Archivio del Tag ‘Gianni De Michelis’
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Ecco chi costrinse Craxi a morire senza poter essere curato
Craxi aveva voluto politicizzare i processi, anziché rallentarli con tattiche dilatorie, e le sentenze definitive fioccarono: alla fine del 1999 sono già due (per corruzione e finanziamento illecito al Psi) e altri quattro erano in corso. Il 23 ottobre di quell’anno il Tg2 delle 13 annuncia l’assoluzione di Giulio Andreotti nel processo di Palermo. Come raccontò il figlio Bobo, nel padre c’era «un misto di soddisfazione e di stupore». In quel momento era come se avesse capito che alla fine lui, e soltanto lui, sarebbe rimasto incastrato. A sera disse: «Non sto per niente bene». L’indomani Craxi viene ricoverato nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Tunisi. La diagnosi è molto cruda. Oltre al diabete che ha attaccato la gamba (si era arrivati a ipotizzare l’amputazione) e oltre ai seri problemi di cuore, si scopre un tumore al rene. Da quel momento l’ultimo scorcio della vita di Bettino Craxi si consuma attorno a due angosce intrecciate: la malattia e il possibile ritorno in Italia. Per il complicarsi della malattia si apre un’inevitabile diatriba su dove e su come operare. Si pensa alla Francia, ma Manuel Valls, portavoce del governo francese guidato dal socialista Lionel Jospin, spegne ogni speranza: «L’arrivo di Craxi in Francia non è desiderabile». Per l’ex leader resta il problema: curarsi decentemente ma anche tornare una volta per sempre nel suo paese.Si ragiona, ad Hammamet, a Roma e a Milano, attorno a tre strumenti: grazia, amnistia, salvacondotto umanitario. Per un’amnistia generalizzata non ci sono le condizioni politiche, la famiglia stessa se ne rende conto: Tangentopoli è ancora lì e le reazioni dell’opinione pubblica sarebbero molto ostili, controproducenti per tutti: per l’etica collettiva e alla fin fine per lo stesso Craxi. Restano il salvacondotto e la grazia. Stefania Craxi chiede a Giuliano Ferrara di sondare il presidente del Consiglio Massimo D’Alema. La reazione non si fa attendere: ad appena 72 ore dalla sentenza Andreotti, Palazzo Chigi fa diffondere una nota che informa come il governo non abbia «certamente nulla in contrario» a un «atto umanitario» che consenta a Bettino Craxi di tornare in Italia per curarsi. Si aggiunge che non spetta al governo «decidere in materia di sospensione o differimento della pena per chi sia stato condannato con sentenze passate in giudicato», perché questa facoltà spetta alla magistratura. Una presa di posizione che ha un nesso diretto con quanto dichiarato in quelle stesse ore dal procuratore capo di Milano Gerardo D’Ambrosio, che aveva annunciato il parere favorevole della Procura a un differimento della pena per motivi di salute.A quel punto, siamo alla fine di settembre, si apre uno spiraglio sul quale lavoreranno per tre mesi gli amici e i figli di Craxi. Per trasformare quello spiraglio in un varco servivano atti di volontà, strappi, gesti impopolari. E bisognava convivere con l’irriducibile orgoglio di Bettino Craxi, che non era un malato qualunque: era un uomo pubblico che si sentiva vittima di una persecuzione politica e giudiziaria e dunque, al suo eventuale ritorno in Italia, non intendeva sottoporsi ad uno stato di arresto, seppur temporaneo. Il presidente del Consiglio D’Alema, lontano dai riflettori, tratta con la Procura e la risposta del procuratore Borrelli è chiara ed è la stessa contenuta in una lettera a Don Verzé, dominus del San Raffaele: «Il rientro volontario dell’onorevole Craxi comporterebbe il suo assoggettamento ai titoli di restrizione della libertà formatisi contro di lui». Diciotto anni dopo sarà D’Alema stesso a confermare una trattativa in una intervista del 2017 al “Corriere della Sera”: «Negoziai perché non lo arrestassero. Non fu possibile».In quell’autunno del 1999 ci si muove a tentoni. Per capire se sia percorribile la strada di una grazia presidenziale viene mobilitato Giuliano Vassalli, che chiarisce come stiano le cose: la grazia risolverebbe il problema solo a metà, perché rimuoverebbe gli effetti delle due sentenze che erano già passate in giudicato, ma senza cancellare i procedimenti ancora in corso, per i quali pendevano ordini di cattura non eseguiti. È in quel momento che si accarezza una suggestione, l’unica che avrebbe potuto concretizzarsi: spingere per la grazia, atto simbolico fortissimo, e su quella “costruire” una sospensione della pena per i processi ancora in corso. Per la grazia si muove Don Verzè, che scrive al capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi: «Craxi è condannato a morte vicina», e privarlo della possibilità di tornare in Italia «equivale a spingerlo nella fossa». Ma su questa fragile ipotesi irrompe Silvio Berlusconi. Il 19 novembre, davanti alla platea del congresso dei socialisti di Gianni De Michelis, pronuncia queste parole: «Credo che il capo dello Stato, che noi abbiamo contribuito a eleggere, possa mettere in campo ciò che la Costituzione assegna a lui, affinché questa vicenda possa risolversi presto. Altrimenti rimarrà una macchia sulla storia d’Italia, ma per fortuna non sulla nostra».Bobo Craxi capisce che Berlusconi l’ha fatta grossa: «La grazia non la concede il capo dell’opposizione». Ma la frittata, come suol dirsi, è fatta. E infatti Ciampi, tirato nella mischia, è costretto ad esporsi con una nota: «Ferma restando l’attenzione agli aspetti umanitari della vicenda, la posizione del Capo dello Stato impone il rispetto pieno, formale e sostanziale, delle leggi della Repubblica e delle procedure che le applicano». Nel frattempo c’è da allungare la vita a Craxi. I famigliari, costretti a restare in Tunisia, pensano di utilizzare una struttura privata, ma c’è un ostacolo: non si possono offendere i governanti tunisini, che offrono l’ospedale militare, che non garantisce standard accettabili. I medici italiani del San Raffaele di Milano, che inizialmente avevano resistito all’ipotesi di intervenire in condizioni approssimative, alla fine accettano: il 30 novembre l’intervento viene realizzato in condizioni di fortuna – una lampada è tenuta a mano da un medico – ma il paziente ne esce vivo. E anche molto provato, in particolare nell’apparato cardiaco, che secondo alcuni avrebbe dovuto essere risanato prima. Craxi è provatissimo. Per alleviarne le ultime sofferenze, non resta che farlo rientrare in Italia.Nelle ultime settimane del 1999 in Italia si lavora ad un’ultima ipotesi, che sarebbe rimasta sconosciuta anche in seguito: Craxi sarebbe dovuto rientrare a Fiumicino, di lì sarebbe stato trasportato nel carcere di Viterbo (appositamente scelto perché lontano dai riflettori), restando il tempo necessario agli arresti in infermeria, uno o due giorni, per accettare una domanda per i domiciliari. A quel punto sarebbe stato trasferito al San Raffaele di Milano. Conferma Marco Minniti, allora braccio destro di D’Alema: «Sì, esisteva un’ipotesi di quel tipo. Tutti i margini furono esplorati senza confliggere con l’ordinamento del paese». Quel corridoio non si aprì, ma fu proprio Craxi – pur non conoscendo nei dettagli il piano che era stato preparato – a dire no ad un rientro “condizionato”. Uno degli ultimi giorni dell’anno, con una voce flebile, telefonò a Donato Robilotta, un compagno socialista che lavorava a Palazzo Chigi, e gli disse: «Sono Bettino, dillo a quelli là, che io in Italia ci torno soltanto da uomo libero… Piuttosto muoio qui, in Tunisia…». E in quel no finale c’è tutto Craxi. Piaccia o no, un uomo tutto d’un pezzo. Pronto a mettere in gioco la sua stessa vita, pur di non subire l’umiliazione di una carcerazione, anche di una sola notte, su mandato di quei magistrati di cui non riconosceva l’autorità. Protagonisti, a suo avviso, di un «complotto giudiziario».Ma rinunciando a qualsiasi via d’uscita, Craxi era pienamente consapevole a cosa stesse andando incontro. Francesco Cossiga era andato a trovarlo il 18 dicembre e da lui Bettino si era congedato al solito modo, facendo finta di avere altro da fare. Ma quella volta, con le forze che gli restavano, mentre l’altro stava uscendo, richiamò ad alta voce l’ospite oramai sulla porta: «Francesco!». Quello rientrò e Craxi disse: «Tu lo sai, vero, che questa è l’ultima volta che ci vediamo…». Era vero. Il 19 gennaio del 2000, verso le 5 della sera, la figlia Stefania, inquietata dal prolungarsi del pisolino pomeridiano del padre, entra in stanza e lo trova senza vita, con un grosso ematoma all’altezza del cuore e una smorfia di dolore sul viso, angosciosa e indimenticabile per tutti quelli che la videro anche nelle ore successive, perché risultò irriducibile per chi ricompose la salma. Era stata «una morte amarissima, senza riscatto, profondamente disperata», come scrisse Giuliano Ferrara. Il presidente del Consiglio Massimo D’Alema offrì i funerali di Stato, la famiglia li rifiutò; e dal giorno del funerale nella cattedrale di Tunisi, Bettino Craxi riposa nel piccolo cimitero cristiano di Hammamet, in una tomba scavata nella sabbia e dominata da un eloquente epitaffio: «La mia libertà equivale alla mia vita».(Estratto da “Controvento”, libro di Fabio Martini su Craxi, uscito all’inizio del 2020 e pubblicato in anteprima dall’Huffington Post l’8 gennaio 2020. Il libro: Fabio Martini, “Controvento, La vera storia di Bettino Craxi”, Rubbettino, 15 euro).Craxi aveva voluto politicizzare i processi, anziché rallentarli con tattiche dilatorie, e le sentenze definitive fioccarono: alla fine del 1999 sono già due (per corruzione e finanziamento illecito al Psi) e altri quattro erano in corso. Il 23 ottobre di quell’anno il Tg2 delle 13 annuncia l’assoluzione di Giulio Andreotti nel processo di Palermo. Come raccontò il figlio Bobo, nel padre c’era «un misto di soddisfazione e di stupore». In quel momento era come se avesse capito che alla fine lui, e soltanto lui, sarebbe rimasto incastrato. A sera disse: «Non sto per niente bene». L’indomani Craxi viene ricoverato nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Tunisi. La diagnosi è molto cruda. Oltre al diabete che ha attaccato la gamba (si era arrivati a ipotizzare l’amputazione) e oltre ai seri problemi di cuore, si scopre un tumore al rene. Da quel momento l’ultimo scorcio della vita di Bettino Craxi si consuma attorno a due angosce intrecciate: la malattia e il possibile ritorno in Italia. Per il complicarsi della malattia si apre un’inevitabile diatriba su dove e su come operare. Si pensa alla Francia, ma Manuel Valls, portavoce del governo francese guidato dal socialista Lionel Jospin, spegne ogni speranza: «L’arrivo di Craxi in Francia non è desiderabile». Per l’ex leader resta il problema: curarsi decentemente ma anche tornare una volta per sempre nel suo paese.
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Davide Cervia, “sequestro di Stato”: condannato il ministero
Una donna senza più il marito, due figli senza più il padre. Scomparso. Catturato da sconosciuti, una sera, davanti al cancello di casa, nella campagna di Velletri. Che fine ha fatto? E’ stato “venduto” a paesi come la Libia, a cui l’Italia non avrebbe potuto né dovuto fornire armamenti? E’ stato poi ucciso, per cancellare la prova vivente di un affare inconfessabile? Chi sa, non parla: da quasi 28 anni. Quell’uomo? Preziosissimo. Un super-militare, con competenze Nato top secret: guerra elettronica. E’ ancora vivo? Invocano notizie la moglie, la figlia. E’ passato un quarto di secolo, e i militari non parlano. Un regista, Francesco Del Grosso, dopo 24 anni di silenzio decide di fare un film su quella storia, “Fuoco amico”. Ma alla vigilia delle riprese salta in aria la casa, esplode una finestra. Solo per miracolo la ragazza, Erika, non viene investita dall’esplosione. Lei e sua madre devono smetterla di chiedere dov’è finito quell’uomo, l’enfant prodige della marina militare italiana. Sapeva rendere invulnerabile una nave da guerra. Era il mago dei missili Teseo-Otomat, che colpiscono a 180 chilometri di distanza. Era stato il migliore, al corso d’élite frequentato a Taranto. Il miglior tecnico, imbarcato sulla miglior nave da battaglia italiana, la fregata Maestrale. Una sera è stato catturato. Sparito, inghiottito nel nulla. Lo Stato? Ha ostacolato la ricerca della verità. Lo afferma, oggi, la sentenza di una giudice, Maria Rosaria Covelli. Ma la verità è ancora lontana: che fine ha fatto Davide Cervia?«Nemmeno il “Fatto Quotidiano” ha voluto dare la notizia della sentenza: nemmeno Marco Travaglio, a cui ho scritto», dice la moglie di Davide, Marisa Gentile, a colloquio con Stefania Nicoletti e Paolo Franceschetti a “Forme d’Onda”, trasmissione web-radio. «Viviamo un assedio infinito: lettere minatorie, pedinamenti, telefonate mute, anonimi che dicono “sappiamo dov’è tuo marito”. Ogni volta che andiamo a parlare nelle scuole di Velletri, poi ci ritroviamo le gomme dell’auto tagliate. Un funzionario del ministero dell’interno arrivò a offrirmi un miliardo di lire purché lasciassimo perdere. Adesso, il 23 gennaio, il tribunale di Roma ha condannato il ministero della difesa. Il danno, secondo i nostri avvocati, ammontava a 5 milioni di euro. Ma abbiamo preteso solo un risarcimento simbolico: un euro. E comunque l’avvocatura dello Stato ci ha costretto a firmare la rinuncia ad altre cause civili, altrimenti avrebbero chiesto la prescrizione, che sarebbe stata la pietra tombale su questa storia». L’ultima sentenza è decisiva, come quelle su Ustica: sancisce la violazione, da parte dello Stato, del diritto alla verità. Lo sostengono gli avvocati, Alfredo Galasso e Licia D’Amico. L’ammiraglio a riposo Falco Accame, vicino alla famiglia, auspica che il coraggioso verdetto del tribunale di Roma possa rompere il silenzio che oscura le “morti bianche” di tanti militari uccisi dall’uranio impoverito nelle missioni all’estero. Secondo Franceschetti, domani potrebbero “svegliarsi” anche i familiari di altre vittime, quelle delle troppe stragi impunite.Di origine ligure, Davide Cervia si era trasferito a Velletri dopo aver lasciato la marina. E’ scomparso il 12 settembre 1990: assalito mentre rincasava e caricato a forza su un’auto verde. Lo Stato ha impiegato anni, per ammettere che fosse stato rapito: si fece credere che, semplicemente, avesse abbandonato volontariamente la famiglia. Poi la marina militare ha negato a lungo che fosse un tecnico altamente specializzato: il suo vero curriculum è saltato fuori soltanto dopo che i familiari hanno occupato fisicamente il ministero. Adesso, dopo quasi 28 anni, il tribunale romano condanna i militari: hanno ostacolato il diritto alla verità. Quale verità? Non è dato saperlo. Tanti inidizi portano alla Libia, che nel ‘90 era sotto embargo e immaginava di essere minacciata, alla vigilia della prima Guerra del Golfo. Due operai italiani sostengono di aver visto Davide Cervia quattro anni dopo, vivo e vegeto, in una base missilistica vicino a Sebha. Per anni, racconta il giornalista investigativo Gianni Lannes sul blog “Su la testa”, la marina militare negò che Davide Cervia avesse la qualifica di esperto “Ge”, guerra elettronica, fino al giorno in cui, appunto, «la moglie Marisa e il suocero Alberto occuparono, insieme al “Comitato per la verità su Davide Cervia”, gli uffici dall’allora ministro della difesa italiano Martino».Dopo otto ore di trattative serrate e tese, ricorda Lannes, «il vero foglio matricolare venne fuori: la specializzazione che la marina aveva sempre negato era lì, nero su bianco». Non si trattava di un attestato qualsiasi: comprovava «un addestramento di altissimo livello, che poche decine di tecnici avevano». Per la burocrazia della marina, Cervia era un tecnico Elt/Ete/Ge, specializzato nei dispositivi di disturbo dei radar nemici. Quella sigla rendeva l’ex sergente della marina scomparso «un pezzo prezioso che qualcuno aveva “venduto”, includendolo in uno dei sofisticati sistemi d’arma prodotti in Italia». E Davide non era uno qualsiasi, aggiunge Lannes, tanto che sul suo dossier gli ufficiali scrissero: «Ha contribuito in maniera fattiva alla esecuzione delle manutenzioni preventive e correttive sugli apparati “Ge”, facendosi apprezzare per l’elevata preparazione professionale, l’interesse e la dedizione al servizio». Per Gianni Lannes si è trattato di «un sequestro di Stato», sostanzialmente «favorito da agenti del Sismi, allora guidato dall’ammiraglio Fulvio Martini». Lo stesso Sismi che il giornalista considera implicato nella scomparsa dei giornalisti Italo Toni e Graziella De Palo (Libano, 1980), nonché nell’eliminazione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin (Somalia, 1994), e dei due sottufficiali piloti della Guardia di Finanza, Gianfranco Deriu e Fabrizio Sedda, caduti in Sardegna nel 1994 a bordo dell’elicottero “Volpe 132” (a loro volta, dopo indagini su armi-fantasma?).A quel tempo, ricorda Lannes, il capo di stato maggiore della marina era l’ammiraglio di squadra Filippo Ruggero. «Per la cronaca incombeva in quell’anno il governo Andreotti: alla difesa c’era Martinazzoli, mentre agli esteri figurava De Michelis, con l’apporto di Gava agli interni». Proprio la qualifica di specialista Ete/Ge, dice Lannes, «è la causa del rapimento di Davide Cervia, “venduto” a sua insaputa come tecnico esperto di guerra elettronica, in seguito al divieto delle Nazioni Unite di commerciare armi o addestrare militari nei paesi in guerra». In quel periodo, rammenta il suocero di Davide, Alberto Gentile, era vietato vendere armi alla Libia di Gheddafi. Ma, negli anni ‘80, i libici avevano riammodernato nei cantieri di Genova (su una fregata e due corvette) le stesse apparecchiature di cui era esperto Davide: Otomat, Aspide e Albatros. Nel dicembre del ‘96 la famiglia incontrò il sottosegretario Rino Serri, racconta Alberto Gentile in un’intensa ricostruzione realizzata da Marcello Michelini ed Enrico Chiarioni per “Crescere Informandosi”, trasmessa da “Pandora Tv”. «Davanti a testimoni – afferma il suocero di Davide – Serri raccontò che stavano facendo trattative con la Libia “per poter liberare Davide”, ma disse che non si poteva assolutamente parlare di “rapimento”».Nato a Sanremo nel ‘59, Davide Cervia si era arruolato volotario in marina il 5 settembre 1978, diciannovenne, con ferma di sei anni. A Taranto risultò il migliore del suo corso e venne qualificato specialista Ete/Ge, tecnico elettronico per la guerra hi-tech. All’epoca, tra tutti gli “Elt 78/B” fu l’unico a ottenere quella qualifica, ricorda Lannes. Avviato al Centro Addestramento Aeronavale per la specializzazione pre-imbarco, sempre a Taranto, venne poi inserito nell’equipaggio di quella che all’epoca era la più moderna nave italiana, la fregata Maestrale, «acquisendo una specializzazione preziosissima». Si congedò dalla marina il 1° gennaio 1984 e quattro anni dopo si trasferì a Velletri, dove iniziò a lavorare nella società Enertecnel Sud, con sede presso Ariccia. Davide Cervia, riassume Lannes, era dunque un tecnico della guerra elettronica, specializzato nei sistemi di arma Teseo-Otomat che l’industria militare italiana «aveva venduto fin dagli anni ‘70 ai tanti paesi-canaglia del mondo, Libia compresa». Gli elementi che collegano la sua scomparsa alla Libia sono molteplici: «L’assistenza militare del regime di Gheddafi è sempre stata una nostra specialità», scrive Lannes. Un tecnico come Cervia «era a dir poco preziosissimo», per gestire le attrezzature Teseo-Otomat installate su navi libiche a fine anni ‘80.Secondo il portale giuridico “Altalex”, il verdetto ora emesso dall’autorità giudiziaria romana rappresenta «una sentenza molto importante», perché, «oltre a dar ragione nella sostanza alla famiglia dello scomparso, sul fatto che si tratti di rapimento e non di allontanamento volontario, pone alcuni importanti principi di diritto, già affermati con la sentenza che riguarda il caso Ustica». E cioè: «Il diritto alla verità da parte dei parenti di un soggetto scomparso in circostanze misteriose è un diritto soggettivo, personalissimo e di rango costituzionale, contenuto nell’articolo 21». Diritto che viene leso da ogni attività che, senza un’adeguata giustificazione, «impedisca, limiti o condizioni» l’acquisizione di informazioni. «In questa sentenza c’è una novità assoluta, cioè il riconoscimento del fatto che il ministero della difesa ha violato questo diritto, e per questo viene condannato», dichiara l’avvocato Licia D’Amico a “Osservatore Italia”. «Non so quante altre volte sia accaduto che una istituzione dello Stato, un ministero, sia stato condannato a risarcire un danno ad una famiglia per aver nascosto la verità: insomma, non è poca cosa». Specie se si considera che gli “insabbiatori” hanno insistito fino all’ultimo sull’idea che Cervia – di cui hanno a lungo negato la decisiva specializzazione – avesse abbandonato la famiglia volontariamente. «Pura follia», racconta la figlia, Erika: «Papà era alle prese con grandi preparativi per l’anniversario di matrimonio».Molte cose su Davide, dice la moglie Marisa nel video realizzato da Michelini e Chiaroni, la famiglia le ha apprese solo dopo la sua scomparsa: aveva rivestito incarichi di particolare segretezza, anche svolgendo stage presso aziende belliche. «Tra i documenti di Davide abbiamo trovato persino il Nos, “nulla osta di segretezza Nato”, ammesso dalla marina dopo 6 anni di nostre pressanti richieste». Per la famiglia Cervia, un incubo senza fine: «Rapito Davide, eravamo a Velletri solo da due anni, e io ne avevo appena 28: fecero girare la voce che mio marito era scappato con un’altra». Eppure, i fatti gridavano la peggiore delle verità: la sera di quel maledetto 12 settembre l’anziano vicino di casa, Mario Cavagnero, vide tutto. «Testimoniò con le lacrime agli occhi di aver visto mio padre strattonato da alcune persone che lo aspettavano davanti al cancello di casa», racconta la figlia, Erika. «Immobilizzato, narcotizzato e spinto con la forza in un’auto color verde bottiglia. Mio padre gridò più volte il nome del vicino, nella speranza che lo potesse aiutare». Raccontò l’uomo: «“Mario!” mi chiamava, disperato: ma è stato tutto troppo rapido perché potessi intervenire». Era la prova regina del rapimento: solo che poi, racconta Erika, «dal verbale dei carabinieri emerse che mio padre stesse chiamando Mario per salutarlo, e che Mario (il testimone chiave) fosse un povero vecchio in stato confusionale».Poco dopo, un autista delle autolinee locali (oggi Cotral) sulla tratta Roma-Velletri «incrociò l’auto verde e la Golf bianca di mio padre guidata da un biondino». Un quasi-incidente, all’incrocio tra Colle dei Marmi e l’Appia. «Dovette fare una brusca frenata per evitare le due auto, che non si fermarono allo stop». L’autista del pullman notò sull’auto verde «due persone, sedute dietro, che con le spalle e le braccia coprivano qualcosa, come a voler nascondere qualcuno». E la Golf bianca di Davide Cervia? «I carabinieri “dimenticarono” di idicare nel verbale il numero di targa: per giorni, la polizia non potè cercarla», dice la moglie. Una vettura rimasta “fantasma” per addirittura sei mesi. «Poi, grazie a una lettera anonima indirizzata alla trasmissione “Chi l’ha visto?”, allora condotta da Donatella Raffai, l’auto venne ritrovata a Roma in via Marsala, vicino alla stazione Termini, dove (secondo la lettera) era parcheggiata da 6 mesi. Ma così non era: mio padre, ferroviere, coi suoi colleghi aveva setacciato la zona palmo a palmo», racconta Marisa Gentile. La Golf riapparsa? «Fatta ritrovare lì per far credere a un allontanamento volontario». Intervennero gli ispettori della Digos: «Frugarono dappertutto, ma senza guanti: addio impronte digitali». Prima ancora, l’auto fu aperta con una micro-carica esplosiva, osserva Marisa: «Quella Golf aveva un impianto a gas, e quindi far saltare la serratura con dell’esplosivo poteva essere pericoloso: a meno che non si sapesse che il serbatoio del gas era vuoto?».Nel frattempo, mentre le indagini “dormivano”, arrivò un indizio dalla Francia. Gianluca Cicinelli, autore di due libri sulla vicenda nonché presidente del “Comitato per la Verità su Davide Cervia”, nel ‘95 venne contattato da un ex funzionario dell’Air France, da poco in pensione. Raccontò: tra dicembre ‘90 e gennaio ‘91 era arrivata alla compagnia aerea transalpina una richiesta di verifica, per sapere se ci fosse un biglietto aereo a nome Davide Cervia. «Lo trovò: per il 6 o l’8 gennaio ‘91 (non ricordava bene la data) per la tratta Parigi-Cairo. Biglietto acquistato per un’agenzia che lavora per il ministero francese degli affari pubblici. Nessuno ne aveva mai parlato». Al che, Cicinelli fece denuncia alla Criminalpol, partì l’indagine e si scoprì che quel biglietto effettivamente esisteva. Ma l’Air France non aveva comunicato nulla agli inquirenti perché, secondo loro, apparteneneva a un omonimo di Davide: un militare francese (con nome italiano, in quanto originario della Corsica). Fino ad allora, la procura di Velletri non aveva potuto fare vere indagini «per carenze di organico». Nel ‘98-99, quando la procura di Roma avocò l’inchiesta riaprendo il caso del biglietto aereo, l’Air France cambiò versione: quel biglietto aereo non era più intestato al “Davide Cervia della Corsica”, bensì a una “signorina Cervia”; in più era cambiata la tratta, e “purtroppo” non si poteva più fare nulla perché tutti i documenti erano stati cestinati.Il 5 aprile del 2000, racconta Erika Cervia, il caso fu archiviato come sequestro di persona a opera di ignoti. «Per noi fu una grandissima vittoria, veder sparire la testi dell’allontamento volontario di mio padre. Ma anche una sconfitta: dopo dieci anni, con l’archiviazione, veniva messa una pietra tombale sulla vicenda. Scandaloso: per i primi 8 anni mio padre non fu assolutamente cercato dalla procura di Velletri, quindi si sono persi proprio gli anni fondamentali per la sua ricerca». Poi, nel 2012, la notizia su Ustica: i familiari delle vittime hanno avevano citato a giudizio i ministeri trasporti e difesa, per omissioni, depistaggi, negligenze e violazione del cosiddetto “diritto alla verità”. «Noi abbiamo denunciato il ministero della difesa e quello giustizia. Ma i testi sono stati finalmente ascoltati solo a partire dal 2016, dopo quattro anni di rinvii». Nel frattempo, la famiglia Cervia è stata incessantemente sottoposta al consueto trattamento: minacce e intimidazioni, fino all’esplosione della finestra di casa. «Spesso – rileva Paolo Franceschetti, avvocato – i parenti delle vittime, in casi analoghi, si piegano. I Cervia invece hanno resistito in modo commovente, per amore di Davide, spiazzando i loro persecutori». Oggi brindano: c’è l’immensa soddisfazione morale di una sentenza che condanna lo Stato per aver mentito. Ma all’appello manca ancora il premio più importante: Davide.«Il prossimo passo – annuncia Marisa Gentile – sarà un appello alla politica, appena il nuovo Parlamento sarà insediato, perché ci spieghi come mai alcune strutture dello Stato hanno depistato». Con la speranza, naturalmente, che «chi sa trovi il coraggio di parlare e di raccontarci quanto accaduto», dice la donna a Fabrizio Peronaci del “Corriere della Sera”, l’unico grande giornale che abbia dato la notizia della sentenza romana. «E’ sconcertente il silenzio dei media», dice Marisa, «per non parlare del silenzio del servizio pubblico Rai». Ancora ai giorni nostri il sequestro Cervia è un fatto indicibile, rileva Gianni Lannes, tant’è vero che ad alcuni atti parlamentari il governo Renzi non ha risposto, come nel caso di un’interrogazione del 10 aprile 2014. Perché tacere ancora su questa scottante vicenda, «coperta dall’affaristica ragion di Stato»? Il Sismi, aggiunge Lannes, «si è sempre occupato direttamente della vendita di armi all’estero, compresi i sistemi d’arma ed il personale altamente specializzato. In questa vicenda non bisogna farsi ingannare dai depistaggi istituzionali che hanno messo in atto più volte, per dirottare la famiglia ed eventuali ricercatori indipendenti su piste fantasma. Un classico: omissioni, reticenze e menzogne dell’apparato statale costellano la vicenda, nonché minacce e intimidazioni alla stessa famiglia Cervia, mai protetta dallo Stato».Per dipanare l’aggrovigliata matassa, insiste Lannes, «bisogna partire dal movente e dai mandanti: Cervia aveva forse rifiutato qualche offerta?». Ovvero: è stato rapito dopo essersi rifiutato di trasferirsi, magari in Libia? Nel blog “Su la Testa”, Gianni Lannes esibisce una vastra documentazione: a partire dal 1992, un anno dopo la scomparsa di Davide, su Camera e Senato è piovuta una grandine di richieste per far luce sulla vicenda. Risultato: silenzio di tomba. Domande scomode, che oggi Lannes riassume: «Qual è stato il ruolo svolto nella vicenda dai servizi segreti italiani? Come si spiegano le reticenze e la contraddittorietà degli interventi che emergono dalle risposte rese nel tempo ad alcuni atti di sindacato ispettivo inerenti la vicenda?». E poi: «Sono state condotte ricerche sulla sorte degli altri tecnici italiani che hanno conseguito la stessa specializzazione di Davide Cervia? Quanti sono, quanti di loro risultano in congedo e quanti sono ancora in servizio in Italia o all’estero?». Ancora: «Sono state effettuate ricerche e indagini giudiziarie presso i paesi ai quali gli armamenti in questione (Teseo-Otomat) sono stati venduti? E’ stata accertata l’effettiva destinazione finale delle suddette armi onde verificare che non sia in atto un traffico d’armi “triangolato” e che non vi siano state violazioni delle norme sulle esportazioni di armi verso paesi per i quali fossero in corso embarghi militari?». Se non altro, dopo quasi 28 anni di depistaggi e omissioni, ora c’è almeno un brandello di verità: lo Stato è colpevole. Ma dov’è finito il super-tecnico rapito? «Giustamente si chiede verità per Giulio Regeni», dice Marisa Gentile. «A quando la verità su Davide Cervia?».Una donna che non sa più dove sia il marito, E due figli senza più notizie del padre, specialista in guerra elettronica. Scomparso. Catturato da sconosciuti, una sera, davanti al cancello di casa, nella campagna di Velletri. Che fine ha fatto? E’ stato “venduto” a paesi come la Libia, a cui l’Italia non avrebbe potuto né dovuto fornire armamenti? E’ stato poi ucciso, per cancellare la prova vivente di un affare inconfessabile? Chi sa, non parla: da quasi 28 anni. Quell’uomo? Preziosissimo. Un super-militare, con competenze Nato top secret. E’ ancora vivo? Invocano sue notizie, inutilmente, i familiari. E’ passato un quarto di secolo, e i militari tacciono. Un regista, Francesco Del Grosso, dopo 24 anni di silenzio decide di fare un film su quella storia, “Fuoco amico”. Ma alla vigilia delle riprese salta in aria la casa, esplode una finestra: solo per miracolo la ragazza, Erika, figlia dello scomparso, non viene investita dall’esplosione. Lei e sua madre devono smetterla di chiedere dov’è finito quell’uomo, l’enfant prodige della marina militare italiana. Sapeva rendere invulnerabile una nave da guerra. Era il mago dei missili Teseo-Otomat, che colpiscono a 180 chilometri di distanza. Era stato il più bravo, al corso d’élite frequentato a Taranto. Il miglior tecnico, imbarcato sulla miglior nave da battaglia italiana, la fregata Maestrale. Una sera è stato catturato. Sparito, inghiottito nel nulla. Lo Stato? Ha ostacolato il diritto alla verità. Lo afferma, oggi, la sentenza di una giudice, Maria Rosaria Covelli. Ma la verità è ancora lontana: che fine ha fatto Davide Cervia?