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Omicidi e stragi, la guerra segreta degli inglesi contro l’Italia
“Colonia Italia”. Giornali, radio e tv: così gli inglesi ci controllano. Le prove nei documenti top secret di Londra. Sono cose che dobbiamo sapere. Quando si pensa alle ingerenze dall’estero nei confronti del nostro paese si pensa sempre agli Stati Uniti d’America. Ma basta aprire una cartina geografica e vedere dov’è l’Inghilterra, un’isola del Nord Europa, e dove sono stati per molti decenni – a ancora oggi – i suoi interessi economici, strategici, militari. In Nord Africa, nel Medio Oriente e in Estremo Oriente. E cosa c’è tra la Gran Bretagna e i suoi interessi? C’è il Mediterraneo e, al centro del Mediterraneo, l’Italia. Quindi già dai tempi del Risorgimento, l’Italia per la Gran Bretagna era una postazione di fondamentale importanza, attraverso la quale poteva controllare i suoi domini e le sue rotte marittime. Poi l’Italia perde la Seconda Guerra Mondiale e, tra Gran Bretagna e Stati Uniti, c’è una visione molto conflittuale sul problema Italia: per gli Stati Uniti noi eravamo un paese cobelligerante, cioè che si era autoliberato dal nazifascismo combattendo al fianco degli alleati. Per la Gran Bretagna invece noi eravamo un paese sconfitto tout-court. Punto e basta. Quindi un paese soggetto ai vincoli, imposti attraverso trattati internazionali, dalle potenze vincitrici alle nazioni sconfitte.Questo ha determinato il corso degli eventi della storia successiva, praticamente fino ai giorni nostri. Al tavolo della pace, quando le grandi potenze vincitrici cominciarono a spartirsi il mondo in aree di influenza, all’interno del campo atlantico la Gran Bretagna pretese e ottenne, dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica, una sorta di diritto di supervisione sull’Italia. Quindi l’Italia, dalla Seconda Guerra Mondiale in poi, è paese che appartiene all’area di influenza britannica. C’è una differenza importante tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Gli Usa hanno combattuto anche in Italia una guerra contro il comunismo. La Gran Bretagna non ha combattuto solo quella, ma anche una guerra contro l’Italia, in modo particolare contro quella parte della classe dirigente italiana del secondo dopoguerra – penso ai De Gasperi, ai Mattei, ai Fanfani, ai Vanoni fino ad Aldo Moro, sovranista – cioè, che pur nel contesto di un’alleanza internazionale, l’alleanza atlantica, si muoveva con una propria visione sulla base di un proprio interesse nazionale. Era l’Italia del dopoguerra, uscita a pezzi, che però voleva crescere, riprendersi, ricostruire le proprie istituzioni, il proprio sistema economico. E per poterlo fare aveva bisogno di quella materia prima che è il sangue, l’ossigeno per ogni sistema, e cioè il petrolio, l’energia. Questo è stato all’origine di un conflitto con la Gran Bretagna che dura ancora oggi.La Gran Bretagna, che ha esercitato un controllo pressoché assoluto sul nostro sistema di informazione, ha usato la stampa, i giornali, gli opinion leader, gli intellettuali per orientare l’opinione pubblica e tentare di condizionare le scelte politiche dei partiti e dei governi. Una di queste grandi scelte su cui la Gran Bretagna ha tentato di condizionarci è stata la politica mediterranea, la politica energetica e petrolifera dell’Italia. De Gasperi, presidente del Consiglio nel 1953, aveva il mandato britannico di sciogliere l’Agip. Mattei, nel 1953, era stato messo alla presidenza dell’Agip per scioglierla. E invece di sciogliere l’Agip lui fondò l’Eni, grazie anche a un decreto di De Gasperi. E dopo aver fondato l’Eni, Mattei cominciò ad attuare una propria politica. Non era accettata l’Italia di Mattei, dell’Eni, al tavolo delle grandi compagnie internazionali, in modo particolare di quelle britanniche, con pari dignità. Era ammessa a sedersi, tutt’al più, su uno strapuntino, ma Mattei e l’Italia di quegli anni non volevano assolutamente dipendere dal punto di vista energetico dalla Gran Bretagna. Per cui cercarono autonomamente le fonti di approvvigionamento, offrendo ai paesi produttori di petrolio, che erano quasi tutti controllati dalle compagnie britanniche, condizioni più favorevoli.C’era la famosa regola del fifty-fifty: 50% ai produttori, 50% alle compagnie petrolifere straniere. Questa era una regola imposta dalle “sette sorelle”. Mattei cambiò le regole dello scambio, proponendo il 25% alle compagnie e il 75% ai produttori: i paesi produttori trovarono più conveniente fare affari con l’Italia che non con la Gran Bretagna. Questo disturbò parecchio gli inglesi. La rivelazione di questo libro è l’esistenza di una vera e propria macchina della propaganda occulta britannica. E questa macchina venne scagliata contro De Gasperi e contro il suo erede politico Attilio Piccioni, attraverso la macchina del fango. De Gasperi venne coinvolto in uno scandalo, il famoso scandalo Guareschi – De Gasperi delle lettere che poi risultarono false, fabbricate dalla propaganda occulta inglese, e Piccioni venne coinvolto in un altro scandalo, quello famosissimo di Wilma Montesi, la ragazza trovata morta su una spiaggia di Tor Vaianica. Il figlio, Piero Piccioni, venne coinvolto in quello scandalo; e il padre, ministro degli esteri, sodale di De Gasperi e protettore di Enrico Mattei, venne travolto da quell’ondata di fango. Poi lo scandalo si rivelò infondato, perché le responsabilità del figlio di Piccioni non erano quelle che la campagna ispirata dalla macchina occulta britannica gli aveva attribuito, tant’è che Piero Piccioni qualche anno dopo fu prosciolto, risultò innocente.Questo è solo un esempio di come la Gran Bretagna è intervenuta pesantemente nelle nostre vicende interne, e adesso ho citato due episodi che sono collegati alla guerra specifica energetico-petrolifera. L’Iran di Mohammad Mosaddeq, primo ministro, aveva nazionalizzato il petrolio britannico. La Gran Bretagna reagì imponendo l’embargo, e l’Italia dell’Eni e di De Gasperi violò quell’embargo. Winston Churchill, allora premier britannico – nel libro ci sono dei documenti desecretati inglesi – ordinò ai suoi apparati di “dare una lezione” agli italiani, perché avevano osato violare l’embargo imposto dagli inglesi contro l’Iran. Sono emersi nuovi documenti sulla guerra scatenata dalla macchina della propaganda occulta contro Enrico Mattei. Attraverso la sua politica, Mattei emarginò progressivamente le compagnie che curavano gli interessi britannici, in aree che gli inglesi consideravano, per importanza – sto citando testualmente un documento – seconde soltanto alla Gran Bretagna stessa. Aree come la Libia, come l’Egitto, come l’Iran, come l’Iraq che per gli inglesi erano di vitale importanza. Mattei andò a ficcare il naso, con la sua politica, in queste zone, disturbando, anzi addirittura emarginando, nel corso degli anni, la presenza britannica.In questi documenti Mattei venne definito dagli inglesi – cito testualmente – «un pericolo mortale per gli interessi britannici nel mondo». E c’è un altro documento che fa venire la pelle d’oca. E’ del 1962. Gli inglesi dicono che Mattei «è una verruca, è un’escrescenza da rimuovere in ogni modo». Scrivono: «Abbiamo tentato di fermarlo in tutti i modi e non ci siamo riusciti: forse è giunto il momento di passare la pratica alla nostra intelligence». Sei mesi dopo, Enrico Mattei morì in un incidente aereo che oggi sappiamo con certezza, anche sul piano giudiziario, essere stato causato da un atto di sabotaggio. Aldo Moro? La vicenda Moro si colloca esattamente nello stesso contesto della vicenda di Enrico Mattei. Aldo Moro è stato l’erede della politica mediterranea di Mattei. Tra il 1969 e il 1975, Moro è stato l’ispiratore della politica estera italiana. Era ministro degli esteri in diversi governi, e riuscì a mettere a segno ulteriori colpi contro gli interessi inglesi. Certo, non è che gli italiani scherzassero, a loro volta. In Libia, nel 1969, con Moro ministro degli esteri, ci fu un colpo di Stato che rovesciò la monarchia filo-britannica e portò al potere il colonnello Muhammar Gheddafi, addestrato nelle accademie militari italiane. E’ vero che Gheddafi cacciò via gli italiani, ma subito dopo nazionalizzò il petrolio, che era controllato dalle compagnie britanniche, espulse dalla Libia le basi militari britanniche e iniziò un rapporto privilegiato con gli italiani, grazie al quale l’Italia conobbe un periodo di grande benessere economico.E poi, negli anni successivi, ci furono altri colpi messi a segno, come in Iraq, dove il regime nazionalista aveva espropriato, nazionalizzato il petrolio controllato dalle compagnie britanniche. E l’Eni era riuscita a penetrare anche lì, grazie ovviamente ai successori della politica energetica di Mattei, ma soprattutto grazie alla politica estera di Aldo Moro. Tra i documenti di “Colonia Italia“, ce n’è uno che veramente fa venire i brividi, riportato con tutti i suoi riferimenti archivistici, per cui chiunque voglia andare a controllare può farlo. Nel gennaio del 1969, il responsabile della macchina della propaganda occulta a Roma dice: «Attraverso la macchina della propaganda occulta non abbiamo ottenuto grandi risultati contro questa classe dirigente italiana». Quindi invita il suo governo: «Dobbiamo adottare altri metodi». Quali metodi? Questa parte del documento è oscurata ancora oggi. E’ ancora oggi coperta dal segreto. Io chiedo continuamente agli opinionisti, ai direttori dei giornali, alla stampa: ma perché non chiedete al governo britannico la desecretazione di quella parte del documento, in cui sono spiegati gli “altri metodi” da utilizzare contro l’Italia a partire dal 1969?Nel 1969 ci fu la strage di piazza Fontana e iniziò una stagione di sangue, lo stragismo, il terrorismo, che toccò il suo punto più alto con il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro. E anche qui c’è da dire qualcosa a proposito dell’intervento britannico. Nel 1976 – questo è provato, perché lo dicono gli stessi documenti inglesi desecretati e conservati nell’archivio di Stato di Kew Gardens, a disposizione di tutti – ci fu un tentativo di colpo di Stato organizzato o progettato dagli inglesi nei primi sei mesi del 1976 per bloccare la politica di Aldo Moro. Quel progetto venne sottoposto all’attenzione degli alleati francesi, tedeschi e americani. I francesi aderirono immediatamente, perché l’Italia era un concorrente temibile anche per i francesi, non solo per gli inglesi, mentre americani e tedeschi si mostrarono molto più scettici, e dissero agli inglesi: «Ma voi siete pazzi! Un colpo di Stato in Italia, a parte i contraccolpi negativi nell’opinione pubblica per l’alleanza atlantica, in Italia c’è una sinistra forte, c’è una organizzazione sindacale molto radicata, cioè ci sarebbe una reazione e quindi un bagno di sangue!»Gli inglesi allora misero da parte il progetto di un colpo di Stato vero e proprio, classico. Però c’è un altro documento, pubblicato nel libro. Scrivono: «Visto che non è possibile attuare un colpo di Stato militare classico, per l’opposizione di Germania e Stati Uniti, passiamo al piano-B». Qual era questo piano-B? Purtroppo, anche in questo caso, come nel documento che ho citato prima, c’è soltanto il titolo. E il titolo è agghiacciante. Testualmente: “Appoggio a una diversa azione sovversiva per bloccare Aldo Moro”. Quale poteva essere questa “azione sovversiva” naturalmente io non lo so, perché anche questa parte del documento è ancora oggi secretata, protetta dal segreto. A suo tempo venne oscurata persino agli americani e ai tedeschi. E anche in questo caso non mi trattengo dal chiedere agli opinionisti italiani, alla stampa italiana: siamo in un paese in cui rivendichiamo tutti i giorni verità e giustizia; beh, quando ci troviamo di fronte a documenti di questo tipo, ma che ci vuole a chiedere agli inglesi di desecretare anche questo documento per capire quale poteva essere la “diversa azione sovversiva” contro Moro?Magari non c’entra nulla con il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, le cui responsabilità ovviamente ricadono sulle Brigate Rosse italiane. Magari, attraverso la desecretazione di quel documento, scopriamo che la diversa azione sovversiva con cui gli inglesi volevano bloccare Aldo Moro era soltanto una scampagnata della regina Elisabetta in Italia… Ci sono due documenti drammatici, che segnano due fasi drammatiche della nostra storia: piazza Fontana e l’assassinio di Aldo Moro. Entrambi questi documenti sono incompleti. Sono ancora oggi secretati. E visto che la Gran Bretagna è un paese nostro amico, addirittura nostro alleato, sarebbe utile per noi sapere se questo paese amico ha avuto un qualche ruolo, oppure no, nella strage di piazza Fontana e nell’assassinio di Aldo Moro. Allo stato delle nostre ricerche, ho ragione di ritenere che oggi il controllo britannico sul nostro paese sia ancora più forte di prima.(Giovanni Fasanella, dichiarazioni rilasciate a Claudio Messora il 12 novembre 2015 per la video-intervista “I documenti Uk che fanno gelare il sangue, da Enrico Mattei ad Aldo Moro”, pubblicata su “ByoBlu” per presentare il libro “Colonia Italia”, Chiarelettere – 483 pagine, euro 18,90 – che Fasanella ha scritto insieme a Mario José Cereghino. Il possibile ruolo occulto della Gran Bretagna nella “sovragestione” dell’Italia è tornato drammaticamente in primo piano nel febbraio 2016 con l’uccisione al Cairo del giovane Giulio Regeni, ingaggiato in Egitto da una Ong collegata all’università di Cambridge; secondo molte fonti indipendenti, tra cui l’ex inviato di “Panorama” Marco Gregoretti, il lavoro di Regeni sarebbe stato utilizzato dall’Mi6, il controspionaggio inglese. La stessa intelligence britannica, sempre secondo Gregoretti, avrebbe “sacrificato” Regeni, utilizzando killer egiziani, per creare un incidente diplomatico tra Italia ed Egitto in vista di un possibile intervento militare italiano in Libia. E Fulvio Grimaldi, ex giornalista Rai, segnala che l’Italia, tramite l’Eni, ha raggiunto un accordo strategico con l’Egitto per lo sfruttamento di un immenso giacimento di gas, nel Mediterraneo, in acque egiziane, fatto che ha sicuramente irritato e preoccupato gli inglesi).“Colonia Italia”. Giornali, radio e tv: così gli inglesi ci controllano. Le prove nei documenti top secret di Londra. Sono cose che dobbiamo sapere. Quando si pensa alle ingerenze dall’estero nei confronti del nostro paese si pensa sempre agli Stati Uniti d’America. Ma basta aprire una cartina geografica e vedere dov’è l’Inghilterra, un’isola del Nord Europa, e dove sono stati per molti decenni – a ancora oggi – i suoi interessi economici, strategici, militari. In Nord Africa, nel Medio Oriente e in Estremo Oriente. E cosa c’è tra la Gran Bretagna e i suoi interessi? C’è il Mediterraneo e, al centro del Mediterraneo, l’Italia. Quindi già dai tempi del Risorgimento, l’Italia per la Gran Bretagna era una postazione di fondamentale importanza, attraverso la quale poteva controllare i suoi domini e le sue rotte marittime. Poi l’Italia perde la Seconda Guerra Mondiale e, tra Gran Bretagna e Stati Uniti, c’è una visione molto conflittuale sul problema Italia: per gli Stati Uniti noi eravamo un paese cobelligerante, cioè che si era autoliberato dal nazifascismo combattendo al fianco degli alleati. Per la Gran Bretagna invece noi eravamo un paese sconfitto tout-court. Punto e basta. Quindi un paese soggetto ai vincoli, imposti attraverso trattati internazionali, dalle potenze vincitrici alle nazioni sconfitte.
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Siberia: quel cratere aperto dal meteorite, pieno di diamanti
E’ rimasto segreto per anni. Eppure un buco di circa 100 chilometri di diametro, creato da un asteroide precipitato 35 milioni di anni fa, è il più grande giacimento di diamanti presente sulla Terra, nonché uno dei posti più inquietanti, scrive Noemi Penna sulla “Stampa”, in un servizio che presenta immagini che «sembrano esser state scattate su un pianeta alieno». Siamo a Popigai, nella Siberia orientale, a 400 chilometri dal primo centro abitato e a un’ora e mezza di elicottero dall’aeroporto di Khatanga. «Questa miniera è stata gelosamente nascosta dai russi per oltre 40 anni. E’ stata infatti scoperta all’inizio degli anni ‘70 ma è stata subito etichettata come “top secret”: durante la guerra fredda l’Unione Sovietica la considerava una “riserva strategica” e solo nel settembre del 2012 la Russia ha ufficialmente dichiarato l’esistenza di questo giacimento inestimabile». Negli anni si sono susseguite numerose spedizioni, ben prima della “ufficializzazione” e dalla “riscoperta” avvenuta nel 2009. I ricercatori dell’Istituto di geologia di Novosibirsk hanno certificato che il cratere contiene trilioni di carati, ovvero centinaia di migliaia di tonnellate: là sotto ci sono abbastanza diamanti da sopperire alle richieste globali per tremila anni.«Non stiamo parlando però di diamanti “tradizionali”: queste pietre preziose risultano infatti due volte più dure rispetto alle altre, hanno una forma tabulare con striature di colore grigio, blu o giallo e vengono definite “da impatto”», scrive Penna. «Si pensa infatti che siano state prodotte dall’onda d’urto dell’asteroide – che aveva un diametro compreso tra 5 e i 7 chilometri – su un grande deposito di grafite siberiano». La pressione d’urto avrebbe in sostanza trasformato la grafite presente nel terreno in diamanti, in un raggio di 13,6 chilometri dal punto d’impatto. «Questo ha fatto sì che il cratere di Popigai custodisca al suo interno una quantità di diamanti almeno 10 volte superiore di tutti i giacimenti presenti sul nostro pianeta finora scoperti». L’enorme cratere siberiano, che «sembra un paeaggio alieno segreto», è il settimo per dimensioni sulla Terra e, ricorda la “Stampa”, è stato designato dall’Unesco come parco geologico. Ma come si è formato, in realtà?Secondo Richard April, professore di geologia all’università di Hamilton, New York, ci sono due spiegazioni principali per la formazione dei cosiddetti “diamanti da impatto”, che si trovano in piccole quantità nei siti dell’impatto da meteorite in tutto il mondo. Una possibilità, scrive “Gaia News”, è che un meteorite cada in una zona ricca di qualche forma di carbonio, come i resti degli organismi viventi: le alte pressioni e le temperature generate dalla collisione sarebbero sufficienti a trasformare il carbonio terrestre in diamante. In un secondo scenario, invece, il carbonio arriva all’interno del meteorite e, allo stesso momento dell’impatto, si fonde trasformandosi in diamanti che si disperdono nel terreno. Secondo April però, nessuno dei due scenari potrebbe creare il numero di diamanti di cui parlano gli scienziati russi. C’è una terza possibilità che, secondo April, che potrebbe spiegare la formazione di così tanti diamanti extraduri nel cratere: è concepibile che il meteorite si sia infilato, come una palla da golf in buca, in un campo di diamanti preesistente. Uno dei “tubi vulcanici di kimberlite”, presenti in Siberia. «E’ possibile che i diamanti si siano ricristallizzati alle alte temperature; questo potrebbe anche spiegare il fatto che ci sono così tanti diamanti». Ma sarebbe la prima volta che gli scienziati assistono ad un fatto di tale portata.E’ rimasto segreto per anni. Eppure un buco di circa 100 chilometri di diametro, creato da un asteroide precipitato 35 milioni di anni fa, è il più grande giacimento di diamanti presente sulla Terra, nonché uno dei posti più inquietanti, scrive Noemi Penna sulla “Stampa”, in un servizio che presenta immagini che «sembrano esser state scattate su un pianeta alieno». Siamo a Popigai, nella Siberia orientale, a 400 chilometri dal primo centro abitato e a un’ora e mezza di elicottero dall’aeroporto di Khatanga. «Questa miniera è stata gelosamente nascosta dai russi per oltre 40 anni. E’ stata infatti scoperta all’inizio degli anni ‘70 ma è stata subito etichettata come “top secret”: durante la guerra fredda l’Unione Sovietica la considerava una “riserva strategica” e solo nel settembre del 2012 la Russia ha ufficialmente dichiarato l’esistenza di questo giacimento inestimabile». Negli anni si sono susseguite numerose spedizioni, ben prima della “ufficializzazione” e dalla “riscoperta” avvenuta nel 2009. I ricercatori dell’Istituto di geologia di Novosibirsk hanno certificato che il cratere contiene trilioni di carati, ovvero centinaia di migliaia di tonnellate: là sotto ci sono abbastanza diamanti da sopperire alle richieste globali per tremila anni.
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Caso Regeni, colpire l’Italia: l’Eni, ma anche Hacking Team
«Quella dell’Hacking Team è l’ennesima prova avuta in questi dodici mesi che l’omicidio Regeni non è la storia di un brutale interrogatorio della polizia finito in tragedia, ma un vero e proprio attacco all’Italia e al sistema-paese, condotto con efficienza americana e puntualità inglese». Federico Dezzani, analista geopolitico, mette a fuoco la singolare “sincronicità” fra l’atroce morte del giovane Giulio Regeni e l’ostracismo “atlantico” scattato contro un’assoluta eccellenza italiana, la società Hacking Team, partecipata della Regione Lombardia e un tempo fornitrice anche dell’Fbi. «Nelle settimane successive al ritrovamento del corpo di Regeni – ricorda Dezzani – il fuoco mediatico è diretto contro il “regime egiziano”, il “dittatore Al-Sisi” e i rapporti italo-egiziani, da interrompere tassativamente finché il Cairo non fornirà “la verità” sul caso». Per Dezzani, il povero Regeni (reclutato dall’università di Cambridge in una struttura contigua all’intelligence britannica) fu ucciso su ordine di Londra per sabotare l’asse strategico Roma-Cairo, dopo la scoperta da parte dell’Eni del più grande giacimento mediterraneo di gas nel mare egiziano. Ma, a quanto pare, nell’affare-Regeni andrebbe aggiunta anche l’azienda tecnologica milanese, colpita anch’essa per punire l’Italia.Il nome quell’azienda rimbalza spesso sulla stampa in quei giorni bollenti, a fianco dell’Eni, ricorda Dezzani nel suo blog: si tratta di Hacking Team, una piccola società informatica milanese. «Tra i clienti di Hacking Team c’era anche l’Egitto», scrive il “Corriere della Sera” il 9 febbraio 2016. «Amnesty: basta con l’hacking di Stato, denunciamolo», attacca a ruota la “Repubblica” citando la società. «L’ombra di Hacking Team sull’omicidio Regeni», insiste “La Stampa”. All’interno di quest’ultimo articolo, si legge: «Le tensioni con l’Egitto per l’uccisione di Giulio Regeni hanno lambito anche Hacking Team, l’azienda italiana che vende software di intrusione e sorveglianza a numerosi governi. Il 31 marzo infatti il ministero dello sviluppo economico (Mise) ha revocato con decorrenza immediata l’autorizzazione globale per l’esportazione che era stata concessa alla società milanese, dallo stesso Mise, circa un anno fa». La ragione del ripensamento? «Lo scontro (per alcuni troppo debole da parte italiana) tra il nostro paese e l’Egitto sul caso Regeni». L’Egitto sarebbe stato infatti un cliente di Hacking Team.Software di intrusione e sorveglianza, blocco con decorrenza immediata dell’autorizzazione ad esportare, contesto geopolitico difficile, contatti con l’Egitto nazionalista di Al-Sisi, misteriosi attacchi informatici che riversano in rete la lista dei clienti della società? «Si direbbe che questo piccolo produttore italiano di software, pur fatturando solo 40 milioni di euro rispetto ai 70 miliardi dell’Eni, non sia finito accidentalmente nella bufera Regeni», scrive Federico Dezzani. Secondo l’analista, «gli stessi attori coinvolti nell’operazione per danneggiare i rapporti italo-egiziani», tra i quali Dezzani include «il gruppo “L’Espresso”, Amnesty International, Human Rights Watch», cioè le Ong «dietro cui si nascondono le diplomazie e i servizi segreti angloamericani», avrebbero «sfruttato la morte del giovane friulano per colpire anche una piccola ma scomoda realtà economica». Ma di cosa si occupa esattamente l’Hacking Team? E perché è finita nel mirino dell’establishment atlantico?Nata nel 2003, ricorda Dezzani, l’Hacking Team produce programmi per sorvegliare telefoni e computer, con una peculiarità che la rende pressoché unica a livello mondiale: anziché decifrare i dati criptati, li legge direttamente “in chiaro” sul supporto fisico, introducendo virus sugli apparecchi elettronici. «Partecipata anche dalla Regione Lombardia, l’Hacking Team non è però un nido di pirati informatici: tra i suoi clienti figurano soltanto governi e forze di sicurezza, anche di un certo calibro, se si considera che si annovera anche il Federal Bureau of Investigation». Essendo così ben introdotta negli apparati di sicurezza Nato, l’Hacking Team avrebbe dovuto dormire sonni tranquilli: la situazione, invece, si deteriora mese dopo mese a partire dal 2014, sino a culminare con l’accusa di essere complice del sequestro e l’uccisione di Regeni, con conseguente revoca dell’autorizzazione ad esportare. «Se la società milanese fosse stata “sensibile” agli inequivocabili messaggi che le erano lanciati, avrebbe dovuto da tempo capire di essere finita nei radar dei servizi angloamericani (gli stessi dell’“operazione Regeni”) e avrebbe dovuto notare come l’umore nei suoi confronti stesse velocemente cambiando».Siamo infatti nel febbraio 2014 quando Citizen Lab, un laboratorio interdisciplinare dell’università di Toronto specializzato in sicurezza delle telecomunicazioni e difesa dei diritti umani, accusa la società italiana di aver venduto un sofisticato sistema di monitoraggio di pc e telefoni a decine di paesi. Stati americani (Colombia, Panama e Messico), europei (Ungheria e Polonia), asiatici (Malesia, Thailandia, Corea del Sud). Ma anche a governi “autoritari” come quelli di Azerbaijan, Etiopia, Sudan Kazakhstan, Uzbekistan, Sudan. Nella lista figurano anche paesi “amici” ma non certo democratici come Marocco, Nigeria, Arabia Saudita, Oman, Emirati Arabi Uniti. Più la Turchia, imbarazzante “democratura” Nato, e lo stesso Egitto. «Che uso fanno, questi paesi di dubbia democraticità, dei programmi acquistati?», si domanda il Citizen Lab. Ovvio: li usano per sorvegliare «attivisti e difensori dei diritti umani», ossia lo stesso humus dove sono state coltivate le “rivoluzioni colorate” che hanno sconquassato il Medio Oriente nel 2011. Sono, per inciso, gli stessi ambienti “studiati” anche dai docenti di Cambridge del defunto Giulio Regeni.A distanza di un mese, continua Dezzani, nel marzo 2014 il rapporto canadese è prontamente ripreso da Privacy International, un’organizzazione non governativa inglese ruotante nell’orbita della London School of Economics. Privacy International prende carta e penna e scrive al Parlamento italiano: non solo, dicono gli inglesi, l’Hacking Team viola i diritti umani, ma riceve addirittura fondi pubblici dalla Regione Lombardia. Che lo Stato italiano intervenga subito, per «indagare e prendere provvedimenti per garantire che la sua attività invasiva e offensiva non sia esportata dall’Italia e utilizzata in violazione dei diritti umani». Già in questa fase, come accadrà due anni dopo col caso Regeni, entra in campo il gruppo “L’Espresso”: «Privacy International chiede chiarimenti al governo sull’attività di Hacking Team, una delle più importanti organizzazioni internazionali per la difesa della privacy chiama in causa il governo italiano». Per Dezzani, «è quasi una prova generale dell’attacco che, di lì a due anni, sarà sferrato contro la società milanese, arrivando a revocarle l’autorizzazione ad esportare, sull’onda dell’omicidio Regeni».Ma perché l’Hacking Team, un tempo cliente persino dell’Fbi, è diventata improvvisamente d’intralcio ai servizi angloamericani? Risposta: «E’ una società italiana, e il nostro paese non fa parte della ristretta cricca di spioni anglofoni nota come “Five Eyes”». L’Hacking Team è quindi “un’arma tecnologica” che per gli angloamericani sarebbe meglio inglobare o neutralizzare. Tanto più che «opera in un lucroso mercato dove esistono pochi altri concorrenti (inglesi, americani e israeliani)». E la storia dell’Olivetti, osserva Dezzani, «insegna che le eccellenze tecnologiche in un paese a sovranità limitata, come l’Italia, sono spesso uccise in fasce». Infine, i suoi programmi per la sorveglianza delle telecomunicazioni venduti a “governi autoritari” (Turchia, Nigeria, Uzbekistan, Kazakhstan, Egitto e Malesia) e impiegati per monitorare “dissidenti e attivisti”, di fatto «ostacolano le solite “rivoluzioni colorate” fomentate da George Soros, Mi6 e Cia». Nel 2015, l’assedio attorno ad Hacking Team si stringe: «Nel mese di luglio un attacco informatico in grande stile scardina le difese della società milanese e, svuotatone gli archivi, riversa su Wikileaks (la piattaforma usata dai diversi servizi segreti per lanciarsi fango a vicenda) 400 Gb di dati: clienti, fatture, email», racconta Dezzani.«Wikileaks pubblica un milione di email aziendali rubate ad Hacking Team», scrive “Repubblica”, evidenziando le zone grigie dell’azienda, mentre la stampa inglese attacca ancora più pesantemente: «I documenti – scrive il “Guardian” – dimostrano che l’azienda ha venduto strumenti di spionaggio a regimi repressivi». Il battage della stampa insiste, infatti, sulla natura “autoritaria e repressiva” dei clienti della società milanese: Azerbaijan, Kazakhstan, Uzbekistan, Russia, Bahrein, Arabia Saudita «ed altri “regimi” che gli angloamericani rovescerebbero con piacere». Del caso si occupa anche il “Fatto Quotidiano”, che nell’aprile 2016 titola: «Hacking Team, revocata l’autorizzazione globale all’export del software spia: stop anche per l’Egitto dopo il caso Regeni». Al che, la società milanese vacilla. E per alcune settimane sembra che debba chiudere i battenti: poi, passata la tempesta mediatica, riprende la normale attività. «L’operazione con cui è ucciso Giulio Regeni ha, senza dubbio, come principali obbiettivi l’Eni e la politica estera tra Egitto e Libia, ma il fatto che anche l’Hacking Team fosse un fornitore del Cairo è prontamente sfruttato per revocare alla società l’autorizzazione ad esportare, così da chiuderle i mercati di sbocco, come auspicato da Londra e Washington», sintetizza Dezzani.«Quella dell’Hacking Team è l’ennesima prova avuta in questi dodici mesi che l’omicidio Regeni non è la storia di un brutale interrogatorio della polizia finito in tragedia, ma un vero e proprio attacco all’Italia e al sistema-paese, condotto con efficienza americana e puntualità inglese». Federico Dezzani, analista geopolitico, mette a fuoco la singolare “sincronicità” fra l’atroce morte del giovane Giulio Regeni e l’ostracismo “atlantico” scattato contro un’assoluta eccellenza italiana, la società Hacking Team, partecipata della Regione Lombardia e un tempo fornitrice anche dell’Fbi. «Nelle settimane successive al ritrovamento del corpo di Regeni – ricorda Dezzani – il fuoco mediatico è diretto contro il “regime egiziano”, il “dittatore Al-Sisi” e i rapporti italo-egiziani, da interrompere tassativamente finché il Cairo non fornirà “la verità” sul caso». Per Dezzani, il povero Regeni (reclutato dall’università di Cambridge in una struttura contigua all’intelligence britannica) fu ucciso su ordine di Londra per sabotare l’asse strategico Roma-Cairo, dopo la scoperta da parte dell’Eni del più grande giacimento mediterraneo di gas nel mare egiziano. Ma, a quanto pare, nell’affare-Regeni andrebbe aggiunta anche l’azienda tecnologica milanese, colpita anch’essa per punire l’Italia.
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Verità per Regeni? Dagli 007 inglesi: l’hanno ucciso loro
Verità per Giulio Regeni? Chiedetela agli 007 inglesi, per i quali lavorava. La giusta causa della missione del giovane ricercatore? Nobile: contribuire alla democrazia in Egitto. Molto meno edificante, invece, il vero obiettivo dei suoi committenti-killer: sabotare le relazioni tra l’Italia e il governo del generale Al-Sisi, dopo che l’Eni aveva scoperto, al largo delle coste egiziane, un colossale giacimento di gas. E’ la tesi rilanciata da un analista geopolitico come Federico Dezzani, a un anno dall’atroce “sacrificio” di Regeni, trucidato e fatto curiosamente ritrovare nel modo più clamoroso e raccapricciante, esibito come vittima degli “aguzzini” del Cairo: come se la polizia di Al-Sisi, dovendo liquidare un “nemico”, fosse così folle e autolesionista da metterne in piazza la crocifissione. Il primo a lanciare la pista alternativa a quella della versione ufficiale fu il giornalista Marco Gregoretti, già inviato di “Panorama”, vincitore del Premio Saint-Vincent per i suoi servizi sulle violenze (stupri, torture) commesse nelle missioni di pace in Somalia, dove furono assassinati Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Le fonti: riservate, di intelligence. Il messaggio, chiaro: Regeni ucciso su ordine di Londra, per rovinare il business italo-egiziano.Chi invece ha contribuito a distogliere l’attenzione da questa ipotesi, scagliando l’opinione pubblica contro il regime del Cairo, è stato il gruppo “Espresso” capitanato da “Repubblica”, accusa Dezzani, intervistato da Stefania Nicoletti ai microfoni di “Border Nights”. La realtà sarebbe tutt’altra, ben nota a Roma come al Cairo e a Londra, nonché a tutti i servizi segreti presenti in territorio egiziano. Un verità così indigesta da costringere l’Egitto sulla difensiva a recitare la parte del cattivo, di fronte al governo italiano che finge di reclamare collaborazione nelle indagini, pur sapendo benissimo cosa sarebbe accaduto, in realtà, il 25 gennaio 2016 al Cairo, quando una telefonata da Londra ordinò ai killer di uccidere il coraggioso ricercatore italiano. «L’assassinio di Regeni – scrive Dezzani nel suo blog – si è dispiegato come un’articolata manovra ai danni dell’Italia: sono finiti nel mirino l’Eni e la nostra collaborazione col Cairo sul dossier libico. Ma anche una piccola società d’informatica milanese, l’Hacking Team, diventata d’intralcio al club degli spioni anglosassoni, noto come “Five Eyes”».Manipolazioni, accusa Dezzani, realizzate in collaborazione coi media mainstream: «Perché giornali e istituzioni hanno dedicato poche e stringate parole a Giovanni Lo Porto, il cooperante ucciso in Afghanistan nel gennaio 2015 da un drone statunitense? Perché hanno liquidato in pochi giorni la vicenda di Fausto Piano e Salvatore Failla, i due tecnici uccisi in Libia, dopo che un raid americano a Sabrata fece saltare le trattative per la liberazione? E perché, al contrario, la triste storia di Giulio Regeni, il ricercatore sequestrato al Cairo e poi ucciso, è stata oggetto per un anno intero del dibattito politico, di inchieste, di manifestazioni e di appelli? Si direbbe che fosse utile dimenticare le morti di Lo Porto, Piano e Failla, e facesse comodo tenere quella di Regeni sotto i riflettori, il più a lungo possibile». Non solo il caso Regeni ha monopolizzato l’attenzione dei media per un anno intero, «ma ha assunto connotati quasi ridicoli», con i giornali – “Repubblica” in primis – a dar voce ai “si dice”, ad “anonimi” che incolpano il capo della polizia criminale egiziana, il ministero dell’interno, i vertici dei servizi segreti e, dulcis in fundo, il presidente Abd Al-Sisi in persona. «Illazioni, fonti non attendibili», risponderà tranciate la magistratura italiana a distanza di poche ore.“La Repubblica”, continua Dezzani, è lo stesso giornale che, a pochi giorni dal ritrovamento del corpo di Regeni, informava il pubblico che l’Eni avrebbe dovuto a breve firmare con l’Egitto il contratto per lo sfruttamento del maxi-giacimento di Zohr, sostenendo che «congelarlo, fino ad una chiara identificazione e punizione degli assassini di Giulio, potrebbe essere una buona arma (diplomatica) di pressione». Dunque, «un qualche interesse petrolifero che esulava dalla morte del povero Regeni?», si domanda Dezzani. «Il sospetto è più che legittimo: non solo perché, come diceva Andreotti, “a pensar male del prossimo si fa peccato ma si indovina”, ma anche perché al battage del gruppo “L’Espresso” contro l’Egitto si affianca da subito la martellante campagna di Amnesty International», che ha sede a Londra e «solidi legami col Dipartimento di Stato americano e il variegato mondo della vecchia sinistra extra-parlamentare (ex-Lotta Continua, ex-Potere Operaio, “Il Manifesto”) che da sempre gravita nell’orbita Nato». E allora: quale “verità” hanno invocato per dodici mesi i media e le Ong? «La verità oggettiva, oppure una verità di comodo? Quella utile a scoprire i veri carnefici di Giulio Regeni, oppure quella utile all’establishment atlantico, lo stesso in cui si annidano i mandanti dell’omicidio?».In svariati post sul suo blog, Dezzani ha sviscerato a fondo la dinamica del feroce assassinio, evidenziando «tutti gli elementi che indicano una chiara regia atlantica, e inglese in particolar modo, dietro il delitto». Lo scenario è squisitamente geopolitico: tutto comincia nel luglio 2013, quando il golpe militare di Al-Sisi mette fine alla “rivoluzione colorata” del 2011 e depone il governo dei Fratelli Musulmani. Attenzione: benché islamista, la Fratellanza Musulmana è «manovrata da Londra sin dal secolo scorso». Tra il nuovo Egitto nazionalista e l’Italia i rapporti si infittiscono: interscambi commerciali, investimenti, sintonia sullo scacchiere mediorientale. Nel 2014, l’Eni si aggiudica la concessione Shorouk al largo delle coste egiziane. Nel marzo 2015, continua Dezzani nella sua ricostruzione, il vertice di Sharm El-Sheik coincide con lo zenit dei rapporti tra Roma e il Cairo: l’Italia si affida all’Egitto per risolvere il rebus libico, puntando così implicitamente sul generale Khalifa Haftar, già in buoni rapporti con i servizi segreti italiani. Ma ecco che, nel luglio 2015, un’autobomba sventra un’ala del consolato italiano al Cairo: «Rivendicato dall’Isis, l’attentato è un primo messaggio angloamericano affinché l’Italia si svincoli dall’Egitto».Un mese dopo, ad agosto, l’Eni annuncia la scoperta del maxi-giacimento Zohr all’interno della concessione Shorouk: 850 miliardi di metri cubi, la più grande scoperta di gas mai effettuata in Egitto e nel Mediterraneo. Ancora un mese, e nel settembre 2015 al Cairo sbarca Regeni. «Reduce da un’esperienza alla società di consulenze Oxford Analytica, il dottorando italiano all’università di Cambridge svolge un programma di studio e azione sul campo (“Participatory action research”) che lo mette in contatto con esponenti dell’opposizione di Al-Sisi: i suoi docenti, Anne Alexandre e Maha Abdelrahman, sono infatti legate al milieu della Fratellanza Mussulmana e delle “rivoluzioni colorate”». Secondo Dezzani, la decisione di “sacrificare” Regeni risale già a questa fase: «Il ricercatore è deliberatamente esposto all’ambiente dei dissidenti, informatori e spioni, così da creare il pretesto per il suo successivo sequestro e omicidio». In altre parole, sarebbe stato mandato al macello. A dicembre, intanto, al vertice marocchino di Skhirat convocato per decidere le sorti della Libia, gli angloamericani “staccano” l’Italia dal generale Haftar e la spingono verso l’effimero governo d’unità nazionale libico: «A questo punto, bisogna solo più incrinare i rapporti italo-egiziani ed estromettere, se possibile, l’Eni dalle sue concessioni».E arriva il fatidico 25 gennaio 2016: Regeni è rapito «su ordine dei servizi inglesi», scrive Dezzani, precisando che «le celle telefoniche testimoniano un traffico tra Regno Unito ed Egitto al momento del sequestro». L’operazione è affidata a «criminali comuni», oppure a «qualche sgherro della Fratellanza Musulmana». Non è neppure da escludere che i rapitori «abbiano agito in uniforme da poliziotti». Nove giorni dopo, il 3 febbraio, il cadavere di Regeni è rinvenuto alla periferia del Cairo. «Se Regeni fosse effettivamente morto durante un interrogatorio della polizia, il suo corpo non sarebbe mai stato ritrovato», assicura Dezzani, che aggiunge: «Grazie allo zelante ambasciatore Maurizio Massari, con una lunga esperienza a Londra e Washington alle spalle, la situazione precipita in poche ore. E la delegazione del ministro Federica Guidi, in visita in Egitto, è bruscamente richiamata in Italia. Massari sarà promosso qualche mese dopo alla carica di ambasciatore italiano presso la Ue». Il 9 aprile, l’Italia richiama l’ambasciatore, dopo un “fallimentare” vertice a Roma con le autorità egiziane. «Lo sforzo per sabotare l’attività dell’Eni in Egitto raggiunge l’acme e si avanza esplicitamente l’ipotesi che il cane a sei zampe, “visto che ha in piedi in Egitto il più grande investimento, da circa sette miliardi di euro”, faccia le dovute pressioni sul Cairo. Come? Sospendendo i progetti. Si ventilano anche possibili sanzioni economiche contro l’Egitto».A giugno, il filone delle indagini che porta in Inghilterra «si schianta contro il muro di omertà dell’università di Cambridge». Un aspetto della massima serietà. «Il rifiuto di collaborare con gli inquirenti italiani non genera però nessuna crisi diplomatica in questo caso: Londra e Washington godono infatti di una totale impunità in Italia, sin dagli accordi di Yalta del 1945». Uccidere Regeni? Due piccioni con una fava: «Sabotare la presenza italiana in Libia, separandola dalla coppia Al-Sisi/Haftar, ed estromettere l’Eni dal giacimento Zohr». Missione compiuta, a distanza di dodici mesi? Forse, osserva Dezzani, la tradizionale “elasticità” della politica estera italiana, «un po’ cerchiobottista e un po’ levantina», ha limitato i danni: «Il governo ha adottato una linea intransigente contro l’Egitto, seguendo il copione impostogli da Londra e Washington, mentre l’Eni ha mantenuto toni concilianti e filo-egiziani, così da non compromettere gli interessi italiani nella regione». Nel complesso, quindi, «i danni che i mandanti dell’omicidio Regeni volevano infliggere all’Italia sono stati circoscritti e limitati». L’Italia ha sì interrotto la collaborazione con il Cairo in Libia, però l’Eni si è alleata con la russa Rosneft per l’affare del gas. Già, ma il povero Regeni? Verrà mai il giorno in cui, finalmente, i mandanti dei suoi killer avranno un nome, al di là della recita pubblica sulla “verità” per Giulio?Verità per Giulio Regeni? Chiedetela agli 007 inglesi, per i quali lavorava, dietro copertura universitaria. La giusta causa della missione del giovane ricercatore? Nobile: contribuire alla democrazia in Egitto. Molto meno edificante, invece, il vero obiettivo dei suoi committenti-killer: sabotare le relazioni tra l’Italia e il governo del generale Al-Sisi, dopo che l’Eni aveva scoperto, al largo delle coste egiziane, un colossale giacimento di gas. E’ la tesi rilanciata da un analista geopolitico come Federico Dezzani, a un anno dall’atroce “sacrificio” di Regeni, trucidato e fatto curiosamente ritrovare nel modo più clamoroso e raccapricciante, esibito come vittima degli “aguzzini” del Cairo: come se la polizia di Al-Sisi, dovendo liquidare un “nemico”, fosse così folle e autolesionista da metterne in piazza la crocifissione. Il primo a lanciare la pista alternativa a quella della versione ufficiale fu il giornalista Marco Gregoretti, già inviato di “Panorama”, vincitore del Premio Saint-Vincent per i suoi servizi sulle violenze (stupri, torture) commesse nelle missioni di pace in Somalia, dove furono assassinati Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Le fonti: riservate, di intelligence. Il messaggio, chiaro: Regeni ucciso su ordine di Londra, per rovinare il business italo-egiziano.
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Da Regeni all’Airbus: demolire l’Egitto che si oppone all’Isis
Cade nell’Egeo il volo Parigi-Cairo, ma il primo missile lanciato contro l’Egitto si chiamava Giulio Regeni: «Sprovveduto frequentatore di ambienti dello spionaggio e della provocazione angloamericana, non si è reso conto fino a che punto quegli ambienti ti possono trasformare da amico del giaguaro in utile idiota, utilizzandoti nel primo ruolo e sacrificandoti nel secondo». E così, scrive Fulvio Grimaldi, Regeni è diventato il trampolino da cui far piombare sull’Egitto un uragano di anatemi tale da renderlo definitivamente infrequentabile. «Metrojet russo, Egypt Air, Regeni, più un paesaggio egiziano percosso da folgori e schianti fatti in casa da coloro cui è stato detto che, più sconquassano e massacrano, più li si favorirà a tornare al potere nell’ultimo Stato nazionale arabo (insieme all’Algeria) non frantumato, o ridotto all’obbedienza neocolonialista e neoliberista». Risultato: il turismo che dal 20% delle entrate scende a zero e sprofonda il paese in una catastrofe economico-sociale da cui si calcola potrà sognare di risollevarsi unicamente vendendosi.Con l’abbattimento dell’aereo russo s’è già persa una bella quota di quel 20%, continua Grimaldi sul blog “Mondo Cane”. «Extra bonus, uomo avvisato mezzo salvato, con riferimento a Putin e Al Sisi che al Cairo avevano firmato ampi accordi commerciali, militari e di investimenti». Della “bomba a grappolo Regeni”, «tutti si ostinano a ignorare il torbido romanzo di formazione negli Usa dell’intelligence e l’approdo alla società di spionaggio Oxford Analytica, diretta da tre specialisti del terrorismo su vasta scala: Mc Coll, già capo dei servizi britannici, David Young, ex-galeotto per il complotto Watergate e John Negroponte, sterminatore di civili in Centroamerica e Iraq con i suoi squadroni della morte. Le ricadute dell’ordigno umano sono state un’altra fetta di turismo andata e, soprattutto, un gigantesco business Italia-Eni-Egitto, attorno al più grande giacimento di gas del Mediterraneo, messo a repentaglio, forse definitivamente».Addio gas all’Italia e alla Francia. «Diversamente dall’orrido Tap (Trans Adriatic Pipeline) imposto da Shell, Obama e Renzi, che devasterà le coste del Salento e degraderà la Puglia in hub energetico europeo, ma che parte dall’amerikano e filo-Erdogan Azerbaijan (ultimamente meritevole anche per l’aggressione al filo-russo Nagorno), quel gas egiziano, insieme all’altro arabo dall’Algeria, pure malvisto, ci avrebbe dato un sacco di soddisfazioni energetiche senza deturpare nulla, ma anche senza mano Usa sul rubinetto». Sicché, «dopo aver spento la musica al valzer Egitto-Italia, era arrivato in sala da ballo il castigamatti dell’Africa francofona, il restauratore della mai dimenticata FranceAfrique in Costa d’Avorio, Mali, Niger, Ciad, Rca e giù giù fino al Gabon e oltre. Ma se al clown da circo dell’orrore, Hollande, il diversivo neocolonialista dai disastri nella metropoli poteva essere consentito nella FranceAfrique (dopottutto si muoveva anche nel nome della Nato), il suo precipitarsi in Egitto a concordare con Al Sisi la sostituzione del partner francese a quello italiano costituiva invasione di campo».Intollerabile, l’attivismo francese in Egitto, per gli anglosassoni, «inventori e poi padrini dei Fratelli Musulmani e dei loro apprendisti stregoni Daish». Quanto al Cairo, il problema si chiama Abdel Fatah Al Sisi, il generale che sfrattò Mohamed Morsi su richiesta di 33 milioni di egiziani, dopo la rivoluzione del 2011 che aveva insediato i Fratelli Musulmani. Una rivolta «infiltrata e manipolata dai soliti esperti di “regime change” statunitensi perchè fingesse un superamento della dittatura di Mubaraq attraverso un regime di musulmani “moderati”». Alle presidenziali votò il 35% degli aventi diritto e solo il 17% si espresse per Morsi. «Vibranti furono le congratulazioni di Washington. L’intera amministrazione dello Stato fu occupata dai Fm. Gli assassini del presidente Sadat furono ricevuti da Morsi e messi a capo del Consiglio dei Diritti Umani. L’autore del famoso massacro di Luxor fu nominato governatore di quella provincia. Seguirono gli arresti degli oppositori laici di Mubaraq e i pogrom anticristiani. Tutte le maggiori imprese dello Stato vennero privatizzate e fu annunciata la possibile vendita del Canale di Suez al Qatar, una specie di Vaticano dei Fm, sponsor dell’Isis».Morsi, continua Grimaldi, inviò una delegazione ufficiale dal capo dell’Isis, Al Baghdadi, e ordinò alle forze armate di essere pronte ad attaccare la Siria, cosa che suscitò vivissime reazioni contrarie tra i militari. Morsi rimediò inviando “volontari” a supporto dei jihadisti. Questi e altri provvedimenti innescarono quella che sarebbe stata la più grande manifestazione di massa contro un presidente egiziano. I Fratelli Musulmani reagirono con le armi e per un mese si succedettero scontri sanguinosi. Il Qatar e la Turchia di Erdogan furono i primi a denunciare il “colpo di Stato”. La guerra civile fu evitata grazie alle elezioni, boicottate dagli islamisti, e in cui Al Sisi riportò il 96% dei voti. «Da quel momento inizia la campagna degli attentati terroristici. I media occidentali parlano di arresti e condanne di oppositori. Quasi sempre si tratta di Fm responsabili degli attentati con centinaia di vittime».Chi è Abdel Fatah Al Sisi? A dispetto del terrorismo islamista, con Al Sisi l’Egitto conosce una certa pace sociale: vengono liberati prigionieri politici e ricostruite le chiese copte bruciate. Ma l’economia è a pezzi, l’ostilità dell’Occidente e del Qatar provoca isolamento. «Tanto più che il Cairo si propone come autorevole mediatore nel conflitto libico e come forza effettivamente capace di debellare, con il legittimo governo di Tobruk (che aveva vinto le elezioni ed era aperto ai gheddafiani) e il generale Haftar, i mercenari Isis spediti dalla Turchia, beneaccetti dai Fratelli di Tripoli e dai tagliatori di teste di Misurata e finanziati dal Qatar. Solito pretesto per l’intervento Nato». E non è tutto: «Con l’aiuto della Cina, imperdonabile, l’Egitto raddoppia la capacità del Canale di Suez e quindi le entrare che ne derivano. Dovrebbe essere un segmento cruciale della nuova temutissima Via della Seta e dell’interscambio tra Africa e Cina. Nell’estate del 2015 l’Eni rivela la scoperta dell’enorme giacimento di gas e di altri idrocarburi nell’area marina di Zohr, che permetterebbe al Cairo di ricavarne l’equivalente di 5,5 miliardi di barili di petrolio.Anche per questo, contemporaneamente, dilaga il terrorismo dei Fratelli Musulmani: vengono uccisi il procuratore generale della Repubblica e altri alti funzionari e magistrati. Ne segue un’ondata di arresti che fa gridare in Occidente alla brutale repressione del nuovo Pinochet. Mohammed Hassanein Heikal, il più brillante e cosmopolita giornalista egiziano, già portavoce di Nasser e direttore del primo quotidiano egiziano, “Al Ahram”, sollecita Al Sisi a denunciare la macelleria saudita nello Yemen (e difatti le truppe egiziane verranno ritirate), di sostenere la resistenza del presidente siriano Assad e di cercare un riavvicinamento con l’Iran. «A 87 anni, Heikal, che anni fa avevo intervistato per il “Nouvel Observateur” scoprendovi uno dei più colti e appassionati intellettuali arabi incontrati in mezzo secolo, muore», racconta Grimaldi, «prima che Al Sisi possa portare avanti quel discorso».Nella notte dall’11 al 12 aprile, si viene a sapere che l’Egitto ha ceduto due isolotti nel Mar Rosso all’Arabia Saudita. Nelle stesse ore re Salman è al Cairo e annuncia investimenti per 25 miliardi di dollari. Sulle due isole, Tiran e Sanafir, si dovrebbe posare il grande ponte che, nei progetti sauditi ed egiziani, unirebbe le due coste del Golfo di Aqaba. Intanto gli Usa offrono rinnovate forniture d’armi. «Se non si riesce a far tornare Morsi, meglio provare a non lasciare campo aperto a russi, italiani, francesi, cinesi». La cessione delle isole provoca una serie di manifestazioni di protesta dei nazionalisti egiziani che si chiedono dove Al Sisi stia andando, tra Russia, Cina, Usa, Libia e Arabia Saudita. «La risposta sta nelle condizioni economiche in cui l’Egitto è stato ridotto da una guerra economica, terroristica e mediatica, partita appena il nuovo presidente è arrivato al potere e si è dichiarato ispirato da Nasser. La sua pare la mossa della disperazione prima che la società egiziana precipiti nel baratro e della nazione araba non rimangano che brandelli, spettri alitanti tra le rovine di Aleppo, nella polvere dell’ultima bomba Isis a Baghdad, tra le immagini di Gheddafi sepolte in cassetti segreti di case che non dimenticano».E mentre gli altri megafoni della demonizzazione dell’Egitto e del suo “Pinochet” si stavano acquietando, anche di fronte all’evidenza del carattere “schiumogeno” che le accuse contro gli inquirenti sul caso Regeni stavano rivelando, insieme alla «ambigua identità del giovanotto, rilevata da molta stampa estera», il “Manifesto” «accentuava il suo bombardamento di contumelie, congetture, illazioni, accuse senza fondamento», denuncia Grimaldi. «Personaggi da assegnare alle categorie degli utili idioti o degli amici del giaguaro, a seconda della percezione di ognuno, tra i quali un magistrato disertore e fallito politico come Ingroia, il compare di Sofri Manconi, vari dirittoumanisti di complemento, cantanti, nani e ballerine, invocavano sull’Egitto di Al Sisi i fulmini di Giove, Marte, Saturno, Urano, Diopadre, sanzioni, embargo, interventi Onu, magari, sotto sotto, bombe alla libica. Neanche uno di questa compagnia di giro cripto-Nato che si fosse chiesto cosa cazzo ci facesse Regeni con criminali come Young, Negroponte e McColl», conclude Grimaldi. «Non è solo malafede. E’ complicità con chi usa altri mezzi per distruggere l’Egitto. Complicità, in ogni caso, con chi è comunque peggio di Al Sisi».Cade nell’Egeo il volo Parigi-Cairo, ma il primo missile lanciato contro l’Egitto si chiamava Giulio Regeni: «Sprovveduto frequentatore di ambienti dello spionaggio e della provocazione angloamericana, non si è reso conto fino a che punto quegli ambienti ti possono trasformare da amico del giaguaro in utile idiota, utilizzandoti nel primo ruolo e sacrificandoti nel secondo». E così, scrive Fulvio Grimaldi, Regeni è diventato il trampolino da cui far piombare sull’Egitto un uragano di anatemi tale da renderlo definitivamente infrequentabile. «Metrojet russo, Egypt Air, Regeni, più un paesaggio egiziano percosso da folgori e schianti fatti in casa da coloro cui è stato detto che, più sconquassano e massacrano, più li si favorirà a tornare al potere nell’ultimo Stato nazionale arabo (insieme all’Algeria) non frantumato, o ridotto all’obbedienza neocolonialista e neoliberista». Risultato: il turismo che dal 20% delle entrate scende a zero e sprofonda il paese in una catastrofe economico-sociale da cui si calcola potrà sognare di risollevarsi unicamente vendendosi.
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I sauditi rischiano di fallire, per questo cercano la guerra
E’ fuor di dubbio che sia di Riad la responsabilità della gravissima crisi con l’Iran. Quando si annuncia l’esecuzione in un sol giorno di 47 persone, diverse delle quali sciite, tra cui un imam reo soltanto di aver promosso una manifestazione di protesta quando aveva 19 anni, non sono necessarie analisi sofisticate per capire che si tratta di una provocazione deliberata. Ma a quali fini? Facciamo un passo indietro. L’Arabia saudita è da sempre in cima alla lista nera dei paesi che violano i diritti umani, ma ha sempre beneficiato di uno statuto speciale da parte degli Stati Uniti e di conseguenza dei loro alleati. La ragione la conosciamo tutti: è il principale produttore di petrolio al mondo. Ed è più che valida per indurre Washington a chiudere per quarant’anni entrambi gli occhi. Negli ultimi due anni, però, il quadro è cambiato. Lo sfruttamento del cosiddetto shale oil, l’olio di scisto, di cui l’America è ricca, ha reso meno importante il regime saudita.I prezzi del greggio hanno iniziato a scendere e Riad ha reagito tentando il tutto per tutto: siccome i giacimenti di shale oil sono redditizi solo oltre un certo prezzo al barile, il regime saudita anziché tentare di contrastare la caduta dei prezzi con il taglio della produzione, come sarebbe stato logico, ha percorso la via inversa: l’ha aumentata nella speranza di far fallire i produttori americani. Scommessa in buona parte persa per ragioni mai esplicitate ufficialmente ma che sono facilmente intuibili: quello dell’olio di scisto, sebbene molto inquinante, ha un valore strategico per il governo degli Stati Uniti che ha fatto e farà di tutto per non vanificarlo. A tremare finanziariamente, invece, ora è proprio Riad, dove quest’anno è esploso il deficit pubblico e che vede compromessa a medio termine la propria stabilità economica. Un gigante che appariva incrollabile ora scopre di essere strutturalmente fragile e teme per il proprio avvenire.L’Iran cosa c’entra? C’entra, c’entra. Perché i sauditi sono sunniti e loro sciiti in un dissenso paragonabile, per intenderci, a quello che a lungo ha opposto cattolici e protestanti in Europa. Ma soprattutto perché l’Iran proprio quest’anno è stato sdoganato dagli Stati Uniti, grazie allo storico accordo sul nucleare. Quegli Usa che, però, assieme ai sauditi, ai turchi e agli Emirati fino a ieri hanno armato e finanziato l’Isis nel tentativo di rovesciare Assad, ovvero il leader di un paese da sempre amico proprio di Teheran. La fine delle sanzioni ha peraltro spinto ulteriormente al ribasso il prezzo del petrolio, accentuando le difficoltà dell’Arabia Saudita. Aggiungete il fatto che Riad ha speso cifre enormi in armamenti e la criticità della situazione apparirà evidente.Riad sta fallendo su tutti i fronti. L’offensiva lanciata nello Yemen contro gruppi sciiti vicini a Teheran e che ha provocato una guerra terribile ignorata dall’Occidente, non ha dato i risultati sperati. Da quando Putin ha cominciato a bombardare massicciamente, l’Isis ha perso terreno e tutti hanno capito che Assad resterà al potere ancora a lungo. E’ così svanito il sogno dei sauditi di creare uno Stato Islamico a nord (nell’area tra Siria e Iraq), che avrebbe dovuto chiudere a tenaglia l’Iran. La Russia appare più forte, l’America, in un anno elettorale, più debole mentre il prezzo del petrolio continua calare. I governanti della Casa Regnante non brillano certo per acume strategico: per quanto ricchi restano dai capi tribali imbevuti di fanatismo religioso. Il timore è che abbiano scelto la via peggiore per tentare di uscire dai guai: quella di approfittare della propria supremazia militare per provocare una guerra con l’Iran che faccia salire il prezzo del petrolio e che si concluda con il dominio sunnita anche a Teheran e, di conseguenza, a Baghdad. Un delirio, che pone l’Occidente di fronte alle proprie responsabilità storiche. Un delirio da fermare ad ogni costo.(Marcello Foa, “I sauditi rischiano di fallire, per questo cercano la guerra”, dal blog “Il Cuore del Mondo” su “Il Giornale” del 5 gennaio 2016).E’ fuor di dubbio che sia di Riad la responsabilità della gravissima crisi con l’Iran. Quando si annuncia l’esecuzione in un sol giorno di 47 persone, diverse delle quali sciite, tra cui un imam reo soltanto di aver promosso una manifestazione di protesta quando aveva 19 anni, non sono necessarie analisi sofisticate per capire che si tratta di una provocazione deliberata. Ma a quali fini? Facciamo un passo indietro. L’Arabia saudita è da sempre in cima alla lista nera dei paesi che violano i diritti umani, ma ha sempre beneficiato di uno statuto speciale da parte degli Stati Uniti e di conseguenza dei loro alleati. La ragione la conosciamo tutti: è il principale produttore di petrolio al mondo. Ed è più che valida per indurre Washington a chiudere per quarant’anni entrambi gli occhi. Negli ultimi due anni, però, il quadro è cambiato. Lo sfruttamento del cosiddetto shale oil, l’olio di scisto, di cui l’America è ricca, ha reso meno importante il regime saudita.
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L’Onu: Israele collabora con l’Isis. Vuole il petrolio del Golan
Un colonnello israeliano catturato in Iraq con miliziani dell’Isis, e un dossier ufficiale dell’Onu che denuncia il ruolo di Israele nel supporto al Califfato. Motivo? Mettere le mani sul petrolio siriano, dopo che la società Genie Energy, in cui figura anche Dick Cheney, ha scoperto nel Golan un immenso giacimento. Ma nulla di tutto ciò affiora sui media mainstream, protesta il professor William Engdhal, consulente strategico e docente universitario negli Usa. Clamorosa la cattura dell’ufficiale israeliano, il colonnello Yusi Oulen Shahak, sorpreso “a brache calate assieme all’Isis” dall’esercito iracheno. Secondo l’agenzia iraniana “Fars”, l’ufficiale era legato al “Battaglione Golani” dell’Isis, insieme a cui l’ufficiale avrebbe «partecipato alle operazioni terroristiche della fazione takfirita» dei miliziani jihadisti. Dal 30 settembre, cioè «da quando sono iniziati gli efficaci bombardamenti russi», scrive Engdhal, sono emersi dettagli sempre più imbarazzanti sul «ruolo alquanto sporco» giocato da Washington, dalla Turchia di Erdogan e anche da Israele. Già a fine 2014 il “Jerusalem Post” aveva scoperto un rapporto delle Nazioni Unite «largamente ignorato e politicamente esplosivo», che descrive come l’esercito israeliano sia stato visto cooperare con i combattenti dell’Isis.La missione Undof, cioè la forza di peacekeeping dell’Onu stanziata al confini tra Israele e Siria presso le Alture del Golan dal 1974, ha rivelato che «Israele ha collaborato strettamente con le forze terroriste di opposizione siriane», incluso il fronte Al-Nusra (Al-Qaeda) e lo Stato Islamico, «mantenendo stretti contatti negli ultimi 18 mesi». In un servizio su “Journal-Neo” tradotto da “Come Don Chisciotte”, Engdhal scrive che diventa sempre più chiaro che almeno una fazione dell’amministrazione Obama ha “fabbricato” e usato l’Isis per cacciare Assad e demolire la Siria, riducendola come la Libia. Sulla lista nera, «i neocon che ruotano attorno all’ex direttore della Cia, nonché boia della resistenza irachena, il generale David Petraeus», e il generale John Allen, già inviato speciale di Obama per la coalizione anti-Isis, nonché l’ex segretario di Stato Hillary Clinton. Il generale Allen, sostenitore della “no-fly zone” tra Siria e Turchia (che Obama ha respinto) è stato significativamente rimosso il 23 ottobre, dopo l’avvio dei bombardamenti russi. Ma è altrettanto importante il ruolo di Israele: «E’ ormai consolidato che il Likud di Netanyahu e le forze armate israeliane lavorino a fianco ai guerrafondai neocon, così come lo è l’opposizione del primo ministro Benjamin Netanyahu all’accordo di Obama sul nucleare iraniano», scrive Engdhal.«Israele considera Hezbollah, il partito islamico sciita appoggiato dall’Iran, con sede nel Libano, come il nemico principale». Alleato dell’Iran (e di Hamas a Gaza), Hezbollah combatte a fianco all’esercito siriano contro l’Isis in Siria. Fino a ieri, il Califfato ha potuto espandere il suo controllo proprio grazie al generale Allen. E non solo: accanto all’Isis c’era sempre anche Israele. «Almeno dal 2013 – continua Engdhal – le forze armate israeliane hanno apertamente bombardato quelli che ritenevano fossero gli obiettivi di Hezbollah in Siria. Un’indagine ha infatti rivelato come Israele stesse colpendo le forze armate siriane e alcuni obiettivi di Hezbollah che stavano efficacemente contrastando l’Isis e altri gruppi terroristi. In questo modo Israele sta attualmente aiutando di fatto l’Isis», così come i bombardamenti anti-Isis del generale Allen, protratti per un anno. «Che una fazione del Pentagono abbia lavorato in segreto per addestrare, armare e finanziare quella che oggi chiamiamo Isis (o Is) in Siria, è oggi provato nero su bianco», spiega Engdhal. Nell’agosto del 2012, un documento del Pentagono classificato come “segreto”, poi successivamente desecretato sotto la pressione dell’Ong “Judicial Watch”, ha descritto con precisione la nascita di quello che è diventato in seguito l’Isis, sorto dallo Stato Islamico dell’Iraq, quindi affiliato ad Al-Qaeda.Il documento del Pentagono riportava che «c’è la possibilità di impiantare un’entità statale salafita nella Siria orientale (Hasaka e Der Zor), e questo è esattamente ciò che vogliono le potenze che sostengono l’opposizione ad Assad, al fine di isolare il regime siriano, considerato l’avamposto strategico dell’espansione sciita». Sul banco degli imputati, insieme agli Usa, anche il Qatar, la Turchia, l’Arabia Saudita. E, dietro le quinte, Israele. «La creazione di “un’entità salafita nella Siria orientale,” oggi territorio dell’Isis, era nell’agenda di Petraeus, del generale Allen e di altri al fine di distruggere Assad», prosegue Engdhal. «E’ questo che porta l’amministrazione Obama in stallo con la Russia, la Cina e l’Iran, riguardo alla bizzarra richiesta Usa di rimuovere Assad prima che venga distrutto l’Isis». Questo gioco, continua l’analista, è oggi alla luce del sole. «E mostra al mondo la doppiezza di Washington nell’appoggiare quelli che la Russia definisce correttamente “terroristi moderati” contro un Assad regolarmente eletto». E lo Stato ebraico? «Che Israele si trovi inoltre in mezzo alla tana di ratti delle forze di opposizione terroristiche in Siria è stato confermato nel recente rapporto dell’Onu. Ciò che il rapporto non menzionava era invece il perché Israele avesse un interesse così forte per la Siria, specialmente per le alture del Golan»Già: perché Israele vuole rimuovere Assad? I documenti Onu, di cui il mainstream continua a non parlare, mostrano come le forze armate israeliane abbiano tenuto contatti regolari con membri del cosiddetto Stato Islamico fin dal maggio 2013. L’Idf, l’esercito israeliano, ha dichiarato che simili contatti ci sono stati “solo per fornire cure mediche a civili”, ma l’inganno «è stato svelato quando gli osservatori dell’Undof hanno accertato contatti diretti tra forze dell’Idf e soldati dell’Isis, fornendo anche assistenza medica a combattenti dello Stato Islamico». Il rapporto delle Nazioni Unite identifica ciò che i siriani hanno definito un “crocevia di movimenti di truppe tra l’Idf e l’Isis”, argomento che l’Undof – 1.200 osservatori sul campo – ha portato davanti al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. A partire dal 2013 e dall’escalation di attacchi israeliani contro la Siria lungo le Alture, ufficialmente per ricercare “terroristi di Hezbollah”, la stessa Undof è soggetta a massicci attacchi da parte dei terroristi dell’Isis e di Al-Nusra. Si registrano anche rapimenti, omicidi, furti di materiale e munizioni Onu, di veicoli e di altri beni, nonché il saccheggio e la distruzione delle varie strutture.Il Golan – ricco di giaciementi di petrolio – pare sia l’obiettivo a cui punta Netanyahu, che ha chiesto a Obama «di riconsiderare il fatto che Israele ha illegalmente occupato una parte delle alture», a partire dalla Guerra dei Sei Giorni del 1967 tra Israele e i paesi arabi. Il 9 novembre Nethanyahu ha chiesto a Obama, apparentemente senza successo, di appoggiare formalmente l’annessione israeliana delle Alture del Golan illegalmente occupate, sostenendo che l’assenza di un governo siriano funzionante “dà luogo a diverse valutazioni” riguardo al futuro di quell’area così strategicamente importante. «Certamente – aggiunge Engdhal – Netanyahu non ha dato nessuna spiegazione plausibile sul fatto che le forze israeliane, assieme ad altre, sono state responsabili dell’assenza di un governo siriano funzionante a causa del loro supporto all’Isis ed al fronte qaedista Al-Nusra». Quando l’Undof ha iniziato a documentare nel 2013 i contatti sempre più frequenti tra l’esercito di Israele da una parte e l’Isis ed Al-Qaeda dall’altra lungo le Alture del Golan, la Genie Energy, una semi-sconosciuta compagnia petrolifera di Newark, nel New Jersey, assieme ad una sua controllata isreliana, la Afek Oil e Gas, iniziò a muoversi nelle Alture per delle esplorazioni petrolifere, col permesso del governo Netanyahu.Quello stesso anno, continua Engdhal, gli ingegneri dell’esercito di Israele sostituirono la recinzione di confine con la Siria, rimpiazzandola con una barriera dotata di filo spinato, sensori, radar e telecamere a infrarossi, come quelle del muro costruito da Israele lungo la West Bank palestinese. Yuval Bartov, geologo capo della controllata israeliana della Genie Energy, l’Afek Oil e Gas, ha annunciato alla Tv israeliana “Channel 2” che la sua compagnia ha scoperto un consistente giacimento petrolifero sulle Alture del Golan, profondo 350 metri: «A livello mondiale, i giacimenti hanno in media lo spessore di 20 o 30 metri, mentre questo è 10 volte più spesso», ha dichiarato Bartov. «Parliamo quindi di una quantità rilevante». Attenzione: nel vertice della Genie Energy siedono personaggi come Dick Cheney, ex vicepresidente Usa, e James Woosley, già direttore della Cia e famigerato neo-con. Con loro anche altre personalità di spicco, come quella di Lord Jacob Rothschild. «Nessuna persona sana di mente suggerirebbe che vi sia un legame tra i rapporti dell’esercito di Israele con l’Isis ed altri terroristi anti-Assad in Siria, specialmente lungo le alture del Golan, e la scoperta dei giacimenti da parte della Genie Energy nello stesso posto, o con i recenti appelli di Netanyahu al “ripensamento” sulle Alture del Golan ad Obama», conclude Engdhal. «Questo suonerebbe troppo simile ad una “teoria della cospirazione”, mentre tutte le persone ragionevoli sanno bene che non esistono cospirazioni ma solo coincidenze».Un colonnello israeliano catturato in Iraq con miliziani dell’Isis, e un dossier ufficiale dell’Onu che denuncia il ruolo di Israele nel supporto al Califfato. Motivo? Mettere le mani sul petrolio siriano, dopo che la società Genie Energy, in cui figura anche Dick Cheney, ha scoperto nel Golan un immenso giacimento. Ma nulla di tutto ciò affiora sui media mainstream, protesta il professor William Engdhal, consulente strategico e docente universitario negli Usa. Clamorosa la cattura dell’ufficiale israeliano, il colonnello Yusi Oulen Shahak, sorpreso “a brache calate assieme all’Isis” dall’esercito iracheno. Secondo l’agenzia iraniana “Fars”, l’ufficiale era legato al “Battaglione Golani” dell’Isis, insieme a cui l’ufficiale avrebbe «partecipato alle operazioni terroristiche della fazione takfirita» dei miliziani jihadisti. Dal 30 settembre, cioè «da quando sono iniziati gli efficaci bombardamenti russi», scrive Engdhal, sono emersi dettagli sempre più imbarazzanti sul «ruolo alquanto sporco» giocato da Washington, dalla Turchia di Erdogan e anche da Israele. Già a fine 2014 il “Jerusalem Post” aveva scoperto un rapporto delle Nazioni Unite «largamente ignorato e politicamente esplosivo», che descrive come l’esercito israeliano sia stato visto cooperare con i combattenti dell’Isis.
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Al-Baghdadi alias Simon Elliot, sul web tra Jihad e Mossad
La tragedia di Parigi rappresenta un fatto di eccezionale gravità, perché ha coinvolto persone totalmente estranee ad ogni ideologizzazione e sorprese in un momento di vita quotidiana. Le vittime sacrificali di questo eccidio sommuovono la coscienza, la mettono in subbuglio, perché si tratta di qualcosa che la nostra ragione ci fa comprendere è accaduto in casa nostra. Non segue a questo pensiero una considerazione “buonista”, che aggravi la coscienza con il senso di colpa del non saper avvertire lo stesso dolore per quel che ogni giorno accade in Siria. Sarà eticamente importante, ma non è questo il punto che trasforma un sentimento in un pensiero politico. La soglia di trasformazione è data dal pensiero: cui prodest? a chi serve? chi ne trae vantaggio? E’ possibile trascurare il fatto che gli autori dell’attentato, di quest’ultimo del 13 novembre come di quello alla redazione di Charlie Hebdo del 7 gennaio sono stati realizzati da musulmani di seconda generazione, residenti in Francia e in Belgio. E’ del tutto inopportuno trarre facili conseguenze o proporre semplificazioni inadeguate.Tuttavia, chi scrive non può dimenticare di aver girato buona parte del Medio-Oriente e, per quanto l’età d’oro di un mondo musulmano che voleva in tutto e per tutto emulare il modello di vita occidentale si sia appannato dopo l’ingiusta operazione contro Saddam Hussein (accusato di avere armi chimiche, secondo un castello di accuse costruito ad arte da Dick Cheney e Valerie Plame per giustificare l’intervento militare a sostegno dei petrolieri voluto da Bush), tuttavia è indiscutibile che la stragrande maggioranza, per non dire pressochè la totalità di coloro che vivono nei paesi del Medio Oriente, null’altro vogliono che vivere tranquilli e in pace. Cos’ha fatto dunque l’Occidente nel momento in cui la Tunisia, l’Egitto, persino lo Yemen, con i movimenti della cosiddetta Primavera Araba, hanno chiesto democrazia e libertà? Nulla, proprio nulla. Niente. Anzi, no. L’Occidente ha colto l’opportunità di operare lo sfruttamento delle risorse del Medio Oriente in modo ancora più cinico.E’ evidente che l’Occidente non vuole la democrazia e l’emancipazione dei popoli che intende piuttosto dominare e sfruttare. I disordini all’interno di questi paesi permettono di attuare la più classica delle politiche di sfruttamento: divide et impera. I militari presidiano i giacimenti petroliferi, l’estrazione del greggio avviene pressoché gratuitamente. Le popolazioni sono messe le une contro le altre, e si guadagna anche dalla vendita delle armi. Si saccheggiano le fortezze. Si trafugano opere d’arte. Gli eserciti regolari fanno la loro parte. Al resto ci pensano le truppe mercenarie. Eccoci al punto. Le truppe mercenarie. Sotto il presidio di garanzia degli eserciti regolari, sono loro che fanno il lavoro sporco. Sono loro che scambiano armi per droga. Su questo genere di indagini, per esempio, sono morti Ilaria Alpi e Mauro Rostagno. Qualcuno ricorderà, spero. E non c’è bisogno di ricorrere a fonti “esotiche” o di estrema sinistra per sapere che, da quando le truppe occidentali sono stanziate in Afghanistan, la produzione di oppio è decuplicata: è “Time” a dichiararlo.L’establishment non fa più mistero delle sue nefandezze, le espone, con la certezza che la notizia, iperinflazionata, sarà notata solo da alcuni, senza giungere alla coscienza dell’opinione pubblica, della coscienza collettiva. Sapendo questo, risulta così sorprendente l’affermazione che Al-Qaida è stata una struttura sotto controllo Cia, i cui leader sono stati formati e addestrati proprio in questo contesto? E può sorprendere che la Cia sia sotto controllo da parte di forze occulte come la Pentalfa? E’ così impensabile che Bin Laden e Al-Baghdadi siano stati formati da questi ambienti? E, da ultimo, come attualmente circola la notizia sul web, che il sedicente califfo Al-Baghdadi non sia che un agente del Mossad, il cui vero nome è Simon Elliot? E’ tutto questo così incredibile? Oppure, come sempre, la realtà supera la fantasia?Prima di chiudere questo articolo, due considerazioni vanno svolte. La prima, avvertendo che quanto qui scritto non si adagia su un facile “complottismo”. Soprattutto, nessuno pensi che qui sia espressa una posizione antisemita e anti-israeliana. Al contrario, la posizione è certamente filo-israeliana: ma a favore di quell’Israele sognato da quegli intellettuali ebrei che già all’alba del riconoscimento di Israele come Sato nazionale, opponevano a questo preteso “trionfo del sionismo” la scelta di un “sionismo spirituale”, che rifiutava di immaginare il nuovo Israele come Stato nazionale proprio a causa di quel tremendo olocausto che i nazionalismi aveva fatto subire al popolo ebraico che dunque, invece che Stato nazionale, avrebbe dovuto essere un protettorato internazionale, sede ospitante di quel che avrebbe dovuto essere “un popolo di sacerdoti”, “luce per le nazioni”. Naturalmente, questa idea venne respinta dalla maggioranza.La seconda, che rattrista ancor più, è data dal fatto che il ventre molle del capitalismo imperialista si nutre sempre di più di giovani ignari delle conseguenze di quel che fanno, ragazzi come quelli che hanno commesso questi attentati non sono nemmeno consapevoli del fatto che stanno servendo interessi completamente lontani e distanti dai loro e da quelli del loro popolo che, anzi, proprio per quel che hanno fatto, subiranno nuove vessazioni. Il sistema dei siti web per adescare i cosiddetti “jihadisti” è controllato dalla propaganda militare dei servizi segreti occidentali, e si nutrono di loro, a loro insaputa. A noi restano leggi liberticide e l’ipocrisia della politica, che distilla l’odio tra le religioni e la divisione tra i popoli. Ad onta delle anime nobili che continuano a sognare il dialogo tra i popoli, l’educazione e l’istruzione universale come accesso alla vita spirituale di tutti e di ciascuno. Svegliamoci, è tempo.(Davide Crimi, “Occidente, petrolio, dominio, propaganda e altri inganni”, dal blog del “Movimento Roosevelt” del 21 novembre 2015).La tragedia di Parigi rappresenta un fatto di eccezionale gravità, perché ha coinvolto persone totalmente estranee ad ogni ideologizzazione e sorprese in un momento di vita quotidiana. Le vittime sacrificali di questo eccidio sommuovono la coscienza, la mettono in subbuglio, perché si tratta di qualcosa che la nostra ragione ci fa comprendere è accaduto in casa nostra. Non segue a questo pensiero una considerazione “buonista”, che aggravi la coscienza con il senso di colpa del non saper avvertire lo stesso dolore per quel che ogni giorno accade in Siria. Sarà eticamente importante, ma non è questo il punto che trasforma un sentimento in un pensiero politico. La soglia di trasformazione è data dal pensiero: cui prodest? a chi serve? chi ne trae vantaggio? E’ possibile trascurare il fatto che gli autori dell’attentato, di quest’ultimo del 13 novembre come di quello alla redazione di Charlie Hebdo del 7 gennaio sono stati realizzati da musulmani di seconda generazione, residenti in Francia e in Belgio. E’ del tutto inopportuno trarre facili conseguenze o proporre semplificazioni inadeguate.
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Contro il gas russo, l’Europa dei cretini autolesionisti
Ora che il governo di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra ha chiuso l’affare scozzese, tra sospetti brogli denunciati anche dalla “Bbc” e l’illusione dei gonnellini di Edimburgo di poter cambiare la loro sorte per via referendaria, Londra può di nuovo dedicarsi a quello che le riesce meglio: fare il cane da guardia Usa in Europa contro gli interessi degli stessi cittadini europei. Come mai un paese che non ha adottato la moneta unica, che non ha aderito a molti trattati comunitari, che misura la propria esistenza in pollici, acri ed once, che guida tenendo la sinistra, che non ha, insomma, nulla in comune col resto dei continentali, abbia così tanta voce in capitolo in Ue è uno di quei misteri del Vecchio Continente che resteranno sempre irrisolvibili, almeno finché non si apriranno gli occhi sui compiti storici di questa comunità tenuta insieme contro la volontà dei popoli e nata per volere di burocrazie politiche corrotte e cricche finanziarie speculatrici asservite al dominio d’oltreatlantico.Gli inglesi, i quali hanno difficoltà a badare a se stessi, per quanto la crisi li abbia colpiti meno di altre potenze europee, grazie al controllo esercitato dallo Stato sulla sterlina e sui capisaldi economici del sistema che sono stati contaminati meno dalle stupide imposizioni di Bruxelles, temono che Kiev possa restare all’addiaccio e si prodigano affinché ciò non avvenga. In realtà, si preoccupano per il saccheggio del gas da parte degli ucraini che sono stati convinti ad abbracciare l’“acquis communautaire” nonostante le uniche leggi riconosciute da quelle parti siano quelle del taglione e del taglieggiamento. Convincere questi gangster dell’est a comportarsi civilmente non sarà una cosa facile, ma averli allontanati dalla presa del potente vicino, per gli inglesi, evidentemente, vale il rischio che si sta correndo. Ora però bisogna ostacolare Mosca in tutti i modi possibili, impedendo che questa si rafforzi ancora sui mercati energetici e che eserciti ulteriormente la sua pressione sulle capitali europee dipendenti dalle sue forniture.La corsa ai giacimenti artici, dove i russi si sono lanciati con grande impeto, potrebbe essere il prossimo terreno di scontro. Il circolo polare artico pare custodisca il 22% delle risorse energetiche mondiali recuperabili. Mosca non nasconde le sue rivendicazioni sulla zona e reclama i suoi diritti di ricerca e di sfruttamento, che però vengono contestati strumentalmente da alcuni Stati nordici. Il recente embargo di tecnologia occidentale imposto da Washington al Cremlino, al quale l’Ue si è passivamente accodata, serve proprio ad evitare che Putin & co. proseguano spediti su questa rotta. Nessuno dei paesi dell’alleanza atlantica dovrà agevolare i russi nello sfruttamento di tale settore, per rallentare la loro corsa esplorativa nell’area. In secondo luogo, europei e americani puntano a indebolire Gazprom sabotando i suoi progetti in Europa come il gasdotto South Stream, che aggirando l’Ucraina favorisce percorsi più stabili di pompaggio dell’oro blu verso i clienti europei.In ossequio a questi pregiudizi autolesionistici, qualche giorno fa l’Europarlamento ha approvato una risoluzione non legislativa (che non sarà vincolante ma è di certo molto ipocrita) per sollecitare i paesi dell’Ue ad annullare gli accordi nel settore energetico previsti con la Russia, tra cui quelli per il gasdotto in questione. Nello stesso documento, gli eurodeputati hanno definito le sanzioni russe all’Ue ingiustificate. Questa manica d’idioti pretenderebbe che Mosca se ne restasse ferma mentre si cerca di isolare la sua economia. I sudditi d’Inghilterra sono quelli più accaniti contro il Cremlino e stanno pure spingendo affinché il monopolio della controllata di Stato russa venga contrastato attraverso le azioni dell’autorità antitrust europea, la quale dovrebbe multare per molti miliardi di euro la Gazprom per il suo modus operandi anticoncorrenziale. Si tratta unicamente di scuse per non rispettare i contratti ed indebolire l’influenza dell’azienda sul nostro mercato.Londra però non specifica con cosa e con chi sostituire i rifornimenti di Mosca, e i suoi scarni riferimenti al gas di scisto (da importare dagli Usa? Da trovare in casa? In quanto tempo e in che quantità?) non rassicurano affatto sul futuro energetico di un’Europa messa alle strette dalla crisi economica e dall’imbecillità dei suoi leader che parlano a vanvera ed agiscono a capocchia. E mentre loro studiano la via più breve per tagliarsi le palle da soli pensando di fare un dispetto a Putin, quest’ultimo si è trovato “un’amante cinese”. Fino a quando costoro seduti a fare danni a Bruxelles abuseranno della nostra pazienza e disporranno del nostro avvenire con inesistente senso di responsabilità?(Gianni Petrosillo, “L’Europa antirussa si fa male da sola”, da “Conflitti e Strategie” del 21 settembre 2014).Ora che il governo di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra ha chiuso l’affare scozzese, tra sospetti brogli denunciati anche dalla “Bbc” e l’illusione dei gonnellini di Edimburgo di poter cambiare la loro sorte per via referendaria, Londra può di nuovo dedicarsi a quello che le riesce meglio: fare il cane da guardia Usa in Europa contro gli interessi degli stessi cittadini europei. Come mai un paese che non ha adottato la moneta unica, che non ha aderito a molti trattati comunitari, che misura la propria esistenza in pollici, acri ed once, che guida tenendo la sinistra, che non ha, insomma, nulla in comune col resto dei continentali, abbia così tanta voce in capitolo in Ue è uno di quei misteri del Vecchio Continente che resteranno sempre irrisolvibili, almeno finché non si apriranno gli occhi sui compiti storici di questa comunità tenuta insieme contro la volontà dei popoli e nata per volere di burocrazie politiche corrotte e cricche finanziarie speculatrici asservite al dominio d’oltreatlantico.
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Voto, Scozia indipendente? Londra: scordatevi la sterlina
La Scozia starebbe meglio economicamente se fosse un paese indipendente? Non è così secondo la stragrande maggioranza degli intervistati della terza indagine mensile del Cfm, il “Centre for Macroeconomics” finanziato da università inglesi. Data fatidica: 18 settembre 2014. Referendum sull’indipendenza della Scozia. Gli elettori scozzesi verranno chiamati a rispondere alla seguente domanda: “La Scozia dovrebbe essere un paese indipendente?”. In caso di una vittoria del “Sì”, il piano è che la Scozia diventi indipendente nel marzo 2016: dopo 307 anni non sarebbe più una nazione costitutiva del Regno Unito. Sarebbe un cambiamento fondamentale non solo per il governo della Scozia, ma anche per Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord, che continuerebbero a costituire lo “United Kingdom”. Altri paesi con forti identità regionali, scrive “LaVoce.info”, potrebbero essere influenzati dal referendum scozzese, che potrebbe quindi avere conseguenze sulle relazioni internazionali della Gran Bretagna. A cominciare dalla Spagna, che teme per la perdita della Catalogna.I sondaggi mostrano una consistente maggioranza contraria allo strappo da Londra, ma il vantaggio si è andato riducendo fino al 5%, esclusi i “non so”. «Favorevoli e contrari all’indipendenza della Scozia concordano comunque sul fatto che le questioni economiche sono al centro del referendum», come confermano i quesiti posti dal “Cfm”. Primo tema: i benefici economici dell’indipendenza. La Scozia ha 5,3 milioni di abitanti, l’8,3% della popolazione totale del Regno Unito. Pil pro capite: 20.571 sterline in Scozia, contro le 21.295 sterline nella Gran Bretagna nel suo insieme. Scozia e Regno Unito hanno la medesima produttività del lavoro, mentre la disoccupazione è del 6,4% in Scozia rispetto al 6,8% della media britannica. Il governo scozzese stima il rapporto deficit-Pil al 14%, a fronte di un disavanzo del 7,3% nel Regno Unito. «Se alla Scozia venisse destinato l’84% (una quota “geografica”) delle imposte derivanti dall’estrazione di petrolio e gas del Mare del Nord, si stima che il suo deficit potrebbe scendere all’8,3%».Con il regime fiscale attuale, continua “LaVoce.info”, il governo scozzese è responsabile per il 60% della spesa pubblica totale in Scozia e per il 16% del gettito fiscale. «Se la Scozia diventasse indipendente, il suo governo sarebbe responsabile di tutta la spesa pubblica e delle entrate fiscali, mentre i prestiti e i trasferimenti fiscali transfrontalieri cesserebbero». Il governo scozzese ha detto che accetterà una congrua parte del debito sovrano del Regno Unito e che intende formare una unione monetaria formale con il Regno Unito, ipotesi che però Londra ha escluso. «C’è inevitabilmente più di un’incertezza su quelle che sarebbero le condizioni finali di un accordo tra una Scozia indipendente e il resto del Regno Unito». Il “Cfm” ha quindi invitato gli intervistati a rispondere alla prima domanda «in base alla loro percezione di quali potrebbero essere questi termini», specificando che la voce “condizioni economiche” comprende innanzitutto il reddito pro capite, più altri aspetti del progresso economico.Prima domanda: “Sei d’accordo che la Scozia starebbe meglio in termini economici se fosse un paese indipendente?”. Hanno 28 esperti su 46. «Tre quarti degli intervistati ha detto di non essere d’accordo o di essere fortemente in disaccordo con la proposta». Solo uno dei 28 intervistati è d’accordo o fortemente d’accordo. Se si escludono gli indecisi, il 95% del campione si dichiara preoccupato dal futuro economico della Scozia in caso di secessione. «Le principali preoccupazioni sono sulle prospettive di bilancio di una Scozia indipendente: George Buckley (Deutsche Bank) la descrive come esposta a entrate fiscali più deboli». Pesano le incognite dell’esaurimento delle risorse petrolifere e lo stesso profilo demografico, più fragile di quello britannico. John Driffill (Birkbeck) rileva che «una Scozia indipendente potrebbe sì impostare politiche più adatte alle sue preferenze, ma potrebbe essere comunque svantaggiata dall’indipendenza perché potrebbero emergere problemi di coordinamento su quegli aspetti che invece vanno gestiti congiuntamente fra Scozia e Regno Unito». Sia Michael Wickens (York) sia Martin Ellison (Oxford) dicono che la Scozia «potrebbe pagare oneri finanziari più elevati rispetto al Regno Unito».Diversi intervistati mettono in dubbio la saggezza di disfare molte istituzioni quando non si conosce l’efficacia di quelle che le sostituiranno. David Cobham (Heriot-Watt) si chiede se abbia senso «separare i cittadini di nazioni così integrate». Jagjit Chadha (Kent) segnala i possibili rischi derivanti dalla «possibile mancanza di nuovi equilibri politici ed economici robusti». Michael McMahon (Warwick) pensa che ci sarebbero «notevoli costi di transizione». In parecchi si dicono preoccupati per l’incertezza dei tempi in cui la Scozia indipendente potrebbe rientrare nell’Unione Europea (dalla quale peraltro la stessa Gran Bretagna potrebbe uscire, visto il referendum all’orizzonte per il 2017). Marco Bassetto (Ucl) sostiene che la questione legata al processo di adesione all’Ue è «più importante di quella legata all’unione monetaria», mentre Anche Richard Portes (Lbs) e Nicholas Oulton (Lse) esprimono preoccupazione che «l’incertezza riguardo l’adesione alla Ue potrebbe essere dannosa per l’economia».Nel caso la Scozia diventasse indipendente, il Regno Unito sarebbe costituito da Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord. Tutte le attuali istituzioni dello Stato, a eccezione di quelle situate fisicamente in Scozia, resterebbero britanniche. In primis la Banca d’Inghilterra: soggetta al Parlamento di Londra, rimarrebbe la banca centrale del Regno Unito senza alcuna competenza per una Scozia indipendente, salvo diverso accordo. Le esportazioni dalla Scozia verso il resto del Regno Unito sono stimate intorno ai 48 miliardi di sterline, il 38% del Pil scozzese previsto nel 2012 (esclusi petrolio e gas). Le stime dicono che il resto della Gran Bretagna abbia esportato tra i 50 e i 60 miliardi di sterline in Scozia, circa il 4% del Pil. «Sia la Scozia sia il Regno Unito hanno grandi settori finanziari con il valore degli asset del sistema bancario molte volte più grande dei rispettivi Pil. Se la Scozia indipendente assumesse una quota di debito pubblico proporzionata alla sua quota di popolazione, il rapporto debito-Pil potrebbe arrivare all’86% nel 2016».Gli scozzesi vorrebbero un’unione monetaria? Il governatore della Bank of England, Mark Carney, risponde – in piena consonanza coi politici di Londra – che «le unioni monetarie di successo richiedono unioni fiscali, bancarie e alcune cessione di sovranità nazionale». Nel sondaggio “Cfm”, alla domanda – giusto escludere gli scozzesi dalla sterlina? – hanno risposto in 34, con pareri più equamente divisi ma un prevalente consenso verso la posizione di Londra. Secondo Martin Ellison (Oxford) la recente crisi dell’euro «mostra come sia difficile creare un’unione monetaria senza l’unione politica, fiscale e bancaria». Per David Cobham (Heriot-Watt) i vincoli all’unione monetaria britannica sarebbero difficilmente accettabili per una Scozia indipendente. Luis Garicano (Lse) ritiene che un impegno di non-salvataggio per la Scozia indipendente non sarebbe credibile verso il mondo e il governo scozzese, sicché il Regno Unito «finirebbe per subire il peggio dei due mondi: la mancanza di disciplina di mercato e l’azzardo morale». Altri tecnici ritengono che i contribuenti di ciascuno Stato sovrano potrebbero essere isolati dai rischi dell’altro. Troppa pretattica, però, rischia di inquinare l’opinione pubblica, come denunciano Christopher Pissarides (Lse) e John Driffill (Birkbeck), secondo cui «l’attuale posizione del Regno Unito», contraria all’unione monetaria con gli scozzesi, «è puramente motivata dalla volontà di influenzare il referendum», scoraggiando l’indipendenza della Scozia.La Scozia starebbe meglio economicamente se fosse un paese indipendente? Non è così secondo la stragrande maggioranza degli intervistati della terza indagine mensile del Cfm, il “Centre for Macroeconomics” finanziato da università inglesi. Data fatidica: 18 settembre 2014. Referendum sull’indipendenza della Scozia. Gli elettori scozzesi verranno chiamati a rispondere alla seguente domanda: “La Scozia dovrebbe essere un paese indipendente?”. In caso di una vittoria del “Sì”, il piano è che la Scozia diventi indipendente nel marzo 2016: dopo 307 anni non sarebbe più una nazione costitutiva del Regno Unito. Sarebbe un cambiamento fondamentale non solo per il governo della Scozia, ma anche per Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord, che continuerebbero a costituire lo “United Kingdom”. Altri paesi con forti identità regionali, scrive “LaVoce.info”, potrebbero essere influenzati dal referendum scozzese, che potrebbe quindi avere conseguenze sulle relazioni internazionali della Gran Bretagna. A cominciare dalla Spagna, che teme per la perdita della Catalogna.
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Ledeen, l’amico americano che tiene al guinzaglio il Pd
Se ieri le nostre piazze saltavano in aria perché l’Italia era lo scudo occidentale contro il comunismo sovietico, e si doveva impedire a tutti i costi che il Pci di Berlinguer andasse al governo con Moro, oggi la situazione dello Stivale è persino peggiorata, dato il progressivo esaurimento delle risorse fossili. Questo spiega l’instabilità sul fronte est (lo scontro tra Usa e Russia in Ucraina) e quella sul fronte sud (il massacro di Gaza, motivato anche dall’enorme giacimento di gas, il “Leviatano”, nelle acque palestinesi). «Gli interessi geopolitici del “Gruppo di Georgetown” e del Mossad, quindi, sono identici», sostiene Stefano Ali, mentre «gli interessi economici e militari della destra conservatrice e interventista Usa in Italia sono sensibilmente incrementati», come dimostra l’installazione del Muos a Niscemi o anche l’insistenza sull’acquisto dei disastrosi F-35. «Continuiamo ad essere un paese anomalo, servo della Nato e solo apparentemente democratico, ad opera degli stessi spettri del passato». Da Kissinger a Renzi, passando per Michael Ledeen, indicato come consigliere-ombra del giovane premier per la politica estera.In un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, Ali evoca una lobby come il “Gruppo di Georgetown”, capitanato da quel Kissinger che definì Napolitano «il mio comunista preferito», corretto immediatamente da Napolitano (ex comunista, prego). «E Renzi. Matteo Renzi con la sua rete di amicizie internazionali, attraverso Marco Carrai. Davide Serra (con forti interessi in Israele e che porta in dote i legami con la Morgan Stanley), Marco Bernabè (sempre con Tel Aviv con il fondo Wadi Ventures e il padre, Franco, e le sue dorsali telefoniche Italia-Israele), Yoram Gutgeld (israeliano e suo consulente economico – porta in anche dote l’esperienza McKinsey di cui era socio anziano fino al marzo 2013)». Ma sopratutto Ledeen, cioè «la figura più inquietante», che «si allunga dietro tutte le stragi, tutti i depistaggi che hanno attraversato l’Italia e non solo». L’ammiraglio Fulvio Martini, all’epoca capo del Sismi, lo definì «non gradito all’Italia». Ledeen, racconta Ali, fu «sdoganato da Berlusconi appena giunto al potere», e così «imperversò nelle sue televisioni sotto la forma di “commentatore politico internazionale”».Secondo Ali, Ledeen è stato in grado di «ordinare a Matteo Renzi» la cessione degli aeroporti toscani al magnate argentino Eduardo Eurnekian. Secondo il blogger, «Henry Kissinger, Michael Ledeen e le strutture israeliane sono di nuovo (e da sempre) i padroni della scena». C’è chi dice che il Pd è la nuova Dc? Peggio: il partito fondato da Veltroni «ha ormai da tempo tradito le origini, ma con il binomio Renzi-Napolitano è diventato l’antitesi della storia della sinistra». Secondo Stefano Ali, «è l’erede di tutto quel fronte anticomunista che si asservì e asservì l’Italia alla destra conservatrice Usa di Kissinger e Ledeen e del Mossad». Il “muro di gomma” delle stragi impunite? Frutto del blocco di potere «“garante” della subalternità e della sottomissione dello Stato italiano agli interessi del “Gruppo di Georgetown”». Linea diretta coi rottamatori? «Per le referenze su Federica Mogherini, Renzi dice: “Chiedete a John Kerry”». L’esponente Pd fu «ammessa agli incontri segreti con agenti Usa sin dal 2006», scrive Ali, che illumina il retroterra del presunto potere occulto di ieri e di oggi basandosi anche sul testimonianze come quelle del senatore Giovanni Pellegrino, fino al 2001 presidente della Commissione Stragi, autore del libro-denuncia “Segreto di Stato”.«Ciò che può sembrare intreccio di fantascienza complottistica è solo il frutto di un lavoro certosino fatto dalla Commissione Stragi», avverte Ali. «Teniamolo sempre a mente, anche quando sembra di precipitare nelle allucinazioni ansiogene». Nella sua analisi, Pellegrino parte da una premessa ancora attuale: l’Italia non è mai stata una democrazia “normale”, perché – dal Trattato di Yalta – è stata sempre considerata “marca di frontiera”, al doppio crocevia est-ovest e nord-sud. Sovranità limitata: «Una specie di portaerei Nato nel Mediterraneo». A questo, oltre alla pesante presenza del Vaticano, si aggiunga «una spaccatura verticale interna, determinata da post-fascismo e post-Resistenza», tra italiani «anticomunisti» e italiani «antifascisti». Tutta la storia del dopoguerra, secondo Pellegrino, va interpretata in quest’ottica. E’ per questo che certi fili non si spezzano: l’attuale capogruppo del Pd al Senato, Luigi Zanda, figlio dell’ex capo della polizia e allora giornalista dell’“Espresso”, secondo un report del Sisde risalente al lontano 1984 ebbe «rapporti molto stretti» con Ledeen, dopodiché fu promosso consigliere di amministrazione dell’“Editoriale L’Espresso” e ricoprì l’incarico di addetto stampa di Francesco Cossiga durante il sequestro Moro. Stefano Ali parla di connessioni sotterranee con la P2, che faceva da tramite col super-potere Usa, di cui il Mossad israeliano sarebbe stato un braccio operativo nella stagione della strategia della tensione, fra attentati e depistaggi.Se la stagione della guerra fredda aveva permesso lo sviluppo della cosiddetta “Gladio Rossa”, formata da “Lotta Continua”, “Potere Operaio” e le prime Brigate Rosse, fino cioè all’arresto di Curcio e Franceschini, «con la svolta parlamentare del Pci, l’isolamento di Secchia e soprattutto la morte di Feltrinelli», di fatto l’eversione “rossa” «si dissolse, per confluire nelle Brigate Rosse», che però finirono sotto il controllo di Mario Moretti, scampato alla retata che fruttò la cattura dei fondatori grazie a Silvano Girotto, in arte “Frate Mitra”, un classico infiltrato. Da quel momento, scrive Ali, al di là della facciata “di sinistra” delle Br di Moretti, «connotazione ideologica utilizzata solo per fomentare i militanti», i vertici delle strutture “eversive” passarono – tutti – sotto il controllo «degli ambienti della destra repubblicana Usa». Versione controversa: secondo altri analisti, rimase forte anche l’influenza dell’Urss, attraverso la Stasi, l’intelligence della Germania Est. L’Italia, in ogni caso, era un campo di battaglia. E gli attori – sulla sponda occidentale – sono ormai noti. La notizia? Un vecchio arnese come Ledeen, molto «vicino» a Zanda in quegli anni secondo il Sisde, è un super-consigliere di Renzi.«Mossad e destra repubblicana Usa – continua Ali – erano già riusciti a instaurare (in Grecia, Spagna e Portogallo) regimi fascisti». Le stragi italiane, fino al 1969 dovevano quindi servire «affinché, nel dicembre del 1969, Mariano Rumor dichiarasse lo “stato d’emergenza” che ne consentisse l’instaurazione anche in Italia». Rumor, però, non dichiarò lo stato d’emergenza. E il tentato “golpe Borghese” del 1970 fu l’ultimo tentativo, anche quello andato a vuoto. «Da notare che già dagli anni ‘60 la P2 di Gelli era molto attiva: con la sua rete di iscritti soprattutto nelle forze armate e nei servizi segreti, era nelle condizioni di garantire tutta la copertura necessaria». Secondo Ali, da vari documenti risulta che Kissinger e Ledeen «fossero iscritti alla P2 nel “Comitato di Montecarlo” (o “Superloggia”)», un “braccio” della P2 «che si occupava di traffico internazionale di armi e al quale venne fatta risalire in modo diretto l’organizzazione della strage di Bologna». Se Gelli era «solo una sorta di segretario», significa che «le “menti” stavano altrove». Il vero leader? Rimasto nell’ombra, fino ad oggi. In compenso, conclude Ali, molti nomi di allora sono rimasti al loro posto. E qualcuno, oggi, è vicinissimo al governo Renzi. Pronti a tutto, nel caso gli eventi precipitassero in Ucraina con l’offensiva Usa contro la Russia di Putin?Se ieri le nostre piazze saltavano in aria perché l’Italia era lo scudo occidentale contro il comunismo sovietico, e si doveva impedire a tutti i costi che il Pci di Berlinguer andasse al governo con Moro, oggi la situazione dello Stivale è persino peggiorata, dato il progressivo esaurimento delle risorse fossili. Questo spiega l’instabilità sul fronte est (lo scontro tra Usa e Russia in Ucraina) e quella sul fronte sud (il massacro di Gaza, motivato anche dall’enorme giacimento di gas, il “Leviatano”, nelle acque palestinesi). «Gli interessi geopolitici del “Gruppo di Georgetown” e del Mossad, quindi, sono identici», sostiene Stefano Ali, mentre «gli interessi economici e militari della destra conservatrice e interventista Usa in Italia sono sensibilmente incrementati», come dimostra l’installazione del Muos a Niscemi o anche l’insistenza sull’acquisto dei disastrosi F-35. «Continuiamo ad essere un paese anomalo, servo della Nato e solo apparentemente democratico, ad opera degli stessi spettri del passato». Da Kissinger a Renzi, passando per Michael Ledeen, indicato come consigliere-ombra del giovane premier per la politica estera.
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Anche Wall Street scommette sulla Terza Guerra Mondiale
Della crisi ucraina ho già scritto a più riprese. La prima cosa che mi colpì, nel momento in cui Viktor Yanukovic fu rovesciato da un colpo di stato plateale, appoggiato patentemente dagli Stati Uniti (meglio dire da loro promosso) con l’attiva partecipazione della Polonia, della Lituania e dell’Estonia, e dei fantocci al potere a Bruxelles, fu la sua apparente inutilità. Perché mettere in atto un golpe se Yanukovic poteva essere tranquillamente tolto di mezzo tra un anno con regolari elezioni? E altre domande portavano tutte a conclusioni analoghe. Perché rovesciare il tavolo quando l’Ucraina era già nelle mani degli americani, completamente – Yanukovic o non Yanukovic – da diversi anni? Sicuramente dai tempi della cosiddetta “rivoluzione arancione” di Yushenko-Timoshenko, che consegnarono nelle mani della Cia gli ultimi rimasugli di sovranità nazionale, dopo quelli svenduti dai precedenti presidenti dell’Ucraina “indipendente”, Kravchuk e Kuchma?Perché infine rovesciare Yanukovic quando lo stesso quarto e ultimo presidente dell’Ucraina aveva già venduto il Donbass alla Chevron e alla Shell? La bellezza di quasi 8.000 chilometri quadrati di territorio per la durata di 50 anni, un accordo segreto in gran parte valutato 10 miliardi di dollari, alla ricerca del gas da scisti bituminosi che avrebbe liberato “per sempre” l’Ucraina dalla dipendenza energetica dall’odiata Russia. Insomma: Yanukovic – presentato come «l’uomo di Mosca» da tutti i media occidentali – non era poi quel grande amico di Putin. Perché farlo fuori così brutalmente? Che bisogno c’era? Solo perché non aveva firmato a Vilnius il documento giugulatorio di “associazione” all’Unione Europea? Ma fino al novembre dell’anno precedente Viktor Yanukovic aveva negoziato, lasciando sperare in un successo europeo totale. Il documento era già pronto, anche se in parte assai segreto. Bastava aspettare qualche mese e sarebbe stato imposto, con le buone o con le cattive.No, tutti questi interrogativi non avevano risposte adeguate. Doveva esserci qualcos’altro. La fretta con cui Washington aveva premuto, e Varsavia aveva agito ai suoi ordini, indicava qualche altra impellente necessità. A me fu subito chiaro che il golpe – non a caso un golpe con le stigmate naziste così visibili – era diretto non contro Yanukovic, pedina di nessun peso, ma contro la Russia. I neocon, tramite la esecutrice Victoria Nuland, volevano una crisi di valenza internazionale, se non addirittura mondiale. Ma perché la fretta? Perché accelerare lo scontro e portare la Nato praticamente sul portone del Cremlino? Era, in fondo, uno scenario che io stesso avevo previsto sarebbe accaduto. Ma assistevo a un’improvvisa e drammatica accelerazione. Doveva esserci qualcos’altro a spiegare la fretta. E le dimensioni della rottura che si stava creando. Non si trattava di una crisi regionale, non un episodio passeggero. Le potenziali ripercussioni erano evidenti: uno scontro di portata non minore di quello della crisi dei missili a Cuba del 1962.Bisognava spiegare il senso e le ragioni dell’accelerazione. Io non sono un economista (lo ripeto sempre, per non eccitare le rimostranze degli scopritori dell’aria calda). Non sono neanche un esperto dei sotterfugi della finanza mondiale. Credo poco o nulla ai numeri che arrivano da quella parte, convinto ormai da tempo che sono in gran parte falsi o comunque molto manipolati. Ma tutto il nervosismo che da tempo leggo nei commenti di coloro che dicono d’intendersene (anche perché su quei trucchi ci hanno vissuto e ci vivono), mi ha fatto pensare che qualcosa non funzionava nei ragionamenti sopra esposti. Così mi sono trovato, con qualche sorpresa, in buona compagnia a parlare di “inizio della Terza Guerra Mondiale”. Devo prima di tutto esprimere i miei ringraziamenti a Roberto Savio, ideatore di quel fondamentale bollettino che si chiama “Other News”, con sottotitolo esplicativo: “L’informazione che i mercati eliminano”. Il primo di agosto, “Other News” ha pubblicato una rassegna che riprende numerosi spunti dal “Washington’s Blog”, così intitolata: “Un gruppo di esperti finanziari ai massimi livelli afferma che la Terza Guerra Mondiale è in arrivo, a meno che non la fermiamo”. Saccheggerò questa rassegna, che mi pare estremamente istruttiva.In primo luogo i nomi sono effettivamente grossi calibri, a giudicare dalla frequenza con cui i mercati li citano. Prendiamo per esempio Nouriel Rubini, che a gennaio di quest’anno twittava da Davos: «Molti oratori qui paragonano il 2014 con il 1914, quando la Prima Guerra Mondiale esplose e nessuno se l’aspettava. Siamo di fronte a un cigno nero nella forma di una guerra tra Cina e Giappone?» Fuochino. Ma gli fa eco Kile Bass, multimiliardario manager di hedge funds, che prima cita un «influente analista cinese» e poi lo stesso premier giapponese Abe, che «non escludono un confronto militare tra Cina e Giappone». Aggiungendo previsioni molto ben descritte, che in bocca a un gestore finanziario di quel calibro non possono essere trascurate. «Miliardi di dollari di depositi bancari saranno ristrutturati – ci informa Kile Bass – e milioni di prudenti risparmiatori finanziari perderanno grandi percentuali del loro reale potere d’acquisto esattamente nel momento sbagliato delle loro vite [sempre che ci sia un momento giusto per perdere i propri averi, ndr]. Neanche questa volta il mondo finirà, ma la struttura sociale delle nazioni influenti sarà posta in acuta tensione e in qualche caso fatta a pezzi. (…) Noi crediamo che la guerra sia un’inevitabile conseguenza dell’attuale situazione economica globale».Gli fa eco l’ex capo dell’Office for Management and Budget ai tempi di Reagan, David Stockman. Anche per lui lo scontro in atto tra America e Russia condurrà alla terza guerra mondiale. Un po’ più generico sulle modalità, ma convinto anche lui che si sta andando verso «una grossa guerra» (“a major war”) è l’ex analista tecnico di Goldman Sachs, Charles Nenner, che, ora in proprio, vanta tra i suoi clienti numerosi importanti hedge funds, banche, e un certo numero di ricchissimi investitori internazionali. Altrettanto, con qualche variazione, pensano investitori americani di primo piano come James Dines e Marc Faber. Quest’ultimo afferma apertamente che il governo americano comincerà nuove guerre in risposta alla crisi economica in atto. «La prossima cosa che il governo farà per distrarre l’attenzione della gente dalle cattive condizioni economiche – scrive Marc Faber – sarà di cominciare una qualche guerra da qualche parte».Tutto chiaro, ma allora come mai i giornali e le tv ci dicono che l’America va fortissimo? Pochi giorni fa Martin Armstrong – un gestore di fondi d’investimenti sovrani multimiliardari – dice la stessa cosa: «Occorre distrarre la gente dall’imminente declino economico». Gli ultimi due pezzi che ha scritto li ha intitolati così: “Andremo in guerra contro la Russia” e “Prepariamoci alla terza guerra mondiale”. Non è ben chiaro se tutti questi profeti stiano enunciando prognosi sincere o siano semplicemente festeggiando in anticipo i futuri successi economico-finanziari che si aspettano dalla guerra, essendo evidente, da sempre, che le guerre ingrassano prima di tutto i banchieri e poi i produttori di armi. Ma l’insistenza con cui il tema viene sollevato indica comunque che il puzzo di bruciato tutti costoro lo sentono in anticipo.Altri, per esempio la presidentessa del Brasile, Dilma Rousseff, osservano che il mondo è attraversato da una «guerra delle valute» che sta diventando globale, cioè di tutti contro tutti. Da non dimenticare che la seconda guerra mondiale arrivò dopo una serie violenta di svalutazioni competitive. Sta accadendo ora la stessa cosa, quando le nazioni svalutano per rendere più competitive le loro merci e per incentivare le esportazioni. E molti si stanno accorgendo che la nuova banca, creata dal Brics, con capitale iniziale di 100 miliardi di dollari, basata in Cina, costituisce una novità impressionante nel panorama globale, dove un numero crescente di transazioni avviene in yuan, in rubli, invece che in dollari Usa. Come scrive Jim Rickards – che nel 2009 partecipò ai primi “giochi di guerra finanziari” organizzati dal Pentagono – c’è il rischio che gli Stati Uniti si trovino «trascinati» in «guerre asimmetriche» di valute, in grado di accrescere le incertezze globali. È evidente che Rickards sta dalla parte americana. Ma, se il Pentagono – e non la Federal Reserve – organizza questo tipo di “giochi”, vuol dire che ci siamo già dentro fino al collo e che il loro carattere militare è fuori discussione.Del resto (questa volta parla il multimiliardario Hugo Salinas Price) «sono molti a chiedersi quali siano state le ragioni vere che hanno portato all’eliminazione di Gheddafi. Egli stava pianificando una valuta pan-africana. La stessa cosa accadde a Saddam Hussein. Gli Stati Uniti non tollerano alcun’altra solida valuta in grado di competere con il dollaro». Altri mettono il dito sulla crescente scarsità di risorse, soprattutto energetiche. Altri ancora guardano alla Cina come a un avversario bisbetico e sempre più incontrollabile – forse il protagonista di quella guerra asimmetrica citata da Jim Rickards. Gerald Celente, autore di accurate previsioni finanziarie e geopolitiche da molti anni, va anche lui seccamente alla conclusione: «Una terza guerra mondiale comincerà presto». Jim Rogers, un altro investitore internazionale miliardario, punta gli occhi sull’Europa: «Se si continua a salvare uno Stato dietro l’altro si finirà in un’altra guerra mondiale». Dunque continuiamo a strozzare i popoli europei, con l’obiettivo di evitare la guerra. Un pacifismo molto sospetto, ma comunque allarmato. Ovviamente sarà utile guardarsi da certi “pacifisti”. Ma questa rassegna è utile per capire che l’allarme è in aumento.La Cina, senza fare troppo rumore, fa provvista di risorse, energetiche e territoriali, solo che invece di mandare le proprie cannoniere (non è il tempo), quelle risorse se le compra, con i denari del debito americano. Putin deve fronteggiare la prima offensiva e non ha tempo da perdere. Tra l’altro un tribunale olandese, senza alcuna autorità o potere, ha decretato che la Russia dovrà pagare 50 miliardi di dollari, più gl’interessi, alla Yukos, cioè a quel bandito di Mikhail Khodorkovskij che la Russia ha scarcerato qualche mese fa con un gesto di distensione verso l’Europa (si noti che il tribunale sedeva nello stesso paese che aveva avuto il più alto numero di vittime nell’abbattimento del Boeing delle linee aeree malaysiane). Sarà stato un caso? Comunque, uno dei più vicini consiglieri di Putin, di fronte alla domanda “cosa farà la Russia di fronte a quella sentenza?”, ha risposto stringendosi nelle spalle: «C’è una guerra alle porte in Europa. Lei pensa realmente che una tale decisione abbia qualche importanza?».Giuridicamente non ce l’ha, ma sarà usata dai centri di comando dell’Occidente per colpire i beni russi all’estero, per sequestrare e congelare conti bancari, proprietà azionarie. Ecco una guerra asimmetrica appena iniziata senza essere stata nemmeno dichiarata. Un influente settimanale americano ha dedicato la sua copertina a Vladimir Putin, con questo commento: “Il Paria”. Un titolo che è, invece, una dichiarazione di guerra. Solo che non è stata pronunciata dal Dipartimento di Stato, bensì dal “ministero della propaganda”, cioè dai media occidentali. È stato Paul Craig Roberts a usare questa definizione in un articolo di qualche giorno fa. Chi è Paul Craig Roberts? È stato Assistente Segretario al Tesoro durante la presidenza Reagan, ex editore del “Wall Street Journal”, considerato dal “who’s who” americano come uno dei mille pensatori politici più influenti del mondo. L’articolo era intitolato: “La guerra sta arrivando” (“War is coming”).(Giulietto Chiesa, “Chi parla di Terza Guerra Mondiale?”, da “Megachip” del 6 agosto 2014).Della crisi ucraina ho già scritto a più riprese. La prima cosa che mi colpì, nel momento in cui Viktor Yanukovic fu rovesciato da un colpo di stato plateale, appoggiato patentemente dagli Stati Uniti (meglio dire da loro promosso) con l’attiva partecipazione della Polonia, della Lituania e dell’Estonia, e dei fantocci al potere a Bruxelles, fu la sua apparente inutilità. Perché mettere in atto un golpe se Yanukovic poteva essere tranquillamente tolto di mezzo tra un anno con regolari elezioni? E altre domande portavano tutte a conclusioni analoghe. Perché rovesciare il tavolo quando l’Ucraina era già nelle mani degli americani, completamente – Yanukovic o non Yanukovic – da diversi anni? Sicuramente dai tempi della cosiddetta “rivoluzione arancione” di Yushenko-Tymoshenko, che consegnarono nelle mani della Cia gli ultimi rimasugli di sovranità nazionale, dopo quelli svenduti dai precedenti presidenti dell’Ucraina “indipendente”, Kravchuk e Kuchma?