenuti all’inferno”, in questo richiamando l’ombra del manicheismo, tra risonanze gnostiche e poi catare. Una “creazione dannata”, la nostra, opera di divinità infere esiliate nel mondo della materia? Premessa pragmatica: siamo quasi 8 miliardi e stiamo devastando il pianeta, come cavallette inarrestabili. Un formicaio di insetti onnivori e famelici, e al tempo stesso docili e malleabili, senza più coscienza né memoria della propria origine. Solo colpa nostra? No, risponde Cianti: la grande attenuante è incarnata da chi lo dirige più o meno segretamente, il “formicaio”.La solita, bieca massoneria mondiale? Gli uomini invisibili del famigerato “complotto giudaico-massonico” caro ai cospirazionisti? Nemmeno, scrive Cianti, mettendo a fuoco un altro gruppo, che definisce “super-sapiens”. «Si chiamano Ashkenazi, e si sono mimetizzati tra gli ebrei, a insaputa degli ebrei stessi. Ma attenzione: gli “Ahskenazim” non sono ebrei, e nemmeno semiti. Sono i veri manipolatori dell’umanità, fin dai primordi, attraverso il denaro e il credito usuraio». Sarebbero stati loro a danneggiare in primo luogo gli ebrei, provocando la catastrofe dell’antisemitismo. Da dove spuntano? Ne parla la Bibbia, probabilmente, quando – nella Genesi – racconta la “fabbricazione” degli adamiti: strani ibridi, praticamente degli Ogm ante litteram, clonati mescolando i geni del sapiens con quelli dei Figli delle Stelle, che l’Antico Testamento chiama Elohim (come Yahvè e colleghi) mentre per i Sumeri si chiamavano Anunna o Anunnaki. Stessa schiatta di dominatori – venuti dal cielo, secondo il sumerologo Zecharia Sitchin, affascinante e controverso teorico della paleo-astronautica. La missione: trasformare la Terra, fino a quel momento popolata solo da tribù nomadi, in un immenso campo di lavoro.Per produrre cibo, energia e poi anche tecnologia occorrevano “servi” intelligenti e obbedienti, i sapiens, che ancora non c’erano. E per dirigere i sapiens ci voleva una super-razza, in grado di dominarli per conto terzi. Impressionante la consonanza con le rivelazioni che l’avvocato Paolo Rumor affida al saggio “L’altra europa”, edito da Panda, con prefazione dell’eminente politologo Giorgio Galli. La tesi: un’élite immutabile, sempre la stessa, reggerebbe il mondo da quasi 12.000 anni. Origine: Golfo Persico, poi Mesopotamia, Egitto, Mediterraneo fenicio e poi minoico e greco-romano. Pietra miliare: l’antico insediamento nella città caldea di Ur, alla foce del Tigri. E’ la stessa geografia che ripercorre Cianti, inseguendo il fantasma dei progenitori di quelli che (erroneamente, sostiene) verranno poi chiamati “ebrei askhenaziti”, diffusisi nell’Est europeo. La comparsa dell’Adàm biblico, «non ancora ebraico, verosimilmente sumero», risalirebbe a un’epoca collocabile tra il 15.000 e il 20.000 avanti Cristo. Seguono 9 discendenti quasi millenari, i patriarchi pre-diluviani, fino ad arrivare a Noè, cioè intorno all’anno 5.600.Stando alla Bibbia, Noè generò Sem, Cam e Jafet. Da Sem si arriva a Giacobbe-Israele per linea retta attraverso Ever, Terach, Abramo e Isacco: in altre parole, ecco gli ebrei (quelli veri), poi suddivisi nelle famose 12 tribù, inclusa quella israelitica di Giuda e Davide. «Quindi – conclude Cianti – solo i discendenti di Abramo possono essere considerati semiti». Gli altri, cioè la super-razza di cui si occupa “Benvenuti all’inferno”, sarebbero la discendenza di Jafet: il fratello di Sem e Cam «generò tra gli altri Gomer, capostipite dei Cimmeri», il cui figlio si chiamerà Ashkenaz, «dall’assiro Askuza»: nome col quale, secondo la Tavola nelle Nazioni, «si indicavano i popoli nomadi della regione sciita del Caucaso». Insieme ai Minniti e al Regno di Ararat, continua Cianti, i nomadi caucasici Ashkenaz si opposero ai Babilonesi, almeno secondo la Bibbia (Geremia 51-27), e in seguito diedero origine ai popoli slavi. «Gli Ashkenaziti – conclude Cianti, citando sempre l’Antico Testamento – sono dunque “jafeti”, cimmeri o sciiti – ma non semiti, quindi non ebrei».Per l’autore si tratta di un “cluster genetico” autonomo, «una popolazione nomade di origini turcomanne che si reinventa continuamente». Prima sciiti (da “sak”, nomade), poi Kazari (dal turco “qaz”: nomade, ancora). Per Cianti erano di religione tengrista, un mix di sciamanesio, animismo e totemismo diffuso nell’Asia Centrale. «Si convertirono all’ebraismo per convenienza», e molto tardi: solo fra il 740 e il 920 dopo Cristo. «Alla dissoluzione del Canato di Kazaria, conquistato dal russo Sviatoslav I, si dispersero in tutta Europa, attribuendosi l’appellativo di “ebrei erranti”», evidentemente abusivo. Nell’alto medioevo, continua Cianti, li ritroviamo nella valle del Reno e nel Nord della Francia: «Ed è da questo momento che iniziano a usare l’yiddish, lingua germanica con elementi di ebraico e aramaico». Poi si spostano verso Est: Lituania e Polonia, Moldavia, Russia. Il ritorno in Germania comincerà nel 1200 e terminerà solo nell’Ottocento. In tutti quei secoli, scrive l’autore, gli Askuza-Ashkenaz sciameranno di terra in terra perché «perseguitati per l’attività usuraia». Sono loro gli “inventori” del sistema creditizio?Il prestito a interesse, dice Cianti, compare contemporaneamente in Mesopotamia, India e Cina. «L’invenzione stessa della scrittura nasce lì, da quella nuova necessità». A Uruk (oggi Warka, Iraq) a raccontare quella storia sono 5.000 tavolette d’argilla risalenti al quarto millennio avanti Cristo: «Si iniziò allora a parlare di prestiti, tassi d’interesse, garanzie, usura, derivati e pignoramenti». La banca dell’epoca era il Tempio; non prestava solo denaro ma anche cereali, vino e birra, metalli pregiati: «Si cominciò a prestare argento a tassi fino al 60%». Attraverso il mondo mesopotamico, poi fenicio e persiano, ellenico e romano, il network nomade del denaro si trasferisce dove gli conviene, tendenzialmente da Est a Ovest, col progredire dei nuovi fiorenti imperi. Proto-scienziati della finanza? Cianti li chiama “i nostri mandriani”. Il loro metodo non cambia: usura, per conquistare il potere. Obiettivo: «Mantenere nella sottomissione non solo le masse ma anche gli stessi governanti, che in pratica diventano i loro burattini. E se qualcuno di loro si oppone, viene destituito o ucciso, come i Kennedy».Per Cianti, gli Ahskenaz restano un gruppo ristretto e rigorosamente chiuso al suo interno, per via matrilineare, attraverso i secoli. Sono i “ruler”, gli attuali “padroni dell’universo”. Veri fenomeni: si tratta di «individui di eccezionale intelligenza». Oltre a mercanti e banchieri, nei millenni, «hanno espresso anche filosofi, scienziati, pensatori che hanno determinato le sorti dell’umanità». L’élite dell’élite: «Nomadi e apolidi, seguono lo sviluppo dei più importanti centri di potere, in una traiettoria sempre diretta verso ovest che oggi, dalla West Coast degli Stati Uniti, ha spiccato il balzo verso la Cina». Sono loro i teorici e i registi del globalismo finanziario, secondo Cianti: religioni e massonerie, Ur-Lodges e centri di potere paramassonici sarebbero solo cinghie di trasmissione del super-sapiens Ashkenaz, protagonista del club più inaccessibile del vero potere.Lungo le sue 400 pagine, “Benvenuti all’inferno” esamina con estrema cura le più recenti asserzioni scientifiche, dall’astrofisica alla paleontologia fino alla climatologia, demolendo Darwin: «La Terra è passata attraverso eventi catastrofici che hanno provocato ripetute estinzioni di massa. E ogni volta il pianeta è stato ripopolato con specie nuove, che non avevano niente a che fare con le precedenti». Fino al sapiens, ultimissimo prodotto di queste “introduzioni”: «Una specie bio-ingegnerizzata, nel cui corredo è stato introdotto Stamina, il gene della paura che ci rende così docili di fronte al potere». Nel saggio “Resi umani” scritto con Mauro Biglino, il prestigioso biologo molecolare Pietro Buffa (già attivo al King’s College di Londra) spiega che il “missing link” tra uomo e scimmia non è mai esistito: a quanto pare siamo stati “fabbricati” diversi, dalla nascita, ben distinti dai primati e dagli stessi ominidi – persino dal Neandearthal, a noi vicinissimo nel tempo, probabilmente sterminato dai nostri antenati.A lungo traduttore ufficiale della Bibbia per le Edizioni San Paolo, Biglino sostiene che l’Antico Testamento – alla lettera – racconti l’avvento sulla Terra dei Figli delle Stelle. Proprio loro avrebbero “costruito” il sapiens, riservandosi poi la “fabbricazione”, sempre per via genetica, di una super-specie di lavoratori particolarmente intelligenti: gli adamiti, collocati nel Gan-Eden (da cui poi furono cacciati, dopo che ebbero scoperto la possibilità di riprodursi in modo autonomo, sessualmente). Tuttora, nessun sumerologo sa spiegare esattamente l’origine della civiltà sumera, sorta improvvisamente appena a Sud del Gan-Eden (situato nel Caucaso) e immediatamente dotata di favolose competenze tecniche: scrittura e architettura, matematica, astronomia. E soprattutto: agricoltura. «Proprio la rivoluzione agricola – sostiene Cianti – ha cambiato in modo irrimediabile il pianeta, devastando i suoli e sottraendo acqua, impoverendo la nostra dieta e determinando una vera e propria mutazione antropologica: i primi sapiens erano liberi di muoversi e cacciare, noi invece siamo schiavi inurbati, costretti a lavorare e a nutrirci di cibo ormai avvelenato».La stanzialità come sciagura è il tema del saggio “Dominio”, nel quale Francesco Saba Sardi collega all’introduzione dell’agricoltura la nascita del nuovo potere, prima sconosciuto, che “inventa” la religione per trasformare gli esseri umani in servi, lavoratori della terra e soldati. Figure sociali che non esistevano, prima del neolitico: nacquero con l’agricoltura insieme alla religione e alla sua sorella gemella, la guerra, grazie alla comparsa di quell’inedito potere, configurato in forma di dominio. A questo, Giovanni Cianti aggiunge un’altra disgrazia: l’alimentazione. Giornalista e già pubblicitario, appassionato studioso di biologia, Cianti è anche e soprattutto un nutrizionista, disciplina attraverso cui ha rivoluzionato la pratica del body-building partendo proprio dalla dieta. La minaccia più grande? L’abuso di cereali. Il pane – che ha nutrito milioni di individui – viene dal grano, che è comparso sulla Terra di colpo. Discende dal farro selvatico, che però non è commestibile. Chi l’ha trasformato geneticamente in cereale dolce, da farina? I medesimi, misteriosi individui – si suppone – che allo stesso modo, all’epoca di Adamo ed Eva, “fabbricarono” la patata, insieme con la pecora.Cibo pronto uso e a basso costo, per schiere di futuri lavoratori? L’ipotesi è ora vagliata da scienziati di tutto il mondo, ormai convinti che convenga rivalutare e rileggere con occhi nuovi i testi antichi, poi trasformati arbitrariamente in “libri sacri” dalle religioni che, più tardi, se ne impossessarono, travisandoli: e se in quelle pagine ci fossero gli indizi di una storia attendibile? Se cioè il racconto – incluso quello biblico, con la comparsa degli Elohim (Figli delle Stelle) – spiegasse davvero la nostra origine genetica, altrimenti non ricostruibile solo per via evolutiva? Nel qual caso, dice Cianti, sarà meglio aggiungere una riflessione piuttosto decisiva: se qualcuno – venuto dal cielo? – impiantò sulla Terra la sua “mandria” da mungere, di sicuro non scordò di assicurarla alla custodia di servitori speciali e fidatissimi, a loro volta “bio-ingegnerizzati” alla bisogna: i nostri “mandriani”.Non manca nessuno, nella “hall of fame” dei dominatori che Cianti esibisce, dai secoli passati fino ai giorni nostri: spicca il visionario oligarca Jacques Attali, lo sconcertante mentore di Emmanuel Macron, oscuro profeta del transumanesimo post-democratico. C’è l’eterno Zbigniew Brzezinski, lo storico stratega della Casa Bianca (sodale di Kissinger) che reclutò in Afghanistan un certo Osama Bin Laden, poi protagonista della strategia della tensione globale sotto l’egida dei Bush. Riflettori su Al Gore, l’ex vice di Clinton, ormai «frontman mondiale della bufala del global warming di origine antropica», il nuovo catechismo recitato dalla piccola Greta, la ragazzina svedese spuntata (in apparenza) dal nulla. Gore ha appena vinto due Oscar con il documentario “Una scomoda verità”, «diretto dal regista “ashkenazi” Davis Guggenheim». Manipolazione? «Se è per questo, erano “ashkenazi” anche Walt Disney e Edward Bernays, l’inventore della propaganda pubblicitaria», dice Cianti, «come pure i fratelli Andy e Larry Whachowski», gli sceneggiatori di “Matrix”, film nato per metterci in guardia «sul destino della “mandria umana”, costretta a vivere come nella caverna di Platone, cioè in un mondo virtuale completamente avulso dalla realtà».Tra i protagonisti negativi, invece, dominano politici e finanzieri: si va da Madeleine Albright, che difese la necessità inevitabile del bagno di sangue nei Balcani negli anni ‘90, alla quasi-popstar George Soros, «ashkenazi di elevata esposizione mediatica, quindi verosimilmente di rango inferiore». Nulla, in confronto ai veri “dominus”, più appartati, come ad esempio i campioni delle celeberrime dinastie Rothschild, Warburg e Rockefeller, sinistramente implicati nell’ascesa di Hitler (e nel nascente sionismo), ben sapendo che il dittatore nazista avrebbe sterminato milioni di ebrei: era il mostruoso prezzo necessario per ottenere poi lo Stato di Israele? Incubi e interrogativi storici a parte, dell’immenso potere di quelle famiglie parla anche il professor Pietro Ratto nei suoi recenti saggi, che rivelano l’incredibile pervasività (purtroppo attualissima) della loro influenza, persino nell’odierna editoria scolatica validata dai ministeri attraverso commissioni, strutture e aziende di cui non parla mai nessuno. Ma quei nomi così famosi – i vituperati Rothschild, tanto per cambiare – potrebbero essere solo la vetta dell’iceberg, la parte visibile.Chi sono e cosa vogliono, quelli che Cianti chiama “i nostri mandriani”? Lo spiega lo stesso Attali, nella sua “Breve storia del futuro”, «libro che anticipa le mosse dei “mandriani” fino al 2100», fornendo «una descrizione terrificante delle loro intenzioni nonché l’evidenza di una straordinaria assenza di empatia, mista a follia e delirio di onnipotenza». L’umanità ridotta a formicaio pilotabile, prevedibile? Il genere umano eventualmente anche sterminabile, all’occorrenza, con le pratiche più insospettabili? Cianti menziona il cibo cancerogeno, i medicinali-killer e l’imposizione di vaccini pieni di alluminio e altri metalli pesanti, come quelli che scendono dal cielo, da una ventina d’anni, diffusi nella bassa atmosfera dalle strane scie bianche rilasciate dagli aerei di linea. Di fronte a questo, il mainstream grida immancabilmente al complottismo, fingendo di non sapere che le teorie più eretiche (incluse quelle bislacche e ridicole) nascono proprio dal silenzio ufficiale, dalla ostinata reticenza di chi dovrebbe fornire spiegazioni convincenti dei fenomeni che allarmano la popolazione. Peccato che sia lo stesso sistema dei media a essere strettamente detenuto da pochissime mani.Oltre a controllare Intesa SanPaolo e Unicredit, scrive Cianti, la filiera Rothschild («connessa agli Agnelli-Elkann e ai Caracciolo») è presente in Facebook, in Telecom Italia, nell’agenzia “Reuters”, nel francese “Libération”, nei britannici “Daily Telegraph” e “The Economist”. Sempre secondo Cianti, il gruppo Rcs (Rizzoli e “Corriere della Sera”) è invece appannaggio della scuderia Rockefeller, mentre il gruppo Sassoon controllerebbe “Sunday Times” e “The Observer”. Stessa musica per i grandi network televisivi internazionali. In Italia, aggiunge Cianti, «appartiene al “cluster” anche Carlo De Benedetti», fondatore del gruppo “Espresso-Repubblica”, che «ha alle spalle Lazard e Lehman Brothers». Un’unica discendenza, addirittura, collegherebbe gli attuali Master of the Universe? «La risposta definitiva – ipotizza Cianti – potrebbe venire dall’Us Trust Corporation, istituita a suo tempo da Walter Rothschild», che però è inaccessibile alla consultazione pubblica. «Secondo alcuni “insider” – aggiunge l’autore del saggio – si tratterebbe di otto-dieci linee di sangue millenarie». I nomi? Goldman Sachs, Rockefeller, Lehman e Kuhn-Loeb di New York. Poi i Rothschild di Parigi e Londra. Poi gli inglesi Windsor, già Sassonia-Coburgo-Gotha, insieme ai Warburg di Amburgo, ai Lazard di Parigi, alla dinastia Israel Moes Seif di Roma.Si tratta di «famiglie che da sole posseggono tutte le banche e le corporation del mondo, attraverso un sistema di scatole cinesi: il vertice della piramide, totalmente “ashkenazi”, resta estremamente ristretto e al di fuori di ogni forma di controllo». Gioielli della collezione, dagli Usa all’Europa fino alla Cina, le superpotenze bancarie: Hsbc Holding, Bnp Paribas, Jp Morgan, Icbc Bank of China e Agricoltural Bank of China, Wells Fargo, Bank od America, China Construction Bank. In generale, scrive Cianti, il meccanismo del big business «riguarda tutti i settori industriali strategici: cibo ed energia, farmaci, armi, informazione e intrattenimento, ma anche droga e traffico di esseri umani e di organi». Il volume mastodontico dell’attuale sistema iper-capitalista e neoliberale, interconnesso dalla globalizzazione, lo fornisce ad esempio il database Orbis 2007, che (come documenta uno studio svizzero pubblicato nel 2011 da “Plos One”) ha passato al setaccio qualcosa come 37 milioni di aziende e investitori globali. Le strutture che detengono il 97% della ricchezza del pianeta, riassume Cianti, sono soltanto 147: in cima alla classifica Barclays, Capital Group Companies, Frm Corporation, Axa Assicurazioni, State Street Corporation, Jp Morgan, Legal General Group, Vanguard Group, Ubs e Merrill Lynch.«Una rete capillare ed estesa, di soggetti che si posseggono a vicenda». Blackrock, «il più grande fondo d’investimento del pianeta, fondato da Lawrence Fink (ashkenazi) ha tra i maggiori azionisti Pnc Financial Service, Norges Bank, Vanguard, Bank of America, Wellington Management Group». A sua volta, Jp Morgan è gestita da Vanguard e Blackrock, insieme a State Street, Bank of New York e altri soci. Sempre le stesse aziende possiedono anche il colosso farmaceutico Merk. La notizia? Secondo Cianti, il vertice è costituito da consanguinei, tutti discendenti dell’ipotetica, originaria super-razza, quella che già agli albori della civiltà inventò il “debito inestinguibile”. Dalla Mesopotamia si arriverebbe tranquillamente fino ai veri campionissimi del terzo millennio, come il sudafricano Elon Musk, fondatore della Tesla, e il fenomenale Mark Zuckerberg, l’enfant prodige di Facebook. A proposito, chi c’è nell’azionariato del social network che “scheda” oltre due miliardi di esseri umani? «Sempre gli stessi: Vanguard e Blackrock, Frm-Lcc, State Street Corporation, Prince T Rowe, Capital World Investors».Globalizzazione? Termine in uso dagli anni ‘80, quando si pianificò l’abolizione dei dazi per merci e capitali. Ma, stando a Cianti, non sarebbe che l’ultimo passaggio tecnico del mondialismo ante litteram perseguito dal misterioso “cluster” del super-sapiens, fin dagli albori della nostra storia. Possibile? L’autore invita a riflettere sul vero significato dell’agenda dell’Onu, organismo – pochi lo sanno – poderosamente finanziato da donatori privati (sempre loro, i mattatori del superclan). Mondialismo mercantilista, che dichiara guerra alle identità – di genere, nazione, religione – per omologare la “mandria” che popolerà l’Iper-Impero dopo l’imminente declino della potenza Usa. Un “impero totale” esteso in ogni continente «con la sola eccezione della Russia, che per ora resiste ma finirà accerchiata da America, Europa, Cina e India». Viaggia sempre verso ovest, dunque, il super-sapiens di cui parla Cianti? Lo conferma, secondo l’autore, il matrimonio di Zuckerberg: «Sua moglie, Priscilla Chan, è nata negli Usa da genitori rifugiati Hou, un gruppo minoritario di usurai cinesi del Vietnam». Gli Hou, scrive Cianti, discendono dagli “ashkenazi d’Oriente” come la famiglia Li (o Lee), che duemila anni fa, al tempo della dinastia Zhou – introdussero la moneta cartacea.Oggi, come dire, si sono portati avanti col lavoro: «Già legati a Mao Tse-Tung, hanno espresso presidenti cinesi come Li-Peng e Li-Xinnian. Oggi, Lee Kwan Yew è il presidente di Singapore». Un altro esponente della dinastia, Li Ka-Shing, secondo “Forbes” ha un patrimonio di 4 miliardi di dollari, mentre Li Kwok-Po gestisce la Bea (Banca dell’Est Asiatico) agendo «in collegamento coi Warburg e restando in ottimi rapporti coi Rothschild, i Rockefeller e i Bush». La nuova corsa all’Ovest, assicura Cianti, vede una strana migrazione: i boss dell’impero digitale della Silicon Valley ormai puntano verso la Nuova Zelanda, che sta diventando «il santuario dei super-sapiens ashkenazi». Il passaggio dalla California all’Oceania «sarà seguito dallo spostamento degli iper-nomadi dell’Ordine Mercantile Usuraio in una sede geograficamente più vicina ai loro nuovi affari, cioè il subcontinente indocinese».La Nuova Zelanda? Un’area scarsamente abitata e pressoché intatta, dal punto di vista naturalistico. Il resto del mondo, invece – prevede Cianti, in modo apocalittico – sarà «costretto a condizioni invivibili, catastrofi climatiche, epidemie indotte, crollo dell’ordine pubblico, terrore nucleare e collasso della civiltà». Le isole dell’Oceania «saranno l’ultimo rifugio: il nuovo santuario dell’élite, sicuro e intoccabile». Scrive Cianti: «Centinaia di tecno-plutocrati e finanzieri stanno acquistando terreni in queste isole per costruire lussuose ville-bunker. Il Deep State, cioè il vero potere dell’impero americano, ha già creato il governo del “santuario”: si tratta di una oligarchia socialista, che li accoglierà garantendo loro sicurezza, anonimato e impunità». L’attuale primo ministro neozelandese, la trentanovenne Jacinda Ardern, già leader dell’Unione internazionale della gioventù socialista, «è una creatura di Hillary Clinton, che le ha fatto da mentore nella carriera politica», guidandone l’ascesa.Il recente attentato di Christchurch contro le moschee musulmane, lo scorso marzo – aggiunge Cianti – era una classica “false flag” (con morti reali) escogitata «per testare la rapidità con la quale si riesce a far sparire da Internet ogni testimonianza diretta di una strage», e ha fornito «il pretesto per disarmare immediatamente tutti i civili del paese». E’ già una specie di bunker, la Nuova Zelanda: «Per risiedervi sono necessari beni per milioni di dollari, oppure bisogna essere cooptati in quelle ristrettissime liste di personale di servizio necessario al sistema. Ogni altra forma di immigrazione è proibita e immediatamente repressa», alla faccia della politica di accoglienza (quella che oggi, per dire, viene imposta all’Italia). Allucinazioni fantapolitiche? Non proprio: nel suo ponderoso volume, ad ogni pagina, l’autore acclude note, link, riferimenti, citazioni. “Benvenuti all’inferno” si inserisce nella recente letteratura divulgativa che tenta di dare risposte ai pesanti interrogativi del presente, rileggendo la storia antica e provando a sincronizzarla con l’attualità.E’ l’ennesimo catastrofista, Angelo Cianti? In realtà si mostra ottimista rispetto alle possibilità del libero arbitrio. Non smette di credere nel sapiens, in fondo. E infatti sogna di rinaturalizzare l’Appennino con il suo Evo Village Project, presentato nel 2018 al ministro dell’agricoltura Gian Marco Centinaio. Obiettivo: ricolonizzare i versanti con una rete di ecovillaggi, verso un’economia sostenibile e slegata dalle catene del sistema-debito. La sua tesi sul ruolo dell’ipotetico super-sapiens rischia di apparire fin troppo facilmente demonizzante, col risultato di introdurre discriminazioni “etniche” e scoraggiare i lettori, posti di fronte a un avversario super-umano e quindi invincibile? Intanto, è notevolissimo lo sforzo compiuto dall’autore nel collegare realtà in apparenza lontane fra loro, nel tempo e nella geografia planetaria. Uno stimolo per farsi domande, allargare la mente e verificare connessioni, scovando strane coincidenze nel ricorrere, invariabile, delle medesime “famiglie” che – come si può vedere – in molti casi detengono da secoli (da millenni, secondo Cianti) le redini del globo. Dinastie che mostrano la straordinaria capacità di rendersi invisibili, mimetizzandosi nella società – magari anche a spese dei veri israeliti, di cui si parla spessissimo a sproposito.(Il libro: Giovanni Angelo Cianti, “Pianeta Terra, benveuti all’inferno! Passato, presente e probabile futuro della mandria umana”, Evo Editorial, 401 pagine, euro 27,78 su Amazon).Menti raffinatissime, le chiamava Giovanni Falcone. Nel suo caso, avevano piazzato una bomba davanti alla sua villetta sul mare, tre anni prima del fatale attentato di Capaci. Sono speciali, quelle menti – e altrettanto criminali – anche per Giovanni Angelo Cianti, che non è un giudice antimafia ma a suo modo si occupa lui pure di criminologia, per così dire, se si volesse leggere come un’epocale, sterminata stagione criminogena quella aperta dalla stessa misteriosa comparsa sulla Terra dell’homo sapiens, tuttora non spiegata (men che meno dall’evoluzionismo darwininano). L’ultima fatica letteraria di Cianti – che esordì addirittura come autore del fumetto-cult “Ken Parker”, creato nel ‘74 da Giancarlo Berardi e Ivo Milazzo – si intitola “Benvenuti all’inferno”, in questo richiamando l’ombra del manicheismo, tra risonanze gnostiche e poi catare. Una “creazione dannata”, la nostra, opera di divinità infere esiliate nel mondo della materia? Premessa pragmatica: siamo quasi 8 miliardi e stiamo devastando il pianeta, come cavallette inarrestabili. Un formicaio di insetti onnivori e famelici, e al tempo stesso docili e malleabili, senza più coscienza né memoria della propria origine. Solo colpa nostra? No, risponde Cianti: la grande attenuante è incarnata da chi lo dirige più o meno segretamente, il “formicaio”.
-
‘Banche illegali: ogni anno creano 1.000 miliardi, esentasse’
Il privilegio di emettere moneta “scritturale”, al di fuori di ogni legge che lo consenta (e anzi, contro l’articolo 128 del Trattato di Lisbona, che riserva la creazione dell’euro alla sola banca centrale) è stato di fatto preso dai banchieri privati, che godono della copertura delle autorità monetarie, e che in Italia ogni anno emettono mediamente 1.000 miliardi di moneta “scritturale”, denominandola “euro” – e non potrebbero farlo, perché violano il monopolio della Bce. La copertura, la protezione di questo privilegio (che in fondo è l’infrastruttura fondamentale del nostro sistema socio-economico) viene assicurata dalla Banca d’Italia. Ma se solo la Bce ha la potestà di creare l’euro, perché si tollera che l’euro venga creato (mediante i prestiti, ndr) dalle normali banche di credito? E’ una situazione di totale illegalità, contraria al diritto. Viene tollerata perché proprio il privilegio è il fondamento del potere politico-economico. I cittadini che si mettono a loro volta a creare moneta “scritturale”, contro cui di scaglia la Banca d’Italia, in realtà fanno esattamente quello che fa il sistema bancario privato.Solo che i cittadini, essendo il popolo (che deve essere sfruttato, spremuto e represso) non hanno la copertura delle autorità monetarie. Mentre il cartello bancario privato, che possiede le banche centrali – ne possiede le quote e ne nomina i dirigenti – quella copertura ce l’ha: ha la “legittimazione illegittima” delle autorità monetarie. Se anche venisse legittimata la creazione di euro “scritturali” da parte delle banche private, si avrebbe un grande beneficio: emergerebbe infatti un reddito, ora sommerso, di circa 1.000 miliardi all’anno, in Italia. Il che vorrebbe dire un gettito fiscale di circa 220 miliardi all’anno in più, per lo Stato, e il risanamento di tutti i bilanci bancari – quindi il pagamento di tutte le azioni e le obbligazioni convertibili, il recupero dei risparmi (e naturalmente, anche più soldi per gli investimenti produttivi e per le famiglie). Però non ne parlano, i nostri economisti mezzo-eretici, antisistema solo a metà. Penso a Borghi, Bagnai, Rinaldi e altri: non parlano mai, di questo. Raccontano solo una parte della storia: quella meno pericolosa, meno destabilizzante.Non dicono nulla di questo, che ormai è un dato di fatto ammesso dalla Banca d’Italia (che pubblica le tabelle, relative alla creazione della moneta “scritturale” da parte delle banche private). Forse, dire questo sarebbe politicamente insostenibile, per il governo: l’esecutivo verrebbe fatto fuori, se qualche suo esponente ne parlasse. Non parlandone, però, si rimane in una situazione di sudditanza, che condanna l’Italia a una morte economica certa e abbastanza lenta. Beninteso: io apprezzo Rinaldi, Bagnai e Borghi. Li ascolto molto volentieri, però questa cosa non la dicono, ed è la cosa più importante: silenzio, sull’essenziale. Certo, l’essenziale può essere troppo forte: svelare questa realtà pubblicamente, attraverso i mass media, significa destabilizzare il sistema. Se queste cose venissero spiegate alla popolazione, o anche solo agli imprenditori, apparirebbe l’illegittimità profonda e irrimediabile di questo sistema monetario (e anche socio-politico, perché l’economia monetaria determina le condizioni di tutta la politica economica).E poi: da un lato c’è il monopolio privato della creazione della moneta, dall’altro c’è il “monopsonio” di 8 banche, relativo all’acquisto dei titoli del debito pubblico, alle aste marginali. Cioè: alla fine, a tutti gli acquisti viene applicato il rendimento più alto della giornata. Quindi, chi ha acquistato titoli a un rendimento più basso, poi non fa altro che aspettare l’ultimo acquisto, per beneficiare del rendimento più alto: il che vuol dire che queste 8 banche possono mettersi d’accordo tra loro per fare manovre al rialzo, sui tassi di rendimento, e quindi far pagare di più ai contribuenti e guadagnare di più esse stesse. Bisognerebbe che qualcuno spiegasse, almeno ai soggetti impenditorialmente attivi, che cos’è questa tenaglia: il monopolio dell’offerta dei rating monetari e il “monopsonio” dell’acquisto alle aste. E’ una tenaglia che spezza qualsiasi residuo di “cosa pubblica”, perché mette tutto il potere in un numero ristretto di grandi banchieri: tutta la politica viene stretta in questa tenaglia.L’Italia, come altri paesi, soffre di una carenza artificiale di liquidità, alla quale si ovvierebbe sia col “reddito universale”, cioè creando più moneta per sostenere la capacità di spesa e quindi la domanda interna, sia con una creazione monetaria mirata ad investimenti che aumentino la produzione e la produttività (a patto che l’aumento dei consumi e delle emissioni non comprometta in modo definitivo la salute dell’ecosistema terrestre). Dovrebbe sorgere una rete bancaria parallela, praticamente gratuita, che tolga di mezzo l’attuale sistema bancario, interamente privatizzato. E’ un sistema sostanzialmente vampiresco, che drena risorse dall’economia e le riduce, artificiosamente, per mantenere alto il proprio potere di condizionamento della moneta. Noi viviamo in un sistema al quale viene tolta moneta. Sapete che l’Italia ha a disposizione una quantità di liquidità pro capite che è la metà di quella della Francia e della Germania? Mettete un paese indebitato e in recessione, come l’Italia, accanto a paesi molto meno indebitati e molto meno in recessione, e con il doppio della liquidità, e avrete l’inevitabile: e cioè che i paesi più forti (e con più soldi) si comprano tutto quel che c’è da comprare, dell’Italia. Sono cose di cui non si parla mai. E sono quell’essenza, sottaciuta, dell’economia monetaria.In qualsiasi società, abbiamo soggetti che da un lato hanno capacità di dare beni e servizi, e dall’altro hanno bisogno di beni e di servizi. Quindi la società richiede lo scambio. E lo scambio, a sua volta, richiede la moneta, come mezzo di regolazione dello scambio. Se però io mi pongo in una condizione di monopolista della creazione e della distribuzione della moneta (che è un simbolo: non è coperto da oro, e non ha un costo di produzione) e impongo a tutti di servirsi, per legge, della moneta da me prodotta, e gliela faccio pagare in termini di interessi, io gradualmente mi impadronisco di tutto il potenziale economico: costringo tutti a pagare con una moneta che prendono in prestito, versandomi gli interessi, per eseguire le loro transazioni. E accumulandosi gli interessi nel tempo, alla fine il mio potere diventa totale: assorbe quello dello Stato. Così io divento padrone dell’intera economia, ed è questo che è avvenuto. A quel punto io faccio scarseggiare la moneta, per mantenerne alta la domanda e alto il prezzo – e per tenere per il collo, al guinzaglio, le istiuzioni pubbliche, le imprese e i popoli.E attenzione: io non do nulla. Ottengo tutto questo senza dare alcun bene reale, alcun servizio reale: semplicemente, approfitto della posizione di monopolio che ho comperato, che ho conquistato in altri modi. Questa è l’economia politica, in essenza. Se prenderà piede Libra, la criptomoneta di Facebook, i giovani capiranno cos’è davvero la moneta: un semplice simbolo, il cui valore dipende unicamente dalla sua accettazione. E quindi capiranno che non ha bisogno di avere alle spalle una garanzia, una copertura in oro. Capiranno anche che la storia del capitale sociale delle banche centrali è una cosa assurda. Le banche centrali, che creano ed emettono la moneta, non hanno bisogno di capitale sociale, perché la moneta la creano. Il capitale sociale è una scorta di moneta, di credito, per far funzionare una normale impresa commerciale, che ha bisogno di prendere moneta dall’esterno: ma le banche centrali non hanno bisogno prendere moneta dall’esterno. E allora perché la Banca d’Italia ha un capitale sociale?Risposta: per creare il pretesto, lo specchietto per le allodole che giustifichi il fatto di avere dei proprietari, che sono società private e per lo più estere, che controllano la banca centrale italiana attraverso dei prestanome. Questa è la realtà: è tutta una costruzione fatta per ingannare. I giovani che useranno la moneta di Facebook impareranno che la moneta non ha bisogno di riserve e non ha costi di produzione. E capiranno quindi che tutta la narrazione, lo storytelling delle autorità monetarie (europee, italiane e internazionali, incluso il Fmi) è una panzana. E’ un inganno, una truffa, per spremere il prodotto del lavoro e del risparmio della gente e delle imprese. In tanti cominceranno a chiedersi: come mai Zuckerberg può produrre molti miliardi di Libra, se non ha una banca centrale? A cosa serve la banca centrale? A cosa servono le banche?Mi aspetto che si cominci a dubitare della narrazione monetaria e bancaria, prodotta dalle istituzioni per ingannarli. E poi, la Libra sarebbe davvero una criptovaluta? In greco, “cryptos” vuol dire nascosto. Se è evidente quello che hai nel portafoglio, bisognerebbe chiamarla “fanerovaluta”, moneta palese. C’è da fidarsi, di Facebook? Durante la campagna elettorale per le europee, il social network ha oscurato i miei post: sicuramente manifesta la volontà di tutelare certi segreti. Mi ha tenuto sotto censura per circa un mese, poi mi ha riammesso una volta avuti i risultati elettorali. A parte questo, io credo che ai livelli altissimi – in cui si trovano Mark Zuckerberg e le somme autorità monetarie – ci si preoccupi di trovare una via d’uscita dal vero problema di fondo: qualora l’economia mondiale ripartisse (consumi, investimenti, produzione), ripartirebbero anche i processi di esaurimento delle risorse ambientali planetarie, insieme al processo dell’inquinamento. Quindi è probabile che vi sia la volontà di mantenere soffocate le economie e le società, producendo anche depressione diffusa nelle popolazioni, per preparare una soluzione al problema ecologico e demografico.Facebook si metterà in una posizione tale da scatenare panico e sfiducia monetaria, nel mondo. Potrà fare disastri, volendo: l’economia, le monete e la finanza vivono di aspettative, e Facebook a un certo punto potrebbe anche scatenare un collasso globale delle monete. Ma forse arriverà prima la guerra, magari la guerra nucleare con l’Iran: Teheran ha appena detto che completerà il suo programma, e Trump ha replicato sostenendo di non avere bisogno dell’approvazione congressuale, per attaccare. Sono solo parole? Vedremo. Se ci sarà una guerra avremo scarsità di petrolio e prezzi fuori controllo. Ma è difficile prevedere il futuro – anzi, è impossibile. Molti economisti prevedono una nuova, grossa crisi ormai imminente? Era attesa, è vero, però gli ultimi segnali prevalenti sono diversi. In base alle informazioni che ricevo per vie interne, so che alla fine dell’anno prossimo inizierà una campagna di investimenti molto massiccia. Soprattutto nel Sud Europa ci sarà una forte espansione delle attività di costruzioni infrastrutturali. Apprendo che, in certi uffici molto importanti, ci si aspetta questo: una ripresa, nel 2020.La moneta diventerà solo elettronica? Non credo si possa elminare il cash, anche se la quantità di contante utilizzata, nel mondo, è già molto modesta. In realtà, eliminare il denaro materiale (che esiste già, senza quindi il bisogno che la banca lo mantenga in essere) è un modo per spiare capillarmente la vita dei cittadini e portargli via quello che hanno, senza che possano opporsi. Serve anche a espropriare il denaro a fini fiscali e di sostegno al sistema bancario. E serve a colpire le singole persone, quelle non sottomesse, ribelli – le persone dissenzienti, che disturbano – attraverso il blocco dei conti correnti e altre forme di persecuzione discriminatoria. Pensiamo a cosa può fare, la banca, con una segnalazione (anche falsa) di inadempienza: se ti stai comprando casa, può rovinarti la vita. Vale per tutti: la banca potrebbe fermare le capacità di acquisto, di spesa e di pagamento. E a questo si può certamente arrivare. Morte civile: non puoi più pagarti nemmeno un avvocato che ti difenda.E’ un modo per schiavizzare i cittadini – mentre la grande evasione e la grande elusione fiscale avvengono per altri canali: non certamente attraverso il contante, ma attraverso i falsi bilanci bancari che citavo prima (l’omissione della contabilizzazione dei ricavi della creazione monetaria). Evasione ed elusione avvengono anche attraverso manovre al rialzo o al ribasso dei mercati finanziari, e poi attraverso le reti bancarie occulte, che consentono l’occultamento di grandi quantità di denaro (che poi riaffiora nei paradisi fiscali). La moneta è una forma di controllo sociale, penetrante e immediato: repressione e intimidazione dei cittadini. In Cina vieni schedato, a punteggio, in base a come ti comporti su Internet e alle opinioni che esprimi. Alla fine la gente arriverà ad auto-inibirsi, a escludersi dalle comunicazioni: sarà indotta al conformismo, all’acquiescenza, per il timore di incorrere nel blocco del conto corrente e della carta di credito.(Marco Della Luna, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti e Tom Bosco nella puntata 318 di “Border Nights”, trasmessa il 25 giugno 2018 e poi ripresa su YouTube. Avvocato e saggista, Della Luna – riguardo alla creazione monetaria impropria, la moneta “scritturale” – allude al normale credito bancario: la banca possiede solo la riserva frazionaria, cioè appena l’1% del denaro che presta; di fatto il 99% lo “crea dal nulla”, emettendo il credito, e lo fa in regime di esclusivo monopolio, in questo caso privato. Della Luna ha pubblicato svariati saggi, sul tema, tra cui “Cimiteuro, uscirne e risorgere: signoraggio, golpe bancario, debito infinito”, “Euroschiavi: chi si arricchisce davvero con le nostre tasse”, “Oligarchia per popoli superflui: l’ingegneria sociale della decrescita infelice”, “Oltre l’agonia: come fallirà il dominio tecnocratico dei poteri finanziari” e “Tecnoschiavi”, uscito nel 2019).Il privilegio di emettere moneta “scritturale”, al di fuori di ogni legge che lo consenta (e anzi, contro l’articolo 128 del Trattato di Lisbona, che riserva la creazione dell’euro alla sola banca centrale) è stato di fatto preso dai banchieri privati, che godono della copertura delle autorità monetarie, e che in Italia ogni anno emettono mediamente 1.000 miliardi di moneta “scritturale”, denominandola “euro” – e non potrebbero farlo, perché violano il monopolio della Bce. La copertura, la protezione di questo privilegio (che in fondo è l’infrastruttura fondamentale del nostro sistema socio-economico) viene assicurata dalla Banca d’Italia. Ma se solo la Bce ha la potestà di creare l’euro, perché si tollera che l’euro venga creato (mediante i prestiti, ndr) dalle normali banche di credito? E’ una situazione di totale illegalità, contraria al diritto. Viene tollerata perché proprio il privilegio è il fondamento del potere politico-economico. I cittadini che si mettono a loro volta a creare moneta “scritturale”, contro cui di scaglia la Banca d’Italia, in realtà fanno esattamente quello che fa il sistema bancario privato.
-
“Chi sbaglia paghi, ma non sparate su giudici e carabinieri”
La condanna definitiva all’ergastolo per Massimo Bossetti, sul caso Yara Gambirasio? Direi che “ingiustizia è fatta”, nel senso che il rifiuto di esaminare certe prove, prima della sentenza di primo grado, la dice lunga sul tipo di qualità di questa risposta processuale. C’è anche il rifiuto di considerare le nuove prove: sono emerse soltanto in sede di appello, e solo per l’imperizia e la superficialità delle indagini. Io non sono convinto della colpevolezza di Bossetti. Tutto questo serve a coprire altre responsabilità? Non sono in grado di certificarlo, ma sicuramente ne ho il sospetto. O meglio, più che di “coperture”, parlerei di depistaggio: probabilmente è stata depistata l’indagine. Continuamente, in questo processo, sono successe cose gravi. Altrettanto grave il tentativo di depistaggio, da parte dei carabinieri, delle indagini sull’uccisione di Stefano Cucchi. Credo che sia un caso esemplare di giustizia depistata. La qualità media dei magistrati italiani, beninteso, è ottima. Poi ci sono casi in cui la qualità non è ottima, e c’è anche un ego, una volontà di protagonismo particolare, per cui il magistrato si presta a cadere in errore, incaponendosi nella sua convinzione – magari in buona fede, senza accorgersi di essere stato depistato. Però la fisiologia dell’errore esiste in tutti i meccamismi umani. L’errore non è un’anomalia: la percentuale di errori è una normalità, una fisiologia.Gli esseri umani sbagliano un certo numero di cose che fanno – che siano avvocati, magistrati, geometri, architetti o cuochi, non cambia. E’ assolutamente normale: la gente non si deve scandalizzare, deve sapere che gli uomini sbagliano. Il problema è quando, dietro l’errore, per una scarsa qualità dell’approccio alla situazione, c’è il fatto di non volersi accorgere (o di non riuscire ad accorgersi) di esser stati anche indotti, in errore. Noi però vogliamo le cose perfette: non accettiamo che l’errore sia anche un aspetto fisiologico delle cose che facciamo. Come diceva Luca Pacioli, nel suo meraviglioso “De Divina Proportione” illustrato da Leonardo: sovente, gli errori sono più importanti delle cose “juste”, perché la maggior parte delle cose “juste” nascono proprio dagli errori. Dato che la maggior parte dei magistrati è un buona fede, anche quando vengono depistati, si deve parlare per lo più di “errore”. Solo che, una volta che sono partiti e sono convinti dell’accusa, non si fermano più. Generalmente, lì prevale l’ego. Quella dei magistrati in cattiva fede è una percentuale irrisoria. Il loro è un lavoro per certi aspetti duro, che ti mette continuamente a confronto con la sofferenza: quindi è uno di quei mestieri che migliorano l’essere umano (non lo peggiorano).Chi li induce in errore, invece, è un altro tipo di persona: è il vero criminale. Non sempre le azioni di despistaggio vedono la complicità di chi svolge le indagini. Le azioni di depistaggio sono sofisticate, e vengono sempre dall’esterno. Fa eccezione il caso Cucchi, dove c’era un’autodifesa corporativistica dell’Arma, che è stata un danno drammatico per l’Arma dei carabinieri stessa. L’Arma deri carabinieri non è un organo d’indagine comune. Ha una storia, una rilevanza sociale e una connessione gerarchica fino a poco tempo fa molto particolare, diversa da quella degli altri organi di polizia e dell’esercito. E questo suo nascere a metà strada tra l’esercito e la polizia, tra funzione interna e funzione esterna, questo suo rispondere direttamente alla presidenza della Repubblica (i carabinieri sono gli unici a giurare fedeltà al presidente della Repubblica, oltre che allo Stato e alla Costituzione), ovviamente può produrre anche difese politiche corporativistiche di quest’Arma, che per noi è un punto d’orgoglio.Nei carabinieri, lo spirito di corpo è qualcosa di particolare. E nel caso Cucchi ha prodotto qualcosa di estremamente negativo, oserei dire quasi criminale, per cui bisognerebbe che l’indagine futura risalisse anche alla catena gerarchica per vedere quanti erano al corrente di quello che si stava facendo, incluso il maresciallo che probabilmente verrà accusato di responsabilità nell’aver fatto sparire la nota di servizio del carabiniere che poi si è ravveduto e ha parlato. E quanti altri, nella catena gerarchica, erano al corrente della sparizione di quella nota? Questo va fatto nell’interesse dei carabinieri, e per l’amore che io personalmente, in quanto italiano, porto all’Arma dei carabinieri. Perché, oltre a essere danneggiato il povero Cucchi, insieme alla sua famiglia (alla quale nessuno di noi può negare solidarietà, unendosi al suo dolore), è molto danneggiata anche l’Arma dei carabinieri – che questo danno non se lo merita. L’accaduto pregiudica la dignità dell’Arma, e noi dobbiamo tutelarla da questo pregiudizio. La stessa Arma dei carabinieri deve fare pulizia, per riscattare il proprio onore.Certo, ci sono anche casi come la morte di Marco Pantani o quella di David Rossi a Siena, nella sede centrale del Monte dei Paschi: la contaminazione della scena del crimine è possibile solo con la complicità di chi svolge le indagini. Ma ci sono manipolazioni e depistaggi che non prevedono la complicità di chi indaga: prevedono solo la “fessaggine” occasionale, da parte degli inquirenti. Le cose umane si ripetono sempre secondo gli stessi schemi. Che succedano nell’Arma dei carabinieri, nella Guardia di Finanza o nei paracadutisti (dove ci sono tanti suicidi) è solo una contingenza. Il meccanismo è sempre lo stesso: puntiamo al dito e non guardiamo la luna. Le cose umane hanno le loro complicazioni e complessità, i loro problemi. Questo lo sappiamo, però diamo la colpa ai contesti, anziché alle persone. Io non do la colpa alla Cgil, se si scopre che un sindacalista ruba. Non do la colpa alla massoneria se si scopre che un massone non fa il massone. Quella è una malattia molto italica, oserei dire “italiota”, che non ho mai condiviso. Sono condanne per schemi, per categorie, che generano odio diffuso. Non le ho mai condivise, nei confronti di nessuno.Quando la gente si è scagliata contro il comunismo, additando i Gulag russi, ho sempre detto: guardate che l’ideale del comunismo non era quello, che semmai era l’effetto di un regime che si è trasformato, deviato a corrotto nei tempi, anche in funzione dell’accerchiamento capitalistico che aveva subito. Le dinamiche sociali e politiche, e anche quelle della giustizia, sono complesse: non possono essere giudicate con l’accetta, separando il bene e il male (che sono connessi, intrecciati). E le situazioni complicate richiedono analisi accurate: non tanto per assolvere qualcuno o condannare qualcun altro, ma per evitare di ripetere sempre gli stessi errori. Come spiegare l’attuale rabbia generalizzata nell’opinione pubblica? Ha avuto successo lo schema del potere, che ti dice questo: tu esisti se hai un nemico. Se non hai un nemico, non esisti. Lo schema del potere ti spinge a impegnare tutte le tue energie, le tue risorse e le tue possibilità a distruggere il nemico, anziché a costruire te stesso o ad aiutare i tuoi amici. In questa maniera, il potere si è evitato di essere combattuto. Perché, in realtà, combattere il potere (nella versione che Francesco Saba Sardi presenta come dominio) non significa distruggere dei nemici. Se tu perdi le tue energie nel cercare di distruggere qualcuno o qualcosa, in realtà quelle energie sono tolte da quello che dovrebbe essere il verbo della nostra vita, che è il costruire.L’esempio classico è la massoneria: dovrebbe essere sempre rivolta al costruire (lo dice il suo stesso nome), e invece – nonostante la sua origine e la sua tradizione – da un certo punto in poi si è impegnata a distruggere. E’ una deviazione profonda, che è dipesa dal fatto che il potere si è difeso da tutte quelle energie positive della società che potessero metterne in discussione il monopolio e la gerarchia, il suo schema generale. Oggi noi abbiamo una restrizione dei diritti civili, non un allargamento. Dato che uno, solo perché arrestato (non importa per quale motivo) viene subito bollato come criminale, tutto viene di conseguenza. In Italia c’è uno scarsissimo rispetto per chi viene privato della libertà, da parte dello Stato. Abbiamo avuto casi eclatanti di detenuti che non hanno potuto ricoversarsi in ospedale, perché la durezza del loro regime carcerario non veniva recepita dalla sensibilità dei giudici, al punto da predisporre le cure. Ci sono alcuni magistrati che hanno agito anche per fini politici o per fini personali, ad esempio per fare carriera, ma è sbagliato dire che la magistratura agisce per fini politici. Commettiamo sempre lo stesso errore. Le responsabilità sono sempre personali. Responsabili sono le persone, non le categorie.La categoria dei magistrati è l’unica che non risponde dei propri errori? Questo è un altro aspetto, ma non risolve il problema dell’errore, che in una certa percentuale è sempre fisiologico. La responsabilità dell’errore non è il problema dell’errore: non è che, se un medico sbaglia e uccide il paziente, col risarcimento si risolve il problema. E’ impensabile abolire la possibilità di errore. Si può invece fare il modo che l’errore sia residuale: una quota talmente minima, che i danni siano sopportabili. Certamente, il meccanismo delle responsabilità sugli errori giudiziari, in Italia, io non lo condivido. Ma questo non vale solo per la magistratura, vale anche per gli organi che indagano, per il modo in cui vengono fatte le indagini. E dato che in un processo poi intervengono dai 16 ai 20 magistrati, nel caso di una sentenza sbagliata non si sa mai chi ha commesso l’errore fondamentale. Perché formalmente mettiamo in piedi delle garanzie, ma in realtà le togliamo. Facciamo tribunali del riesame, tribunali della libertà, e poi non si sa chi sbaglia. Io farei una legge per cui il procuratore della Repubblica può fare quello che vuole: arrestare, intercettare, indagare. Ma se sbaglia, paga. Perché la responsabilità è sua. E se mi mette in galera, deve processarmi entro 60 giorni: devono fare presto, se toccano le libertà costituzionali.Li responsabilizzeri di più, i magistrati, con la deterrenza della sanzione contro di loro, proprio perché sono convinto che la maggior parte di loro rappresenti un orgoglio di questo paese, non una vergogna. Impegnare 16 magistrati per processare una persona mi sembra uno sproprosito: un primo magistrato ti arresta, un giudice istruttore lo autorizza, il Tribunale del Riesame (tre soggetti) valuta il caso, poi c’è il processo di primo grado (altri tre soggetti), poi c’è il processo d’appello (idem). Quanti magistrati intervengono? Tutti personaggi che potrebbero essere tranquillamente recuperati all’efficienza del processo: recuperando 10-12 magistrati alle funzioni dirette del processo, si smaltierebbe tutto l’arretrato in un solo anno. Ovviamente i magistrati devono avere più mezzi. Ho conosciuto magistrati che si pagavano da soli le fotocopie. Quelli di Bari si sono dovuti pagare una serie di cose, perché il loro tribunale è crollante. Noi da un lato li attacchiamo, e dall’altro non gli diamo i mezzi? Non si può ragionare così. E’ come accusare i maestri del crollo delle scuole. Innanzitutto devi mettere la gente in condizione di lavorare bene – cosa che, nei confronti dei magistrati, in Italia non viene fatta. Poi li si vuole criminalizzare quando commettono errori? Ma non funziona così, il mondo.(Gianfranco Carpeoro, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti nella diretta web-streaning su YouTube “Carpeoro Racconta” del 14 ottobre 2018).Massimo Bossetti all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio? «Ingiustizia è fatta: non sono per niente convinto della colpevolezza di Bossetti», vittima di indagini «superficiali». Per non parlare del caso di Stefano Cucchi, massacrato di botte dai carabinieri che l’avevano arrestato. Uno scandalo, che «pregiudica la dignità dell’Arma, che dobbiamo tutelare da questo pregiudizio». In altre parole: «La stessa Arma dei carabinieri deve fare pulizia, per riscattare il proprio onore». Lo afferma Gianfranco Carpeoro, in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. Avvocato di lungo corso (vero nome, Pecoraro), Carpeoro – saggista e attento osservatore dell’attualità italiana – insiste però su un punto: guai se ci scandalizziamo se la giustizia sbaglia una sentenza, come sul caso di Yara: errare è umano, l’errore è fisiologico. Idem se criminalizziamo l’intera Arma dei carabinieri per colpa dei militari che hanno picchiato Stefano Cucchi provocandone la morte, come confessato da un commilitone, l’appuntato Riccardo Casamassima, a nove anni di distanza dalla tragedia. Si finisce per condannare ingiustamente l’intera categoria – magistrati, carabinieri – quando invece si dovrebbe pretendere che a pagare per i propri errori siano le singole persone che sbagliano: inclusi i magistrati, «spesso ottimi, ma costretti a lavorare in condizioni difficili».
-
Credito ai poveri, e nacque il banchiere più grande al mondo
C’era una volta un uomo. Era un uomo vero, di quelli d’un tempo, e sarebbe divenuto il banchiere più grande del mondo. Uno di quegli uomini che dicevano “non voglio diventare troppo ricco, perché nessun ricco possiede la ricchezza, ma ne è posseduto”. All’epoca – si era in California, nell’America dei primi del Novecento – le banche davano soldi solo alle imprese già affermate. Nessuno dava credito alle piccole imprese. Quell’uomo decise di aprire la sua banca, ma non aveva una sede. Rilevò allora da una signora che voleva ritirarsi in pensione il contratto di affitto di un bar, in un incrocio, per 1.250 dollari. Non aveva clienti, e così iniziò un modo di fare banca diversa da tutte le altre dell’epoca. Si mise a girare per le strade, offrendo piccoli prestiti a chi voleva aprire un capannone, un piccolo ristorante, un esercizio commerciale. Nei primi del Novecento, era impossibile in America avere credito dalle banche, se eri una micro-impresa: vi era una regola per la quale non si davano prestiti inferiori ai 200 dollari. In pratica, per le somme minori ci si doveva rivolgere agli usurai. Quell’uomo iniziò a finanziare piccole cose, dando prestiti a partire da 25 dollari. Divenne famoso per la sua nuova cultura di banca.Io per finanziare un uomo – era solito dire – voglio guardarlo negli occhi e vedere i calli sulle mani. A proposito del fatto che oggi tanto si parla di riforma delle banche popolari, ricordo che quell’uomo volle per la sua banca un azionariato diffuso, un azionariato popolare. Si occupò personalmente di andare a proporre le azioni a gente che non era mai stata in una banca: fornai, lattai, droghieri, ristoratori, idraulici, barbieri. Oggi si parla di austerity, di termini inglesi come “leverage” (il rapporto tra capitale e prestito), di rigore. Ricordo che anche allora si dicevano le stesse cose: in due mesi aveva raccolto 70.000 dollari, ma ne aveva impiegati 90.000 e i suoi soci erano preoccupati. Come faremo? – strillavano. Bisogna avere fiducia nella gente – rispondeva lui agli altri. La gente la ripagò, la sua fiducia. Cominciò ad andare nella banca che permetteva loro di finanziare una bottega, di avere un reddito dignitoso, di comprare una casa, di metter su famiglia, di mandare i figli a scuola. In un anno, quei 70.000 dollari divennero 700.000, e la banca continuava a crescere e a dare fiducia.Nel 1906 a San Francisco avvenne un fatto terribile. Il terremoto distrusse la città e la gente si aggirava disperata per le strade, avendo perso tutto, casa e lavoro. Quell’uomo, mentre gli strozzini si aggiravano per le strade, andò sul molo della città, mise un tavolaccio di legno appoggiato su due barili, in mezzo alla folla dei disperati, ci salì sopra ed espose un cartello, con il titolo “Banca di (X), aperto ai clienti” (il nome della “X” ve lo dirò alla fine di questa storia). Resta il fatto che quell’uomo mise un sottotitolo che aveva lui stesso dipinto sul cartello quella notte: “Prestiti come prima, più di prima”. Quell’uomo si chiamava Peter, e stava realizzando il suo sogno di aprire una banca per i piccoli imprenditori, i diseredati, gli emigranti. La “banca” venne assalita da persone che avevano idee per ricostruire la città e lui prestava soldi con il suo metodo, guardando le persone negli occhi e osservando i calli sulle mani. Segnava i crediti su un quadernetto, annotando nomi e cifre. Girava con un carretto ed elargiva prestiti sulla fiducia, senza garanzia, a persone che non avevano potuto andare a scuola e che per lo più firmavano con una croce. Li valutava fidandosi della loro parola e del loro onore. Lui dava fiducia a quelli che avevano delle idee, dei progetti, non a quelli che avevano dei soldi o proprietà da dare in garanzia.I suoi consiglieri gli dicevano che era un pazzo, che sarebbe finito in rovina. Invece, successe una cosa che nessuno si sarebbe aspettato. Quei piccoli imprenditori tornarono da lui, portando tanti altri amici, gente che toglieva i propri pochi depositi dalle altre banche e li andava a investire da Peter, l’uomo col carrettino. Pochi depositi, ma erano milioni di persone. Tutti gli immigrati della California, i nuovi piccoli imprenditori, vennero presto a conoscere la storia dell’uomo col carrettino e il nome di Peter divenne in breve mito, e da mito leggenda. Successe che l’uomo che dava fiducia al prossimo ricevette fiducia dal prossimo e i suoi conti crebbero, perché tutti volevano portare i propri risparmi alla banca di Peter. La sua politica era diversa da quella di tutte le banche dell’epoca ed era volta a dare soldi ai piccoli, agli artigiani, ai commercianti, agli agricoltori, ai piccoli imprenditori. La banca di Peter negli anni crebbe in tutta la California, aprendo filiali a San Francisco, a Los Angeles, fino ad attraversare l’immensa giovane nazione ed arrivare, nel 1919, a New York. Otto anni dopo, quella banca cambiò nome, e divenne la Bank of America.All’epoca, i consiglieri della banca proposero un premio al suo fondatore, di addirittura 50.000 dollari. L’uomo, che aveva già guadagnato nella sua carriera quasi mezzo milione di dollari, restando fedele al suo detto di quando, da giovane, aveva deciso di creare una banca, per evitare di “essere posseduto dalla ricchezza” rifiutò il premio, dicendo che chiunque desiderasse avere più di 500.000 dollari doveva farsi vedere da un dottore. La smania di denaro è una brutta cosa – disse una volta – io non ho mai avuto quel problema. Detto da uno che a sette anni aveva visto il padre ucciso dopo un litigio per un dollaro, c’era da credergli. Infatti, fece devolvere più volte vari premi alla ricerca scientifica. Oggi le banche aborrono progetti innovativi e la finanza moderna pretenderebbe che non si investa in progetti originali e non consolidati, senza patrimoni dell’imprenditore e adeguate garanzie. Pensate allora a cosa doveva voler dire, all’epoca, finanziare una cosa sconosciuta e incredibile che si chiamava cinematografo: follia, per i suoi colleghi. Peter, a differenza di tutti gli altri banchieri, prestò i suoi soldi a un geniale innovatore, consentendo nel 1921 a tutto il mondo di conoscere “Il Monello”, il meraviglioso film di Charlie Chaplin.Anni più tardi, finanziò Walt Disney, che gli parlava di finanziare un’altra incredibile rivoluzione tecnologica e cioè i cartoni animati. Il mondo conobbe così la favola di “Biancaneve e i sette nani.” Ancora, finanziò un visionario siciliano, Francesco Rosario Capra, rimasto senza lavoro per la crisi del ’29, rivelando così al mondo il genio del celeberrimo regista Frank Russel Capra. Così, mentre gli esperti di finanza insegnavano l’importanza di adottare regole restrittive, Peter finanziava i piccoli imprenditori guardandoli negli occhi e alla fine, tirando i conti, si scoprì che il 96% dei prestiti della banca erano stati rimborsati, senza alcuna garanzia. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, la banchetta nata in un bar, proseguita su un carrettino, che ora si chiamava Bank of America, superò per depositi la First National Bank e la Chase Manhattan Bank, le due più grandi banche di New York, diventando così la più importante banca del mondo. Dopo la fine della guerra, Peter volle che la Bank of America si impegnasse in prima persona nel piano Marshall, cioè nel gigantesco piano di ricostruzione che ha consentito anche al nostro paese di ripartire, finanziando così, indirettamente, milioni di nostri piccoli imprenditori.Quando, nell’ottobre del 1945, lasciò la presidenza della banca, lasciò i cassetti aperti, affermando che “né lui, né la sua banca, avevano nulla da nascondere”. Quando morì, quattro anni più tardi, dall’inventario dei suoi beni si scoprì che aveva mantenuto la sua parola, e pur essendo stato il banchiere della banca più grande del mondo, il suo patrimonio ammontava esattamente a soli 489.278 dollari, meno del mezzo milione per cui, secondo lui, uno sarebbe dovuto farsi vedere da uno psichiatra. Può sembrare una favola, ma è storia vera. L’ho raccontata perché oggi, se mi guardo intorno, io non vedo una situazione abissalmente diversa dal disastro di San Francisco del 1906 o dalla crisi del ’29. Mentre i politici parlano di riforma della legge elettorale, le imprese chiudono ogni giorno, la gente è a spasso, molti restano senza lavoro e senza speranza. Allora, esistevano uomini di banca come Peter. Oggi i piccoli imprenditori sono disperati. Le banche ripetono il mantra appreso da docenti, banchieri e politici che parlano in lingua inglese, chiedono garanzie, e si sente a ogni angolo la parola “austerity”. Gli anglosassoni ci vengono a insegnare come si fa il mestiere di banchiere e i tedeschi ci insegnano il rigore. Ora, io avrei un sogno. Vorrei che in una nostra città, una qualunque, tra le macerie della nostra economia, un banchiere italiano, un politico italiano, uno statista, prendesse un tavolaccio, lo mettesse in mezzo a una strada e poi ci salisse sopra.Vorrei che ci posasse sopra un cartello con una scritta a mano in cui si leggesse: “Da oggi, prestiti all’economia, come prima, più di prima”. Sottotitolo: “Colleghi, l’austerity ve la potete mettere in quel posto”. E poi, vorrei che quest’uomo cominciasse a ridisegnare le regole del gioco della finanza mondiale, per insegnare a tutti che noi italiani non abbiamo bisogno di lezioni da nessuno, sul come si fa a fare il mestiere del banchiere. Il vero banchiere non chiede le garanzie, ma guarda i calli sulle mani. Questo, sarebbe il mio sogno. Perché sul cartello che quell’uomo aveva scritto di suo pugno, su quel tavolo in mezzo alla strada, c’era il nome della sua banca: Bank of Italy. Questo era il nome originario di quella che sarebbe divenuta, molti anni dopo, la più grande banca del mondo: la Bank of America. Il suo fondatore, l’uomo che guardava gli altri negli occhi e finanziava guardando i calli delle mani, l’uomo che si alzò in piedi insegnando al mondo a rialzarsi in piedi, l’uomo che insegnò a tutti che fare banca non significa chiedere regole, ma dare fiducia, non era un anglosassone. Peter era il secondo nome di Amedeo Giannini, in cerca di fortuna nell’America di fine ottocento, figlio di poveri migranti dell’entroterra ligure. C’era una volta un banchiere. Era un uomo vero. Era un italiano.(Valerio Malvezzi, “L’incredibile storia del banchiere più grande del mondo”, dal sito “Win The Bank”, 2018).C’era una volta un uomo. Era un uomo vero, di quelli d’un tempo, e sarebbe divenuto il banchiere più grande del mondo. Uno di quegli uomini che dicevano “non voglio diventare troppo ricco, perché nessun ricco possiede la ricchezza, ma ne è posseduto”. All’epoca – si era in California, nell’America dei primi del Novecento – le banche davano soldi solo alle imprese già affermate. Nessuno dava credito alle piccole imprese. Quell’uomo decise di aprire la sua banca, ma non aveva una sede. Rilevò allora da una signora che voleva ritirarsi in pensione il contratto di affitto di un bar, in un incrocio, per 1.250 dollari. Non aveva clienti, e così iniziò un modo di fare banca diversa da tutte le altre dell’epoca. Si mise a girare per le strade, offrendo piccoli prestiti a chi voleva aprire un capannone, un piccolo ristorante, un esercizio commerciale. Nei primi del Novecento, era impossibile in America avere credito dalle banche, se eri una micro-impresa: vi era una regola per la quale non si davano prestiti inferiori ai 200 dollari. In pratica, per le somme minori ci si doveva rivolgere agli usurai. Quell’uomo iniziò a finanziare piccole cose, dando prestiti a partire da 25 dollari. Divenne famoso per la sua nuova cultura di banca.
-
Della Luna: banche e sangue, stanno per portarci via tutto
I risparmi degli italiani, mobiliari e immobiliari, già stimati in 8.000 miliardi, da tempo attraggono l’interesse di finanzieri e politici, che già ne hanno preso una discreta parte tra truffe bancarie ed estorsioni tributarie, come ben sanno soprattutto i molti imprenditori che devono chiedere prestiti per pagare le tasse su redditi non realizzati. Mercoledì 20 ho ascoltato per quasi un’ora il giornalista economico di “Radio 24”, il quale si meravigliava del fatto che continuano le vendite massicce di azioni delle banche italiane sebbene i loro circa 300 miliardi di crediti deteriorati siano coperti per oltre il 90% da accantonamenti e garanzie. Oggi i titoli bancari hanno recuperato, ma di ben poco rispetto alle perdite accumulate recentemente. Mps oggi passa da 0,50 a 0,73 (+ 0,43%), ma otto giorni fa era a 1 e otto mesi fa era 9,45! Quest’anima candida di giornalista economico par non sapere ciò che sanno tutti gli operatori (quindi crederà a Draghi che oggi sostiene che le banche italiane siano solide). Non sa, innanzitutto, che i crediti deteriorati sono molti di più di quelli dichiarati in bilancio, perché quasi tutte le banche hanno molte sofferenze sommerse, cioè che non dichiarano perché non hanno i soldi per fare i relativi accantonamenti.Non sa, inoltre, che molti crediti divenuti inesigibili figurano invece a bilancio come a rischio ordinario solo perché il loro ammortamento, cioè la scadenza delle rate, è stato sospeso dalle banche stesse in accordo con i clienti morosi, nel reciproco interesse. Non sa che molti crediti, apparentemente coperti da idonee garanzie, in realtà sono scoperti, perché le garanzie sono state sopravvalutate ad arte al fine di concedere crediti a compari e a clientele politiche che era inteso che non li avrebbero rimborsati. O che sono beni sopravvalutati per consentire agli amici-venditori di venderli per un prezzo moltiplicato a compratori fasulli. Non sa che le garanzie immobiliari acquisita dalle banche a collaterale dei crediti erogati si sono fortemente svalutate e sono divenute pressoché invendibili, fonte più di spese che di recuperi, a causa della quasi morte del settore immobiliare fortemente voluta con la politica fiscale dal governo Monti, sicché le banche, pur avendo sulla carta la possibilità di recuperare i loro crediti vendendo gli immobili ipotecati a copertura, in realtà incasserebbero troppo tardi perché il realizzo possa aiutare a superare la crisi odierna.Non sa che il sistema bancario italiano non crolla solo perché continua: a ricevere aiuti (credito gratuito) dalla Bce; ad avere la possibilità di realizzare profitti illeciti, ossia solo perché le varie autorità competenti non gli impediscono di continuare; ad applicare commissioni illegittime, interessi usurari, anatocismo; nonché a collocare titoli-spazzatura o sopravvalutati; e, come già detto, a non dichiarare in bilancio tutte le perdite sui crediti. Tutte queste cose, al contrario, le sa la Banca Centrale Europea, che a giorni manderà i suoi ispettori nelle banche italiane, e si sa già che cosa quindi questi signori troveranno. Ecco il perché delle turbo-vendite massicce anche allo scoperto dei titoli delle banche italiane. Si sa che l’ispezione, se non solo minacciata ma anche rigidamente eseguita (e qui c’è spazio per mediazione politica e il buon senso, ovviamente) potrà portare a un disastro di tutto il sistema bancario e a conseguenze radicali per l’intero paese. Più dell’arrivo della Troika, di nuove tasse di emergenza per finanziare la bad bank, di un bail-in generalizzato, di una legge che ipotechi forzatamente i beni immobili degli italiani a garanzia di qualche prestito di salvataggio da parte del Fmi.E siccome una qualche situazione esplosiva molto probabilmente si realizzerà prima che sia stato instaurato il nuovo, schiacciante sistema di dominio autocratico del premier, cioè la riforma costituzionale ed elettorale del governo Renzi, è abbastanza possibile che il paese si ribelli. Soprattutto se verrà divulgata la notizia che gli stessi fondi di investimento e altri investitori istituzionali che stanno conducendo la campagna di svendita dei titoli delle banche italiane, sono quelli che partecipano la Banca d’Italia, le agenzie di rating, e la stessa Bce, la quale adesso manda le ispezioni. È molto pericoloso che la gente apprenda chi e come le sta portando via il risparmio e la casa e il posto di lavoro e, al contempo, la libertà.(Marco Della Luna, “Banche e sangue, questa è l’Italia che riparte”, dal blog di Della Luna del 21 gennaio 2016).I risparmi degli italiani, mobiliari e immobiliari, già stimati in 8.000 miliardi, da tempo attraggono l’interesse di finanzieri e politici, che già ne hanno preso una discreta parte tra truffe bancarie ed estorsioni tributarie, come ben sanno soprattutto i molti imprenditori che devono chiedere prestiti per pagare le tasse su redditi non realizzati. Mercoledì 20 ho ascoltato per quasi un’ora il giornalista economico di “Radio 24”, il quale si meravigliava del fatto che continuano le vendite massicce di azioni delle banche italiane sebbene i loro circa 300 miliardi di crediti deteriorati siano coperti per oltre il 90% da accantonamenti e garanzie. Oggi i titoli bancari hanno recuperato, ma di ben poco rispetto alle perdite accumulate recentemente. Mps oggi passa da 0,50 a 0,73 (+ 0,43%), ma otto giorni fa era a 1 e otto mesi fa era 9,45! Quest’anima candida di giornalista economico par non sapere ciò che sanno tutti gli operatori (quindi crederà a Draghi che oggi sostiene che le banche italiane siano solide). Non sa, innanzitutto, che i crediti deteriorati sono molti di più di quelli dichiarati in bilancio, perché quasi tutte le banche hanno molte sofferenze sommerse, cioè che non dichiarano perché non hanno i soldi per fare i relativi accantonamenti.
-
La vera storia della fine di Craxi e l’euro-rovina dell’Italia
L’Italia si radicalizza, nel dopoguerra, intorno a due poli: un polo cristiano e un polo di sinistra, che si scinde in più realtà. E poi ha delle forze storiche – liberali, repubblicani – che provengono dalla storia risorgimentale. In questo quadro l’Italia resiste finché non crolla il Muro di Berlino. Fino ad allora, gli americani finanziano la Dc, i russi finanziano il Pci, gli altri si procurano da vivere un po’ come possono. E il sistema politico va avanti, in una specie di benessere garantito dai finanziamenti esteri su cui si modellano i due grossi partiti, mentre gli altri partiti hanno campo libero nel finanziamento illecito, cioè nel finanziamento che ipocritamente veniva considerato illecito, cioè sottobanco. Cosa succede nel 1989? Crolla il Muro. E nel momento in cui vengono meno i due blocchi e gli americani non hanno più paura dei russi, pernsate che diano ancora soldi alla Dc? I russi a loro volta non esistono più, ma le strutture dei partiti rimangono uguali: dipendenti da mantenere, sedi, palazzi, giornali, volantini da distribuire. Dove prenderli, i soldi? In più, finché c’era solo una emittente televisiva il costo della politica era di un certo importo; una volta nata la Tv commerciale, che gli spot se li fa pagare, e non c’è più solo la “Tribunale elettorale” di Jader Jacobelli, il costo aumenta ancora.Tutto questo costo dove viene trasferito? Nel finanziamento illecito. Che invece di essere un fenomeno sopportabile perché residuale al grosso del finanziamento della politica, diventa un dramma, perché tutto costa il triplo. E come reagisce il sistema italiano a tutto questo? Non reagendo. Cioè, invece di capire che deve correre ai ripari, si fa cogliere di sorpresa. Da che cosa? Da una casta, che era stata toccata nei suoi interessi, e reagiva: era la casta dei magistrati. Dopo il caso Tortora, e dopo aver cercato più volte di prendere il sopravvento sulla politica – ma non ci riusciva, perché allora c’erano delle garanzie come l’immuità parlamentare, dei limiti al suo potere – i magistrati sferrano l’attacco di Tangentopoli avendo diversi obiettivi. Il primo, la reazione di casta al referendum che Craxi gli aveva fatto, sulla responsabilità dei magistrati – referendum vinto ma non eseguito, perché in quel rederendum si aboliva il fatto che i magistrati non rispondessero nei loro errori. E i magistrati allora hanno preteso, tramite i due maggiori partiti e mettendo in minoranza Craxi, che invece, pur riconosciuti responsabili dei loro errori, non li pagassero – né sul piano della carriera, né sul piano economico.L’attacco sferrato con Tangentopoli aveva un primo obiettivo: far cadere l’immunità parlamentare, che aveva sempre frenato l’attacco della magistratura. Bisognava poterli arrestare, i politici. Bisognava poter adoperare la carcerazione preventiva, in quella maniera, per poi stabilire il predominio, l’abuso. La carcerazione preventiva (obbligatoria per reati come omicidio e rapina) è prevista se c’è pericolo di fuga, di inquinamento delle prove e di reiterazione del reato. Viceversa, la carcerazione preventiva non si può applicare, perché “nulla pena sine condanna”, niente pena senza prima una condanna, non del pubblico ministero ma del giudice. Pensate che nel 1994 la Cassazione, per salvare tre mandati di cattura assolutamente illegittimi di Di Pietro, fece una sentenza di questo tipo, a sezioni unite: la custodia cautelare è sempre giustificata se l’imputato non confessa. E’ come il famoso comma 22 del codice militare tedesco nazista, che diceva: chi è pazzo può chiedere di essere esentato dal servizio militare, ma chi chiede di essere esentato non è pazzo. E’ la legge perfetta, perché il cerchio si deve chiudere.La custodia cautelare sempre giustificata se l’imputato non confessa? Di fronte a una sentenza di questo tipo, uno si deve chiedere qual è l’utilità del processo. In Italia, la custodia cautelare viene adoperata per scopi istruttori o per anticipare la pena. Ormai, il reato del politico che ruba è diventato odioso, agli italiani. Tant’è vero che gli italiani, da decenni, accettano dei politici incapaci, purché non rubino. Pensate a quanto stareste meglio se aveste dei politici capaci, che rubano. Il problema di uno che fa un lavoro è che sia bravo, non che sia onesto. Onesto è una conseguenza dell’essere bravo. Scipione l’Africano fu condannato per corruzione. In ogni posto del mondo vedo politici che vanno sotto processo: è giusto che vengano condannati, è giusto che vadano in galera. Quello che non è giusto è che vengano utilizzati dalla comunicazione per far passare sotto silenzio delle altre cose. Il problema di uno Stato che non funziona non è la corruzione. Non è il politico disonesto: è l’incapacità. Perché una persona anche onesta, ma incapace, lo Stato lo fa andare a rotoli lo stesso. Oggi pretendono che non ci siano pregiudicati. Io la metterei in altri termini: non devono esserci persone condannate che non hanno scontato la pena.In uno Stato laico, una volta che hai scontato la pena, tu il debito con la società l’hai pagato. Devi scindere il piano etico, pure importante, dal piano pratico: la giustizia deve funzionare. E la giustizia non va avanti sulla verità, va avanti su un fatto convenzionale che si chiama verità processuale, che non è necessariamente la verità. Ma l’azione di Mani Pulite aveva un bersaglio principale, che era Craxi, perché Craxi aveva detto di voler fare parecchie cose. Per esempio, nazionalizzare la Banca d’Italia. E di chi è la Banca d’Italia? E’ delle banche. E le banche di chi sono? Finanza massonica e finanza cattolica. Ma c’è un altro problema: la Banca d’Italia, all’epoca, era il controllore delle porcate che facevano questi, che erano controllati e controllori: erano i proprietari della Banca d’Italia, che avrebbe dovuto controllarli. Quindi, Craxi si mette contro un bel po’ di nemici. Si mette contro il potere bancario, forse il potere tout-court. Si mette contro i preti, perché vuole riformare pure i Patti Lateranensi – sapete come sono i preti: finché uno gli bestemmia davanti, gli danno 25.000 pater noster, ma gli vuoi far pagare le tasse s’incazzano.Dopodiché si scopre, tramite il caso Gelli, che Craxi finanziava Arafat. Perché i famosi 2 miliardi che Craxi dice a Martelli di prendere da Gelli e di versare sul “Conto Protezione”, cosa che non vi dicono, un minuto dopo sono stati presi da Craxi per darli ad Arafat, cioè ai palestinesi. E’ sottile il confine tra terrorismo e insurrezione: Pietro Micca che fa saltare mezza Torino mettendo le bombe nei sotterranei per noi è un patriota, mentre un terrorista palestinese è un terrorista. Pietro Micca lottava per la sua terra, perché l’Italia fosse unita; i palestinesi perché esista una Palestina: uno ha messo le bombe ed è un eroe, quegli altri mettono le bombe e per noi sono dei mascalzoni. Ricordiamoci dell’Achille Lauro, e qui c’è un’altra cosa che non vi dicono: l’operazione Achille Lauro era mirata a colpire il Mossad decapitando il “B’nai Brit”, la massoneria ebraica, che ha le caratteristiche di tutte le massonerie: come la massoneria americana funziona in stretta alleanza con la Cia, il “B’nai Brit” è la parte segreta dei servizi israeliani, cioè del Mossad. Il capo dei “B’nai Brit” – e questo è quello che non vi dicono – era quel signore sulla sedia a rotelle che i palestinesi buttarono giù dalla nave. Si chiamava Leon Klinghoffer. I giornali scrissero che la vittima era un povero paralitico, ma non dissero chi era veramente.Tornando a Craxi: fin qui si è inimicato le banche, i cattolici, gli ebrei; poi dà parere negativo al riconoscimento dei comunisti nell’Internazionale Socialista; poi Reagan gliela giura, perché a Sigonella ha mandato i carabinieri a puntare le armi sui marines (per proteggere il commando palestinese dell’Achille Lauro), quindi ha contro anche gli americani, e parte della massoneria: perché Spadolini, che era uno dei capi della massoneria italiana, era dell’opinione che bisognasse aiutare Reagan, e quando chiese alla massoneria ufficiale di prendere posizione, e la massoneria non lo fece, Spadolini si mise “in sonno”, e trasformò Craxi in un problema anche per la massoneria. A quel punto, Craxi era uno che non poteva attraversare la strada neanche sulle strisce pedonali. Per cui, nel momento in cui la magistratura fa sapere che sta per fottere Craxi – e qui trovate traccia di quei famosi incontri dei servizi segreti con Di Pietro e gli americani – ognuno ci mette del suo per darle una mano. Così, Craxi finisce ad Hammamet.Ad Hammamet, Craxi ci finisce anche per un uleriore motivo: era antipatico. La sua principale sconfitta? Non essere riuscito a superare il 15%. Alla gente stava sulle palle. Qui non c’erano complotti: Craxi non sfondava sul piano del consenso popolare – poi bisognerebbe interrogarsi sulla qualità di un popolo che vota Berlusconi e non Craxi. In ogni caso, visto che più del 12-13% non otteneva, Craxi ha perso anche per colpa sua: se fosse stato più forte, questa facilità nel farlo fuori non ci sarebbe stata. Resta però un fatto: c’era stata una riunione su una bellissima barca inglese parcheggiata vicino a Roma, ad Anzio, in cui si erano incontrate dieci, quindici, venti persone, e avevano deciso che l’Italia stava diventando troppo forte, con Craxi. L’Italia era arrivata tra i primi 5 soggetti economici del mondo. Aveva fatto la richiesta ufficiale per fare il G5; esisteva il G7 e adesso c’è il G4, fatto apposta per escludere l’Italia che voleva il G5. Soprattutto, siccome era stata decisa dalla finanza internazionale l’operazione euro, in Italia serviva una persona che avesse un’ampia disponibilità a “mettersi a 90 gradi”, e questa persona non era Craxi.Un minuto dopo che hanno fatto l’euro, Craxi ha dichiarato alle telecamere che l’euro sarebbe stato una sciagura. Lo sapeva anche prima. Ma lo sapevano anche loro, che se andava Craxi – e non Prodi – a rappresentare l’Italia, non sarebbe mai passato quel tasso di cambio euro-lira. Non ce l’avrebbero mai fatta, a imporcelo. Mai. Dunque il problema era questo, e l’operazione è andata a buon fine. E, facendo l’operazione Craxi, sono stati regolati anche altri conti: i vecchi conti Sindona, Gelli, Calvi. Soprattutto, tutti quei paraculi della Dc che pensavano che facessero fuori solo Craxi e non anche loro, hanno dovuto pagare dazio. Chi non ha pagato? I comunisti, che hanno fatto passare la teoria che Greganti fosse un ladro, e loro non c’entrassero niente. Sapete chi l’ha fatta, quell’operazione? Un magistrato che è morto, Gerardo D’Ambrosio, che poi è diventato senatore dell’ex Pci. Siccome un altro giudice, Tiziana Parenti, voleva mettere in galera mezzo Partito Comunista, come vice-procuratore generale D’Ambrosio ha avocato a sé l’indagine e l’ha chiusa così, con Greganti unico colpevole. Poi è diventato senatore del Pd.Perché Craxi si è lasciato distruggere senza difendersi, cioè senza svelare all’opinione pubblica italiana tutti questi retroscena? All’inizio a dire il vero ha provato a difendersi, in Parlamento. Disse: «Chi di voi può dire di non aver fatto tutto quello che ho fatto io, si alzi in piedi». E non si è alzato nessuno, neanche i leghisti. Poi, però, a Craxi sono stati minacciati i figli. Craxi aveva già deciso di andare in televisione e di tirar fuori tutta una serie di carte. Tra queste c’era un famoso “Dossier Di Pietro”, che riteneva la carta vincente finale, perché dimostrava che Di Pietro era il prodotto di quel tipo di organizzazione. Per fare questa operazione chiamò Mentana, al Tg5, ma lo chiamò direttamente, senza passare per Berlusconi, perché Mentana tempo prima era stato collocato a Rai2 da Craxi. Poi chiamò Paolo Mieli per fare un’intervista di due pagine sul “Corriere della Sera”. Dopodiché chiamò la Rai per un’intervista che avrebbe dovuto fare prima con Giancarlo Santalmassi, poi con Minoli, e che poi invece non fece. Perché quella notte successero tre cose.A casa della figlia Stefania si introdussero delle persone che bruciarono tutti i suoi vestiti. A casa di suo figlio Bobo si recarono delle persone che razziarono tutto quello che c’era. E nella sua casella della posta trovò un messaggio con scritto che, se avesse fatto quelle interviste, avrebbero pagato i suoi figli. Una delle cose che nessuno vi dice, che non sono mai state pubblicate e che vi dico io, è che era lo stesso messaggio che avevano ricevuto altri personaggi di Tangentopoli, che avevano deciso di parlare e si sono suicidati. A quel punto, Craxi decise di telefonare a Cossiga, il quale aveva un grosso complesso di colpa nei suoi confronti, perché sapeva cosa stava accadendo, tant’è vero che si era precipitato a fare senatori a vita Giulio Andreotti e Gianni Agnelli, per evitare che in Tangentopoli ci finissero dentro anche loro, ma non si era premurato di avvisare Craxi. Cossiga a sua volta contattò il capo della polizia dell’epoca, che si chiamava Vincenzo Parisi, il quale fece un’abile opera di mediazione tra Di Pietro, il pool di Mani Pulite e Craxi, per concordare la latitanza: Craxi se ne sarebbe andato ad Hammamet normalmente, non avrebbe parlato, e solo tre mesi dopo ci sarebbe stato l’ordine di carcerazione.I magistrati sapevano benissimo che Craxi sarebbe andato ad Hammamet col suo passaporto, e il ministero degli esteri concordò con Ben Alì – che era il dittatore della Tunisia – che l’Italia non avrebbe mai avviato una richiestra di estradizione. Craxi si tenne la libertà di parlare una volta ad Hammamet, ma in Italia no: la minaccia verso i figli l’aveva ritenuta concreta. Molta gente si era ammazzata, attorno a Mani Pulite. O forse era stata ammazzata. Io ero coinvolto nel processo a Raul Gardini e, come avvocato, avevo accesso a documenti non pubblicati. Era la prima volta che vedevo qualcuno che si suicida sparandosi due proiettili mortali alla tempia. Due, capite? Non possono essere entrambi mortali. Se uno si spara un colpo in testa, come può spararsi anche un secondo colpo? Forse Gardini stava per rivelare il nome di chi portò il famoso miliardo a Botteghe Oscure? Chi lo sa.Il potere è astratto, è automatico. Ci sono meccanismi nei quali entri e magari ti ammazza il nemico che meno ti aspetti: tu non sai che calli stai pestando, di chi sono, perché, da dove vengono quei soldi, chi è in affari con chi. Magari pensi di fare uno sgarbo a Tizio, e s’incazza Caio, che non sapevi fosse in affari con quello. I meccanismi del potere sono di una complessità inaudita. Non è una vita facile, quella di chi sceglie di stare nel potere. Certo, sai sempre come pagare le bollette, però non sai mai da dove ti arrivano le coltellate. Quando Craxi ha accettato di deporre al processo Cusani, quando già l’accordo l’avevano fatto, Di Pietro è stato criticato perché l’interrogatorio era mite, era troppo rispettoso. In realtà era il segnale che aveva chiesto Craxi a Parisi per non fare le interviste. Disse: «Io le interviste non le faccio. Ma, a parte il fatto che lasciate in pace i miei figli, non voglio finire in galera. Perché se finisco in galera, e so come sono fatto, poi m’incazzo, parlo, e m’ammazzano i figli. O ammazzano me». Una tazzina di caffè: com’è morto Sindona? Com’è morto Papa Giovanni Paolo I? Ti portano una camomilla le monache: è perfetto.Con Craxi, è stato eliminato chi era capace. La disonestà? Bettino Craxi non era ricco. Il famoso tesoro di Craxi non l’hanno trovato perché non è mai esistito. I 13 miliardi che gli hanno trovato sul famoso conto svizzero erano i soldi del partito. Mentre i grandi partiti i conti del finanziamento illecito li intestavano ai segretari amministrativi, i piccoli partiti li intestavano ai segretari politici – il conto del Pri era intestato a Giorgio La Malfa, che ha avuto i suoi guai, come Renato Altissimo del Pli. Craxi, quando passò le consegne a Del Turco, cercò di passargli anche i conti; ma Del Turco, che era un po’ fifone, disse “no, non li voglio”, non scordandosi che un conto simile l’aveva quand’era segretario generale della Uil, perché anche i sindacati facevano i finanziamenti illeciti.Siamo un paese strano: ci colpevolizzano col debito pubblico, senza tenere conto del fatto che abbiamo il massimo risparmio privato europeo e il più alto numero di proprietari di case. Questo dovrebbe contare, per la solidità del sistema, e invece quando vanno a trattare in sede Ue si calano le brache, compreso l’ultimo, Renzi, che sembra un pretino, un seminarista di trent’anni fa. Un leader forte, l’Italia non se lo può permettere, perché una delle caste italiane se lo sbrana. Questi pretini spretati hanno paura di fare la fine dei Craxi. Meglio calarsi le brache e tirare a campare, poi si vedrà. C’è questo cortocircuito, in cui il nostro sistema non difende più l’istituzione. Quando hanno scoperto un sacco di magagne su Kohl, i tedeschi l’hanno mandato a casa, non in galera: perché era Kohl. E quando sono state scoperte un sacco di magagne su Mitterrand, i francesi – compresa l’opposizione – non l’hanno mandato in galera, l’hanno mandato a casa.Da noi, Craxi è stato mandato ad Hammamet, senza tener conto che aveva rappresentato un’istituzione. E lo stesso sta succedendo a Berlusconi – che a me non è simpatico, non l’ho mai votato, però non posso immaginare che uno, quando fa il presidente del Consiglio, abbia i carabinieri appostati alla porta per vedere con chi scopa, perché non c’è rispetto – non verso ciò che uno è, che sono fatti suoi – ma ciò che uno rappresenta, che sono anche fatti miei. E se uno mi rappresenta indegnamente io lo mando a casa, non in galera, perché mandandolo in galera sputtano anche me, indebolisco la mia economia, il mio sistema. Invece qui, pur di prenderne il posto e farsi la guerra (non vale solo per Berlusconi, l’ha fatto anche lui agli altri) vige questa mentalità, per cui oggi magari l’idea è quella di fottere Renzi per mettersi al posto suo, e per fottere Renzi o Berlusconi o D’Alema ci si allea con i nemici dell’Italia, con la stampa estera per sputtanarli, con i parlamentari europei per attaccarli. Ma che logica è? Che popolo siamo?(Gianfranco Carperoro, estratti delle dichiarazioni rese il 13 maggio 2014 alla conferenza pubblica dell’associazione “Salusbellatrix” a Vittorio Veneto, ripresa integralmente su YouTube. Studioso di simbologia, esoterista, già avvocato e magistrato tributario, giornalista e pubblicitario, Carpeoro è autore di svariati romanzi ed è stato “sovrano gran maestro” della comunione massonica di Piazza del Gesù).L’Italia si radicalizza, nel dopoguerra, intorno a due poli: un polo cristiano e un polo di sinistra, che si scinde in più realtà. E poi ha delle forze storiche – liberali, repubblicani – che provengono dalla storia risorgimentale. In questo quadro l’Italia resiste finché non crolla il Muro di Berlino. Fino ad allora, gli americani finanziano la Dc, i russi finanziano il Pci, gli altri si procurano da vivere un po’ come possono. E il sistema politico va avanti, in una specie di benessere garantito dai finanziamenti esteri su cui si modellano i due grossi partiti, mentre gli altri partiti hanno campo libero nel finanziamento illecito, cioè nel finanziamento che ipocritamente veniva considerato illecito, cioè sottobanco. Cosa succede nel 1989? Crolla il Muro. E nel momento in cui vengono meno i due blocchi e gli americani non hanno più paura dei russi, pernsate che diano ancora soldi alla Dc? I russi a loro volta non esistono più, ma le strutture dei partiti rimangono uguali: dipendenti da mantenere, sedi, palazzi, giornali, volantini da distribuire. Dove prenderli, i soldi? In più, finché c’era solo una emittente televisiva il costo della politica era di un certo importo; una volta nata la Tv commerciale, che gli spot se li fa pagare, e non c’è più solo la “Tribunale elettorale” di Jader Jacobelli, il costo aumenta ancora.
-
Cancellare le conquiste del popolo: da Pinochet a Renzi
Nei momenti di tensione salgono dall’animo parole che non si possono trattenere. Non ci è riuscito neanche un attore consumato come Matteo Renzi. Per reagire al dispetto provato per i ritardi del Senato nell’approvazione del suo Jobs Act, il presidente del consiglio ha dichiarato: «Abbiamo aspettato 20, 30, 40 anni per le riforme, non cambierà con qualche ora in più». Successivamente una velina del suo ufficio stampa ai massmedia di regime li ha indotti a correggere la frase, per cui molti commentatori hanno l’hanno poi riportata fermandosi a venti anni, ma Renzi era arrivato a quraranta. Dunque nel profondo del suo animo il presidente del Consiglio pensa che l’articolo 18 e lo statuto dei diritti dei lavoratori avrebbero dovuto essere aboliti già nel 1974. In quell’anno il no al referendum sull’abrogazione del divorzio aveva travolto la Dc di Amintore Fanfani.La strage fascista di piazza della Loggia a Brescia aveva ricevuto una risposta popolare enorme che aveva messo in crisi i disegni autoritari di settori degli apparati dello Stato e della eversione nera. Nelle scuole entravano i metalmeccanici che avevano da poco conquistato il diritto a studiare con permessi di 150 ore. Tutta la società italiana, nonostante tensioni e contraddizioni, era in crescita attorno alla crescita dei diritti del lavoro. Chi allora avrebbe potuto aver già in mente che, appena quattro anni dopo il varo della legge 300, si sarebbe dovuto cancellare l’articolo 18? Mi domando davvero come Renzi abbia potuto parlare di quaranta anni di ritardo nelle riforme, e siccome son convinto che non si sia sbagliato, posso arrivare ad una sola conclusione. Che egli faccia proprio lo spirito di vandea capitalista che proprio in quegli anni cominciava a definirsi nelle élites economico finanziarie mondiali.Nel 1973 il sanguinoso colpo di Stato di Pinochet contro Allende in Cile serviva per la prima volta a sperimentare con la forza di una feroce dittatura le politiche liberiste dei “Chicago boys” di Milton Friedman. Che poi sarebbero dilagate nel mondo. Sempre nel 1973 una organizzazione multinazionale di banchieri e industriali, politici e ricconi guidata dalle élites statunitensi, la Trilaterale, aveva prodotto un manifesto programmatico nel quale si affermava la necessità che il mondo retrocedesse dall’eccesso di domanda di democrazia e garanzie sociali che si era diffuso. Quindi è vero che sotto la superficie del progresso generale si annidavano e preparavano le forze che avrebbero avviato quella controriforma liberista che dura da più di trenta anni.Certo a nessuno nell’Italia del 1974, se non a Licio Gelli, sarebbe venuto in mente di chiedere la cancellazione della reintegra per i licenziamenti ingiusti, e di tornare così alla legge del 1966 che, come l’attuale Jobact, prevedeva solo il risarcimento monetario. Ma nell’Italia di oggi questo invece può essere affermato e presentato come innovazione. Ci sono voluti decenni, ma alla fine lo spirito di rivincita sociale che già elaborava il suo rancore in quegli anni, ha trovato un fiero interprete in Matteo Renzi. Che, parafrasando il linguaggio di un altro capo di governo non proprio democratico, ha potuto alla fine affermare: «Con lo Statuto dei Lavoratori abbiamo pazientato quarant’anni, ora basta».(Giorgio Cramaschi, La Vandea capitalista di Renzi, da Contropiano del 10 ottobre 2014).Nei momenti di tensione salgono dall’animo parole che non si possono trattenere. Non ci è riuscito neanche un attore consumato come Matteo Renzi. Per reagire al dispetto provato per i ritardi del Senato nell’approvazione del suo Jobs Act, il presidente del consiglio ha dichiarato: «Abbiamo aspettato 20, 30, 40 anni per le riforme, non cambierà con qualche ora in più». Successivamente una velina del suo ufficio stampa ai massmedia di regime li ha indotti a correggere la frase, per cui molti commentatori hanno l’hanno poi riportata fermandosi a venti anni, ma Renzi era arrivato a quraranta. Dunque nel profondo del suo animo il presidente del Consiglio pensa che l’articolo 18 e lo statuto dei diritti dei lavoratori avrebbero dovuto essere aboliti già nel 1974. In quell’anno il no al referendum sull’abrogazione del divorzio aveva travolto la Dc di Amintore Fanfani.
-
Lavoratori all’inferno: grazie a Renzi, ma anche alla Cgil
Lavoro garantito, lavoro precario, lavoro nero. Quello garantito deve sparire alla svelta, è un’anomia della storia: «Renzi e i suoi accoliti vogliono realizzare i “sogni” dei padroni neocapitalisti, unificando il mercato del lavoro italiano sotto il segno, non dei pesci, ma della precarietà fin dall’inizio della vita lavorativa», scrive Eugenio Orso. «La Cgil dell’orripilante Camusso, legata a doppio filo al Pd, deve obbligatoriamente fingere di opporsi e di tutelare gli iscritti, per trattenere tessere e consensi». Operazione che «puzza di bruciato», di contrapposizione solo mediatica che certo non fermerà “il nuovo che avanza”. Prima il contratto d’ingresso senza diritti per i nuovi assunti, e poi in futuro l’abolizione del tempo indeterminato anche per i “vecchi” lavoratori? «Non si può partecipare troppo apertamente al massacro: questo i vertici della Cgil lo sanno bene, perciò si oppongono alla riforma, a costo di passare per “conservatori”».Da molto tempo, scrive Orso in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, la propaganda sistemica giustifica lo smantellamento delle difese dei lavoratori e utilizza in modo subdolo i temi della precarietà e della disoccupazione, come se non fosse proprio il sistema ad aver diffuso precari e disoccupati. Oggi, al colmo dell’ipocrisia, con Renzi si arriva a denunciare la “spaccatura” nel mercato del lavoro italiano, «una tripartizione che genera squilibri e ingiustizie sociali, non producendo alcun effetto positivo per la produzione, i redditi e i consumi». Resiste una quota di lavoro ancora “garantito”, tutelato dalla legge e dallo Statuto dei Lavoratori degli anni ‘70, ma «sta diventando sempre di più l’ultima “ridotta”, particolarmente nel pubblico impiego, dei diritti e delle tutele concesse ai lavoratori». Secondo Orso «è destinato progressivamente a scomparire, perché troppo “oneroso”, sia in termini di costi, sia in termini di “privilegi” concessi ai lavoratori protetti, in ossequio agli interessi degli agenti strategici neocapitalistici, ben tutelati dai loro servitori politici locali».Il lavoro stabile è stato il bersaglio di attacchi continui e reiterati (da Sacconi, Brunetta e Renzi), e addirittura di insulti e di criminalizzazione (Ichino e i “nullafacenti” della pubblica amministrazione). L’impiego garantito e a tempo indeterminato «è contrario all’ideologia neoliberista dominante e, per tale motivo, deve essere portato a estinzione». Spiega Orso: «La stabilità del lavoro e le garanzie offerte dal comunismo, dal fascismo e dal keynesismo postbellico non appartengono in alcun modo alla liberaldemocrazia di mercato, espressa dal grande capitale finanziario». Così il lavoro è diventato sempre più «precario, flessibile, interinale», introdotto ufficialmente in Italia nella seconda metà degli anni ‘90 e dilagato progressivamente nei Duemila, «figlio naturale del cosiddetto toyotismo». Dal “just in time”, varato negli anni ‘70 dalla Toyota per razionalizzare le scorte, si è deciso di estendere il “toyotismo” e di pagare i lavoratori esclusivamente per il tempo di lavoro, utilizzando il “servizio lavorativo” quando necessario per esigenze produttive.«Da questo punto di vita, chiaramente economico e di organizzazione della produzione – continua Orso – l’imposizione del lavoro precario mira a razionalizzare l’uso del fattore-lavoro comprimendone all’estremo i costi, come nel caso delle materie prime, dei pezzi da assemblare, delle scorte, dei semilavorati». A questo punto, «è chiaro che il precario non è un cittadino, nel mondo neocapitalistico, ma soltanto l’anonimo prestatore di un servizio lavorativo, che si tende a pagare sempre meno». Quella dell’imposizione di soli contratti a termine e precari, «in un progressivo e rapido evaporare dei diritti», è la strada scelta «dagli agenti strategici neocapitalistici per l’Italia, ed è esattamente la consegna che hanno dato ai lacchè subpolitici, come Matteo Renzi». Infine – terza categoria – resta il lavoro nero, cioè «senza oneri contributivi e prelievi fiscali, senza alcuna garanzia e diritto». Di fatto, «realizza il massimo della flessibilità-precarietà del lavoratore, alimenta l’evasione e garantisce un significativo risparmio di costi». Col declino industriale e la disoccupazione galoppante, però, «anche il lavoro nero entra in crisi, riducendosi il numero degli occupati, non pagando i lavoratori e aumentandone lo sfruttamento».Se questa è la situazione, conclude Orso, ecco invece che Renzi «spergiura di voler rinnovare il mercato del lavoro dalle fondamenta, introducendo un nuovo contratto d’ingresso che partirebbe da una condizione di precarietà per arrivare alle chimeriche tutele». Il Rottamatore «dichiara di voler semplificare e di voler estendere le opportunità di lavoro anche a chi oggi ne è escluso». Ma sono «dichiarazioni chiaramente mendaci», dal momento che «nascondono l’unico esito possibile della riforma: rendere il lavoro precario contrattualizzato assolutamente prevalente». La Cgil, messa con le spalle al muro, non può approvare il “piano lavoro” renziano apertamente: «Deve fingere di attaccarlo, deve contestarlo con enfasi e risonanza mediatica». Per questo «si erge a difesa di quel vecchio simulacro che ormai è diventato lo Statuto dei Lavoratori, che ancora sbarra la strada, con l’articolo 18, ai sogni liberisti, europeisti “alla Benigni”, occidentali, di libertà, cioè, nel concreto, alla realizzazione di una precarietà assoluta e generale».Sicché, quello tra Renzi e Camusso è «uno scontro fra “parenti serpenti”, disposti a coprirsi a vicenda di contumelie, a fronteggiarsi tirandosi piatti e soprammobili ma uniti da vincoli “di sangue” e di appartenenza». Più che altro, è «l’ennesima recita infarcita di imbrogli, finzione e malafede, per truffare gli italiani». Dal canto suo, Renzi la pensa esattamente come i boss dell’élite tecno-finanziaria, da Draghi a Juncker alla Lagarde, «a lui ideologicamente affini», anche se «nega di aver in mente Margaret Thatcher quando si parla del lavoro». Infatti, aggiunge Orso, «possiamo scommettere che non incontrerà una resistenza sanguinosa come quella opposta alla Thatcher dai minatori britannici di Arthur Scargill, dal 1984 al 1985». Al più, sulla strada di Renzi spunteranno «le blande resistenze di maniera della Cgil all’abolizione dell’articolo 18». Il premier dichiara di pensare a “Marta”, piccola fiammiferaia precaria, e a tutti i giovani a quali in questi anni non ha pensato nessuno. Giovani «condannati a un precariato a cui il sindacato ha contribuito», peraltro, «preoccupandosi soltanto dei diritti di qualcuno e non dei diritti di tutti».Nuove regole per ciascuno, dice Renzi, per incoraggiare investimenti produttivi stranieri: verranno le multinazionali a dare un lavoro a chi non ce l’ha. Peccato che, a quel punto, «il lavoro sarà debitamente flessibilizzato, offerto a prezzi stracciati e a condizioni di semi-schiavitù». Renzi è felice, come ha dichiarato più volte, se i grandi squali “investono” in Italia, facendo lo shopping di aziende a prezzi di fine stagione, anche se poi chiudono e spostano le produzioni in Estremo Oriente o nell’Europa dell’Est. E ai sindacati che vogliono contestarlo, Camusso e Landini, il Rottamatore dice: dove eravate in questi anni quando si è prodotta la più grande ingiustizia che ha l’Italia? L’ingiustizia tra chi il lavoro ce l’ha e chi non ce l’ha, tra chi ce l’ha a tempo indeterminato e chi è precario. E soprattutto tra chi non può neanche pensare a costruirsi un progetto di vita, perché si è pensato soltanto a difendere le battaglie ideologiche e non i problemi concreti della gente. Sono i diritti di chi non ha diritti che ci interessano, e noi li difenderemo in modo concreto e serio.«Commovente: i diritti di chi non ha diritti», chiosa Orso. «Una frase di sicuro effetto, alla Papa Francesco». Così, “per difendere gli ultimi”, si abolisce la tutela dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori per i nuovi assunti “a tutele crescenti”, «in modo tale che l’ingresso nel mondo del lavoro sia sempre e comunque precario». A questo, forse, non aveva pensato neppure Marco Biagi, il giuslavorista assassinato dalle “nuove Br”. Da consigliere ministeriale, «ha contribuito a inoculare il virus della precarietà nella società italiana». Renzi sarà altrettanto efficace? «Su una cosa, però, ha ragione l’imbonitore fiorentino, in polemica strumentale con la Cgil», conclude Orso: «Ciò che è accaduto ai lavoratori negli ultimi decenni, tutte le ingiustizie che hanno subito, portano anche la firma dei sindacati, che hanno favorito, in modo più o meno scoperto – scopertamente la Cisl, più subdolamente la Cgil e ancor più nascostamente la Fiom – la “discesa negli inferi” neoliberista del lavoro, siglando contratti-truffa e accordi-capestro, avallando riforme antipopolari, facendo carne di porco persino dei loro iscritti».Lavoro garantito, lavoro precario, lavoro nero. Quello garantito deve sparire alla svelta, è un’anomia della storia: «Renzi e i suoi accoliti vogliono realizzare i “sogni” dei padroni neocapitalisti, unificando il mercato del lavoro italiano sotto il segno, non dei pesci, ma della precarietà fin dall’inizio della vita lavorativa», scrive Eugenio Orso. «La Cgil dell’orripilante Camusso, legata a doppio filo al Pd, deve obbligatoriamente fingere di opporsi e di tutelare gli iscritti, per trattenere tessere e consensi». Operazione che «puzza di bruciato», di contrapposizione solo mediatica che certo non fermerà “il nuovo che avanza”. Prima il contratto d’ingresso senza diritti per i nuovi assunti, e poi in futuro l’abolizione del tempo indeterminato anche per i “vecchi” lavoratori? «Non si può partecipare troppo apertamente al massacro: questo i vertici della Cgil lo sanno bene, perciò si oppongono alla riforma, a costo di passare per “conservatori”».
-
E Draghi si arrese a Keynes: lo Stato torni a spendere
Debito pubblico, spesa pubblica, deficit positivo. Tradotto: o lo Stato finanzia direttamente l’economia, o è la fine per tutti. Chi l’ha detto? John Maynard Keynes, ovviamente, il padre dell’economia democratica moderna. Ma la notizia bomba, rileva Paolo Barnard, è che la stessa identica verità l’ha finalmente ammessa l’uomo-simbolo dell’infinita austerity europea, il “signor no” per eccellenza, il massimo esponente della dottrina del rigore senza via di scampo: Mario Draghi, nientemeno. Una storica inversione di rotta, dice Barnard, esternata solo grazie a un cronista del “Wall Street Journal”: viceversa, «tutto questo non l’avremmo mai saputo, dai nostri quotidiani». La data “storica” è quella del 9 settembre, in cui Draghi ha presenziato all’Eurofi di Milano. Per dire, al giornalista statunitense, che – nonostante il dogma neoliberista ripetuto all’infinito, quello dell’autosufficienza del mercato – senza l’intervento dello Stato l’economia muore, come dimostra la crisi europea. «Mario, quanto ci hai messo! Ma come ci insegna il Figliol Prodigo… welcome fra noi».«Alla fine neppure lui ce l’ha fatta», scrive Barnard nel suo blog. Lui, Draghi, definito «’sto cadavere telecomandato dal neofeudalesimo e cresciuto a scudisciate neoliberiste», la scuola austriaca della destra economica europea, quella di Friedrich von Hayek (lasciare i poveri in miseria, aiutarli solo quel tanto che basta per evitare che la loro rabbia si trasformi in rivolta) e la dottrina iperliberista di Milton Friedman, altro nemico giurato dello Stato come fondamentale istituzione economica a guardia del benessere della comunità nazionale. Cattivi maestri, «da cui escono anche gli Alesina, Serra, Taddei, Boldrin o Giavazzi», vale a dire «gli unici tordi rimasti al mondo della serie “l’euro ha fatto tutto giusto, guai mollarlo”, cui seguono sbadigli e sghignazzi di Goldman Sachs, Jp Morgan, Krugman e altri principianti di questa sorta». Per una volta, il sovranista Barnard canta vittoria: «Draghi ha fatto outing, e si è strappato la camicia mostrando sul petto il tatuaggio di John Maynard Keynes. Ebbene sì!». L’ha fatto, aggiunge Barnard, perché ormai sconfitto dai numeri impietosi della recessione europea.Quello che di colpo sconfessa come un fallimento catastrofico dopo lunghi decenni di linea dura (e suicida), secondo Barnard è un Draghi «ormai fucilato alla schiena dalla Germania», che l’ha appena «bocciato a morte». Un Draghi «ormai sepolto da un’irrimediabile deflazione dell’Europa, cui non ha mezzi per rimediare». Un banchiere centrale «ormai umiliato come l’uomo che ha presidiato la distruzione di una civiltà economica». E a quanto pare si arrende all’evidenza, «senza più mezzi per fare nulla». Così, ha improvvisamente abbracciato Keynes, e insieme al grande economista inglese anche «la Mosler Economics, che è Keynes adattato al terzo millennio». Infatti, a Milano, Mario Draghi ha ammesso che «i governi devono agire con forza per incoraggiare gli investimenti, includendo garanzie di Stato per le piccole e medie imprese», riassume Barnard. «E, quando i conti glielo permettono, i governi devono spendere soldi di Stato», checché ne pensino i liberisti alla Giavazzi.Inoltre, aggiunge Barnard citando Draghi, «solo se le politiche monetarie saranno affiancate da politiche strutturali e da politiche economiche di spesa di Stato, vedremo gli investimenti tornare in Ue», perché la Bce «non può fare tutto da sola». E’ esattamente quanto affermano Barnard e gli attivisti della Mmt, la Modern Money Theory sintetizzata dallo statunitense Warren Mosler: «Senza politiche economiche di spesa di Stato, la politica monetaria non può fare niente». Da almeno trent’anni, agitando lo spauracchio dell’inflazione, il super-potere dell’élite economica europea ha imposto, attraverso la finanza e la tecnocrazia di Bruxelles, l’amputazione progressiva dello Stato, a cui è stato tolto il potere di sostenere l’economia. Oggi, di fronte allo sfacelo dell’Europa, persino Draghi alza bandiera bianca. Meglio tardi che mai, dice Barnard, sostenitore del ritorno alla sovranità monetaria come unica possibilità di risollevare l’economia, ripristinando l’interesse pubblico e la capacità di investimenti strategici mediante iniezioni di denaro: non alle banche ma all’economia reale, puntando alla piena occupazione.Debito pubblico, spesa pubblica, deficit positivo. Tradotto: o lo Stato finanzia direttamente l’economia, o è la fine per tutti. Chi l’ha detto? John Maynard Keynes, ovviamente, il padre dell’economia democratica moderna. Ma la notizia bomba, rileva Paolo Barnard, è che la stessa identica verità l’ha finalmente ammessa l’uomo-simbolo dell’infinita austerity europea, il “signor no” per eccellenza, il massimo esponente della dottrina del rigore senza via di scampo: Mario Draghi, nientemeno. Una storica inversione di rotta, dice Barnard, esternata solo grazie a un cronista del “Wall Street Journal”: viceversa, «tutto questo non l’avremmo mai saputo, dai nostri quotidiani». La data “storica” è quella del 9 settembre, in cui Draghi ha presenziato all’Eurofi di Milano. Per dire, al giornalista statunitense, che – nonostante il dogma neoliberista ripetuto all’infinito, quello dell’autosufficienza del mercato – senza l’intervento dello Stato l’economia muore, come dimostra la crisi europea. «Mario, quanto ci hai messo! Ma come ci insegna il Figliol Prodigo… welcome fra noi».
-
Addio democrazia, Renzi e Silvio i manovali del piano
Le chiamano “riforme”, come fossero sinonimo di “migliorie”, secondo la vulgata mainstream accettata dai media come verità di fede. Ma sono soltanto le “indicazioni” – leggasi: diktat – che l’oligarchia euroatlantica da anni reitera all’Italia, a colpi di spread (Mario Monti) oppure confidando nell’appeal demiurgico di Renzi, che attraverso il ministro Padoan (Ocse) e con la collaborazione dell’immancabile “uomo di sinistra”, il ministro Poletti, propone la stessa cura-Monti spacciandola per innovazione entusiasmante. Tutto molto semplice: smantellare i punti cardine della Costituzione antifascista, quella che Jamie Dimon (Jp Morgan) ritiene obsoleta, perché tutela l’interesse pubblico di cittadini e lavoratori contro la legge del business. Quella che – con l’applicazione del Ttip, il Trattato Transatlantico voluto dai padroni di Obama e imposto a Renzi – farà sparire in tutta Europa le ultime garanzie di tutela su ambiente, salute, lavoro e sicurezza alimentare, liquidando la qualità del made in Italy. Logica traduzione: sbaraccare lo Stato di diritto e il “rischio” che possa essere governato dai cittadini tramite politici onesti e responsabili.Marco Travaglio lo chiama “il patto Renzi-Berlusconi”, individuandone la declinazione italiana di oggi, i suoi manovali. Ma è un “patto” che viene da lontano, a metà strada tra Wall Street, Bruxelles e Berlino. «Unendo i puntini delle varie riforme vaganti tra governo e Parlamento, costituzionali e ordinarie, ma anche di certe prassi quotidiane passate sotto silenzio per trasformarsi subito in precedenti pericolosi, come le continue interferenze del Quirinale nell’autonomia del Parlamento, della magistratura e della stampa, viene fuori un disegno che inquieta», scrive Travaglio sul “Fatto Quotidiano”. «Una democrazia verticale, cioè ben poco democratica: sconosciuta, anzi opposta ai principi ispiratori della Costituzione, fondata invece su un assetto orizzontale in ossequio alla separazione e all’equilibrio dei poteri». Svolta autoritaria: «All’insaputa del popolo italiano, mai consultato sulla riscrittura della Costituzione, e fors’anche di molti parlamentari ignoranti o distratti, il combinato disposto di leggi, decreti e prassi – di per sé all’apparenza innocue – rischia di costruire un sistema illiberale e piduista fondato sullo strapotere del più forte e sul depotenziamento degli organi di controllo e garanzia».Il pericolo, sintetizza Travaglio, è una «dittatura della maggioranza». Una “democratura”, come direbbe Giovanni Sartori, «a disposizione del primo “uomo solo al comando” che se ne impossessa, diventando intoccabile, incontrollabile, non contendibile, dunque invincibile». Unendo l’ultimo dei “puntini” – il più importante, anche se Travaglio lo sfuma, forse dandolo per scontato – si scopre che il cervello della manovra per liquidare la residua democrazia italiana non risiede a Roma, ad Arcore o a Firenze, ma nei centri di potere economico-finanziari e tecnocratici che negli ultimi trent’anni hanno logorato senza sosta i gangli vitali della fragile e sgangherata democrazia italiana, per assoggettarla a regole scritte altrove, nei santuari del neoliberismo: fine della sovranità nazionale, debito pubblico ostaggio della speculazione finanziaria, demonizzazione del deficit, taglio della spesa pubblica e del welfare, attacco ai salari, flessibilità e precarizzazione del lavoro (Jobs Act), massacro delle pensioni (riforma Fornero). Tutto questo è avvenuto grazie all’alibi del debito, in realtà esploso dopo il divorzio tra Bankitalia e Tesoro nel 1981, che privò di colpo il paese della possibilità di finanziare il deficit – cioè l’investimento pubblico – a costo zero.Da allora, tutti i “tecnici” al potere (in prima linea e nelle retrovie: Draghi, Ciampi, Amato, Andreatta, Prodi, Dini, Padoa Schioppa, Visco, Treu, Bassanini, Monti) hanno proseguito la missione: dire agli italiani che “bisogna” suicidare lo Stato, cioè spillare più soldi – in tasse – di quanti lo Stato non sia disposto a spendere per i cittadini. “Lo vuole l’Europa”, naturalmente, ovvero la Germania, interessata a sbarazzarsi della concorrenza industriale italiana, e lo vuole – da sempre – l’élite economica euroatlantica, insofferente alla relativa autonomia di paesi come l’Italia, capaci di sviluppare benessere diffuso (nonostante la casta corrotta dei politici) proprio grazie alla spesa pubblica strategica dello Stato, che finisce per fare concorrenza al “mercato”, ovvero ai signori delle multinazionali. Sono loro, i “padroni dell’universo”, gli unici a comandare oggi – a fare le leggi che contano – grazie alle lobby insediate a Bruxelles e a organismi sovranazionali pressoché onnipotenti, dal Wto alla Banca Mondiale, dal Fmi alla Bce, dal Bilderberg alla Banca dei Regolamenti Internazionali. Tutto il potere che conta è verticalizzato, nel sistema neo-feudale dell’euro, in mano a poche “menti raffinatissime” che vogliono la morte per fame dello Stato democratico e la impongono mediante rigore e austerity, Fiscal Compact, unione bancaria europea, pareggio di bilancio.Nella sua lunga analisi, Travaglio osserva la traduzione italiana del piano, affidato a Renzi e Berlusconi con la regia di Napolitano sin dai tempi di Monti (Goldman Sachs, Commissione Trilaterale) e Letta (Aspen, Bilderberg). Il fondatore del “Fatto” individua i punti-chiave della definitiva archiviazione della macchina democratica così come l’abbiamo conosciuta finora. La spaventosa legge elettorale, battezzata “Italicum”, che impedirebbe ai cittadini di eleggere i loro candidati. Il Senato, ridotto a comparsa della democrazia. La fine dell’opposizione, con l’emarginazione dei parlamentari scomodi nelle commissioni (il caso Mineo) e una riforma costituzionale che «disarma le minoranze, istituzionalizzando la “ghigliottina” calata dalla presidente Laura Boldrini contro il M5S che tentava di impedire la conversione in legge del decreto-regalo alle banche». E mentre vengono falciati i poteri di controllo, il capo dello Stato abdica al suo storico ruolo di garanzia per ripiegare su una «funzione gregaria del governo», se per eleggerlo basteranno 33 senatori, dopo che il premier – con la legge-truffa per le elezioni – disporrà «del 55% dei deputati da lui nominati».Chi andrà al governo con l’Italicum, continua Travaglio, controllerà anche la Corte Costituzionale, il Csm, i procuratori della Repubblica: un’ingerenza mai vista prima del potere esecutivo, che – con le nuove regole – metterà al guinzaglio il potere giudiziario, proprio come sognava di fare Licio Gelli. Su tutto, resta ovviamente in piedi l’immunità parlamentare anche per i neo-senatori “nominati”, cioè sindaci e consiglieri regionali: «Basterà che un consiglio regionale li nomini senatori, e nel tragitto dalla loro città a Roma verranno coperti dallo scudo impunitario, che impedirà ai magistrati di arrestarli, intercettarli e perquisirli senza l’ok di Palazzo Madama». Tutto questo proviene dal giovane Renzi: interessato a “rottamare” la democrazia, si guarda bene dal toccare le due leggi-vergogna sull’informazione, la Gasparri sulla televisione e la Frattini sul conflitto d’interessi, mentre i grandi giornali italiani restano in mano a editori impuri come «imprenditori, finanzieri, banchieri, palazzinari (per non parlare di veri o finti partiti, con milioni di fondi pubblici), perlopiù titolari di aziende assistite e/o in crisi e dunque ricattabili dal governo, anche per la continua necessità di sostegni pubblici». Non è strano, quindi, che non raccontino ciò che sta davvero accadendo.Addio, cittadini italiani: «Espropriati del diritto di scegliersi i parlamentari, scippati della sovranità nazionale (delegata a misteriose e imperscrutabili autorità europee), i cittadini non ancora rassegnati a godersi lo spettacolo di una destra e di una sinistra sempre più simili e complici, che fingono di combattersi solo in campagna elettorale, possono rifugiarsi in movimenti anti-sistema ancora troppo acerbi per proporsi come alternativa di governo (come il M5S); o inabissarsi nel non-voto (che sfiora ormai il 50%)». In teoria, la Costituzione prevede alcuni strumenti di democrazia diretta, come i referendum abrogativi: «Che però, prevedibilmente, saranno sempre più spesso bocciati dalla Consulta normalizzata». Restano le leggi d’iniziativa popolare, peraltro quasi mai discusse dal Parlamento, ma i “padri ricostituenti” hanno pensato anche a queste, «quintuplicando la soglia delle firme necessarie, da 50 a 250 mila. Casomai qualcuno s’illudesse ancora di vivere in una democrazia».Nella peggiore delle ipotesi, l’allarme di Travaglio sarà costretto a impallidire se il Trattato Transatlantico che avanza a porte chiuse fosse davvero approvato, come vogliono Obama e Renzi, entro la fine del 2015: i giudici italiani non avrebbero più nessun potere contro le pretese delle multinazionali, pronte a chiedere maxi-risarcimenti a Stati e governi che oseranno opporre leggi a tutela del territorio, dei lavoratori, delle persone. E se a qualcuno il “nuovo ordine” non starà bene, l’Unione Europea – ora guidata dall’impresentabile oligarca Juncker – sta già addestrando in gran segreto l’Eurogendfor, polizia militare antisommossa e multinazionale, incaricata di reprimere le proteste: a caricare i cortei italiani potranno essere agenti francesi e olandesi, poliziotti spagnoli e portoghesi. Entro due o tre anni, secondo i critici più pessimisti, la Costituzione italiana sarà ricordata soltanto sui libri di storia.Le chiamano “riforme”, come fossero sinonimo di “migliorie”, secondo la vulgata mainstream accettata dai media come verità di fede. Ma sono soltanto le “indicazioni” – leggasi: diktat – che l’oligarchia euroatlantica da anni reitera all’Italia, a colpi di spread (Mario Monti) oppure confidando nell’appeal demiurgico di Renzi, che attraverso il ministro Padoan (Ocse) e con la collaborazione dell’immancabile “uomo di sinistra”, il ministro Poletti (Lega Coop), propone la stessa cura-Monti spacciandola per innovazione entusiasmante. Tutto molto semplice: smantellare i punti cardine della Costituzione antifascista, quella che Jamie Dimon (Jp Morgan) ritiene obsoleta, perché tutela l’interesse pubblico di cittadini e lavoratori contro la legge del business. Quella che – con l’applicazione del Ttip, il Trattato Transatlantico voluto dai padroni di Obama e imposto a Renzi – farà sparire in tutta Europa le ultime garanzie di tutela su ambiente, salute, lavoro e sicurezza alimentare, liquidando la qualità del made in Italy. Logica traduzione: sbaraccare lo Stato di diritto e il “rischio” che possa essere governato dai cittadini tramite politici onesti che abbiano a cuore l’Italia.