Archivio del Tag ‘giudizio’
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Presunta superiorità morale, la mafia del politically correct
Il politically correct è la pretesa di dire agli altri come devono essere, cosa devono dire, come devono comportarsi. Presuppone dunque un punto di superiorità di chi giudica. Il politically correct è poi una lente ideologica che altera la vista di uomini, idee e cose secondo un pregiudizio indiscusso e indiscutibile, assunto a priori come porta della verità, del bene e del progresso. Nasce dalla convinzione che tutto ciò che proviene dal passato sia falso e superato. La realtà, la natura, la famiglia, la storia, la civiltà come l’avete finora conosciute, vissute e denominate, sono sbagliate, vanno ridefinite e corrette. Così nasce il politically correct, questo busto ortopedico applicato alla mente e alla vita. Il politicamente corretto è il moralismo in assenza di morale, il razzismo etico in assenza di etica, il bigottismo clericale in assenza di religione. Il politically correct è il rococò della rivoluzione, come la posa residua del caffè. Non riuscendo a cambiare il mondo, si cambiano le parole. Il linguaggio politicamente corretto è lessico bollito e condito con la mostarda umanitaria. Inoltre è oicofobia, dice Roger Scruton, è rifiuto della casa, primato dell’estraneo e dello straniero sul nostrano e sul connazionale. E, infine, è riduzionismo: la varietà del mondo e dei suoi problemi è ridotta all’ossessione su due-tre temi.Dove nasce il politically correct? La prima risposta è in America, laboratorio globale del futuro e capitale mondiale dell’Impero dei segni. È famoso il saggio di Robert Hughes (un australiano, peraltro), “La cultura del piagnisteo” (Adelphi), sul bigottismo progressista. Prima di lui Tom Wolfe denunciò già nel 1970 l’artefice del politically correct, il radical chic. Un testo importante sul vizio progressista è “La chiusura della mente americana” di Allan Bloom. E potremmo citarne altri. Ma non si esaurisce negli States la matrice del politically correct. Qualcosa del genere ha serpeggiato nel Nord Europa, nelle socialdemocrazie scandinave, elette per decenni a modello progressista di emancipazione. La Svezia è la sua vera patria, sostiene Jonathan Friedman in “Politicamente corretto” (ed. Meltemi). L’autore è stato toccato da vicino, perché sua moglie, ricercatrice, fu accusata di razzismo solo perché ha documentato, dati alla mano e analisi rigorose, che in Svezia è stato un fallimento il multiculturalismo e la politica di accoglienza dell’immigrazione.Ma il P.C. non nasce in un luogo bensì in un’epoca: nasce sulle ceneri del ’68, diventa il catechismo adulto di quelli che da ragazzi furono iconoclasti. Dopo aver processato l’ipocrisia del linguaggio cristiano-borghese e autoritario-patriottardo, gli ex-sessantottini adottarono quel nuovo lessico ipocrita e quel galateo manierista. Dal perbenismo al perbuonismo. Il politically correct nasce quando finisce l’effetto del marxismo, tramonta l’idea di rivoluzione, si perdono i riferimenti mondiali del comunismo. Lo spirito liberal e radical rifluiscono nel codice progressista globale. Si passa dall’Intellettuale Collettivo al Demente Collettivo, il conformista dai riflessi condizionati; il comunista si fa luogocomunista, giudica per stereotipi prefabbricati, riscrive la storia, il pensiero e i sentimenti ad usum cretini. C’è una ricca letteratura che denuncia il politically correct: l’ultimo è “Politicamente corretto” di Eugenio Capozzi (ed. Marsilio), che lo ritiene l’erede di tutti i progressismi.Per passare la censura del politically correct è necessaria la presenza di almeno uno o più ingredienti d’obbligo di ogni narrazione, reportage o fiction: il nero, il migrante, il Rom, l’omosessuale, la femminista, il disabile e l’ebreo. Sempre vittime o eroi, comunque personaggi positivi per definizione in ogni storia o trama. La ditta del politicamente corretto fabbrica pregiudizi seriali, in dosi liofilizzate; la loro applicazione esime dal ragionare, risparmia la fatica del giudizio critico. E infonde a chi lo usa una sensazione di benessere etico, una presunzione di superiorità sugli altri. Quando ci libereremo da questa cappa, da questa cupola ideologico-mafiosa? E qui il problema si sposta nell’altro campo: l’assenza di alternative, la mancata elaborazione di strategie, culture e linguaggi, il silenzio e la rassegnazione. Dopo il rigetto, urge il progetto.(Marcello Veneziani, estratto da “La nausea per un mondo ‘corretto’”, da “La Verità” del 28 febbraio 2019, articolo ripreso sul blog di Veneziani).Il politically correct è la pretesa di dire agli altri come devono essere, cosa devono dire, come devono comportarsi. Presuppone dunque un punto di superiorità di chi giudica. Il politically correct è poi una lente ideologica che altera la vista di uomini, idee e cose secondo un pregiudizio indiscusso e indiscutibile, assunto a priori come porta della verità, del bene e del progresso. Nasce dalla convinzione che tutto ciò che proviene dal passato sia falso e superato. La realtà, la natura, la famiglia, la storia, la civiltà come l’avete finora conosciute, vissute e denominate, sono sbagliate, vanno ridefinite e corrette. Così nasce il politically correct, questo busto ortopedico applicato alla mente e alla vita. Il politicamente corretto è il moralismo in assenza di morale, il razzismo etico in assenza di etica, il bigottismo clericale in assenza di religione. Il politically correct è il rococò della rivoluzione, come la posa residua del caffè. Non riuscendo a cambiare il mondo, si cambiano le parole. Il linguaggio politicamente corretto è lessico bollito e condito con la mostarda umanitaria. Inoltre è oicofobia, dice Roger Scruton, è rifiuto della casa, primato dell’estraneo e dello straniero sul nostrano e sul connazionale. E, infine, è riduzionismo: la varietà del mondo e dei suoi problemi è ridotta all’ossessione su due-tre temi.
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Abolire le lezioni di storia: i docenti non insegnano niente
Un po’ di giorni fa, le associazioni dei docenti di storia e l’Istituto Storico per la Storia della Resistenza hanno lanciato un grido di dolore contro la proposta di abolire la traccia di storia fra quelle degli esami di Stato, additando l’incultura di chi ha fatto l’infausta proposta ed hanno colto l’occasione per la solita geremiade sulle cattedre perse, della marginalizzazione delle ore di insegnamento della storia ridotte ad una sola negli istituti tecnici, eccetera. La commissione ministeriale che ha approvato questa riforma degli esami di Stato è certamente composta da allevatori di bestiame capitati non si sa come in quella posizione, non discuto. Ma bisogna riconoscere che qualche ragione ce l’hanno: è un fatto che nell’ultimo decennio (più o meno) la traccia è stata scelta solo dall’1% dei candidati. E la cosa, cari colleghi, non vi dà nessun sospetto? Se il 99% degli studenti scansa la traccia di storia, non dipenderà dal fatto che la storia gli è stata insegnata con i piedi? Non cominciamo con le solite scuse sulla vulgata corrente che marginalizza le materie umanistiche e disincentiva i giovani a studiare la storia, su quella trappola infernale che è Internet, eccetera eccetera; il punto è che i nostri docenti non riescono ad interessare i ragazzi alla materia in questione.E questo si inserisce nel problema più generale dei troppi insegnanti che, magari, conoscono la materia ma non la sanno insegnare, e questo vale per tutte le discipline. In estate lessi di una classe di un istituto livornese dove erano stati bocciati o rimandati 40 studenti su 41, e un imbecille di docente confessava come giustificazione: «Non riusciamo a farli studiare». Come dire che “non sappiamo fare il nostro mestiere”, visto che il compito del docente è proprio quello di motivare i ragazzi a studiare. Morale: licenziamo in blocco i docenti di quella classe e faremo una cosa santa. Ma, si dice, della storia ha bisogno non solo la cultura ma anche la democrazia, perché, si dice, la storia ha un alto valore formativo. Ecco: il punto è proprio questo: la storia, così come viene insegnata, ha ancora questo valore formativo? Direi proprio di no. Per il modo in cui è ora mal insegnata non ha alcun valore culturale e, meno che mai, professionale. La storia non serve a “far bella figura in società” o ad assecondare una qualche voglia individuale di intrattenimento. La storia ha una funzione precisa nella spiegazione e critica del presente e, solo a questa condizione, è elemento utile al dibattito politico e culturale.Frugare a caso nel passato non serve a niente, quello che serve è risalire lungo la catena dei nessi causa effetto-che spieghino l’attuale stato di cose e servano da lente di ingrandimento per individuare cosa va conservato e cosa mutato nell’attuale ordinamento. Ora, c’è qualcuno che ha il coraggio di sostenere che l’attuale insegnamento serva a questo? Quanti docenti sarebbero in grado di spiegare il passaggio dalla formula merce-denaro-merce a quella denaro1-merce-denaro2 e spiegarne la portata storica? Quale insegnante saprebbe spiegare le conseguenze della decisione di Nixon sulla non convertibilità del dollaro nel 1971? Quanti docenti hanno una pur vaga idea del pensiero politico di Gandhi, Sukarno, Kemal Ataturk o sanno chi sono stati Nasser, Al Qutb o Franz Fanon? E chi saprebbe presentare adeguatamente il processo di codificazione dello Stato moderno europeo o il passaggio dalla decretazione alla legge? Ne dubito fortemente, perché i nostri docenti in massima parte sono filosofi o letterati che non capiscono nulla di diritto o economia e poco di sociologia o politologia.D’altro canto, i libri di testo che hanno a disposizione non parlano di certe cose e ripropongono la solita sbobba identica a se stessa da almeno 60 anni. Sì, ci abbiamo appiccicato a forza qualche capitolo sulla storia delle donne, dei giovani o dell’ambiente (che nessun docente trova il tempo di spiegare e che sono posti senza alcun legame con tutto il resto) ma la struttura resta quella di sempre, nella quale è possibile distinguere con chiarezza i suoi vari strati alluvionali: alla base il catechismo della “religione della Patria” con i suoi martiri (Menotti, Speri, Bandiera) e il suo glorioso cammino verso l’unità; poi il capitolo sulla Prima Guerra Mondiale per lo più di derivazione fascista; quindi la grande cupola dell’insegnamento crociano con il suo culto per l’analogia e il suo insopportabile moralismo, per cui il fine della storia è il giudizio morale (insomma, il voto in condotta a chi ci ha preceduto) e la sua totale insensibilità ai dati istituzionali ed economici; infine un po’ di catechismo antifascista.Beninteso: sono antifascista da sempre, non ritengo affatto che l’antifascismo sia un valore superato, ma non sopporto alcun tipo di catechismo. Si può capire che nel primo trentennio della Repubblica fosse necessario radicare la condanna del fascismo, ma vogliamo capire che la storia del fascismo va studiata in riferimento al tipo di modernità che si è costruita in questo paese? E che dopo il fascismo ci sono stati 70 anni di storia che sono bellamente ignorati dai nostri manuali? E senza che questo attenui di un etto la condanna del fascismo. L’antifascismo va benissimo, ma facciamolo vivere nel quadro del presente e non trasformiamolo in un polveroso museo di memorie. Insomma, è accettabile che il nostro insegnamento ignori cose come la decolonizzazione, la strategia della tensione, il Sessantotto, i mutamenti dell’ordine monetario, il crollo dell’Urss e dell’ordinamento bipolare, la trasformazione imperiale della presidenza americana, le rivoluzioni di Cina, Indonesia, Algeria, Vietnam, le guerre mediorientali, eccetera eccetera? Caro colleghi, ma in che secolo vivete?E non si tratta solo di recuperare il passato più recente, ma di leggere con altri occhi anche tutto il resto della storia alla luce dell’attuale ordinamento del mondo. Ad esempio, siamo sicuri che la storia degli Assiri, dei Babilonesi, dei Fenici sia così importante, mentre si trascurano del tutto le ben più importanti civiltà di India e Cina? Certo che la storia romana dobbiamo studiarla, ma è necessario beccarsi tutta la solfa delle dinastie gallo-romane, l’elenco completo delle battaglie di Cesare, gli imperatori più insignificanti, e non tentare una comparazione con le parallele vicende dell’India? Il medioevo va studiato, ma è così fondamentale dare tanto spazio alla lotta per le investiture, piuttosto che dare uno sguardo all’evoluzione dell’economia cinese a metà del XIV secolo, con il passaggio all’economia del riso e con il parallelo affermarsi del dispotismo asiatico? E, nella storia moderna, si potrebbe restringere un po’ il solito elenco di guerre e battaglie, ma dare più spazio alla nascita del diritto commerciale o al colbertismo. Quanto alla storia contemporanea, va bene che si parli della Shoà, ma non sarebbe più urgente e importante parlare del colonialismo e del suo residuo permanente? Magari ci riuscirebbe di capire meglio un fenomeno come il terrorismo jhadista.Tutto questo, però, presupporrebbe un corpo docente ben altrimenti formato. Anche l’istituzione del corso di laurea in storia è stato un vero disastro: nessun insegnamento di economia, diritto, scienza della politica, una infarinatura appena di sociologia, psicologia e antropologia e, in cambio, una valanga delle storie più minute e meno utili. Solito schema per le storie generali all’interno del solito eurocentrismo. Un marziano che scendesse sulla Terra e leggesse i nostri manuali di storia per farsi unìidea, capirebbe che l’unico protagonista della storia è sempre stato l’uomo bianco, salvo qualche rapida comparsata di qualche altro; che la storia umana ha seguito un unico cammino rettilineo, e che gli umani si sono sempre preoccupati solo dell’aspetto ideologico, dedicando di tanto in tanto qualche cenno di attenzione ai processi materiali. Cari colleghi, diciamolo, voi non fate storia, fate una noiosissima antiquaria. E non parliamo dell’aspetto metodologico: quanti docenti hanno idea di cosa sia la scienza della complessità o sarebbero spiegare cosa è un modello di simulazione e come funziona (anche un semplice wargame)? Quanti se la sentirebbero di accennare un approccio comparatistico? E quanti potrebbero provare una spiegazione dei processi storici in termini di psicoanalisi di massa? Lasciamo perdere.Già sento la risposta: «Dobbiamo rispettare i programmi ministeriali». Già, l’annosa piaga dei programmi ministeriali che mi fanno pensare che sia arrivato il momento di sbarazzarci della scuola statale (non ho detto della scuola pubblica, ma di quella statale): un modello organizzativo che ha avuto i suoi meriti ma che oggi, forse, è il caso di superare. In ogni caso, non mi è capitato di leggere di nessuna protesta dei docenti, dei loro sindacati, delle loro associazioni disciplinari contro i famigerati programmi ministeriali, pecoronescamente applicati. Tutto ciò premesso, come si fa a sostenere che l’attuale insegnamento della storia abbia una qualche utilità e possa riscuotere più di qualche sbadiglio dei ragazzi? Capisco la difesa più che della storia, degli impiegati statali incaricati di spiegare la “storia” da cui cercano “di tirare quattro paghe per il lesso”, ma se l’insegnamento della storia deve essere questo, forse è meglio che lo aboliamo del tutto. E forse i ragazzi odieranno di meno la storia e qualcuno inizierà a studiarla per proprio conto.(Aldo Giannuli, “Una modesta proposta sull’insegnamento della storia: aboliamolo. Lettera aperta ai colleghi storici”, dal blog di Giannuli del 30 ottobre 2018).Un po’ di giorni fa, le associazioni dei docenti di storia e l’Istituto Storico per la Storia della Resistenza hanno lanciato un grido di dolore contro la proposta di abolire la traccia di storia fra quelle degli esami di Stato, additando l’incultura di chi ha fatto l’infausta proposta ed hanno colto l’occasione per la solita geremiade sulle cattedre perse, della marginalizzazione delle ore di insegnamento della storia ridotte ad una sola negli istituti tecnici, eccetera. La commissione ministeriale che ha approvato questa riforma degli esami di Stato è certamente composta da allevatori di bestiame capitati non si sa come in quella posizione, non discuto. Ma bisogna riconoscere che qualche ragione ce l’hanno: è un fatto che nell’ultimo decennio (più o meno) la traccia è stata scelta solo dall’1% dei candidati. E la cosa, cari colleghi, non vi dà nessun sospetto? Se il 99% degli studenti scansa la traccia di storia, non dipenderà dal fatto che la storia gli è stata insegnata con i piedi? Non cominciamo con le solite scuse sulla vulgata corrente che marginalizza le materie umanistiche e disincentiva i giovani a studiare la storia, su quella trappola infernale che è Internet, eccetera eccetera; il punto è che i nostri docenti non riescono ad interessare i ragazzi alla materia in questione.
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Atleti russi, carabinieri “stupratori” e stampa complottista
Ebbene sì. Esistono due tipi di complottismi: quello che la grande stampa mainstream disapprova costantemente e con il quale si tende ad etichettare tesi che contrastano troppo la narrativa ufficiale. Però esiste un altro complottismo, che non solo non è scandaloso ma è indicato e indispensabile, se ad attuarlo è proprio la grande stampa mainstream e se serve a confermare la tesi ufficiale o perlomeno il frame dominante. Già, perché l’obiettività assoluta è difficile nel giornalismo, che invece si caratterizza per un certo conformismo. Pubblica le notizie ma già con un’intonazione di fondo, un giudizio di fondo. E quando emergono fatti che contrastano quel “frame”, spesso anziché ammettere ci si rifugia nel complottismo, quello buono. Perché serve a confortare la tesi iniziale. Un esempio è proprio di questi giorni. Vi ricordate titoli come questo? “Olimpiadi Rio 2016, Tas respinge ricorso di Mosca: atletica russa esclusa dai Giochi per doping di Stato”. Certo che sì. Dall’autunno del 2015, in seguito a un’inchiesta giornalista tedesca, tutti i giornali del mondo hanno pubblicato, in crescendo, migliaia di articoli sul doping degli atleti russi.Era un coro; anzi un’autentica valanga mediatica, che ignorava e all’occorrenza travolgeva, screditandola, qualunque posizione dubitativa. D’altronde non potevano esserci dubbi. Gli atleti russi erano tutti dopati! Infatti la squadra di atletica russa fu esclusa dai Giochi Olimpici di Rio. E dopo qualche mese addirittura dalle Paraolimpiadi. Oggi veniamo a conoscere la verità. La Wada, ovvero l’Agenzia anti-doping mondiale, ha scagionato 95 dei 96 atleti sospesi, perché le prove contro di loro erano insufficienti. Clamoroso, non c’è che dire. Ma è a questo punto che scatta il complottismo “giustificazionista” secondo gli schemi dello “spin”. A fare lo scoop è ancora una volta il “New York Times”, che dà l’intonazione a tutta la stampa internazionale. E infatti si mette in risalto, ad esempio sulla “Repubblica”, che è «una decisione destinata a suscitare polemiche, con l’interrogativo se sia prevalsa l’efficacia del sistema russo nel distruggere le prove o l’approccio soft degli investigatori». Capito?La Wada, che era elogiata e ritenuta una fonte sicurissima un anno e mezzo fa, ora viene ritenuta poco seria perché, tra l’altro, non avrebbe sentito la “gola profonda” dell’inchiesta. Si dubita, improvvisamente, dell’integrità di chi giudica. Notate bene: l’idea che gli atleti fossero puliti e che la loro esclusione dai Giochi sia stata un’ingiustizia non viene nemmeno presa in considerazione. Il complottismo necessario traspare anche in una drammatica vicenda di questi giorni, quella del denunciato stupro delle due turiste americane a Firenze. Sia chiaro: saranno i giudici a stabilire cos’è successo e i carabinieri si sono comportati comunque in maniera inaccettabile, avendo violato le regole e il codice d’onore dell’Arma. L’intonazione di fondo della stampa, però, è colpevolista nei loro confronti. L’altro giorno, ad esempio, il “Corriere della Sera” aveva un titolo in home page in cui si parlava di “prime ammissioni” di uno dei due carabinieri. E io, come migliaia di lettori, ho pensato: ecco, ha confessato lo stupro. Poi però, leggendo l’articolo, si scopriva che le ammissioni riguardavano il fatto che ci fosse stato un rapporto sessuale consenziente.E lo stesso atteggiamento traspare ora, dopo l’interrogatorio del secondo carabiniere. Guardate questo titolo: “Stupro a Firenze, il carabiniere ai pm: ho fatto quello che diceva il capo”. Entrambi sostengono la stessa tesi; però, evidenzia il “Corriere” nel sommario, “ci sono buchi e violazioni nella notte dei carabinieri”. Ne converrete: un conto è violare il regolamento, un altro è violentare due turiste, peraltro in circostanze strane, a quanto pare. Una in ascensore, l’altra sul ballatoio di un condominio. Con due ragazze che – a quanto si è letto nei giorni scorsi – avrebbero stipulato la polizza antistupro e che trovano la forza di fotografare uno dei due rapporti. Volendo essere complottisti in loro favore – anche escludendo quelle più controverse come la polizza antistupro, prima annunciata e poi smentita – si potrebbe sostenere che le circostanze rafforzano la tesi dei carabinieri: perché violentarle sul ballatoio? Sarebbe stato molto più semplice in appartamento. Un rapporto in un luogo semipubblico come quello lascia prefigurare più un rapporto impetuoso, fugace, fuori dagli schemi e consenziente che una violenza. E poi: perché la ragazze li hanno fatti salire?Visto? Volendo si può dare un’intonazione tesa a scagionare i due agenti dall’accusa più infamante. Ma non è questo l’atteggiamento prevalente che, invece, perlomeno sui grandi media (che a loro volta influenzano gli altri media, non dimenticatelo) è quello improntato sul sospetto colpevolista. E se poi finisce come gli atleti russi? La verità si saprà fra mesi se non anni, quando la vicenda non interesserà più il grande pubblico. Quel che conta è l’intonazione del momento; perché è adesso che si influenza l’opinione pubblica. Questo conta in termini mediatici. Con poca oggettività e tanto complottismo conformista. Ma, vi prego, non ditelo alla maggior parte dei miei colleghi; potrebbero offendersi.(Marcello Foa, “Quando la grande stampa è complottista, sugli atleti russi e sui carabinieri “stupratori”, dal blog di Foa sul “Giornale” del 14 settembre 2017).Ebbene sì. Esistono due tipi di complottismi: quello che la grande stampa mainstream disapprova costantemente e con il quale si tende ad etichettare tesi che contrastano troppo la narrativa ufficiale. Però esiste un altro complottismo, che non solo non è scandaloso ma è indicato e indispensabile, se ad attuarlo è proprio la grande stampa mainstream e se serve a confermare la tesi ufficiale o perlomeno il frame dominante. Già, perché l’obiettività assoluta è difficile nel giornalismo, che invece si caratterizza per un certo conformismo. Pubblica le notizie ma già con un’intonazione di fondo, un giudizio di fondo. E quando emergono fatti che contrastano quel “frame”, spesso anziché ammettere ci si rifugia nel complottismo, quello buono. Perché serve a confortare la tesi iniziale. Un esempio è proprio di questi giorni. Vi ricordate titoli come questo? “Olimpiadi Rio 2016, Tas respinge ricorso di Mosca: atletica russa esclusa dai Giochi per doping di Stato”. Certo che sì. Dall’autunno del 2015, in seguito a un’inchiesta giornalista tedesca, tutti i giornali del mondo hanno pubblicato, in crescendo, migliaia di articoli sul doping degli atleti russi.
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Hey Joe, indifferente al Male (proprio come il Mercato)
Sono anni che ci penso. Ma come prima cosa va capita la differenza fra amorale e immorale. L’immorale è un depravato (dicono), l’immoralità è una depravazione che viola un codice che in qualche maniera è stato stabilito (da chissà chi) come giusto, probo. Invece l’amorale è chi si astiene dai codici, non va né di qua, né di là, sta sospeso nel vuoto del giudizio. Hendrix scrive “Hey Joe”, forse la canzone dal contenuto più amorale che il rock abbia mai prodotto. L’ascolto sempre, a volte in modo ossessivo, particolarmente nella versione che ne hanno fatto Slash e Steve Winwood (Slash mozzafiato). Tu hai questo tizio che presumibilmente se ne sta ad un angolo di strada di Harlem, New York, e che vede un amico, Joe, con la pistola in mano che va spedito da qualche parte. Uno che se ne va spedito con una pistola in mano non è proprio una cosa comune. Ma il tizio gli dice solo un piatto «dove vai con quella pistola?». L’altro gli risponde che va ad uccidere una donna, una donna che non ha fatto null’altro di male se non tradirlo.Il tizio non dice nulla, non lo ferma, non chiama la polizia, niente. Sa che una donna morirà, una donna che non ha fatto nulla di terribile, ma non si muove. La lascia morire. Non dice «fermati!», ma attenti, non dice neppure «fai bene!». Il testo non ci dice questo, Jimi non ci dice cosa passa per la mente del tizio all’angolo della strada di Harlem, Jimi non prende posizione. Amoralità pura. Tutto sto maledetto testo rimbomba di questo distillato di assenza di giudizio, ma talmente forte che spacca il cranio, e io sto male tutte le volte. Joe uccide, e ripassa per quell’angolo di Harlem dove lo stesso tipo adesso si preoccupa di sapere cosa farà, ora, che ha ucciso. Joe gli dice che col cazzo che si farà mettere una corda attorno al collo, e scapperà in Messico. Fine. Tutto qui.Jimi non dedica alla donna uccisa una singola parola, né una nota. Né dedica una singola parola o nota di approvazione o di condanna dell’assassino. Nulla. Amoralità pura. Perché uno come lui ha pensato a un testo così? Perché? Jimi aveva unmistakable eyes, occhi che non si possono confondere, gli occhi di quei “vascelli troppo fragili” che De André ha così magistralmente descritto. E ne è morto infatti. Perché un’anima così scrive un testo del genere? Gli fu mai chiesto? Se qualcuno lo sa me lo dica. L’amoralità mi terrorizza, non ho mezzi per affrontarla. Il Mercato è “Hey Joe” ogni singolo minuto della sua esistenza. E’ amorale, distillato, ed è per questo che le sue note sono immortali. Come lo si affronta? Hey Joe…(Paolo Barnard, “Amoralità, Hey Joe, Mercato”, dal blog di Barnard del 26 luglio 2014).Sono anni che ci penso. Ma come prima cosa va capita la differenza fra amorale e immorale. L’immorale è un depravato (dicono), l’immoralità è una depravazione che viola un codice che in qualche maniera è stato stabilito (da chissà chi) come giusto, probo. Invece l’amorale è chi si astiene dai codici, non va né di qua, né di là, sta sospeso nel vuoto del giudizio. Hendrix scrive “Hey Joe”, forse la canzone dal contenuto più amorale che il rock abbia mai prodotto. L’ascolto sempre, a volte in modo ossessivo, particolarmente nella versione che ne hanno fatto Slash e Steve Winwood (Slash mozzafiato). Tu hai questo tizio che presumibilmente se ne sta ad un angolo di strada di Harlem, New York, e che vede un amico, Joe, con la pistola in mano che va spedito da qualche parte. Uno che se ne va spedito con una pistola in mano non è proprio una cosa comune. Ma il tizio gli dice solo un piatto «dove vai con quella pistola?». L’altro gli risponde che va ad uccidere una donna, una donna che non ha fatto null’altro di male se non tradirlo.