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“Conte firma il Mes coi 5 Stelle, poi lascia a Colao o Draghi”
Conte firmerà il Mes insieme al M5S e probabilmente a Forza Italia e Pd. Certo, i fatti dicono che qualcosa nel governo si è rotto. E’ fuor di dubbio. La ricomposizione tentata da Conte parla chiaro: il Pd si è stancato di Conte. Un presidente del Consiglio che si lancia in un discorso come quello del 10 aprile, in cui ha attaccato con nomi e cognomi Salvini e Meloni, dà segni di cedimento, è fuori controllo. Io sono saltato sulla sedia. Proviamo ad immaginare la Merkel fare una cosa simile. Nessuno ci riesce. Anche perché la Merkel in questi 2 mesi ha fatto solo due discorsi alla nazione in orario di punta, Conte ne ha già fatti 11. L’ultimo, poi, è stato una sortita estranea al mondo politico occidentale. Il suo addetto stampa Casalino gli ha fatto fare un simile attacco a freddo perché ha capito che il problema non sono Salvini e Meloni, ma i 5 Stelle, che sono contro il Mes e non si fidano di Conte. L’attacco al nemico è una manovra classica: agitare il nemico esterno Salvini-Meloni per ricompattare quel che resta del Movimento dietro Conte. E possibilmente vincolarlo. Perché i 5 Stelle non si fidano? Perché sanno che prima o poi sarà costretto ad accettare il Mes.Infatti Conte ha detto che occorre aspettare, “valutare se questa nuova linea di credito pone condizioni, quali condizioni pone, e solo allora potremo discutere se quel regolamento è conforme al nostro interesse nazionale”. Un’apertura di credito apprezzata dal Pd. Avverrà come sulla Tav e sul Tap. Prima i grillini fanno le barricate, come adesso, e poi accettano, trovando il modo di presentarlo come il minore dei mali. Crimi però sul “Fatto Quotidiano” è stato netto: «L’Italia non farà mai ricorso al Mes, noi Cinque Stelle non potremo mai accettarlo». Il vero nodo non sono le “condizionalità” del Mes, ma ciò che consente ai 5 Stelle di mantenere la poltrona: il loro vero obiettivo è sopravvivere il più possibile, e per farlo devono portare a termine la legislatura. Una ventina di 5 Stelle potrebbero anche votare contro, ma sarebbero immediatamente sostituiti da Forza Italia e altri parlamentari di rimpiazzo. Come mi spiego questa corsa trasversale verso il Mes, da Berlusconi a Zingaretti e Bersani, passando per Renzi? Aggiungerei anche Conte e il M5S. Semplicemente perché c’è disperata fame di soldi, e 36 miliardi a interessi bassissimi possono essere ossigeno indispensabile per le casse pubbliche. Tra qualche settimana crollerà il gettito fiscale e lo Stato potrebbe non avere più soldi per pagare i dipendenti pubblici.Cosa penso dell’operazione Colao? È un ottimo manager, non è detto che riesca anche a fare il presidente del Consiglio. Non per capacità personali, sia chiaro, ma perché quello della politica potrebbe non essere il suo mondo. Gli hanno affibbiato in commissione 16 persone, quando le commissioni vere si fanno al massimo in 5 o 6. Alla prima riunione hanno partecipato anche i capi gabinetto di ogni ministero. Conosco Colao: è un capo-azienda, deve poter decidere senza interferenze. Chi è stato a volerlo? Quello che si dice, che cioè sia un’operazione avallata da Pd e Quirinale per propiziare il dopo-Conte, è verosimile. Il problema rimane lo stesso di Draghi. Per fare arrivare Colao o qualcun altro super-partes al governo serve un’operazione di unità nazionale. Davvero pensiamo che Draghi si metterebbe alla mercé del Parlamento attuale, dove il M5S ha la maggioranza relativa? Dunque mancano i presupposti: a meno che non si faccia come nel 1993, quando Ciampi andò a Palazzo Chigi dopo il disastro del ’92, forse già con l’ipotesi di salire poi al Colle. Prima però dovette sporcarsi le mani come ministro del Tesoro di Prodi. Draghi Capo dello Stato? Sicuramente il presidente sarà lui. Con Draghi al Quirinale, Salvini potrebbe anche guidare il governo. L’incognita è come riempire il vuoto da qui ad allora. Se fa il premier, Draghi può rischiare la fine di Monti. Quanto al destino del governo Conte, era già condannato senza coronavirus.Dopo le regionali di maggio avrebbe quasi certamente ceduto il posto ad altri. Al posto delle regionali, ci sono le inchieste sulla sanità lombarda. Perché adesso? Per oscurare il disastro del governo Conte e della Protezione civile nazionale. Trovi due pm di sinistra, apri un’inchiesta e sei a posto. Almeno, fino ad oggi è stato così. Stavolta gli accusati finiranno tutti assolti (non adesso, ovviamente, ma tra dieci anni). L’epidemia ha allungato la vita politica di Conte, ma per poco. Adesso i nodi vengono al pettine. È un avvocato e un bravo negoziatore. Si salverebbe se riuscisse a convincere la Merkel a dargli 100 miliardi sotto forma di “recovery bond”. Ma non andrà così. Il governo tedesco e i suoi satelliti sentono il fiato sul collo dei sovranisti tedeschi e olandesi. Se si chiede ai loro paesi di condividere il debito italiano, schizzano al 30 per cento. Dunque addio governo M5S-Pd: come cadrà? Con la solita manovra di palazzo, probabilmente. Ma cadrà soprattutto Conte. Se invece Conte e Gualtieri accetteranno il Mes, la maggioranza forse sarà salva, ma spesi i 36 miliardi toccherà alle pesanti “condizionalità” europee. A quel punto, unità nazionale e governo Colao o Draghi. O qualche altro personaggio super-partes trovato da Mattarella.(Mauro Suttora, dichiarazioni rilasciate a Federico Ferraù per l’intervista “Scenario Mes: Conte e M5S pronti a firmarlo, poi arrivano Colao o Draghi”, pubblicata dal “Sussidiario” il 16 aprile 2020. Giornalista, Suttora è stato a lungo corrispondente dagli Usa per varie testate).Conte firmerà il Mes insieme al M5S e probabilmente a Forza Italia e Pd. Certo, i fatti dicono che qualcosa nel governo si è rotto. E’ fuor di dubbio. La ricomposizione tentata da Conte parla chiaro: il Pd si è stancato di Conte. Un presidente del Consiglio che si lancia in un discorso come quello del 10 aprile, in cui ha attaccato con nomi e cognomi Salvini e Meloni, dà segni di cedimento, è fuori controllo. Io sono saltato sulla sedia. Proviamo ad immaginare la Merkel fare una cosa simile. Nessuno ci riesce. Anche perché la Merkel in questi 2 mesi ha fatto solo due discorsi alla nazione in orario di punta, Conte ne ha già fatti 11. L’ultimo, poi, è stato una sortita estranea al mondo politico occidentale. Il suo addetto stampa Casalino gli ha fatto fare un simile attacco a freddo perché ha capito che il problema non sono Salvini e Meloni, ma i 5 Stelle, che sono contro il Mes e non si fidano di Conte. L’attacco al nemico è una manovra classica: agitare il nemico esterno Salvini-Meloni per ricompattare quel che resta del Movimento dietro Conte. E possibilmente vincolarlo. Perché i 5 Stelle non si fidano? Perché sanno che prima o poi sarà costretto ad accettare il Mes.
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Campiglio: Def senza soldi, più tasse a carico delle famiglie
Gran parte della manovra è legata al disinnesco delle clausole di salvaguardia, che assorbono più dei due terzi dei 30 miliardi in gioco. Dalle risorse messe in campo non ci possiamo attendere una grande spinta. La cautela è dettata dal fatto che la pressione fiscale aumenterà: nel 2019 è al 41,9% del Pil e nel 2020 subirà un leggero aumento al 42%, e comunque non in diminuzione. Il divario dell’Italia rispetto a paesi come la Germania o la Francia per i provvedimenti a favore della famiglia è da molto tempo intorno allo 0,5-1% del Pil. E’ chiaro che i 200 milioni per gli asili nido vanno accolti con favore, ma bisogna considerare i tempi, perché se diventano operativi quando i bambini sono grandi, forse arrivano un po’ in ritardo. E non è una battuta, è quello che è accaduto finora. Anche quando c’erano le risorse non è stato fatto nulla. Il dato centrale che ne è seguito è che in modo rapsodico un governo sì e un governo no ha introdotto qualcosa per la famiglia, in sostanza bonus a scadenza. Quasi una beffa: gli aumenti delle tasse non finiscono mai – noi ancora oggi abbiamo pagato accise sulla benzina per il finanziamento della guerra in Etiopia – ma le agevolazioni su diversi aspetti della vita familiare scadono sempre. Speriamo che prima o poi ci sia la volontà politica di varare provvedimenti che abbiano una stabilità nel tempo che vada al di là dei 5 anni.Intanto il governo ha annunciato l’istituzione del Fondo assegno unico e servizi per la famiglia, che dovrebbe contare su una dotazione crescente fino ai 2,5 miliardi entro il 2022. Come verrà finanziato? I 2,5 miliardi possono essere un punto di partenza di grande interesse se si raccolgono risorse fresche, e non una partita di giro di altre risorse esistenti con cui lo Stato sociale interviene a sostegno della famiglia in modo diretto o indiretto. Anche qui suggerisco cautela, perché se la pressione fiscale torna a crescere, ciò che conta è il reddito netto delle famiglie in moneta e in natura. Se metto risorse con una mano e le tolgo con un’altra, l’effetto è quanto meno imprevedibile. E mi riferisco alla filosofia di fondo di questa manovra. Fondamentalmente è il primo passo verso il rientro definitivo nelle regole fiscali che i differenti Parlamenti negli anni recenti hanno votato a larga maggioranza. In buona sostanza, nel 2019 si prevede un rapporto debito/Pil pari al 135,7%, sulla base dei nuovi dati Istat e Banca d’Italia, e sulla base del Documento programmatico di bilancio in diminuzione al 135,2% nel 2020, al 133,4% nel 2021 e al 131,4% nel 2022.Nell’aggiornamento di settembre al Def (NaDef del precedente governo) vi è un esercizio particolarmente elaborato su sentieri e tempi di rientro del rapporto debito/Pil, a legislazione corrente o con scenario ottimistico o pessimistico, da qui al 2030. Il messaggio implicito della NaDef è: stiamo lavorando per un rientro del rapporto debito/Pil che – nello scenario più ottimistico – da oggi al 2030 dovrebbe tornare sotto quota 100, ai livelli cioè del 2007. In un scenario di mercato pessimistico rimarrebbe invece intorno al 120%. Negli ultimi anni è vero che l’Italia è cresciuta un po’ più dell’1%, ma tutto è avvenuto in una congiuntura mondiale molto favorevole, in cui il nostro paese era sempre, purtroppo, fanalino di coda nei tassi di crescita. Adesso il quadro globale è diventato più incerto e questo rientro decennale significa altri dieci anni, non diciamo di austerity, parola che fa paura, ma di parsimonia. Una parsimonia – ecco il punto vero – anche per chi la sta usando suo malgrado da più tempo, cioè i ceti più deboli. Occorre perciò un intervento più robusto e meno controverso: il Fondo europeo di stabilità finanziaria potrebbe essere il nuovo soggetto da attivare per un cambio di rotta. Le clausole di salvaguardia? Introdotte come fossero un’ ipoteca sulla casa, per le manovre del passato. Il mancato aumento dell’Iva comporta un minor gettito tributario e la necessità di aumentare le tasse o ridurre la spesa.A legislazione vigente e in assenza di una ripresa della crescita, lo spazio di manovra che esiste per rilanciare o irrobustire l’economia del paese o delle famiglie si riduce di molto. Il disinnesco delle clausole contabilmente figura come entrate mancate, e se ci sono meno entrate da una parte bisogna trovarle da un’altra parte. La lotta all’evasione, per esempio? Mettere in bilancio 7 miliardi dal contrasto all’evasione utilizzando solo lotta al contante e fatturazione elettronica è, con tutto il rispetto, eccessivo. Le attività reali difficilmente sfuggono all’imposizione fiscale. In particolare la casa, che è la vera ricchezza degli italiani, è candidata a subire un effetto ingiusto, e cioè che il saldo netto tra micro-bonus e micro-tasse sia casuale: ci sarà chi guadagna di più e chi invece paga di più. Ma il punto decisivo – lo ripeto – è che complessivamente la pressione fiscale potrebbe aumentare. Di spazio per la crescita ce n’è poco, perché mancano le risorse. E se far quadrare i conti diventa difficile, è molto probabile che verranno toccate altre voci di bilancio, come il sistema di deduzioni e detrazioni. Ma attenzione: intervenire, azzerandole progressivamente sui redditi più alti, rischia di diventare un boomerang, perché si prefigura un gettito che non ci sarà: chi ha alti redditi ha infatti anche un’assicurazione privata, e di conseguenza si potrebbero di nuovo ridurre le spese sulla sanità per chi ne ha bisogno.(Luigi Campiglio, dichiarazioni rilasciate a Marco Biscella nell’intervista “Zero crescita, famiglie stangate: ecco la nuova crisi”, pubblicata sul “Sussidiario” il 18 ottobre 2019, in relazione alla manovra 2020 del Conte-bis. Il professor Campiglio è docente di politica economica all’Università Cattolica di Milano).Gran parte della manovra è legata al disinnesco delle clausole di salvaguardia, che assorbono più dei due terzi dei 30 miliardi in gioco. Dalle risorse messe in campo non ci possiamo attendere una grande spinta. La cautela è dettata dal fatto che la pressione fiscale aumenterà: nel 2019 è al 41,9% del Pil e nel 2020 subirà un leggero aumento al 42%, e comunque non in diminuzione. Il divario dell’Italia rispetto a paesi come la Germania o la Francia per i provvedimenti a favore della famiglia è da molto tempo intorno allo 0,5-1% del Pil. E’ chiaro che i 200 milioni per gli asili nido vanno accolti con favore, ma bisogna considerare i tempi, perché se diventano operativi quando i bambini sono grandi, forse arrivano un po’ in ritardo. E non è una battuta, è quello che è accaduto finora. Anche quando c’erano le risorse non è stato fatto nulla. Il dato centrale che ne è seguito è che in modo rapsodico un governo sì e un governo no ha introdotto qualcosa per la famiglia, in sostanza bonus a scadenza. Quasi una beffa: gli aumenti delle tasse non finiscono mai – noi ancora oggi abbiamo pagato accise sulla benzina per il finanziamento della guerra in Etiopia – ma le agevolazioni su diversi aspetti della vita familiare scadono sempre. Speriamo che prima o poi ci sia la volontà politica di varare provvedimenti che abbiano una stabilità nel tempo che vada al di là dei 5 anni.
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L’Italia perde miliardi nei paradisi fiscali dell’ipocrita Ue
Mentre Di Maio si appresta a vantare grandiosi “risparmi” tagliando i parlamentari (in concreto, lo 0,007% della spesa pubblica) uno studio condotto da ricercatori americani e danesi – segnalato sulla rivista “StartMag” – consente di quantificare il peso del mancato gettito tributario da parte delle multinazionali che spostano i loro profitti verso i paradisi fiscali. In particolare, segnala “Voci dall’Estero”, la scheda sull’Italia mostra come in questa gara all’occultamento dei profitti «il nostro paese perda 7,5 miliardi di gettito tributario, di cui la grande maggioranza a favore dei paradisi fiscali che indisturbati si annidano all’interno dell’Unione Europea». In pole position, l’Olanda sempre ligia al rigore “tedesco” contro l’Italia e naturalmente il Lussemburgo di Juncker. «In questo contesto, la crociata contro l’uso del contante per combattere l’evasione fiscale sembra quanto meno mancare completamente il bersaglio», scrive “Voci dall’Estero”, riferendosi alla campagna di propaganda del Conte-bis. I ricercatori dell’Università della California, di Berkeley e dell’Università di Copenaghen, nel complesso, stimano che ogni anno quasi il 40% dei profitti delle multinazionali (nel 2016 oltre 650 miliardi di dollari) vengano trasferiti in paradisi fiscali. «Questo spostamento riduce il gettito delle imposte sul reddito delle società di quasi 200 miliardi, ovvero il 10% della tassazione globale sulle società».I ricercatori hanno prodotto un database che mostra dove le aziende registrano i loro profitti a livello globale. «Sfruttando questi dati, gli autori hanno sviluppato una metodologia per stimare l’ammontare di profitti trasferiti in paradisi fiscali da società multinazionali», verificando anche «quanto ogni paese perda in profitti e entrate fiscali da tale spostamento».Le grandi multinazionali spostano i profitti nei paradisi fiscali per ridurre il peso globale delle imposte. Si prenda l’esempio di Google: nel 2017, Google Alphabet ha registrato ricavi per 23 miliardi di dollari nelle Bermuda, una piccola isola nell’Atlantico dove l’aliquota dell’imposta sul reddito delle società è pari a zero. Dallo studio è possibile vedere quali paesi attraggono e perdono profitti, in questo “gioco delle tre carte”. Si può verificare «la quantità di profitti spostati in paradisi fiscali e verso quali paradisi i profitti sono stati spostati». È inoltre possibile constatare «la perdita implicita del gettito d’imposta sul reddito delle società».Per i paradisi fiscali, gli esperti segnalano quanti profitti attirano dai paesi ad alta tassazione e qual è l’aliquota d’imposta effettiva sul reddito delle società. La perdita di profitto massima – spiegano gli strudiosi – si ha per i paesi dell’Unione Europea (almeno, quelli che non sono “paesi rifugio”). «Le multinazionali statunitensi spostano relativamente più profitti (circa il 60% dei loro profitti esteri) rispetto alle multinazionali di altri paesi (40% in media)». Gli azionisti delle multinazionali statunitensi sembrano quindi essere «i principali vincitori del trasferimento globale dei profitti». Inoltre, i governi dei paradisi fiscali «traggono notevoli benefici da questo fenomeno: tassando con aliquote basse (meno del 5%) la grande quantità di profitti potenziali che attraggono, sono in grado di generare più entrate fiscali, in proporzione al loro reddito nazionale, rispetto agli Stati Uniti e ai paesi europei (non paradisi fiscali) che hanno aliquote fiscali molto più elevate». Fino a poco tempo fa, aggiungono gli analisti, questa ricerca non sarebbe stata possibile, poiché le imprese di solito non rivelano pubblicamente i paesi in cui sono registrati i loro profitti.Inoltre, i dati dei conti economici nazionali non permettevano di studiare le società multinazionali separatamente dalle altre imprese. Ma negli ultimi anni gli istituti statistici della maggior parte dei paesi sviluppati del mondo (compresi i principali paradisi fiscali) hanno iniziato a pubblicare nuovi dati macroeconomici, noti come statistiche delle consociate estere. «Questi dati consentono di ottenere una visione completa di dove le società multinazionali registrano i loro profitti e in particolare di stimare l’ammontare degli utili registrati nei paradisi fiscali a livello globale». Per approfondire la nostra comprensione di questo problema, ammettono i ricercatori, «avremmo bisogno di altri dati, ancora più precisi». In particolare, «sarebbe auspicabile che tutti i paesi pubblicassero statistiche sulle consociate estere, e che tali statistiche fossero più ampie e includessero sempre informazioni sulle imposte versate».Mentre Di Maio si appresta a vantare grandiosi “risparmi” tagliando i parlamentari (in concreto, lo 0,007% della spesa pubblica) uno studio condotto da ricercatori americani e danesi – segnalato sulla rivista “StartMag” – consente di quantificare il peso del mancato gettito tributario da parte delle multinazionali che spostano i loro profitti verso i paradisi fiscali. In particolare, annota “Voci dall’Estero”, la scheda sull’Italia mostra come in questa gara all’occultamento dei profitti «il nostro paese perda 7,5 miliardi di gettito tributario, di cui la grande maggioranza a favore dei paradisi fiscali che indisturbati si annidano all’interno dell’Unione Europea». In pole position, l’Olanda sempre ligia al rigore “tedesco” contro l’Italia e naturalmente il Lussemburgo di Juncker. «In questo contesto, la crociata contro l’uso del contante per combattere l’evasione fiscale sembra quanto meno mancare completamente il bersaglio», scrive “Voci dall’Estero”, riferendosi alla campagna di propaganda del Conte-bis. I ricercatori dell’Università della California, di Berkeley e dell’Università di Copenaghen, nel complesso, stimano che ogni anno quasi il 40% dei profitti delle multinazionali (nel 2016 oltre 650 miliardi di dollari) vengano trasferiti in paradisi fiscali. «Questo spostamento riduce il gettito delle imposte sul reddito delle società di quasi 200 miliardi, ovvero il 10% della tassazione globale sulle società».
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‘Banche illegali: ogni anno creano 1.000 miliardi, esentasse’
Il privilegio di emettere moneta “scritturale”, al di fuori di ogni legge che lo consenta (e anzi, contro l’articolo 128 del Trattato di Lisbona, che riserva la creazione dell’euro alla sola banca centrale) è stato di fatto preso dai banchieri privati, che godono della copertura delle autorità monetarie, e che in Italia ogni anno emettono mediamente 1.000 miliardi di moneta “scritturale”, denominandola “euro” – e non potrebbero farlo, perché violano il monopolio della Bce. La copertura, la protezione di questo privilegio (che in fondo è l’infrastruttura fondamentale del nostro sistema socio-economico) viene assicurata dalla Banca d’Italia. Ma se solo la Bce ha la potestà di creare l’euro, perché si tollera che l’euro venga creato (mediante i prestiti, ndr) dalle normali banche di credito? E’ una situazione di totale illegalità, contraria al diritto. Viene tollerata perché proprio il privilegio è il fondamento del potere politico-economico. I cittadini che si mettono a loro volta a creare moneta “scritturale”, contro cui di scaglia la Banca d’Italia, in realtà fanno esattamente quello che fa il sistema bancario privato.Solo che i cittadini, essendo il popolo (che deve essere sfruttato, spremuto e represso) non hanno la copertura delle autorità monetarie. Mentre il cartello bancario privato, che possiede le banche centrali – ne possiede le quote e ne nomina i dirigenti – quella copertura ce l’ha: ha la “legittimazione illegittima” delle autorità monetarie. Se anche venisse legittimata la creazione di euro “scritturali” da parte delle banche private, si avrebbe un grande beneficio: emergerebbe infatti un reddito, ora sommerso, di circa 1.000 miliardi all’anno, in Italia. Il che vorrebbe dire un gettito fiscale di circa 220 miliardi all’anno in più, per lo Stato, e il risanamento di tutti i bilanci bancari – quindi il pagamento di tutte le azioni e le obbligazioni convertibili, il recupero dei risparmi (e naturalmente, anche più soldi per gli investimenti produttivi e per le famiglie). Però non ne parlano, i nostri economisti mezzo-eretici, antisistema solo a metà. Penso a Borghi, Bagnai, Rinaldi e altri: non parlano mai, di questo. Raccontano solo una parte della storia: quella meno pericolosa, meno destabilizzante.Non dicono nulla di questo, che ormai è un dato di fatto ammesso dalla Banca d’Italia (che pubblica le tabelle, relative alla creazione della moneta “scritturale” da parte delle banche private). Forse, dire questo sarebbe politicamente insostenibile, per il governo: l’esecutivo verrebbe fatto fuori, se qualche suo esponente ne parlasse. Non parlandone, però, si rimane in una situazione di sudditanza, che condanna l’Italia a una morte economica certa e abbastanza lenta. Beninteso: io apprezzo Rinaldi, Bagnai e Borghi. Li ascolto molto volentieri, però questa cosa non la dicono, ed è la cosa più importante: silenzio, sull’essenziale. Certo, l’essenziale può essere troppo forte: svelare questa realtà pubblicamente, attraverso i mass media, significa destabilizzare il sistema. Se queste cose venissero spiegate alla popolazione, o anche solo agli imprenditori, apparirebbe l’illegittimità profonda e irrimediabile di questo sistema monetario (e anche socio-politico, perché l’economia monetaria determina le condizioni di tutta la politica economica).E poi: da un lato c’è il monopolio privato della creazione della moneta, dall’altro c’è il “monopsonio” di 8 banche, relativo all’acquisto dei titoli del debito pubblico, alle aste marginali. Cioè: alla fine, a tutti gli acquisti viene applicato il rendimento più alto della giornata. Quindi, chi ha acquistato titoli a un rendimento più basso, poi non fa altro che aspettare l’ultimo acquisto, per beneficiare del rendimento più alto: il che vuol dire che queste 8 banche possono mettersi d’accordo tra loro per fare manovre al rialzo, sui tassi di rendimento, e quindi far pagare di più ai contribuenti e guadagnare di più esse stesse. Bisognerebbe che qualcuno spiegasse, almeno ai soggetti impenditorialmente attivi, che cos’è questa tenaglia: il monopolio dell’offerta dei rating monetari e il “monopsonio” dell’acquisto alle aste. E’ una tenaglia che spezza qualsiasi residuo di “cosa pubblica”, perché mette tutto il potere in un numero ristretto di grandi banchieri: tutta la politica viene stretta in questa tenaglia.L’Italia, come altri paesi, soffre di una carenza artificiale di liquidità, alla quale si ovvierebbe sia col “reddito universale”, cioè creando più moneta per sostenere la capacità di spesa e quindi la domanda interna, sia con una creazione monetaria mirata ad investimenti che aumentino la produzione e la produttività (a patto che l’aumento dei consumi e delle emissioni non comprometta in modo definitivo la salute dell’ecosistema terrestre). Dovrebbe sorgere una rete bancaria parallela, praticamente gratuita, che tolga di mezzo l’attuale sistema bancario, interamente privatizzato. E’ un sistema sostanzialmente vampiresco, che drena risorse dall’economia e le riduce, artificiosamente, per mantenere alto il proprio potere di condizionamento della moneta. Noi viviamo in un sistema al quale viene tolta moneta. Sapete che l’Italia ha a disposizione una quantità di liquidità pro capite che è la metà di quella della Francia e della Germania? Mettete un paese indebitato e in recessione, come l’Italia, accanto a paesi molto meno indebitati e molto meno in recessione, e con il doppio della liquidità, e avrete l’inevitabile: e cioè che i paesi più forti (e con più soldi) si comprano tutto quel che c’è da comprare, dell’Italia. Sono cose di cui non si parla mai. E sono quell’essenza, sottaciuta, dell’economia monetaria.In qualsiasi società, abbiamo soggetti che da un lato hanno capacità di dare beni e servizi, e dall’altro hanno bisogno di beni e di servizi. Quindi la società richiede lo scambio. E lo scambio, a sua volta, richiede la moneta, come mezzo di regolazione dello scambio. Se però io mi pongo in una condizione di monopolista della creazione e della distribuzione della moneta (che è un simbolo: non è coperto da oro, e non ha un costo di produzione) e impongo a tutti di servirsi, per legge, della moneta da me prodotta, e gliela faccio pagare in termini di interessi, io gradualmente mi impadronisco di tutto il potenziale economico: costringo tutti a pagare con una moneta che prendono in prestito, versandomi gli interessi, per eseguire le loro transazioni. E accumulandosi gli interessi nel tempo, alla fine il mio potere diventa totale: assorbe quello dello Stato. Così io divento padrone dell’intera economia, ed è questo che è avvenuto. A quel punto io faccio scarseggiare la moneta, per mantenerne alta la domanda e alto il prezzo – e per tenere per il collo, al guinzaglio, le istiuzioni pubbliche, le imprese e i popoli.E attenzione: io non do nulla. Ottengo tutto questo senza dare alcun bene reale, alcun servizio reale: semplicemente, approfitto della posizione di monopolio che ho comperato, che ho conquistato in altri modi. Questa è l’economia politica, in essenza. Se prenderà piede Libra, la criptomoneta di Facebook, i giovani capiranno cos’è davvero la moneta: un semplice simbolo, il cui valore dipende unicamente dalla sua accettazione. E quindi capiranno che non ha bisogno di avere alle spalle una garanzia, una copertura in oro. Capiranno anche che la storia del capitale sociale delle banche centrali è una cosa assurda. Le banche centrali, che creano ed emettono la moneta, non hanno bisogno di capitale sociale, perché la moneta la creano. Il capitale sociale è una scorta di moneta, di credito, per far funzionare una normale impresa commerciale, che ha bisogno di prendere moneta dall’esterno: ma le banche centrali non hanno bisogno prendere moneta dall’esterno. E allora perché la Banca d’Italia ha un capitale sociale?Risposta: per creare il pretesto, lo specchietto per le allodole che giustifichi il fatto di avere dei proprietari, che sono società private e per lo più estere, che controllano la banca centrale italiana attraverso dei prestanome. Questa è la realtà: è tutta una costruzione fatta per ingannare. I giovani che useranno la moneta di Facebook impareranno che la moneta non ha bisogno di riserve e non ha costi di produzione. E capiranno quindi che tutta la narrazione, lo storytelling delle autorità monetarie (europee, italiane e internazionali, incluso il Fmi) è una panzana. E’ un inganno, una truffa, per spremere il prodotto del lavoro e del risparmio della gente e delle imprese. In tanti cominceranno a chiedersi: come mai Zuckerberg può produrre molti miliardi di Libra, se non ha una banca centrale? A cosa serve la banca centrale? A cosa servono le banche?Mi aspetto che si cominci a dubitare della narrazione monetaria e bancaria, prodotta dalle istituzioni per ingannarli. E poi, la Libra sarebbe davvero una criptovaluta? In greco, “cryptos” vuol dire nascosto. Se è evidente quello che hai nel portafoglio, bisognerebbe chiamarla “fanerovaluta”, moneta palese. C’è da fidarsi, di Facebook? Durante la campagna elettorale per le europee, il social network ha oscurato i miei post: sicuramente manifesta la volontà di tutelare certi segreti. Mi ha tenuto sotto censura per circa un mese, poi mi ha riammesso una volta avuti i risultati elettorali. A parte questo, io credo che ai livelli altissimi – in cui si trovano Mark Zuckerberg e le somme autorità monetarie – ci si preoccupi di trovare una via d’uscita dal vero problema di fondo: qualora l’economia mondiale ripartisse (consumi, investimenti, produzione), ripartirebbero anche i processi di esaurimento delle risorse ambientali planetarie, insieme al processo dell’inquinamento. Quindi è probabile che vi sia la volontà di mantenere soffocate le economie e le società, producendo anche depressione diffusa nelle popolazioni, per preparare una soluzione al problema ecologico e demografico.Facebook si metterà in una posizione tale da scatenare panico e sfiducia monetaria, nel mondo. Potrà fare disastri, volendo: l’economia, le monete e la finanza vivono di aspettative, e Facebook a un certo punto potrebbe anche scatenare un collasso globale delle monete. Ma forse arriverà prima la guerra, magari la guerra nucleare con l’Iran: Teheran ha appena detto che completerà il suo programma, e Trump ha replicato sostenendo di non avere bisogno dell’approvazione congressuale, per attaccare. Sono solo parole? Vedremo. Se ci sarà una guerra avremo scarsità di petrolio e prezzi fuori controllo. Ma è difficile prevedere il futuro – anzi, è impossibile. Molti economisti prevedono una nuova, grossa crisi ormai imminente? Era attesa, è vero, però gli ultimi segnali prevalenti sono diversi. In base alle informazioni che ricevo per vie interne, so che alla fine dell’anno prossimo inizierà una campagna di investimenti molto massiccia. Soprattutto nel Sud Europa ci sarà una forte espansione delle attività di costruzioni infrastrutturali. Apprendo che, in certi uffici molto importanti, ci si aspetta questo: una ripresa, nel 2020.La moneta diventerà solo elettronica? Non credo si possa elminare il cash, anche se la quantità di contante utilizzata, nel mondo, è già molto modesta. In realtà, eliminare il denaro materiale (che esiste già, senza quindi il bisogno che la banca lo mantenga in essere) è un modo per spiare capillarmente la vita dei cittadini e portargli via quello che hanno, senza che possano opporsi. Serve anche a espropriare il denaro a fini fiscali e di sostegno al sistema bancario. E serve a colpire le singole persone, quelle non sottomesse, ribelli – le persone dissenzienti, che disturbano – attraverso il blocco dei conti correnti e altre forme di persecuzione discriminatoria. Pensiamo a cosa può fare, la banca, con una segnalazione (anche falsa) di inadempienza: se ti stai comprando casa, può rovinarti la vita. Vale per tutti: la banca potrebbe fermare le capacità di acquisto, di spesa e di pagamento. E a questo si può certamente arrivare. Morte civile: non puoi più pagarti nemmeno un avvocato che ti difenda.E’ un modo per schiavizzare i cittadini – mentre la grande evasione e la grande elusione fiscale avvengono per altri canali: non certamente attraverso il contante, ma attraverso i falsi bilanci bancari che citavo prima (l’omissione della contabilizzazione dei ricavi della creazione monetaria). Evasione ed elusione avvengono anche attraverso manovre al rialzo o al ribasso dei mercati finanziari, e poi attraverso le reti bancarie occulte, che consentono l’occultamento di grandi quantità di denaro (che poi riaffiora nei paradisi fiscali). La moneta è una forma di controllo sociale, penetrante e immediato: repressione e intimidazione dei cittadini. In Cina vieni schedato, a punteggio, in base a come ti comporti su Internet e alle opinioni che esprimi. Alla fine la gente arriverà ad auto-inibirsi, a escludersi dalle comunicazioni: sarà indotta al conformismo, all’acquiescenza, per il timore di incorrere nel blocco del conto corrente e della carta di credito.(Marco Della Luna, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti e Tom Bosco nella puntata 318 di “Border Nights”, trasmessa il 25 giugno 2018 e poi ripresa su YouTube. Avvocato e saggista, Della Luna – riguardo alla creazione monetaria impropria, la moneta “scritturale” – allude al normale credito bancario: la banca possiede solo la riserva frazionaria, cioè appena l’1% del denaro che presta; di fatto il 99% lo “crea dal nulla”, emettendo il credito, e lo fa in regime di esclusivo monopolio, in questo caso privato. Della Luna ha pubblicato svariati saggi, sul tema, tra cui “Cimiteuro, uscirne e risorgere: signoraggio, golpe bancario, debito infinito”, “Euroschiavi: chi si arricchisce davvero con le nostre tasse”, “Oligarchia per popoli superflui: l’ingegneria sociale della decrescita infelice”, “Oltre l’agonia: come fallirà il dominio tecnocratico dei poteri finanziari” e “Tecnoschiavi”, uscito nel 2019).Il privilegio di emettere moneta “scritturale”, al di fuori di ogni legge che lo consenta (e anzi, contro l’articolo 128 del Trattato di Lisbona, che riserva la creazione dell’euro alla sola banca centrale) è stato di fatto preso dai banchieri privati, che godono della copertura delle autorità monetarie, e che in Italia ogni anno emettono mediamente 1.000 miliardi di moneta “scritturale”, denominandola “euro” – e non potrebbero farlo, perché violano il monopolio della Bce. La copertura, la protezione di questo privilegio (che in fondo è l’infrastruttura fondamentale del nostro sistema socio-economico) viene assicurata dalla Banca d’Italia. Ma se solo la Bce ha la potestà di creare l’euro, perché si tollera che l’euro venga creato (mediante i prestiti, ndr) dalle normali banche di credito? E’ una situazione di totale illegalità, contraria al diritto. Viene tollerata perché proprio il privilegio è il fondamento del potere politico-economico. I cittadini che si mettono a loro volta a creare moneta “scritturale”, contro cui di scaglia la Banca d’Italia, in realtà fanno esattamente quello che fa il sistema bancario privato.
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L’inutile boom di Salvini: a Bruxelles resta al potere il rigore
«Meteor-Matteo, il cazzaro che vince le europee saturando i media, è una replica in saldo. Rispetto a Renzi nel ’14, Salvini ha 7 punti in meno, e calcolata l’astensione il suo 34% in realtà significa meno di 2 elettori su 10. Al tramonto però anche i nani proiettano lunghe ombre». Così Alessandra Daniele su “Carmilla” commenta l’esito – largamente atteso – delle europee: la Lega sopra il 34% e il Pd che risale al 22,7 sorpassando i grillini, franati fino al 17%. «Il rovinoso crollo grillino è una replica renziana in fast-forward: in meno d’un anno di governo, il Movimento 5 Stelle Spente ha già perduto metà degli elettori». La primissima esperienza politico-mediatica di Beppe Grillo, ricorda la Daniele, fu commentare da comico una maratona elettorale nei primi anni ’80 dell’ascesa di Craxi. «Ieri sera, nessuno dei grillini ha avuto il coraggio di apparire davanti alle telecamere per commentare il suicidio di massa che hanno compiuto favorendo l’ascesa di Salvini. Il cerchio s’è chiuso». E Zingaretti? «Ha esultato molto più di quanto il misero recupero del suo partito lo autorizzasse a fare», specie dopo aver candidato “frontman” come Giuliano Pisapia e Carlo Calenda, campioni di grigiore assoluto.Osserva ancora Alessandra Daniele: «Il Pd festeggia perché Salvini è il nemico ideale, contro il quale spera di ri-mobilitare a suo vantaggio quell’union sacrée orfana dell’antiberlusconismo di facciata, e quegli antifascisti a progetto che oggi fingono di non accorgersi che Salvini non è che la continuazione della dottrina Minniti con gli stessi mezzi», al netto di qualche “sceneggiata”. «Intanto l’élite Ue si prepara ancora una volta ad ammortizzare e neutralizzare le ambivalenti spinte al cambiamento espresse dagli elettori in tutti i paesi europei». In realtà i “sovranisti” come Orban e Marine Le Pen sono soltanto «meteore», destinate a brillare solo per un attimo, «per poi inabissarsi nella palude degli affari comuni». Lo conferma Gianni Rosini sul “Fatto Quotidiano”: sarà ancora il medesimo blocco di potere – popolari e socialisti, con in più i liberali – a gestire la farsa post-democratica delle istituzioni europee: a controllare Strasburgo sarà sempre l’alleanza trasversale che finora ha imposto le peggiori politiche di rigore. «Il successo dei partiti conservatori, euroscettici e nazionalisti c’è stato rispetto al 2014, ma non basta per pensare a un’apertura del Ppe a destra, come auspicato da Forza Italia e da Silvio Berlusconi».«Sarà quindi, con tutta probabilità, un’alleanza al centro – scrive il “Fatto” – quella che guiderà la nuova Unione. Nemmeno un’uscita di Orban dal Ppe, oggi sempre più improbabile, metterebbe in discussione la grande coalizione a tre». Aggiunge Sergio Luciano sul “Sussidiario”: «Le Pen e Farage in un simile quadro continueranno a essere attori comprimari ma irrilevanti. Quindi è impensabile, in queste condizioni, che la filiera decisionale, peraltro lunga e lenta, che da Strasburgo arriverà a fine anno alla Commissione Europea e in qualche modo anche alla Bce possa strizzare l’occhio alla manica larga necessaria al Capitano per fare una finanziaria con il deficit al 3,5 o al 4%». La Flat Tax, continua Luciano, pur essendo una formula cara ai paesi “sovranisti” teoricamente vicini alla Lega («ma in pratica vicini solo a se stessi, se no che sovranisti sarebbero?»), in realtà determina nell’immediato un calo del gettito che l’Italia «non è assolutamente in grado di fronteggiare, esponendo in bilancio la previsione di entrate compensative: come potrà mai, il Capitano, ottenere la luce verde europea su una misura simile?». E come potrà essere confermata “quota 100”, allo scadere dei due anni di test, «in un’Europa che non avrà nel frattempo rivisto il totem del 3% di rapporto massimo deficit/Pil?».«Meteor-Matteo, il cazzaro che vince le europee saturando i media, è una replica in saldo. Rispetto a Renzi nel ’14, Salvini ha 7 punti in meno, e calcolata l’astensione il suo 34% in realtà significa meno di 2 elettori su 10. Al tramonto però anche i nani proiettano lunghe ombre». Così Alessandra Daniele su “Carmilla” commenta l’esito – largamente atteso – delle europee: la Lega sopra il 34% e il Pd che risale al 22,7 sorpassando i grillini, franati fino al 17%. «Il rovinoso crollo grillino è una replica renziana in fast-forward: in meno d’un anno di governo, il Movimento 5 Stelle Spente ha già perduto metà degli elettori». La primissima esperienza politico-mediatica di Beppe Grillo, ricorda la Daniele, fu commentare da comico una maratona elettorale nei primi anni ’80 dell’ascesa di Craxi. «Ieri sera, nessuno dei grillini ha avuto il coraggio di apparire davanti alle telecamere per commentare il suicidio di massa che hanno compiuto favorendo l’ascesa di Salvini. Il cerchio s’è chiuso». E Zingaretti? «Ha esultato molto più di quanto il misero recupero del suo partito lo autorizzasse a fare», specie dopo aver candidato “frontman” come Giuliano Pisapia e Carlo Calenda, campioni di grigiore assoluto.
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Soldi a tutti, e meno ore di lavoro: abolire i poveri conviene
Soldi gratis per tutti e (molto) più tempo libero. Perché garantire a ogni cittadino un reddito di base conviene: riduce la criminalità, la mortalità infantile e la dispersione scolastica, e favorisce la crescita e l’uguaglianza di genere. E ridurre la settimana lavorativa a 15 ore aumenta la produttività, aumenta i posti part time, riduce le emissioni di CO2 e favorisce l’emancipazione femminile. E’ la “Utopia per realisti” (uscito in Italia per Feltrinelli) di Rutger Bregman, trentenne storico olandese con interessi che spaziano dalla filosofia all’economia, salito agli onori delle cronache per un provocatorio discorso contro l’evasione e l’elusione fiscale tenuto in gennaio ai partecipanti all’ultimo Forum economico di Davos. «Nessuno solleva l’argomento che i ricchi non pagano la loro parte, quella che è giusto che paghino», ha scandito Bregman – che il mensile “Fq Millennium” aveva intervistato nel novembre 2017 – davanti alla platea di milionari riuniti in Svizzera. «Mi sento come a una conferenza di pompieri in cui non è permesso parlare dell’acqua. Tasse, tasse, tasse. Tutto il resto sono stronzate».Il punto di partenza del libro è che questa nuova utopia è utile e necessaria in un mondo in cui «tanti pensatori e politici di sinistra tentano di mettere a tacere le idee radicali tra le proprie fila per la paura di perdere voti», mentre «i neoliberisti sono imbattibili nel gioco in cui contano la ragione, i giudizi e le statistiche». Ma è proprio con una grande mole di numeri e statistiche che Bregman spiega come la lotta contro la povertà sia «un investimento che ripaga con gli interessi», e come distribuire denaro senza un eccesso di cavilli burocratici sia il modo migliore per condurla. Soldi gratis, dunque, «non come favore ma come diritto»: quella che Bregman definisce «la via capitalista al comunismo». Secondo l’economista Charles Kenny, dello statunitense Center for Global Development, «il principale motivo per cui la gente è povera è perché non ha abbastanza soldi, perciò non dovrebbe essere una grossa sorpresa vedere che dargli dei soldi è un modo fantastico per ridurre il problema».E Bregman elenca una serie di casi in cui le elargizioni di soldi senza contropartite hanno funzionato nel migliorare le condizioni di vita della popolazione nei paesi in via di sviluppo – dal Malawi alla Namibia – o di gruppi sociali a rischio come gli homeless: esperimenti condotti nei Paesi Bassi e in Utah mostrano per esempio che fornire case gratis, oltre a togliere le persone dalla strada, riduce notevolmente l’incidenza di alcolismo e abuso di droga, e nel complesso costa molto meno che garantire assistenza agli homeless e sostenere i costi giudiziari legati ai piccoli crimini che commettono per sopravvivere. Ma gli esperimenti di redditi di base hanno funzionato bene, pur su piccola scala, anche quando applicati a piccole comunità locali, come avvenuto a fine anni ‘60 negli Usa durante la presidenza di Lyndon B. Johnson e in Canada negli anni ‘70 con il Mincome. «Greg J. Duncan, professore della University of California, ha calcolato che sottrarre una famiglia americana alla povertà costa una media di circa 4.500 dollari all’anno», nota Bregman. «Alla fine, i rientri di questo investimento per bambino sarebbero: +12,5 per cento di ore lavorate, +3.000 dollari di risparmio annuale come welfare, +50mila-100mila dollari di maggiori guadagni nella vita, +10mila-20mila dollari di introiti fiscali statali aggiuntivi».Questo perché la povertà, ponendo continue sfide immediate da affrontare, riduce quella che gli psicologi hanno definito “larghezza di banda mentale”, arrivando addirittura a influenzare negativamente il quoziente intellettivo misurato dai test. Nel 1969, racconta Bregman, il presidente Usa Richard Nixon era stato in procinto di varare il reddito senza contropartite per tutte le famiglie povere. Ma alcuni suoi consiglieri fecero strenua opposizione, fino a consegnargli un documento sugli esiti estremamente negativi del sistema Speenhamland, risalente ai primi anni dell’Ottocento inglese, che consisteva nell’incremento fino al livello di sussistenza dei redditi di «tutti gli uomini poveri e industriosi e loro famiglie». Documento che in seguito si rivelò però manipolato fin dall’origine, per “sabotare” il reddito di base. Ora, secondo l’autore, «l’ora è arrivata» per garantire a tutti «una rendita mensile sufficiente per campare, anche se non muovi un dito», senza «nessun ispettore che ti controlla da dietro per vedere se li spendi saggiamente, nessuno che ti chiede se sono davvero meritati».Gli altri due pilastri della “utopia per realisti” riguardano il lavoro. Il primo è la riduzione degli orari, che l’economista John Maynard Keynes riteneva una conseguenza inevitabile del progresso ma al contrario non si è mai materializzata, nonostante in molti casi si sia toccato con mano che la produttività non va di pari passo con l’aumento delle ore lavorate, anzi. Il secondo è un meccanismo di incentivi che renda meno attraenti quelli che Bregman definisce “lavori burla”, attività ben pagate che però non forniscono contributi tangibili alla società o addirittura distruggono ricchezza anziché crearla (l’esempio del libro sono i banchieri, che concepiscono «complessi prodotti finanziari che sono, in pratica, una tassa sul resto della popolazione»). L’idea è quella di una tassa sulle transazioni finanziarie che, oltre a generare gettito da utilizzare per investimenti utili alla società, motiverebbe le menti più brillanti a dedicarsi alla ricerca, all’insegnamento o all’ingegneria invece che preferire una carriera nelle banche di investimento. Idee irrealizzabili? «Definirle “irrealistiche” era una semplice scorciatoia per intendere che collidevano con lo status quo», è la risposta di Bregman. «La fine dello schiavismo, l’emancipazione delle donne, l’avvento della previdenza sociale erano tutte idee progressiste nate folli e “irrazionali” ma alla fine accettate come cose di comune buon senso».(Chiara Brusini, “Reddito di base e 15 ore di lavoro alla settimana”, l’utopia dello storico che ha detto ai ricchi di Davos di pagare le tasse”, dal “Fatto Quotidiano” dell’11 maggio 2019. Il libro: Rutger Bregman, “Utopia per realisti”, Feltrinelli, 251 pagine, 18 euro).Soldi gratis per tutti e (molto) più tempo libero. Perché garantire a ogni cittadino un reddito di base conviene: riduce la criminalità, la mortalità infantile e la dispersione scolastica, e favorisce la crescita e l’uguaglianza di genere. E ridurre la settimana lavorativa a 15 ore aumenta la produttività, aumenta i posti part time, riduce le emissioni di CO2 e favorisce l’emancipazione femminile. E’ la “Utopia per realisti” (uscito in Italia per Feltrinelli) di Rutger Bregman, trentenne storico olandese con interessi che spaziano dalla filosofia all’economia, salito agli onori delle cronache per un provocatorio discorso contro l’evasione e l’elusione fiscale tenuto in gennaio ai partecipanti all’ultimo Forum economico di Davos. «Nessuno solleva l’argomento che i ricchi non pagano la loro parte, quella che è giusto che paghino», ha scandito Bregman – che il mensile “Fq Millennium” aveva intervistato nel novembre 2017 – davanti alla platea di milionari riuniti in Svizzera. «Mi sento come a una conferenza di pompieri in cui non è permesso parlare dell’acqua. Tasse, tasse, tasse. Tutto il resto sono stronzate».
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Il Mago ipnotizza l’Europa: votare non serve, decido solo io
Lucida follia: è tutto sotto i nostri occhi, eppure si nega l’evidenza. Del sistema capitalistico esistono due traduzioni pratiche: enormi fortune per pochi (neoliberismo) o relativo benessere per molti (keynesismo). Più lo Stato spende, a deficit, e più cresce il Pil. Ovvero: consumi, lavoro, risparmi. Di conseguenza: più gettito fiscale, più soldi per il welfare, la previdenza, le pensioni. E’ un fatto intuitivo, oltre che scientificamente e storicamente dimostrato: più si investe, utilizzando il debito pubblico, più la società cresce, nel suo insieme. Se viceversa si chiude il rubinetto pubblico, la situazione precipita: il 99% della popolazione perde terreno, e il restante 1% si arricchisce a dismisura, acquistando a prezzi di saldo beni e aziende, pubbliche e private; si rilevano servizi un tempo pubblici, insieme a imprese strangolate dalle tasse, imposte per pareggiare il bilancio statale. Il gioco della finanza è basato su scommesse truccate: compro oggi a poco prezzo i titoli che domani varranno di colpo moltissimo, visto che so in partenza che i miei complici li faranno “esplodere”, al momento opportuno, organizzando a tavolino una bella crisi. La Grecia è stata letteralmente spolpata, in questo modo, ma anche l’Italia – fatte le debite proporzioni – ha seguito la medesima sorte. Idem gli altri paesi europei, anch’essi governati dai prestanome di un’oligarchia del denaro che detiene tutti i mezzi monetari per manipolare l’economia. La politica è stata sfrattata dal palazzo: la democrazia, svuotata di ogni contenuto, è stata completamente neutralizzata.Di questo dovrebbero parlare, ogni giorno, i media italiani che si avventano come mastini rabbiosi contro il pallido governo gialloverde, scuoiato vivo a reti unificate solo per essersi permesso di innalzare il deficit, sia pure in modo irrisorio – ben al di sotto del tetto (artificioso, ideologico) sancito a Maastricht. Che razza di Europa è, quella di Maastricht? Per quale motivo, dopo un quarto di secolo, è ancora in vigore un trattato palesemente suicida, che ha “gambizzato” una potenza economica mondiale seconda solo agli Usa e alla Cina, seminando crisi e disperazione fino al punto da resuscitare i peggiori nazionalismi del Novecento? Come ragionano, i nostri post-giornalisti? Da dove pensano che provenga l’esasperazione di massa che sta letteralmente gonfiando l’esercito “rossobruno” dei cosiddetti sovranisti? Sta covando un vasto incendio, ormai, e i pompieri sono già al lavoro: l’oligarca Oettinger impone il bavaglio al web in vista delle prossime europee, mentre il collega Draghi minaccia ogni giorno il governo italiano (l’unico a rompere le righe, per ora, nel mortale ordoliberismo che i grassatori hanno imposto ai popoli europei). Impera un’ipocrisia disgustosa: il massimo rigore inflitto ai molti, per proteggere i privilegi di pochissimi, viene spacciato per virtù. Si racconta che il bilancio dello Stato è come quello di una famiglia – come se anche la famiglia potesse battere moneta. Salgono in cattedra economisti che hanno rinnegato il proprio mestiere: di professione, ormai, fanno i maghi.Lo stesso Draghi, prima di salire sul Britannia da cui partì la grande spartizione dell’Italia, era un economista keynesiano: sapeva perfettamente che, senza una robusta dose di deficit, l’economia collassa. Lo sapeva così bene che la sua tesi di laurea, realizzata sotto la guida dell’insigne Federico Caffè, dimostrava – letteralmente – l’insostenibilità tecnica di una eventuale moneta unica europea, che avrebbe inevitabilmente imposto un regime fiscale austeritario, mettendo in crisi il continente. Poi, si sa, il mago Draghi fu promosso: prima di conquistare la poltronissima della Bce aveva presidiato Bankitalia, e come stratega della peggiore banca d’affari del mondo, la famigerata Goldman Sachs, aveva contribuito in modo decisivo (insieme a Carlo Cottarelli, del Fmi) a rovinare la Grecia. Oggi, sempre Draghi – al servizio del grande monopolio finanziario privato che domina l’Europa – si permette di dare consigli al presidente Mattarella su come scoraggiare il governo Conte, regolarmente intimidito anche da Ignazio Visco, governatore di Bankitalia, teleguidato sempre dall’uomo di Francoforte. Questi signori agitano lo spettro dello spread, come se fosse un fenomeno naturale (e non invece la nota roulette scatenata a comando da poche mani). Chi sono, questi signori? Chi ha consegnato loro tanto potere? Chi ha dato loro la facoltà di annullare, sostanzialmente, il risultato democratico delle elezioni?Nello scenario odierno colpisce la dismisura tra la realtà e la sua narrazione virtuale. L’arma del mago – che manipola il pubblico – è sempre la stessa: la paura. Guai, se osate sforare i parametri della depressione collettiva programmata. Guai, se vi azzardate a espandere il benessere alla struttura sociale, ormai in stato di crescente sofferenza. Giornali e televisioni rilanciano lo stesso messaggio: è giusto avere paura. E’ saggio. Siamo nati, in fondo, per vivere nella paura. La paralisi generale che si ottiene è impressionante. E i maghi, innanzitutto, restano al loro posto. Oggi sono preoccupati, certo, dai primi rumorosi segnali di insofferenza. Se le vituperate masse dovessero malauguratamente svegliarsi, per loro sarebbe finita. Crocifìggono l’Italia per il suo debito pubblico, che viaggia attorno al 130% del Pil, ben sapendo che nessuno chiederà mai conto, a Draghi e ai suoi padroni, del successo di un sistema come quello del Giappone, arrivato al 250% di debito senza colpo ferire, senza disoccupazione, e senza subire nessun tipo di estorsione finanziaria (spread), essendo i giapponesi protetti da una vera banca centrale, che si comporta da prestatore di ultima istanza e garantisce in modo illimitato l’esposizione contabile della nazione.Sanno perfettamente, i maghi neri, che basterebbe la disobbedienza di un solo paese a far crollare l’incantesimo: investendo in modo coraggioso, con un super-deficit strategico (Keynes docet) l’economia si metterebbe automaticamente a volare. E un paese che scoppia di salute, ovvero di futuro, sarebbe preso d’assalto da tutti gli investitori del pianeta. Culmine della follia: i maghi neri trattano l’Italia come fosse il Burundi, e non un grande paese industriale del G8. Uno Stato con duemila miliardi di debito, ma quasi diecimila miliardi di patrimonio, tra risparmi e beni immobiliari. Stiamo parlando dell’Italia, il paradiso turistico tecnologicamente avanzato che detiene il 70% dei beni culturali del mondo. Solo una forma patologica di devastante ipnosi collettiva può consentire al mago e ai suoi compari di insolentire, minacciare, ricattare e derubare una comunità del genere, formata da 60 milioni di cittadini, condannandola a vivere – ancora e sempre – nella paura di perdere tutto. Ma chi è, davvero, Mario Draghi? Chi ce l’ha messo, alla guida della Bce? E chi è Jean-Claude Juncker? In nome di quale Europa questi signori parlano? Quale suffragio popolare ha mai sorretto gli spaventapasseri che a turno sputano minacce dagli uffici di una Commissione Europea che ignora deliberatamente qualsuasi indicazione provenga dall’Europarlamento, unica istituzione elettiva dell’Unione?Il Trattato di Lisbona non è una Costituzione europea, è uno statuto coloniale – con la differenza che, rispetto al colonialismo tradizionale, quello europeo non ha neppure il pregio della terribile visibilità della potenza dominante. Il vero vertice è rappresentato dal celeberrimo “pilota automatico”, che la cupola finanziaria privata utilizza per soggiogare i sudditi, spesso con la cortese collaborazione dei vari gauleiter franco-tedeschi, ai quali viene concesso il tristo privilegio del kapò. Risultato: mezza Europa oggi ce l’ha coi tedeschi, come popolo, per via degli immani crimini sociali commessi da Angela Merkel, mentre tanti italiani ormai detestano i francesi, in blocco, per colpa del loro impresentabile presidente, l’oltraggioso sbruffone Macron, a sua volta mal sopportato dai suoi stessi connazionali, in quanto servitore di poteri oligarchici nemmeno così oscuri. E questa sarebbe oggi l’Europa? Sarebbe questo il giusto habitat politico dove far vivere oltre mezzo miliardo di esseri umani, che ormai si guardano in cagnesco?In questi anni, il mago si è arricchito smisuratamente mentendo ai sudditi, raccontando loro che dovevano rassegnarsi a stare peggio, a rinunciare a crescere come un tempo. La protesta ribolle, in molti paesi, ma il mago non ha un Piano-B: non cambia ricetta, non prospetta alternative alla sua teologia dell’infelicità. Al limite, pensa a come depistare il pubblico, coi soliti sistemi: i media addestrati a ripetere menzogne, i governi frontalmente minacciati di terribili punizioni, i movimenti più irrequieti eventualmente infiltrati da agenti provocatori. Tutto questo accade, ancora, perché a valere sono le regole del mago: è stato lui a raccontare che, impoverendosi, ci si arricchisce. Austerity espansiva, l’ha chiamata. Che è come dire: tutti sappiamo che gli asini volano. Per quanto ancora, il mago, terrà in vita il suo maleficio? Quanto tempo impiegheranno, i popoli europei, a sfrattare i loro parassiti? L’impresa è molto ardua, vista la sproporzione delle forze in campo. Nel 2012, sotto il dominio del mago Monti, l’Italia scrisse nella sua Costituzione che la Terra è piatta, e non gira affatto attorno al Sole. Tecnicamente: pareggio di bilancio. Tradotto: è giusto auto-sabotarsi, amputare il futuro. Perché non viene rimosso, oggi, quel vincolo medievale? Perché non si torna a dire, tanto per cominciare, che la Terra è tonda?La superstizione neoliberista è stata fatta a pezzi dagli economisti democratici e, prima ancora, dalla realtà stessa: il bilancio del sistema neoliberale è una vera e propria catastrofe planetaria. Laddove si è tagliato lo Stato, è crollata anche l’economia privata. Unici beneficiari, gli immensi oligopoli finanziarizzati. Se si abbatte la spesa pubblica, frana l’intero paese. L’hanno capito tutti, ormai. E i primi a saperlo sono proprio loro, i grandi illusionisti: Juncker e Draghi, Merkel, Moscovici, Macron. Per chi lavorano, in realtà? Per quale nuovo ordine feudale? Troppa democrazia fa male, scrivevano negli anni ‘70 i maghi ingaggiati dalla Trilaterale: l’eccesso di democrazia – affermarono, testualmente – si cura restringendo gli spazi democratici, confiscando libertà e diritti. L’Europa è stato il loro grande laboratorio. C’erano ostacoli, al loro piano, ma sono stati rimossi – dall’italiano Aldo Moro allo svedese Olof Palme. Nemmeno i Craxi dovevano più essere in circolazione: diversamente, come riuscire a raccontare che, per ingrassare, bisogna saltare i pasti? Ci si domanda quand’è che torneranno in vigore le regole fisiologiche della vita, al posto di quelle – truccate – dell’illusionista. Per esempio: dove è scritto che l’Europa non possa avere una Costituzione democratica, validata dai suoi popoli? Chi ha stabilito che l’Unione Europea non possa essere affidata a un governo legittimo, regolarmente eletto? Chi l’ha detto che il continente non possa avere un’autentica banca centrale, anziché un istituto privatizzato e gestito da stregoni? Quanto a lungo sarà ancora sopportata, l’insolenza bugiarda del mago?Lucida follia: è tutto sotto i nostri occhi, eppure si nega l’evidenza. Del sistema capitalistico esistono due traduzioni pratiche: enormi fortune per pochi (neoliberismo) o relativo benessere per molti (keynesismo). Più lo Stato spende, a deficit, e più cresce il Pil. Ovvero: consumi, lavoro, risparmi. Di conseguenza: più gettito fiscale, più soldi per il welfare, la previdenza, le pensioni. E’ un fatto intuitivo, oltre che scientificamente e storicamente dimostrato: più si investe, utilizzando il debito pubblico, più la società cresce, nel suo insieme. Se viceversa si chiude il rubinetto pubblico, la situazione precipita: il 99% della popolazione perde terreno, e il restante 1% si arricchisce a dismisura, acquistando a prezzi di saldo beni e aziende, pubbliche e private; si rilevano servizi un tempo pubblici, insieme a imprese strangolate dalle tasse, imposte per pareggiare il bilancio statale. Il gioco della finanza è basato su scommesse truccate: compro oggi a poco prezzo i titoli che domani varranno di colpo moltissimo, visto che so in partenza che i miei complici li faranno “esplodere”, al momento opportuno, organizzando a tavolino una bella crisi. La Grecia è stata letteralmente spolpata, in questo modo, ma anche l’Italia – fatte le debite proporzioni – ha seguito la medesima sorte. Idem gli altri paesi europei, anch’essi governati dai prestanome di un’oligarchia del denaro che detiene tutti i mezzi monetari per manipolare l’economia. La politica è stata sfrattata dal palazzo: la democrazia, svuotata di ogni contenuto, è stata completamente neutralizzata.
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Casalino e il Deep State. Mazzucco: che ingenui, i 5 Stelle
«Posso non commentare le parole di Rocco Casalino?». Sdegnoso silenzio, solo perché a Casalino si rinfaccia sempre di aver partecipato al “Grande Fratello”? «Appunto: chi si sarebbe accorto di lui, se non fosse stato al “Grande Fratello”? Una volta i dirigenti politici venivano da scuole serie: i comunisti dalle Frattocchie, i democristiani dalla Fuci». Gianfranco Carpeoro, opinionista e saggista, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights” si rifiuta, per decenza, di intervenire sulla polemica innescata dall’improvvida sortita dell’ex comunicatore dei 5 Stelle, ora portavoce del premier Conte: in un fuori-onda ha preannunciato un repulisti, a tappeto, tra i funzionari del ministero dell’economia, chiamandoli «quei pezzi di merda». Nell’audio (rubato, in violazione della privacy), parlando con due giornalisti, Casalino li invita ad annunciare che, se le richieste dei 5 Stelle non verranno esaudite dal ministero di Tria, nel 2019 i pentastellati “bonificheranno” gli uffici dai tecnocrati che “remano contro” i gialloverdi, scatenando una terribile «vendetta». Apriti cielo: la tempesta ormai grandina a reti unificate su tutti i media. «Piuttosto ingenui, i 5 Stelle», osserva il documentarista Massimo Mazzucco, sempre in video-chat con Frabetti: «Possibile che non sapessero, fin dall’inizio, cosa li attendeva nei palazzi romani?».Mazzucco è un abile demistificatore: ben attento a non finire nel variopinto girone del complottismo “gridato”, si dedica da anni a studiare meticolosamente i complotti veri. E’ stato tra i primi a dimostrare che la versione ufficiale sull’11 Settembre fa acqua da tutte le parti. E nell’ultimo film, “American Moon”, certifica che le storiche immagini dell’allunaggio, purtroppo, non sono state affatto realizzate sulla Luna, ma in studi cinematografici o in teatri di posa. Fa sempre notizia il lavoro di Mazzucco, sia che si tratti della “nuova Peral Harbor” scatenata a Manhattan e comodamente attribuita ad Al-Qaeda, sia che sul monitor compaia una seria indagine sulle cure alternative per il cancro. E a proposito di salute: non certo ostile ai 5 Stelle, Mazzucco ha aspramente criticato il clamoroso voltafaccia sui vaccini, coi pentastellati prima tiepidi sul decreto Lorenzin e poi in confusione assoluta, ora che – con Giulia Grillo – avrebbero in mano le leve ministeriali del governo della sanità. Solo che, tra il dire e il fare, c’è appunto di mezzo la politica: «Me ne sono sempre tenuto alla larga, proprio perché temo quell’ambiente», confessa Mazzucco: «In passato ho anche rifiutato di impegnarmi personalmente, quando mi è stato chiesto di candidarmi, perché so che, per come sono fatto, essere costretto a confrontarmi con certe dinamiche mi farebbe perdere il sonno. Non fa per me, ecco tutto».Se però stiamo parlando di un soggetto politico come i 5 Stelle, aggiunge Mazzucco, le cose cambiano: «Nel momento in cui ti candidi a rivoluzionare l’Italia, non puoi non sapere che tipo di ostacoli incontrerai. I tuoi elettori, per primi, si aspettano che tu sappia perfettamente come muoverti. Bel guaio, se adesso scoprono che non sai bene che pesci pigliare». Un intero ministero che “rema contro” ostacolando lo stesso ministro, come nel caso di Tria, secondo la versione di Casalino? «Ma è ovvio, scusate», protesta Mazzucco: «Funziona così persino negli Usa», dove pure c’è un forte spoil-system e un robusto ricambio di funzionari, scelti dal politico che ha vinto le elezioni. «Il fatto è che puoi cambiare il ministro della difesa, non i generali: quelli restano. E se vogliono fare una guerra, prima o poi il ministro lo tirano dalla loro parte». Si chiama Deep State, ed è il potere che avrebbe bypassato lo stesso Bush durante la crisi dell’11 Settembre, per poi bivaccare alla Casa Bianca con Obama. Un potere, sempre lo stesso, che sta cercando di mettere in croce l’imprevedibile Donald Trump, finora sfuggito al suo controllo (e quindi braccato dal fantasma dell’impeachment). Come si può pensare che in Italia, a maggior ragione, non valgano le stesse regole? Come sperare che il Deep State euro-italico ceda docilmente il timone del dicastero dell’economia, teleguidato da Bruxelles?Appena quattro mesi fa, a fine maggio, Luigi Di Maio giunse ad annunciare ben altre dimissioni: non voleva mettere in stato di accusa oscuri funzionari, ma addirittura il capo dello Stato. La “colpa” di Mattarella? Aver impedito alla nascente alleanza gialloverde di insediare al ministero dell’economia Paolo Savona, fortemente avversato da Mario Draghi tramite il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco. Proprio da Visco, irritualmente, Mattarella “spedì” in udienza l’allora premier incaricato, Conte, perché prendesse nota delle raccomandazioni della banca centrale: guai a sforare il tetto (più che esiguo) imposto alla spesa pubblica dai super-poteri europei, pena lo tsunami dello spread. Nel giro di ventiquattr’ore, Di Maio ingoiò il rospo: rinunciare a Savona, pur di far nascere il governo. Giovanni Tria? Lo stesso Savona fu tra quanti ne approvarono la designazione, rivela Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt: «Massone, Tria si dichiarò di opinioni progressiste, disponibile a infrangere – dopo inziali rassicurazioni – l’assurdo vincolo di spesa imposto dall’élite neoliberista che manovra le sedicenti istituzioni europee». Ora però lo stesso Magaldi è perplesso, su Tria: «Si decida a operare nel senso inizialmente concordato, viceversa i gialloverdi dovranno scegliere: o lui, o gli italiani (a cui hanno promesso Flat Tax, reddito di cittadinanza e pensioni dignitose, cancellando la legge Fornero)».Il guaio? Lo scomodissimo endorsement che l’euro-tecnocrate numero uno, «il gran maestro Mario Draghi, supermassone neo-aristocratico», ha tributato a Tria: apertamente elogiato, dal presidente della Bce, per la prudenza sui conti pubblici, ancora una volta improntati alla linea di rigore pretesa da Bruxelles. La battaglia è proibitiva: a “remare contro” il cambio di paradigma – più spesa pubblica, per rianimare l’economia – non sono solo Draghi, Visco e i fantomatici funzionari del ministero di Tria: tutto il mainstream giornalistico sta sparando ad alzo zero contro il nuovo governo. Ogni scusa è buona, a cominciare dall’intransigenza di Salvini sull’allegro “caos all’italiana” nella non-gestione dei migranti. E in questo pozzo di veleni, l’audio di Casalino irrompe come un petardo, per la gioia di telegiornali e talkshow. Tutto fa brodo, pur di continuare a non ragionare. Personaggi come Ferruccio De Bortoli (assistito nientemeno che da Piero Angela, su “Rai News 24”) arriva a rimpiangere la formidabile “ripresa” assicurata all’Italia dai compianti governi Renzi e Gentiloni, con all’economia Pier Carlo Padoan, ennesimo yesman di quel potere europeo che predica le virtù metafisiche del digiuno (altrui). Brutta bestia, il neoliberismo. Il suo capolavoro letterario, basato su conti truccati? La teoria – genere fantasy – della “austerity espansiva”, spacciata da Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, da Harvard: fategli saltare i pasti, e l’affamato guarirà miracolosamente.L’economista Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt e allievo del keynsiano Federico Caffè, interviene spesso nel dibattito pubblico per correggere le “fake news” immesse nel sistema da Carlo Cottarelli, tecnocrate di scuola Fmi e venerato dal Deep State (e dai media) come una sorta di vestale dei conti pubblici. Lo stesso Mattarella sventolò la “nomination” di Cottarelli a Palazzo Chigi per indurre a più miti consigli i gialloverdi, che all’economia volevano Savona. E’ semplicissimo, il ragionamento di Galloni, suffragato da prove incontrovertibili: ogni euro ben speso sotto forma di deficit “renderà” 3 o 4 volte tanto, l’anno seguente, in termini di lavoro, fatturato, assunzioni, gettito fiscale. E dato che la spesa pubblica produttiva fa crescere il Pil, il risultato è automatico: il debito pubblico, di colpo, farà meno paura (proprio perché supportato dalla famosa crescita, quella che forse – durante i governi Renzi e Gentiloni – De Bortoli avrà al massimo intravisto, lontana anni luce dall’Italia, solo grazie al potente telescopio di Piero Angela). Lo scomposto, imbarazzante Casalino? Perfetto, per permettere ai media di continuare – come sempre – a guardare il dito, anziché la Luna (quella vera, non la “American Moon” del film di Mazzucco). Tradotto: fino a quando un signore come Mario Draghi darà bei voti al nostro ministro dell’economia, per gli italiani saranno rogne. Meno soldi per tutti. “Austerity espansiva”: uno strano Ramadan, imposto da oligarchi che nessuno ha mai eletto. Una piovra tenace, con tentacoli ovunque – a partire dai ministeri economici. Appunto: possibile che i 5 Stelle non lo sapessero fin dall’inizio?«Posso non commentare le parole di Rocco Casalino?». Sdegnoso silenzio, solo perché a Casalino si rinfaccia sempre di aver partecipato al “Grande Fratello”? «Appunto: chi si sarebbe accorto di lui, se non fosse stato al “Grande Fratello”? Una volta i dirigenti politici venivano da scuole serie: i comunisti dalle Frattocchie, i democristiani dalla Fuci». Gianfranco Carpeoro, opinionista e saggista, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights” si rifiuta, per decenza, di intervenire sulla polemica innescata dall’improvvida sortita dell’ex comunicatore dei 5 Stelle, ora portavoce del premier Conte: in un fuori-onda ha preannunciato un repulisti, a tappeto, tra i funzionari del ministero dell’economia, chiamandoli «quei pezzi di merda». Nell’audio (rubato, in violazione della privacy), parlando con due giornalisti, Casalino li invita ad annunciare che, se le richieste dei 5 Stelle non verranno esaudite dal ministero di Tria, nel 2019 i pentastellati “bonificheranno” gli uffici dai tecnocrati che “remano contro” i gialloverdi, scatenando una terribile «vendetta». Apriti cielo: la tempesta ormai grandina a reti unificate su tutti i media. «Piuttosto ingenui, i 5 Stelle», osserva il documentarista Massimo Mazzucco, sempre in video-chat con Frabetti: «Possibile che non sapessero, fin dall’inizio, cosa li attendeva nei palazzi romani?».
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Tutti più poveri, grazie alle privatizzazioni imposte all’Italia
La tragedia di Genova ha contribuito a spostare l’agenda del dibattito pubblico sull’alternativa fra privatizzazione e nazionalizzazione. In premessa: nel caso italiano, appare difficile negare che le privatizzazioni abbiano prodotto più danni che benefici. Si sono realizzate essenzialmente attraverso la cessione di monopoli pubblici a monopoli privati, con conseguente aumento delle tariffe e, molto spesso, con peggioramento della qualità dei servizi erogati. A partire dagli anni Novanta si è assistito a un rilevante passo indietro dell’intervento pubblico in economica. Ovviamente si è trattato di un fenomeno globale, che, come spesso accade, l’Italia ha sperimentato più tardi (la prima ondata di privatizzazioni in Europa si ha nell’Inghilterra della signora Thatcher negli anni Ottanta) e, quando lo ha sperimentato, lo ha fatto con la massima accelerazione. Il ritiro dello Stato si registra in un notevole dimagrimento del settore pubblico italiano, in particolare per numero di addetti. L’intero settore pubblico italiano nelle due diverse ramificazioni è nei fatti il più sottodimensionato d’Europa.L’ultima rilevazione Ocse ci informa che, mentre nel nostro paese la pubblica amministrazione assorbe circa 3.400 lavoratori, in Francia e nel Regno Unito, paesi con una popolazione e un Pil pro-capite di entità simile alla nostra, se ne contano rispettivamente 6.200 e 5800. Negli Stati Uniti – paese tradizionalmente guardato come una vera economia di mercato – il numero di dipendenti pubblici è di circa il 25% superiore al nostro. Si può aggiungere che, in Italia, l’occupazione nel settore pubblico riguarda prevalentemente individui con elevata scolarizzazione. In più, la convinzione che i dipendenti pubblici siano ben retribuiti e godano di eccesso di protezioni è palesemente smentita sul piano empirico. L’Istat registra un aumento della retribuzione oraria netta del 21% su base annua per i lavoratori del settore privato, a fronte di incrementi pressoché nulli nel settore pubblico. E si calcola che la gran parte dei contratti a tempo determinato sono somministrati dalla pubblica amministrazione. Dunque, i dipendenti pubblici, in media, guadagnano meno dei loro colleghi del settore privato e sono più frequentemente assunti con contratti precari.Per quanto riguarda la produttività del lavoro nel settore pubblico, pure a fronte delle rilevanti difficoltà di misurazione, e pur volendo accettare la tesi che questa è più bassa rispetto al settore privato, occorre ricordare che l’operatore pubblico svolge, di norma, le proprie funzioni in quelle che William Baumol definiva “attività stagnanti”, ovvero attività nelle quali (si pensi ai servizi alla persona) risulta impossibile generare avanzamento tecnico e, dunque, incrementi di produttività. In tal senso, se anche si ritiene che il ‘merito’ del singolo lavoratore sia misurabile e che lo sia anche nei servizi nel settore pubblico, da ciò non si può immediatamente dedurre che questa conclusione discende dal basso rendimento degli occupati, potendo più realisticamente dipendere dalla bassa accumulazione di capitale. Si calcola anche che il tasso di assenteismo dei lavoratori del settore pubblico italiano è in linea con la media europea. I fautori delle privatizzazioni sostengono che l’operatore privato è sempre più efficiente dell’operatore pubblico. Lo Stato deve limitarsi a creare le condizioni necessarie affinché l’esercizio della libertà d’impresa avvenga nel rispetto delle norme e dei contratti vigenti.Nella fattispecie della società Autostrade, si propone (così Confindustria) l’istituzione di una commissione che esamini le concessioni e vigili sullo svolgimento del servizio. Non si ammette quello che si considera il ritorno ai “carrozzoni di Stato”. Per contro, i fautori delle nazionalizzazioni ritengono che possa essere solo lo Stato a svolgere funzioni di interesse generale e, nel caso della società Autostrade, propongono (in linea con il governo) la revoca della concessione. Quest’ultima posizione è condivisibile, se non altro per come è stato gestito il processo di privatizzazione in Italia, con una puntualizzazione, che riguarda la selezione dei nostri manager pubblici. Si tratta di una questione pressoché ignorata, ma rilevante. Su fonte ministero dell’economia e delle finanze, risulta che l’Italia ha pochi dirigenti pubblici, molto meno dei principali paesi europei. Risulta anche che sono mediamente più anziani. Soprattutto risulta assente una scuola di alta formazione, come esiste in altri paesi europei (si pensi al caso francese).Vi è di più. La lunga stagione delle privatizzazioni – durata almeno un ventennio in Italia, nella sostanziale assenza di voci critiche – coincise con la cosiddetta svolta neoliberista e con la convinzione che oltre a generare maggiore efficienza, la cessione di asset pubblici a privati fosse necessaria per aumentare il gettito fiscale e generare avanzi primari. Le privatizzazioni – intenzionalmente o meno – servivano anche ad accrescere le diseguaglianze distributive, sia per l’aumento delle tariffe, sia perché – e per conseguenza – l’accesso a servizi privati è più difficile per i percettori di redditi bassi. Si riteneva che l’aumento delle diseguaglianze fosse un motore di crescita attraverso i cosiddetti effetti di sgocciolamento: i ricchi, in quanto più produttivi (per ipotesi), contribuiscono maggiormente alla crescita economica, rendendo successivamente possibili misure di trasferimento a vantaggio dei più poveri. La redistribuzione a vantaggio dei più ricchi si è verificata, lo sgocciolamento no.La convinzione per la quale le privatizzazioni servono ad aumentare le entrate fiscali e a generare crescita è molto problematica e, nei fatti, sembra essere falsa. Ciò a ragione del fatto che, per definizione, esse implicano – come si è verificato in Italia – una riduzione delle dimensioni del settore pubblico. Come certificato dall’Inps, il primo effetto (ovvio e prevedibile) derivante dalla riduzione del numero di dipendenti pubblici è proprio la riduzione delle entrate fiscali. Il privato può più facilmente evadere o eludere. Il secondo (altrettanto prevedibile) risultato consiste nell’accentuazione della caduta della domanda interna, per il tramite dei minori consumi derivanti dalla decurtazione dei redditi nel pubblico impiego. Il terzo risultato è il peggioramento della qualità dei servizi offerti, come conseguenza (anch’essa ovvia) della riduzione del numero di occupati.(Guglielmo Forges Davanzati, “Alcuni effetti indesiderati delle privatizzazioni in Italia”, da “Megachip” del 21 agosto 2018).La tragedia di Genova ha contribuito a spostare l’agenda del dibattito pubblico sull’alternativa fra privatizzazione e nazionalizzazione. In premessa: nel caso italiano, appare difficile negare che le privatizzazioni abbiano prodotto più danni che benefici. Si sono realizzate essenzialmente attraverso la cessione di monopoli pubblici a monopoli privati, con conseguente aumento delle tariffe e, molto spesso, con peggioramento della qualità dei servizi erogati. A partire dagli anni Novanta si è assistito a un rilevante passo indietro dell’intervento pubblico in economica. Ovviamente si è trattato di un fenomeno globale, che, come spesso accade, l’Italia ha sperimentato più tardi (la prima ondata di privatizzazioni in Europa si ha nell’Inghilterra della signora Thatcher negli anni Ottanta) e, quando lo ha sperimentato, lo ha fatto con la massima accelerazione. Il ritiro dello Stato si registra in un notevole dimagrimento del settore pubblico italiano, in particolare per numero di addetti. L’intero settore pubblico italiano nelle due diverse ramificazioni è nei fatti il più sottodimensionato d’Europa.
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Galloni: più deficit ‘guarisce’ il debito, spiegatelo a Cottarelli
Un paio di giorni fa mi trovavo a mangiare una granita da Giolitti, con una parlamentare del M5S (ed il suo segretario) che era preoccupatissima per la tabella con la quale Cottarelli aveva dimostrato che, se non ci fosse stata la spending review del governo Monti, il rapporto debito pubblico/Pil sarebbe cresciuto al 145%. Lì per lì non ho dato molto peso alla preoccupazione, ma, per scrupolo, tornato a casa, mi sono procurato il ragionamento di Cottarelli e… mi sono messo a ridere. Infatti, la premessa del documento era: se la spesa pubblica cresce, è vero che c’è una crescita del Pil, ma aumenta anche il deficit e, quindi, la emissione di titoli del debito pubblico; il documento, poi, prosegue dimenticandosi tale premessa e asserendo che, “quindi” (quindi?), si poteva stimare tale peggioramento nel rapporto debito/Pil in ulteriori 12 punti percentuali. Bene, premesso che, durante la missione Monti, il rapporto debito/Pil è peggiorato di circa 11 punti, vediamo perché. Infatti, se io aumento la spesa pubblica, l’effetto sul Pil sarà più che proporzionale (si chiama moltiplicatore della spesa pubblica ed è l’effetto di cumulo e di spinta della spesa stessa): i più restii ad ammettere un effetto positivo della spesa pubblica sono gli economisti (antikeynesiani) del Fmi – cui Cottarelli dovrebbe guardare con partecipazione – secondo i quali detto rapporto è (solo) di 1,5. Vale a dire (solo) il 50% in più; stime di altre scuole e, soprattutto, l’evidenza empirica, lo portano correttamente a 2-3 volte e persino oltre.Quindi, se io aumento la spesa pubblica del 2%, avrò un aumento del Pil e, a parità di pressione fiscale, del gettito, del 3% (secondo le stime pessimistiche del Fmi, del 4 o 5% secondo le altre): “quindi”, la inutile e dannosa spending review ha impedito non solo al Pil, ma anche alle entrate, di aumentare. Ecco perché il rapporto peggiora a prescindere dal livello assoluto del debito che, in condizioni di spesa pubblica espansiva, diminuisce in percentuale del Pil. Allo stesso modo, le relazioni tecniche sul “decreto dignità” (che, spero sia solo un inizio di quanto serve al paese da tempo, vale a dire la riqualificazione dell’occupazione) riescono a discernere tra gli effetti espansivi – sulla domanda di lavoro, l’andamento dell’economia internazionale, su un orizzonte temporale di dieci anni: bravi! Risultato eccezionale! Veramente! Come? Non sappiamo che fine faremo tra un anno, quando si sentiranno gli effetti del termine del Quantitative Easing, cosa succederà tra Trump e la Cina, la Merkel che strizza l’occhietto a Putin (e vorrebbe affossare l’euro senza prendersene la responsabilità) e gli esperti sanno discernere di una misura che induce un ostacolo al proseguimento dei contratti a termine oltre i due anni?Finora, le imprese italiane, prevalentemente, avevano usato contratti a termine di pochi mesi ed un elevato turn over dei collaboratori: poco pagati, poco affezionati, poco motivati e si lamentavano se la professionalizzazione non era abbastanza elevata. Così, si domanda un cameriere qualificato dal venerdì sera alla domenica mattina per pagarlo 100 euro a we: non si trovano camerieri? E’ logico. Invece, proviamo a pagarli di più e a cercarli più professionalizzati e stai sicuro che ti faranno guadagnare di più. Pagali poco, trattali male, sostituiscili continuamente, lamentati che i “nostri” rifiutano i lavori e vedrai che guadagnerai di meno. Queste sono le due sfide che abbiamo di fronte: aumentare la spesa pubblica (anche con moneta parallela non a debito, mini bonds e certificati di credito fiscale) per ridurre il rapporto debito/Pil; migliorare la qualità della domanda e dell’offerta di lavoro per far crescere occupazione, paghe e profitti.(Nino Galloni, “Dai grafici di Cottarelli ai tecnici di Di Maio”, dal blog “Scenari Economici” del 15 luglio 2018. Tra i più autorevoli economisti italiani, il professor Galloni – docente universitario e già allievo di Federico Caffè – è vicepresidente del Movimento Roosevelt nonché fautore di una rinascita dell’economia italiana su base keynesiana, fondata cioè sul recupero di sovranità finanziaria da parte di uno Stato che torni finalmente a investire sulla piena occupazione, mettendo fine alla piaga sociale dell’austerity provocata a colpi di crisi dall’ideologia neoliberista e privatizzatrice).Un paio di giorni fa mi trovavo a mangiare una granita da Giolitti, con una parlamentare del M5S (ed il suo segretario) che era preoccupatissima per la tabella con la quale Cottarelli aveva dimostrato che, se non ci fosse stata la spending review del governo Monti, il rapporto debito pubblico/Pil sarebbe cresciuto al 145%. Lì per lì non ho dato molto peso alla preoccupazione, ma, per scrupolo, tornato a casa, mi sono procurato il ragionamento di Cottarelli e… mi sono messo a ridere. Infatti, la premessa del documento era: se la spesa pubblica cresce, è vero che c’è una crescita del Pil, ma aumenta anche il deficit e, quindi, la emissione di titoli del debito pubblico; il documento, poi, prosegue dimenticandosi tale premessa e asserendo che, “quindi” (quindi?), si poteva stimare tale peggioramento nel rapporto debito/Pil in ulteriori 12 punti percentuali. Bene, premesso che, durante la missione Monti, il rapporto debito/Pil è peggiorato di circa 11 punti, vediamo perché. Infatti, se io aumento la spesa pubblica, l’effetto sul Pil sarà più che proporzionale (si chiama moltiplicatore della spesa pubblica ed è l’effetto di cumulo e di spinta della spesa stessa): i più restii ad ammettere un effetto positivo della spesa pubblica sono gli economisti (antikeynesiani) del Fmi – cui Cottarelli dovrebbe guardare con partecipazione – secondo i quali detto rapporto è (solo) di 1,5. Vale a dire (solo) il 50% in più; stime di altre scuole e, soprattutto, l’evidenza empirica, lo portano correttamente a 2-3 volte e persino oltre.
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Accordi segreti: paghiamo tasse evase dalle multinazionali
Mille miliardi di euro, tra evasione fiscale ed elusione: le multinazionali pagano molto meno degli altri, e così agli Stati tocca tirare la cinghia e metter mano a dolorosi tagli. Secondo “Business Insider”, sono addirittura 2.053 gli accordi segreti tra governi Ue e multinazionali per non pagare le tasse: un giochetto che all’Italia costa 10 miliardi all’anno. «Alla fine del 2016, tra le note del Def – scrive il newsmagazine – il ministero dell’economia aveva calcolato che solo all’Italia mancano almeno 31 miliardi di base imponibile. Tradotto, con un tassazione media per le imprese del 30% mancano 10 miliardi di gettito fiscale: lo 0,6% del Pil. Una cifra sufficiente a finanziare buona parte del reddito di cittadinanza del Movimento 5 Stelle o a evitare l’aumento dell’Iva l’anno prossimo». Nel 2013, aggiunge “Business Insider”, l’economista britannico di “Tax Research”, Richard Murphy, aveva calcolato che l’evasione fiscale all’interno del vecchio continente ammonta a circa 850 miliardi, mentre l’elusione vale altri 150 miliardi di euro. E il trend è in ascesa: «Tre anni dopo lo scandalo LuxLeaks che mise a nudo i rapporti fiscali segreti tra governi e colossi industriali, il numero di accordi in essere continua ad aumentare: secondo l’ultimo rapporto della Commissione Europea sono cresciuti dai 1.252 del 2015 ai 2.053 del 2016».A nulla è servita la maxi-multa comminata all’Irlanda per aver favorito Apple. L’Unione Europea interviene solo a cose fatte, «quando le intese fiscali segrete si rivelano aiuti di Stato tali da condizionare la libera concorrenza». Contro gli abusi si agita il Parlamento Europeo, che però non ha potere. «Anche perché le grandi multinazionali hanno schierato l’artiglieria pesante: con il trucco degli accordi fiscali riescono a strappare condizioni da paradisi fiscali nel cuore del vecchio continente». Con i “tax ruling”, aggiunge “Business Insider”, le multinazionali possono concordare il trattamento fiscale che potrebbe essere loro riservato per un periodo di tempo predeterminato; ma in realtà il “tax ruling” è lo strumento che permette alle corporations di ridurre drasticamente il proprio carico fiscale globale. «Dal punto di vista formale, lo schema è sempre lo stesso: le grandi multinazionali promettono investimenti e occupazione in cambio di tassazioni agevolate, poi una volta stabilitesi spostano i profitti da una controllata all’altra per ridurre al minimo le imposte. Un meccanismo utilizzato già da Apple, Fiat, Amazon, Google, Starbucks e anche McDonald’s». In Italia gli accordi segreti sono 78, e l’“Espresso” ha rivelato che tre di questi riguardano Michelin, Microsoft e Philip Morris.Sono proprio questi accordi, spiega “Business Insider”, ad aver fatto del Lussemburgo lo snodo centrale della finanza europea: «Molte imprese versano al Granducato un’aliquota effettiva inferiore all’1% degli utili dichiarati». L’Ue è intervenuta in modo tardivo e sporadico. «I cittadini-contribuenti e altri attori economici, come le piccole e medie imprese, avrebbero tutto il diritto di conoscere e giudicare i trattamenti fiscali che le autorità nazionali riservano alle grandi corporation», sostiene Mikhail Maslennikov, “policy advisor” di Oxfam Italia per la giustizia fiscale. «Sempre più spesso – aggiunge – i “ruling” segreti dei paesi Ue si rivelano come un tassello fondamentale per la pianificazione fiscale aggressiva delle multinazionali, facilitandone il “profit-shifting” verso giurisdizioni dal fisco amico e garantendo un trattamento fiscale ad hoc ai grandi colossi, che vedono ridursi considerevolmente le proprie aliquote effettive». I “ruling” segreti pongono seri interrogativi sul fairplay fiscale anche per Tove Maria Ryding, coordinatore del team di giustizia fiscale del network europeo “Eurodad”: «Le decisioni confidenziali assunte da un paese hanno impatti sulla contribuzione fiscale in tanti altri paesi», dice Ryding. «E spesso si tratta dei paesi più poveri e dei contesti più vulnerabili al mondo». O magari paesi come l’Italia, stritolati da una tassazione record.Mille miliardi di euro, tra evasione fiscale ed elusione: le multinazionali pagano molto meno degli altri, e così agli Stati tocca tirare la cinghia e metter mano a dolorosi tagli. Secondo “Business Insider”, sono addirittura 2.053 gli accordi segreti tra governi Ue e multinazionali per non pagare le tasse: un giochetto che all’Italia costa 10 miliardi all’anno. «Alla fine del 2016, tra le note del Def – scrive il newsmagazine – il ministero dell’economia aveva calcolato che solo all’Italia mancano almeno 31 miliardi di base imponibile. Tradotto, con un tassazione media per le imprese del 30% mancano 10 miliardi di gettito fiscale: lo 0,6% del Pil. Una cifra sufficiente a finanziare buona parte del reddito di cittadinanza del Movimento 5 Stelle o a evitare l’aumento dell’Iva l’anno prossimo». Nel 2013, aggiunge “Business Insider”, l’economista britannico di “Tax Research”, Richard Murphy, aveva calcolato che l’evasione fiscale all’interno del vecchio continente ammonta a circa 850 miliardi, mentre l’elusione vale altri 150 miliardi di euro. E il trend è in ascesa: «Tre anni dopo lo scandalo LuxLeaks che mise a nudo i rapporti fiscali segreti tra governi e colossi industriali, il numero di accordi in essere continua ad aumentare: secondo l’ultimo rapporto della Commissione Europea sono cresciuti dai 1.252 del 2015 ai 2.053 del 2016».
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Ricolfi: la Flat Tax conviene a tutti, sapendo come applicarla
La “flat tax” sbandierata da Berlusconi sarebbe solo un escamotage per favorire i ricchi, dimezzando le tasse? Non è vero, spiega il sociologo Luca Ricolfi: tutti pagherebbero meno, e i poveri riceverebbero aiuti dallo Stato. Il problema è uno solo: la sostenibilità delle minori entrate erariali a livello di bilancio. Il taglio delle tasse ridurrebbe a zero l’evasione fiscale, aumentando quindi il gettito? Pia illusione, probabilmente. Ma forse è il caso di capire meglio di cosa si tratta, scrive Ricolfi, in un’intervento per il “Messaggero” ripreso da “InfoSannio”. L’espressione “flat tax” è una parola quasi nuova nel lessico della politica italiana, premette Ricolfi, anche se qualche precedente non manca: «Berlusconi e l’economista Antonio Martino la proposero nel 1994, anche se poi non se ne fece nulla; Marco Pannella la ripropose nel 2005, con un’aliquota del 20%, più o meno a metà strada fra le aliquote oggi proposte dalla Lega (15%) e da Forza Italia (23%)». Ma come funzionerebbe? Esempio: tutti devono pagare il 20%, con una “no-tax area” (nessuna imposta) per i redditi fino a 10.000 euro, integrata da una “imposta negativa” del 50% (cioè: se guadagni meno di 10.000 euro, lo Stato ti dà la metà di quel che ti manca per arrivare a quella cifra). Risultato: chi guadagna 5.000 euro, anziché pagare le tasse, riceve un regalo fiscale di 2.500 euro, mentre chi guadagna 10.000 euro non paga nulla. E gli altri?Chi guadagna 20.000 euro paga zero tasse sui primi 10.000 euro, e 2000 euro (il 20% di 10.000) sui successivi 10.000 mila, «il che significa che per lui l’aliquota media è del 10%», spiega Ricolfi. E chi guadagna 30.000 euro? Paga anch’egli zero tasse sui primi 10.000 euro, ma poi pagherà 4000 euro (il 20% di 20.000) sui 20.000 successivi, «il che significa che per lui l’aliquota è del 14,3%». Altro esempio: chi guadagna 50.000 mila euro. «Ne paga 8000, e dunque ha un’aliquota media del 16%». Di fatto, «nessuno arriva a pagare il 20% (perché i primi 10.000 euro sono esentasse), ma chi è molto ricco si avvicina notevolmente all’aliquota piena, ovvero a pagare il 20% del suo reddito». Ovvero: «Un Paperon de’ Paperoni che guadagnasse 1 milione di euro trasferirebbe il 19.8% del suo reddito al fisco, ossia quasi il 20%». Dunque ricapitolando: «I poveri riceverebbero soldi, i ceti bassi pagherebbero solo il 10%, il ceto medio intorno al 15%, i molto ricchi quasi il 20%». Un esempio terra-terra, d’aaccordo, ma «serve a sgombrare il campo dalla più sciocca fra le obiezioni che vengono rivolte alla “flat tax”, quella secondo cui sarebbe un sistema non progressivo e quindi incostituzionale (in quanto violerebbe l’articolo 53, sui criteri di progressività che dovrebbero informare il sistema tributario)».Chi muove questa obiezione, o peggio ancora parla di un sistema che “toglie ai poveri per dare ai ricchi”, secondo Ricolfi semplicemente non ha capito come funziona la “flat tax”. Dunque si tratta di una buona proposta? «Per certi versi lo è senz’altro, perché ha un enorme, inestimabile pregio: quello di essere un sistema semplicissimo che, se accompagnato dalla soppressione integrale delle innumerevoli norme e disposizioni particolari che infestano le nostre dichiarazioni dei redditi, sarebbe alla portata di un bambino di quinta elementare», scrive Ricolfi. Ma per altri versi, invece, la “flat tax” è «una proposta estremamente velleitaria, perché aprirebbe una voragine nel gettito che, per ora, nessuno ci ha ancora spiegato in modo persuasivo come potrebbe essere coperta». Le due idee principali in circolazione, ossia varare una super-rottamazione delle cartelle esattoriali e puntare su una drastica riduzione dell’evasione fiscale, «sono entrambe fragilissime». L’idea di fare cassa con l’ennesima sanatoria fiscale, un maxi-sconto agli evasori? «E’ debole, perché si tratta di una misura una tantum, che anche se andasse in porto potrebbe compensare il mancato gettito per uno o due anni, non certo in modo permanente».L’altra idea, quella in base alla quale «aliquote più basse ridurrebbero drasticamente l’evasione fiscale», secondo Ricolfi «è quantomeno ingenua (sempre che non si voglia instaurare un regime di terrore fiscale): l’elevata evasione fiscale che caratterizza l’Italia – sostiene il sociologo – non dipende solo da aliquote troppo alte, ma dalla natura del nostro tessuto produttivo, in cui lavoro autonomo, piccole imprese, economia sommersa hanno un peso abnorme (un’anomalia che è aggravata dalla scarsità dei controlli, specie nel mezzogiorno e nelle realtà periferiche)». Per dire: «Ve lo vedete l’idraulico emettere fattura solo perché, ferma restando l’Iva, la sua aliquota marginale è del 15% anziché del 27%?». Oppure: «Qualcuno pensa che gli insegnanti, che attualmente evadono massicciamente il fisco con le lezioni private, improvvisamente si metterebbero in regola, rilasciando regolare ricevuta ai loro studenti?». Per non parlare del mondo delle piccole e piccolissime imprese, «dove sottofatturazione e salari in nero sono piuttosto diffusi». E allora? «E’ perfettamente ragionevole pensare che aliquote più basse ridurrebbero l’entità dell’evasione, ma è irragionevole pensare che lo farebbero in modo così massiccio da rendere sostenibile una “flat tax” al 15%, o anche al 23%».È un’idea da buttar via, dunque? «Forse no», ammette Ricolfi. «Probabilmente la strada giusta è quella di una introduzione graduale (magari prevedendo all’inizio due aliquote, di cui una destinata a scomparire), eliminando però fin da subito la giungla delle agevolazioni e tutti i bizantinismi della dichiarazione dei redditi (salvo il meccanismo delle deduzioni, con il quale è possibile imprimere ulteriore progressività al sistema)». Anche perché «un sistema fiscale semplice, in cui chiunque potesse raccapezzarsi senza un commercialista, sarebbe già, di per sé, una grande conquista». In alternativa, aggiunge Ricolfi, «si potrebbe iniziare, come di recente ha suggerito Giorgia Meloni, da una introduzione immediata dell’aliquota secca del 15% non su tutto il reddito, ma sui suoi incrementi: una scelta che sarebbe perfettamente sostenibile e fornirebbe un forte incentivo a lavorare di più». Lo stesso ministro Padoan, intervistato dal “Corriere della Sera”, ha dichiarato: «Una riforma fiscale che preveda la semplificazione delle aliquote sino a una sola, meglio due, la esplorerei». Se si vuole criticare la “flat tax”, conclude Ricolfi, «l’argomento principe è la sostenibilità, non certo la presunta “ingiustizia”, o addirittura la incostituzionalità, dell’aliquota unica». Se invece la “flat tax” la si vuole difendere, «la via maestra è delineare un credibile percorso di introduzione graduale, lasciando perdere le narrazioni semplicistiche e miracolistiche, che anziché convincerci non fanno che aumentare il nostro scetticismo».La “flat tax” sbandierata da Berlusconi sarebbe solo un escamotage per favorire i ricchi, dimezzando le tasse? Non è vero, spiega il sociologo Luca Ricolfi: tutti pagherebbero meno, e i poveri riceverebbero aiuti dallo Stato. Il problema è uno solo: la sostenibilità delle minori entrate erariali a livello di bilancio. Il taglio delle tasse ridurrebbe a zero l’evasione fiscale, aumentando quindi il gettito? Pia illusione, probabilmente. Ma forse è il caso di capire meglio di cosa si tratta, scrive Ricolfi, in un’intervento per il “Messaggero” ripreso da “InfoSannio”. L’espressione “flat tax” è una parola quasi nuova nel lessico della politica italiana, premette Ricolfi, anche se qualche precedente non manca: «Berlusconi e l’economista Antonio Martino la proposero nel 1994, anche se poi non se ne fece nulla; Marco Pannella la ripropose nel 2005, con un’aliquota del 20%, più o meno a metà strada fra le aliquote oggi proposte dalla Lega (15%) e da Forza Italia (23%)». Ma come funzionerebbe? Esempio: tutti devono pagare il 20%, con una “no-tax area” (nessuna imposta) per i redditi fino a 10.000 euro, integrata da una “imposta negativa” del 50% (cioè: se guadagni meno di 10.000 euro, lo Stato ti dà la metà di quel che ti manca per arrivare a quella cifra). Risultato: chi guadagna 5.000 euro, anziché pagare le tasse, riceve un regalo fiscale di 2.500 euro, mentre chi guadagna 10.000 euro non paga nulla. E gli altri?