Archivio del Tag ‘governo gialloverde’
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La grande menzogna del Pd, che vive senza un programma
Non so se vi rendete conto che il Partito Democratico non ha un programma, eppure questa non è una novità. Per anni e anni, centrosinistra e centrodestra si sono alternati al potere; tutto l’arco parlamentare si divideva in pro e contro Berlusconi e sul conflitto d’interessi delle Tv (poi ci ha pensato Internet) ma di sensibile non cambiava mai niente, e i cittadini venivano distratti come tanti polletti con argomenti secondari, mentre il lavoro veniva sistematicamente precarizzato dai partiti di entrambi gli schieramenti, tutti insieme, appassionatamente. Qualcos’altro ci hanno lasciato in dote: Berlusconi soffocò l’economia passando dalla lira all’euro in modo troppo repentino (il doppio prezzo lira-euro andava mantenuto per molti più anni) colpendo in tal modo i lavoratori a paga fissa. Il centrosinistra da parte sua si è votato al neoliberismo sin dal 1981 e con Ciampi e Andreatta (col divorzio Bankitalia/Tesoro) ha indebitato il paese verso le banche italiane, mentre Monti, Draghi, Prodi, Amato, D’Alema e sempre Ciampi ci hanno incatenato nella moneta unica col rapporto di ingresso troppo forte (marco-lira 990) creando debito estero; un cambio che fu drogato da repentini scambi monetari ad hoc realizzati dalle banche europee e italiane (vendettero marco per comprare lira).Per questo vi parlano di Europa a sproposito, quando il tema è monetario; e per questo vi citano il fascismo, il nazismo, il populismo, il sovranismo, ecc, ogni volta che si accenna a questi temi. E’ una tecnica subliminale conosciutissima (si chiama associazione) ma che fa effetto, ed è l’unico argomento della campagna elettorale del Pd da anni (adesso speculano anche sulla morte di un giornalista radio). Io non sono sovranista ma chiedo che, “per cortesia”, si faccia qualcosa, e possibilmente in modo ragionevole e concordato, per riavere un cambio flessibile tra noi ed i tedeschi (ovviamente ciò è possibile con due monete diverse). Non voler ottenere ciò, temendo di essere spendaccioni, equivale a tagliarsi qualcosa per far dispetto alla moglie, soprattutto in virtù del fatto che la nostra spesa pubblica in beni e servizi è bassa da 40 anni, e che ciò che ha creato debito pubblico estero sono gli interessi passivi reali, conseguenza della moneta unica per noi troppo forte (che ha favorito e favorisce i nostri competitors) per non parlare della assenza di una vera banca centrale.La moneta troppo forte per una economia non equivale ad essere forti, ma anzi a diventare più deboli. Moneta troppo forte equivale ad alta disoccupazione, a bassi salari e alla ben nota desertificazione industriale. Forte devi diventarlo, la moneta forte non è lo strumento ma la conseguenza! Ci diventi se il mondo scambia la sua moneta per la tua, cioè se esporti più di quanto importi (e la tecnologia ti permette di farlo a lungo termine) e se richiami turisti. La Cina, ad esempio, molto presto avrà una classe media benestante che comprerà i prodotti stranieri nei supermarket. Sono centinaia di milioni di persone… Ecco spiegate le ragioni per cui il partito di Zingaretti non ha un programma. Il Pd è il partito dell’austerity e non può rivelare cosa ha intenzione di fare, perché ciò sarebbe controproducente a livello di consenso: sarebbero tagli e tasse, con qualche favore al proprio bacino elettorale. Non lo dico polemicamente, lo ha sempre fatto.Nel 2013, ricordo, prima del voto, Nessuno (nemmeno Berlusconi, peraltro) aveva inciso nel programma la modifica della Costituzione mediante pareggio di bilancio e Fiscal Compact; eppure, una volta presi i voti, questo Nessuno edificò il primo Nazareno (Bersani, Casini, Monti e Alfano come testimonial di Silvio Berlusconi, in foto al focolare) stravolgendo il senso più profondo della Costituzione nella componente economica (con un Parlamento illegittimo, vedasi Porcellum). Questo è solo un drammatico epilogo recente, un palo rovente nell’occhio della cittadinanza. Quindi i Dem, ancora oggi, restano nel vago, alzano cortine fumogene su questioni secondarie, si gettano nel marketing politico con polemiche strumentali e simboli, simboletti e sorrisi, e urlano contro ciò che viene approvato dal governo attuale. Cosa ha approvato questo governo? Qualcosa che sin dagli anni ‘90 (prima ero troppo piccolo) avrebbe fatto piangere di felicità qualsiasi elettore del Pds!Il mio libro del 2014, sul cui programma lavoravo sin dal dicembre 2011 (“Il neoliberismo che sterminò la mia Generazione”, edito da Andromeda: per chi volesse consultare in merito questo è il video nella Sala Conferenze della Camera) nel fondamentale paragrafo – un tantino predittivo? – “Come un cittadino informato rilancerebbe l’Italia”, conteneva questi punti (in neretto quelli realizzati o prossimi alla realizzazione da parte del governo): 3) Riconversione industrie verso settori tecnologici; 4) Riprofessionalizzazione della forza lavoro mediante corsi gratuiti; 5) Nuovo piano industriale (energia e ristrutturazione preesistente); 7) Messa in sicurezza del territorio investendo nell’idrogeologico; 9) Blocco privatizzazioni assets industriali; 18) Pensioni minime a 780 euro; 19) Tetto massimo alle pensioni (è stato fatto in questo caso qualcosa di temporaneo ma comunque lodevole); 20) Separazione banche di investimento da quelle commerciali; 21) Reddito di cittadinanza; 22) Salario orario minimo garantito.Il paragrafo seguente descriveva il modello danese alla perfezione, con contributi direttamente ottenuti dal ministero della Danimarca, cosa che fu “casualmente” ripresa in un articolo sul blog di Grillo qualche tempo dopo… non me ne voglia, ma successe anche con inceneritore, Bce prestatore di ultima istanza, Roosevelt, Benigni e Landini, vedasi Lalla, ecc. Aggiungendo che, come la senatrice Catalfo (5S) sa, fui il primo in assoluto ad accorgermi e denunciare/diffondere il legame tra Jp Morgan e le intenzioni “costituzionicide” del Nazareno, la componente predittiva del mio lavoro di cittadino informato raggiunge il top. Ai giornali dà fastidio affermare che i punti sono stati ottenuti dai 5S, e preferiscono parlare del leale (lo dico senza ironia) alleato monotematico leghista? Do loro uno spunto… dicano che l’ho ottenuto io! Marco Giannini, il Grillin Fuggiasco. Più seriamente, capisco che il 5S non sia perfetto, che non segua quelle logiche meritocratiche come credevo anni fa (con Di Maio però ciò sta migliorando sensibilmente), ma è un vanto avere in Parlamento persone che si sono migliorate e hanno “fatto tesoro” di tutto un certo tipo di lavoro.In conclusione (mi piacerebbe che per rispetto della onestà intellettuale questo pezzo venisse condiviso da tutti, da 5S, Pd, Fi, ecc) l’unico interesse di Zingaretti pare essere la redistribuzione delle poltrone e del potere all’interno dell’apparato; un apparato spezzettato in correnti forgiate sull’interesse della carriera personale (e non mi interessa parlare del fatto che Zingaretti sia indagato e prescritto; mi pare molto più importante evidenziare la mancanza di spessore). L’interesse di Di Maio, solo contro tutti, è continuare a riconsegnare al paese una soglia minima di sicurezza sociale (e deve riuscirci con la Lega, non avendo il 50%+1 purtroppo). Tutto il resto sono chiacchiere.(Marco Giannini, il Grillin Fuggiasco, “La menzogna più grossa del Pd, ovvero il partito che non ha mai avuto un programma”, da “Come Don Chisciotte” del 19 aprile 2019).Non so se vi rendete conto che il Partito Democratico non ha un programma, eppure questa non è una novità. Per anni e anni, centrosinistra e centrodestra si sono alternati al potere; tutto l’arco parlamentare si divideva in pro e contro Berlusconi e sul conflitto d’interessi delle Tv (poi ci ha pensato Internet) ma di sensibile non cambiava mai niente, e i cittadini venivano distratti come tanti polletti con argomenti secondari, mentre il lavoro veniva sistematicamente precarizzato dai partiti di entrambi gli schieramenti, tutti insieme, appassionatamente. Qualcos’altro ci hanno lasciato in dote: Berlusconi soffocò l’economia passando dalla lira all’euro in modo troppo repentino (il doppio prezzo lira-euro andava mantenuto per molti più anni) colpendo in tal modo i lavoratori a paga fissa. Il centrosinistra da parte sua si è votato al neoliberismo sin dal 1981 e con Ciampi e Andreatta (col divorzio Bankitalia/Tesoro) ha indebitato il paese verso le banche italiane, mentre Monti, Draghi, Prodi, Amato, D’Alema e sempre Ciampi ci hanno incatenato nella moneta unica col rapporto di ingresso troppo forte (marco-lira 990) creando debito estero; un cambio che fu drogato da repentini scambi monetari ad hoc realizzati dalle banche europee e italiane (vendettero marco per comprare lira).
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Federico Caffè fu fatto sparire dai killer di Palme e Sankara
Non abbiate paura, il Deep State non è più un monolite oscuro: tra le sue fila oggi ci sono anche i “buoni”, che vigilano sui politici coraggiosi. Tesi firmata da Gioele Magaldi, frontman italiano della massoneria progressista sovranazionale e autore del saggio “Massoni”, che nel 2014 ha svelato il vero volto – supermassonico – dell’oligarchia reazionaria che da decenni regge le sorti del pianeta. In vena di rivelazioni, Magaldi oggi si spinge oltre. Il caso Julian Assange? Aspettate e vedrete: non tutti i mali vengono per nuocere. Può darsi che il suo ruvido arresto non preluda a chissà quale punzione: niente di più facile che si ritorca contro i personaggi messi in imbarazzo proprio dal fondatore di Wikileaks (come Hillary Clinton, accusata di aver truccato le primarie democratiche Usa, che in realtà sarebbero state vinte dall’outsider Bernie Sanders). E non è tutto: il 3 maggio, a Milano, sono in arrivo rivelazioni potenzialmente esplosive sul mistero del professor Federico Caffè, insigne economista keynesiano scomparso da Roma il 15 aprile 1987. Dietro, anticipa Magaldi, c’è la stessa mano che un anno prima aveva assassinato il premier svedese Olof Palme, e che di lì a poco avrebbe ucciso Thomas Sankara, leader rivoluzionario del Burkina Faso. Tre personaggi scomodi, che ostacolavano il dominio globale neoliberista. Oggi però – altra notizia – non sarebbe più possibile eliminarli: «Fare il gioco sporco, ai nemici della democrazia, non conviene più: sanno perfettamente che in quello stesso Deep State ci sono anche elementi progressisti».Unico indizio a disposizione, per ora: la sicurezza italiana. Tra il 2015 e il 2016, dopo la strage nella redazione parigina di Charlie Hebdo, l’intera Europa sembrava sul punto di trasformarsi in un mattatoio. Eppure, Magaldi annunciò: vedrete che il nostro paese non subirà attentati. Motivo: l’antiterrorismo italiano è “pulito” e coopera strettamente con settori della Cia altrettanto leali. Il terrorismo targato Isis, aggiunse, può colpire solo in paesi dove i servizi segreti sono infiltrati dagli agenti della strategia della tensione: la Francia in primis, ma anche – come si è visto – il Belgio e la Spagna, il Regno Unito e la Germania. In altre parole: se i “cattivi” hanno orchestrato il terrore per affermare il loro potere (magari impaurendo Hollande per poi lanciare Macron), sul fronte opposto i “buoni” si sono accordati per unire le forze e proteggere almeno uno Stato europeo: non un paese a caso, naturalmente, ma l’Italia che di lì a poco sarebbe diventata gialloverde. Messaggio: non siete più onnipotenti, se c’è un pezzo di Europa che resta al riparo del vostro stragismo che spara nel mucchio, mietendo vittime tra i passanti. E sarà proprio l’Italia la prima pietra su cui costruire una nuova Europa, finalmente democratica.Missione compiuta? Solo a metà: gli ultimi anni in Italia sono trascorsi senza sangue, ma il governo Conte si è lasciato ugualmente spaventare da Bruxelles. Colpa del Deep State, ammette il deputato grillino Pino Cabras: al governo, dice, insieme ai 5 Stelle e alla Lega c’è anche un terzo incomodo, lo “Stato profondo” che ha potentissimi terminali anche al Quirinale, e lavora per sabotare il cambiamento. Nel bloccare la nomina di Paolo Savona al ministero dell’economia, Sergio Mattarella spiegò che “i mercati” (veri padroni della situazione, quindi, a prescindere dalle elezioni) non l’avrebbero gradito, quel ministro. Con Savona all’economia, non avrebbero esitanto a mettere nei guai l’Italia con il ricatto dello spread. Dal convegno londinese sul New Deal Europeo, organizzato dal Movimento Roosevelt, Cabras ha rincarato la dose: lo “Stato profondo” è insediato ovunque, anche nei ministeri oltre che al Colle, e sta frenando qualsiasi cambio di paradigma: «Lega e 5 Stelle sono divisi su tutto, tranne che su un punto: resistere al Deep State, nel tentativo di dare più soldi agli italiani». Magaldi apprezza il coraggio di Cabras, la cui denuncia – clamorosa – è passata sotto silenzio, letteralmente ignorata dai media. «Il Deep State, però, non può diventare un alibi: perché il governo gialloverde non ci ha nemmeno provato, a rompere le regole Ue con un bel 10% di deficit. Si è limitato a quel misero e inutile 2%, prendendo schiaffoni a Bruxelles e tornando a Roma con la coda tra le gambe».Poteva andare diversamente? «Doveva», dice Magaldi. Che spiega: tutto sta cambiando, ai piani alti. «E già oggi, i politici intenzionati a lavorare per il benessere della collettività non hanno più motivo di avere paura di essere soli, di fronte a chi vorrebbe delegittimarli con la diffamazione o addirittura ucciderli, come nel caso di Palme e Sankara, o magari farli sparire, come accadde a Federico Caffè». Ed ecco la rivelazione, che Magaldi anticipa il 15 aprile a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella diretta web-streaming settimanale del lunedì, su YouTube: al convegno milanese del 3 maggio (“Nel segno di Carlo Rosselli, Olof Palme e Thomas Sankara, contro la crisi globale della democrazia”) sarà lo stesso Magaldi a fornire dettagli inediti sui mandanti della sparizione di Caffè. Altre notizie clamorose saranno fornite dall’economista Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt e già allievo di Federico Caffè. Il professore era il più importante economista keynesiano: formò personaggi come Mario Draghi e Marcello De Cecco, Bruno Amoroso e Ignazio Visco (Bankitalia), Franco Archibugi e Giorgio Ruffolo. E poi Luigi Spaventa, Enrico Giovannini, Ezio Tarantelli (assassinato dalle Br) e lo stesso Alberto Bagnai, ora senatore leghista.Persino Wikipedia scrive che Federico Caffè fu uno dei principali diffusori della dottrina keynesiana in Italia, occupandosi tanto di politiche macroeconomiche che di “economia del benessere”: «Al centro delle sue riflessioni economiche ci fu sempre la necessità di assicurare elevati livelli di occupazione e di protezione sociale, soprattutto per i ceti più deboli». In altre parole, era il “cervello” dell’economia democratico-progressista: piena occupazione e welfare, cioè l’esatto contrario della politica del rigore che avrebbe preso il sopravvento, diventando un dogma – lo strapotere dei “mercati” – cui sembra piegarsi anche il Quirinale. La sua improvvisa scomparsa è un mistero rimasto irrisolto? Ufficialmente sì, ma non per Magaldi: secondo il presidente del Movimento Roosevelt, il convegno di Milano strapperà finalmente il velo sul caso Caffè. «C’è un filo rosso – avverte – che lega la sua sparizione agli omicidi di Olof Palme e Thomas Sankara». Palme, carismatico leader socialdemocratico svedese, era il faro del socialismo europeo: aveva varato il miglior welfare del continente e stava per essere eletto segretario generale dell’Onu. Una carica che gli avrebbe consentito di vegliare anche sull’Europa, scongiurando l’avvento del feroce ordoliberismo mercantilista che, da Maastricht in poi, ha rimesso in sella l’élite impoverendo il 99% della popolazione.Quanto a Sankara, parla per lui l’esodo dei migranti che sbarcano in Italia partendo dall’Africa Subsahariana affamata dal neocolonialismo: tre mesi prima di essere assassinato, il giovane leader del Burkina Faso aveva chiesto la cancellazione del debito estero e la fine degli aiuti finanziari all’Africa, vere e proprie catene post-coloniali. Il sogno del socialista Sankara? Un’Africa libera e sovrana, padrona a casa propria, capace di crescere basandosi sulle sue forze. «C’è un nesso che collega l’omicidio di Sankara e quello di Palme alla sparizione di Federico Caffè», insiste Magaldi, preparandosi a fornire dettagli inediti su quegli eventi che, nella seconda metà degli anni ‘80, hanno contribuito a plasmare lo sconfortante scenario di oggi. Un nome esemplare? Mario Draghi: il super-banchiere della Bce «non ha seguito il suo maestro, Federico Caffè, e oggi è nel gotha dei burattinai, degli artefici della involuzione post-democratica dell’Europa e del mantenimento del paradigma ideologico neoliberista in Europa e nel mondo». Paradigma spietato, per il quale ha duramente lavorato il Deep State massonico reazionario di cui lo stesso Draghi, secondo Magaldi, è un autorevolissimo esponente.Si può credere, a Magaldi? Qualcuno, di fronte al saggio “Massoni” (bestseller italiano, ignorato dai media mainstream) si è ritratto, rifugiandosi dietro l’assenza di prove documentali. Falso problema, assicura l’autore, che in premessa avverte: «Chiunque si senta diffamato me lo segnali, ed esibirò le carte che lo riguardano: dispongo di 6.000 pagine di documenti, troppo ingombranti per essere inseriti in un volume». Corollario: nessuno dei tantissimi big menzionati – Napolitano e Monti, lo stesso Draghi – si è azzardato a smentire alcunché. Meglio la consegna del silenzio. Ma il meccanismo innescato da quel libro sembra inesorabile: operazione trasparenza. Nel 2015, Magaldi ha fondato il Movimento Roosevelt. A fine marzo, ha promosso a Londra un confronto strategico tra economisti e politologi per mettere a fuoco un possibile New Deal europeo, basato sul recupero di Keynes (spesa pubblica strategica) per abbattere l’ideologia dell’austerity e restituire benessere alla popolazione. E ora è in arrivo l’assise milanese su Rosselli, Palme e Sankara, con anche le inedite news sulla sorte di Federico Caffè. «Questo incontro serve a dire: viviamo da decenni sotto la cappa di un’ideologia imperante e pervasiva, egemonizzante – il neoliberismo – che noi adesso rifiutiamo radicalmente».Il Movimento Roosevelt, continua Magaldi, si ispira alla lezione di Rosselli, Palme e Sankara: «Il nostro è un laboratorio politico che ha iniziato il suo percorso rivoluzionario a Londra, e a Milano affronta la sua seconda tappa». Teoria e pratica del Piano-B: «La nostra è un’ideologia social-liberale, opposta al neoliberismo: vogliamo proporla in Europa e nel mondo, ridando fiato a una corrente di pensiero che è stata rimossa, nei vari centrosinistra e centrodestra di tutto l’Occidente, a favore di una pervasività dogmatica del neoliberismo». Non si scherzava, ai tempi di Rosselli, ucciso su mandato del regime fascista di Mussolini. Ma c’era poco da ridere anche all’epoca di Palme, unico premier europeo assassinato mentre era in carica: freddato nella civilissima Svezia all’uscita di un cinema, nel cuore dell’Europa democratica. Il killer? Rimasto nell’ombra, ma fino a un certo punto: gli svedesi ricordano benissimo la strana morte del giallista Stieg Larsson, che al caso Palme si era interessato svolgendo indagini accurate, fino a consegnare alla polizia svariati documenti. La pista: servizi segreti, Deep State oscuro. Nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, uscito nel 2016, Gianfranco Carpeoro – dirigente del Movimento Roosevelt – ricorda che, alla vigilia dell’omicidio Palme, un certo Licio Gelli indirizzò al senatore statunitense Philip Guarino il seguente telegramma: “La palma svedese sta per cadere”.Se ti metti contro il Deep State, puoi rischiare la pelle: succede spesso, ed è capitato anche a Julian Assange. «Puoi essere fatto fuori con la diffamazione e la delegittimazione, con il fango che ti gettano addosso, oppure puoi essere eliminato». Assange? «Ha avuto coraggio», ammette Magaldi: «C’è dell’eroismo, nel suo agire». Per Magaldi, però, il destino del fondatore di Wikileaks non è segnato: «La questione è estremamente complessa», si limita per ora a dire l’autore di “Massoni”, lasciando capire che attorno al giornalista australiano si muovono forze diverse e opposte, e che l’estradizione richiesta da Trump potrebbe non trasformarsi in una feroce vendetta nei confronti di Assange. Il motivo? Sempre lo stesso: starebbe cambiando la natura del Deep State. O meglio, la sua composizione. «Oggi, se si ha il coraggio di svolgere il proprio mandato democratico – dichiara Magaldi – lo si può fare senza più il timore di essere eliminati, perché nel Deep State c’è stata, è in corso e si sta irrobustendo di mese in mese una riorganizzazione dei circuiti massonici progressisti, i quali non consentiranno – come è stato in passato – che nessun sincero politico democratico venga assassinato o eliminato in modo improprio».Beninteso: il nemico è ancora molto potente. Uomini che hanno conquistato i posti chiave della finanza, dell’economia, degli Stati. Magaldi li definisce «gli alfieri della massoneria neoaristocratica, i costruttori dell’ideologia neoliberista: quelli che tuttora gestiscono una globalizzazione di merci e capitali che non è fatta anche di diritti, di democrazia e di giustizia sociale». Ma aggiunge: «Credetemi, oggi a quei signori non conviene giocare sporco, nel momento in cui nella questione sono coinvolti anche i massoni democratico-progressisti che hanno la stessa consuetudine con il Deep State. Non gli conviene, è un problema di calcolo». E insiste: «Se c’è qualcuno che vuole agire a beneficio del popolo non abbia paura, non si lasci fermare da minacce o blandizie. Vada avanti per la sua strada, perché c’è chi è in grado, con la sua sola presenza, di frapporsi alle indebite interferenze da parte di rappresentanti del Deep State che vogliono sovvertire le regole del gioco democratico, piegandole a interessi opachi di natura privata». Per questo, aggiunge Magaldi, non hanno più scuse tutti quei politici «divenuti maggiordomi e camerieri, senza più quella forza di elaborazione politica che a molti, nel Novecento, è costata la vita».Oggi, assicura Magaldi, i politici che volessero davvero «difendere il senso e la dignità del proprio mandato, operando al servizio della collettività», possono evitare di farsi intimidire o corrompere per eseguire gli ordini dei soliti burattinai: «Li invito a cercare proprio nell’ambito del Deep State quei circuiti progressisti che sono impegnati per la difesa della democrazia, e che quindi potranno garantire che il Deep State oscuro non interferisca più con lo svolgimento di una normale dialettica democratica». Magaldi è stato affiliato alla Thomas Paine, la più progressista delle 36 Ur-Lodges che gestiscono il back-office del potere mondiale. Il suo Grande Oriente Democratico, movimento massonico d’opinione, è collegato alle superlogge progressiste. E’ in corso una sorta di guerra inframassonica: dopo decenni di letargo, la componente democratica si starebbe risvegliando. Le prove del contrattacco in corso? Tanto per cominciare, la sicurezza di cui ha goduto l’Italia durante l’ultima stagione dell’infame auto-terrorismo europeo, targato Isis ma gestito da settori inquinati dell’intelligence. E ora, dice Magaldi, i cavalieri oscuri del peggior Deep State si preparino: il convegno di Milano svelerà dettagli clamorosi anche sulla misteriosa scomparsa di Federico Caffè.Non abbiate paura, il Deep State non è più un monolite oscuro: tra le sue fila oggi ci sono anche i “buoni”, che vigilano sui politici coraggiosi. Tesi firmata da Gioele Magaldi, frontman italiano della massoneria progressista sovranazionale e autore del saggio “Massoni”, che nel 2014 ha svelato il vero volto – supermassonico – dell’oligarchia reazionaria che da decenni regge le sorti del pianeta. In vena di rivelazioni, Magaldi oggi si spinge oltre. Il caso Julian Assange? Aspettate e vedrete: non tutti i mali vengono per nuocere. Può darsi che il suo ruvido arresto non preluda a chissà quale punizione: niente di più facile che si ritorca contro i personaggi messi in imbarazzo proprio dal fondatore di Wikileaks (come Hillary Clinton, accusata di aver truccato le primarie democratiche Usa, che in realtà sarebbero state vinte dall’outsider Bernie Sanders). E non è tutto: il 3 maggio, a Milano, sono in arrivo rivelazioni potenzialmente esplosive sul mistero del professor Federico Caffè, insigne economista keynesiano scomparso da Roma il 15 aprile 1987. Dietro, anticipa Magaldi, c’è la stessa mano che un anno prima aveva assassinato il premier svedese Olof Palme, e che di lì a poco avrebbe ucciso Thomas Sankara, leader rivoluzionario del Burkina Faso. Tre personaggi scomodi, che ostacolavano il dominio globale neoliberista. Oggi però – altra notizia – non sarebbe più possibile eliminarli: «Fare il gioco sporco, ai nemici della democrazia, non conviene più: sanno perfettamente che in quello stesso Deep State ci sono anche elementi progressisti».
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Non basta vincere le elezioni, in Italia decide il Deep State
Non basta vincere le elezioni ed andare al governo, in Italia governa il Deep State. Ci sarebbe un’altra forza oscura con cui fare i conti: lo Stato profondo in grado di mettere bocca su tutto e di bloccare i tentativi di riforma di qualsiasi tipo di esecutivo. Specialmente di quelli che vogliono cambiare davvero lo status quo. In un paese normale, se dichiarazioni di questo tenore arrivassero da un parlamentare della maggioranza di governo, probabilmente su giornali e Tv non si parlerebbe di altro. Anche solo per contestarle. Invece, come diceva Grillo alcuni anni fa in uno spettacolo, l’Italia è in “leggera controtendenza”, e così le parole pronunciate a Londra dal deputato pentastellato Pino Cabras, sono passate sostanzialmente in cavalleria. Lo scenario dal quale si scoperchiano i meccanismi nascosti del potere è il “New Deal europeo”, incontro organizzato a Londra dal Movimento Roosevelt, presieduto da Gioele Magaldi, gran maestro del Grande Oriente Democratico. Lo stesso Magaldi, nel libro “Massoni”, aveva descritto con efficacia il cosiddetto back-office del potere. E Cabras non ha alcun problema nel confermarne l’esistenza, attribuendo a questa oscura entità il freno a molte politiche che il governo vorrebbe mettere in pratica.«Tra il dire ed il fare c’è lo Stato profondo, che determina la libertà di decisione su molte cose. Quando si è provato ad alzare la voce sulla questione economica, il governo è dovuto rientrare a più miti consigli dopo il confronto con le istituzioni europee. Ci sono strutture molto profonde che non possono essere ignorate, e che hanno un ruolo determinante nell’orientamento del potere. Non sono per niente facili da scardinare. La politica ha i suoi limiti, spesso rappresenta un tappo nei confronti dell’innovazione. Allo stesso tempo però ci sono leve inaggirabili con cui dobbiamo fare i conti. Questo governo aspira veramente al cambiamento ma non è formato solamente da Lega e Movimento 5 Stelle: c’è un terzo soggetto, lo Stato profondo, in grado di condizionare fortemente la stessa formazione della squadra dei ministri. Avremmo voluto scegliere altri nomi rispetto ad alcuni che poi hanno ricevuto l’incarico ma ci hanno risposto che non si poteva fare e che ci sarebbero stati tutti i mezzi costituzionali per impedirne la nomina. E così facendo questo governo non sarebbe mai nato. Il capo di Stato avrebbe potuto forzare la lettera della Costituzione e proseguire sul percorso legato a Cottarelli. Sarebbe stato un grande vulnus per la democrazia».Cabras ha ricordato come il cosiddetto Deep State non sia affatto un problema tutto italiano, riferendosi a quanto accade da sempre negli Stati Uniti. «Non penserete mica che Donald Trump sia davvero il decisore unico: nella successione tra un presidente e un altro, secondo voi, perché passano tutti quei mesi? C’è tutto un apparato che si muove. Il back-office del potere non è un’invenzione, si trova in un edificio molto in alto a Roma, il punto di equilibrio di tante realtà che hanno un ruolo molto rilevante nella storia di uno Stato, a tutela anche di questioni e settori diversi rispetto al modo abituale di pensare della politica. Stiamo incontrando fortissime resistenze, abbiamo approvato ad esempio lo scorso 30 dicembre i rimborsi ai risparmiatori truffati dalle banche. Servivano dei decreti attuativi ma nella firma ministeriale si è registrato un grandissimo ed inspiegabile ritardo. Ci sono funzionari in grado di rallentare tutto. E quando proviamo a introdurre innovazioni veniamo attaccati dal sistema mediatico sempre pronto a giustificare le resistenze di un sistema contro gli sfasciacarrozze della maggioranza».(Estratto dall’articolo “Non basta vincere le elezioni, Cabras: in Italia governa il Deep State”, firmato da Fabio Frabetti su “Money.it” l’11 aprile 2019).Non basta vincere le elezioni ed andare al governo, in Italia governa il Deep State. Ci sarebbe un’altra forza oscura con cui fare i conti: lo Stato profondo in grado di mettere bocca su tutto e di bloccare i tentativi di riforma di qualsiasi tipo di esecutivo. Specialmente di quelli che vogliono cambiare davvero lo status quo. In un paese normale, se dichiarazioni di questo tenore arrivassero da un parlamentare della maggioranza di governo, probabilmente su giornali e Tv non si parlerebbe di altro. Anche solo per contestarle. Invece, come diceva Grillo alcuni anni fa in uno spettacolo, l’Italia è in “leggera controtendenza”, e così le parole pronunciate a Londra dal deputato pentastellato Pino Cabras, sono passate sostanzialmente in cavalleria. Lo scenario dal quale si scoperchiano i meccanismi nascosti del potere è il “New Deal europeo”, incontro organizzato a Londra dal Movimento Roosevelt, presieduto da Gioele Magaldi, gran maestro del Grande Oriente Democratico. Lo stesso Magaldi, nel libro “Massoni”, aveva descritto con efficacia il cosiddetto back-office del potere. E Cabras non ha alcun problema nel confermarne l’esistenza, attribuendo a questa oscura entità il freno a molte politiche che il governo vorrebbe mettere in pratica.
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Massoni: Di Maio bussa alla Golden Eurasia, in barba al M5S
Luigi Di Maio omaggia Angela Merkel con un obiettivo preciso: spera di essere accolto nella Ur-Lodge della Cancelliera. Lo afferma il movimento massonico d’opinione “Grande Oriente Democratico”, presieduto da Gioele Magaldi, secondo cui il vicepremier grillino «bacia la pantofola della libera muratrice Angela Merkel per entrare nella superloggia Golden Eurasia e assicurarsi un avvenire a prescindere dal governo gialloverde e dalla sorte del M5S». Forte la polemica di Magaldi con Di Maio, accusato di essersi riproposto nei panni di «aspirante massone neoaristocratico», nonostante i 5 Stelle vietino ai propri esponenti (a parole) di avvicinarsi alla massoneria, a cui peraltro appartengono svariati uomini del governo Conte, inclusi i ministri Tria e Moavero. Di Maio? «Tradisce gli elettori pentastellati», lo accusa Magaldi, se dichiara – come ha fatto – che politici come la Merkel farebbero tanto bene anche all’Italia. «Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere», scrive “Grande Oriente Democratico”: «Ci auguriamo che Beppe Grillo, Davide Casaleggio, Alessandro Di Battista e tutti quei parlamentari, dirigenti, attivisti, elettori e simpatizzanti pentastellati che hanno sempre individuato in Angela Merkel la campiona dell’austerity e dei dogmi neoliberisti che hanno funestato l’Europa e l’Italia prendano Luigi Di Maio a pedate nel sedere e a pomodori in faccia».Non è senza precedenti, l’accusa rivolta a Di Maio dal presidente del Movimento Roosevelt, che nel saggio “Massoni” racconta che le 36 Ur-Lodges planetarie (sovranazionali e apolidi) reggono di fatto il potere mondiale. E’ il caso della stessa “Golden Eurasia”, alla quale secondo Magaldi sarebbero affiliati – oltre alla Merkel – anche il presidente russo Vladimir Putin, nonché l’ex cancelliere tedesco Gehard Schröder (poi arruolato dalla russa Gazprom come super-consulente) e l’ex manager industriale Peter Hartz, da cui Schröder mutuò la riforma neoliberista che precarizzò il lavoro in Germania, introducendo la flessibilità, la perdita dei diritti e i micro-salari (mini-job) che hanno poi fatto da battistrada in tutta Europa nell’annientare le storiche conquiste sindacali. «L’ipocrisia e la doppiezza di Luigi Di Maio si fanno addirittura iperboliche, perché il giovanotto ha bussato al gotha delle aristocrazie massoniche neoaristocratiche, non di quelle progressiste», scriveva Magaldi su “Grande Oriente Democratico” già nel febbraio 2018, durante la campagna elettorale per le politiche che poi avrebbero incoronato i 5 Stelle come primo partito, proiettandoli insieme alla Lega verso il futuro governo gialloverde.Secondo Magaldi, lo scorso anno, il leader grillino «per poco non è stato preso a pernacchie», in quei salotti di Londra e di Washington ai quali aveva bussato, «ma la vicenda ha un carattere tristemente esemplare, perché illustra efficacemente il modus operandi del personaggio in questione e di certa massonofobia militante, la quale privatamente anela proprio a ciò che in pubblico demonizza e discrimina». C’è un diffuso meccanismo, aggiungeva Magaldi, che «induce determinati soggetti politici a scagliarsi contro i massoni che si presentino ufficialmente come tali, senza paludamenti», per poi invece «accogliere a braccia aperte chi conservi un profilo massonico accuratamente segretato». Attenzione: la sortita anti-massonica di Di Maio – che si affrettò a dichiarare a “La7” che non avrebbe voluto massoni tra i piedi – non è stata affatto casuale, ma premeditata: «In quelle parole del candidato premier pentastellato c’è molta ambiguità e ambivalenza», disse Magaldi. Ovvero: «C’è un messaggio polivalente, rivolto a diversi interlocutori nazionali e internazionali». Un intervento «odioso e ipocrita, apparentemente massonofobico», in realtà indirizzato – in codice – a soggetti ai quali Di Maio si sta probabilmente ancora rivolgendo. Morale: «Il Movimento 5 Stelle merita un leader migliore».E adesso Di Maio che fa, ci riprova? Il leader dei 5 Stelle, scrive ora “Grande Oriente Democratico”, «non si è mai fatto scrupolo di demonizzare da una parte la massoneria e i massoni genericamente intesi (per titillare una porzione dell’elettorato italiano, massonofobico in modo becero, indifferenziato e insipiente), dall’altra, ipocritamente, di far insediare nel governo Conte diversi massoni e di sollecitare lui stesso, prima dell’esperienza della maggioranza gialloverde, una iniziazione presso qualche Ur-Lodge (superloggia sovranazionale) di segno neoaristocratico». In effetti, continua “God” sul proprio sito, «dopo la costruzione del governo attuale sembrava che Di Maio avesse optato per un avvicinamento alla “libera muratoria progressista” (al netto della perdurante e ipocrita massonofobia ostentata in pubblico)», visto che «almeno nominalmente i massoni del governo Conte appartengono a tali circuiti». Ma le dichiarazioni rese l’altro giorno al quotidiano tedesco conservatore “Die Welt” dimostrerebbero tutt’altro scenario: «Uno scenario inquietante, verminoso, squallido e scandaloso», sottolinea “Grande Oriente Democratico”, perché – bussando alla “Golden Eurasia” – Di Maio chiederebbe di essere accolto tra i massimi esponenti dell’ordoliberismo Ue a trazione tedesca, quello che ha schiantato l’economia italiana».Luigi Di Maio omaggia Angela Merkel con un obiettivo preciso: spera di essere accolto nella Ur-Lodge della Cancelliera. Lo afferma il movimento massonico d’opinione “Grande Oriente Democratico”, presieduto da Gioele Magaldi, secondo cui il vicepremier grillino «bacia la pantofola della libera muratrice Angela Merkel per entrare nella superloggia Golden Eurasia e assicurarsi un avvenire a prescindere dal governo gialloverde e dalla sorte del M5S». Forte la polemica di Magaldi con Di Maio, accusato di essersi riproposto nei panni di «aspirante massone neoaristocratico», nonostante i 5 Stelle vietino ai propri esponenti (a parole) di avvicinarsi alla massoneria, a cui peraltro appartengono svariati uomini del governo Conte, inclusi i ministri Tria e Moavero. Di Maio? «Tradisce gli elettori pentastellati», lo accusa Magaldi, se dichiara – come ha fatto – che politici come la Merkel farebbero tanto bene anche all’Italia. «Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere», scrive “Grande Oriente Democratico”: «Ci auguriamo che Beppe Grillo, Davide Casaleggio, Alessandro Di Battista e tutti quei parlamentari, dirigenti, attivisti, elettori e simpatizzanti pentastellati che hanno sempre individuato in Angela Merkel la campiona dell’austerity e dei dogmi neoliberisti che hanno funestato l’Europa e l’Italia prendano Luigi Di Maio a pedate nel sedere e a pomodori in faccia».
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Che bel regalo, Draghi senatore a vita e poi al Quirinale
Che bel regalo, se Mario Draghi venisse nominato senatore a vita. Regalo per chi? Ovvio: per quelli che, come Gioele Magaldi, sono impegnati a smascherare l’ineffabile inventore del “pilota automatico”, la tragica farsa dell’algoritmo finanziario che di fatto confisca la sovranità democratica e rende inutili le elezioni. «Una volta al potere in Italia, Draghi sarebbe costretto a mostrare il suo vero volto: e dovrebbe andare in giro non con una, ma con cinque scorte». Il draghetto Mario? «Più che a Palazzo Chigi o meglio ancora al Quirinale, lo vedrei bene in tribunale: dovrebbe rispondere, finalmente, di tutti i danni che ha causato al nostro paese», dice Magaldi, che nel saggio “Massoni” (Chiarelettere, 2014) traccia un profilo inedito del “venerabile” super-banchiere. Allievo dell’economista keynesiano Federico Caffè, si laureò con una tesi che oggi può sembrare sconcertante. Ovvero: imporre all’Europa una moneta unica sarebbe un suicidio economico. Poi, accadde qualcosa. Il 2 giugno 1992, anche Draghi – allora direttore generale del Tesoro – salì a bordo del panfilo Britannia ormeggiato a Civitavecchia, dove il gotha della finanza atlantica progettava la grande privatizzazione del Belpaese. Da allora, anche grazie a Super-Mario, s’è scritta tutta un’altra storia: crisi e disoccupazione, erosione dei risparmi, iper-tassazione. Fino al “golpe bianco” del 2011 innescato dalla letterina della Bce – firmata insieme a Trichet – per la “deposizione” di Berlusconi e l’avvento di Mario Monti, con la regia di Napolitano.Folgorante, l’ascesa di Draghi nell’élite finanziaria mondiale: dal vertice di Bankitalia a quello della Bce, la mega-banca che emette l’euro, cioè la moneta che sarebbe stata “impossibile” e letteralmente insostenibile, per il giovane studente Mario. Determinante, si dice, il transito negli Usa: Draghi è stato uno stratega della Goldman Sachs, la banca speculativa più temuta al mondo: quella che, tra l’altro, truccò i bilanci della Grecia, creando le premesse per il crollo di Atene. A disastro avvenuto, Draghi si occupò dei greci anche nelle vesti di inflessibile censore della Troika europea, in rappresentanza della Bce. Una conversione, la sua – da Keynes al neoliberismo – che lascia stupefatti: il geniale economista inglese aveva ispirato le politiche espansive che hanno arricchito l’Europa, mentre i suoi avversari (da Von Hayek a Friedman) hanno impoverito i nostri popoli, espropriandoli del potere statale di spesa a beneficio dell’oligarchia finanziaria, divenuta l’unica padrona del denaro. Come si spiega, un simile voltafaccia, da parte di quello che, ai tempi di Caffè, si presentava come un promettente economista post-keynesiano? L’immenso potere del denaro, certo: il dominio di Wall Street è divenuto assoluto, specie dopo che Clinton abolì il Glass-Stegall Act, la norma con la quale Roosevelt aveva tagliato le unghie alla speculazione (separazione netta tra banche d’affari e credito alle imprese). Franata la diga, la finanza predatoria è diventata una lotteria perversa, capace di piegare gli Stati. E oggi infatti eccoci qui, a elemosinare decimali di deficit, implorando una tecnocrazia di non-eletti.Ma non è tutto. Nel suo saggio, Magaldi svela un retroscena illuminante: il massone Draghi milita in ben 5 Ur-Lodges. Le superlogge sovranazionali sono in tutto 36 organismi occulti e molto trasversali, in grado di controllare il pianeta, ben al di sopra dei governi. Per la cronaca, il presidente della Bce sarebbe affiliato alla “Edmund Burke”, alla “Pan-Europa” e alla “Der Ring”, nonché alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum” e alla “Three Eyes”, veri e propri santuari della supermassoneria “neoaristocratica”, protagonista dell’attuale globalizzazione finanziaria e post-democratica imposta a mano armata anche con la guerra e, all’occorrenza, persino il terrorismo e la strategia della tensione, oltre che con l’arma dell’austerity che ha precarizzato il lavoro e impoverito le popolazioni occidentali. Tutto merito loro: a imporre le durezze della crisi sono i signori del “back office” supermassonico. Sono questi, dice Magaldi, i veri “azionisti” di Mario Draghi, comicamente celebrato – dai media – come una specie di salvatore della patria. E’ vero l’esatto contrario: l’Italia ha patito le conseguenze dell’azione di Draghi, che appartiene a un’oligarchia apolide, senz’altra patria che il denaro. «Viene presentato come il santo protettore dell’Italia? Mettetelo a Palazzo Chigi, e poi vedrete di che pasta è fatto», dice Magaldi, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”.Certo, visto dall’Italia oggi sembra remotissimo, Super-Mario, impegnato a vegliare sull’Europa dall’alto dell’Eurotower di Francoforte. Per questo, gli italiani riescono a bersi la versione del mainstream, che poi è questa: se non ha potuto fare abbastanza, per l’Italia, è perché il povero Draghi «aveva le mani legate dalle presunte regole della Banca Centrale Europea», e magari «era costretto a mediare con Jens Weidmann della Bundesbank». Tutte storie: «Fatelo governare, e vedrete di cosa sarà capace». Quanto sono fondate, le voci secondo cui Mattarella lo promuoverebbe senatore a vita, come già fece Napolitano con Monti, per poi proiettarlo a Palazzo Chigi? L’incarico alla Bce scadrà in autunno, e si sa che Draghi ambirebbe a prendere il posto di Christine Lagarde al vertice del Fmi. Secondo Magaldi, potrebbe anche concedersi un periodo sabbatico. Certo è che qualsiasi decisione sarà come sempre concertata con il super-potere finanziario, di cui Draghi resta una pedina di prima grandezza a livello mondiale. Senatore a vita, dunque? Non è dato saperlo. Probabilmente, dice Magaldi, la nomina potrebbe gradirla non tanto come “ascensore” verso la guida del governo, ma come viatico per un obiettivo più ambizioso: la presidenza della Repubblica. In ogni caso, aggiunge Magaldi, se mai dovesse fare il premier «sarebbe un regalo, per noi che combattiamo contro ciò che Mario Draghi rappresenta».Un simile esito sarebbe perfettamente speculare rispetto all’esperienza di Monti, che nel 2011 era osannato dai media, quando dalle pagine del “Corriere della Sera” «dispensava saggi consigli, ma non aveva mostrato come li avrebbe messi in pratica». Duro l’impatto con la realtà: «Averlo visto governare ci ha liberato per sempre dall’idea che Monti sia un uomo saggio e soprattutto preoccupato del bene collettivo degli italiani». Non pensate che con Draghi sarebbe diverso, chiarisce Magaldi, dal 2015 presidente del Movimento Roosevelt e ora promotore del “Partito che serve all’Italia”, per recuperare la perduta sovranità democratica. Draghi? Tuttora, viene proposto dal mainstream come il paladino degli interessi italiani, «l’uomo che ha risolto la crisi economica e che dalla Bce ha assicurato il “quantitative easing”, salvando le banche». Tutto falso: «Come banchiere centrale, è intervenuto quando i buoi erano già scappati dalla stalla, cioè quando l’economia europea era in picchiata e parecchi paesi erano ormai stati commissariati con l’avvento dei tecnocrati al governo». A quel punto, «Draghi ha fatto in modo che i denari arrivassero alle banche e non all’economia reale, per aiutare la quale non ha mosso un dito».Severo il giudizio di Magaldi sul super-banchiere europeo: «Mario Draghi è fra i registi di questa pessima governance post-democratica europea. E’ colui che ha detto che il “pilota automatico” è inserito nel sistema di gestione dell’economia dei vari paesi europei, e quindi non importa chi viene eletto: o aderisce alle indicazioni di questo “pilota automatico”, o viene delegittimato». In più c’è l’ombra, imbarazzante, della crisi Mps: «Insieme ad Anna Maria Tarantola, che all’epoca guidava la vigilanza di Bankitalia – continua Magaldi – Draghi è anche responsabile, per l’Italia, di quello che è accaduto nella pessima gestione del Monte dei Paschi di Siena». Quindi, non dovrebbe essere gratificato di un posto di senatore a vita: «Semmai – dice Magaldi – dovrebbe essere messo sotto processo, anche per i danni che ha fatto, nella gestione delle privatizzazioni all’italiana, come direttore generale del ministero del Tesoro, carica rivestita ininterrottamente dal 1992 al 2001». Purtroppo viviamo in un mondo orwelliano, che ribalta la verità: e così Mario Draghi, «che è stato tra i personaggi più funesti, per il destino d’Europa e d’Italia», oggi «viene santificato dai media mainstream».“Mister Euro” direttamente al comando dell’Italia, una volta rottamata la deludente esperienza gialloverde? Niente paura, dice Magaldi: «Questa situazione ci deve mettere di buon umore». E perché mai? «Perché è tipica dei momenti pre-rivoluzionari: alla vigilia di ogni rivoluzione, da chi occupa poltrone che stanno per franare miseramente proviene sempre un sussulto di arroganza, di disprezzo della verità, di imbroglio della comunicazione». Draghi a Palazzo Chigi? «Sarebbe un ottimo modo per vedere il suo vero volto, perché in questo mondo così veloce ormai le menzogne e i bluff durano poco. Dategli anche la presidenza della Repubblica, e poi ci divertiremo: perché ormai siamo arrivati alla frutta». Sulla crisi in corso, Magaldi è nettissimo: «L’Italia è stanca di essere malata, e ormai vede che non c’è stata nessuna cura». Pie illusioni, quelle alimentate dai gialloverdi: «Ignominiosa la rinuncia a lottare per il deficit, e vergognosa le genuflessione di Di Maio davanti alla Merkel». Tradotto: l’Italia ha perso un anno di tempo, dando credito a Lega e 5 Stelle. Domani il super-potere oserà schierare addirittura Draghi per spegnere gli ultimi focolai di ribellione, disinnescando la speranza che dall’Italia possa partire il riscatto democratico europeo? Quello, scommette Magaldi, sarà il segnale: di fronte a tanta arroganza, gli elettori finalmente insorgeranno. Primo passo: licenziare i finti rivoluzionari gialloverdi, che si sono fatti prendere a sberle dai signori di Bruxelles e dal loro nume tutelare, il potentissimo Mario Draghi.Che bel regalo, se Mario Draghi venisse nominato senatore a vita. Regalo per chi? Ovvio: per quelli che, come Gioele Magaldi, sono impegnati a smascherare l’ineffabile inventore del “pilota automatico”, la tragica farsa dell’algoritmo finanziario che di fatto confisca la sovranità democratica e rende inutili le elezioni. «Una volta al potere in Italia, Draghi sarebbe costretto a mostrare il suo vero volto: e dovrebbe andare in giro non con una, ma con cinque scorte». Il draghetto Mario? «Più che a Palazzo Chigi o meglio ancora al Quirinale, lo vedrei bene in tribunale: dovrebbe rispondere, finalmente, di tutti i danni che ha causato al nostro paese», dice Magaldi, che nel saggio “Massoni” (Chiarelettere, 2014) traccia un profilo inedito del “venerabile” super-banchiere. Allievo dell’economista keynesiano Federico Caffè, si laureò con una tesi che oggi può sembrare sconcertante. Ovvero: imporre all’Europa una moneta unica sarebbe un suicidio economico. Poi, accadde qualcosa. Il 2 giugno 1992, anche Draghi – allora direttore generale del Tesoro – salì a bordo del panfilo Britannia ormeggiato a Civitavecchia, dove il gotha della finanza atlantica progettava la grande privatizzazione del Belpaese. Da allora, anche grazie a Super-Mario, s’è scritta tutta un’altra storia: crisi e disoccupazione, erosione dei risparmi, iper-tassazione. Fino al “golpe bianco” del 2011 innescato dalla letterina della Bce – firmata insieme a Trichet – per la “deposizione” di Berlusconi e l’avvento di Mario Monti, con la regia di Napolitano.
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Magaldi: Di Maio omaggia la Merkel e “suicida” i gialloverdi
Magari ce l’avessimo noi, un politico come Angela Merkel. Giù il cappello: inchino firmato da Luigi Di Maio, intervistato da “Die Welt”. Ma come, il terribile leader “populista” italiano ora cinguetta parole d’amore per la cancelliera tedesca, donna-simbolo dell’eurocrazia teutonica che ha disastrato il nostro paese? Così, gli elettori 5 Stelle sono serviti: ecco fin dove s’è abbassato, il campione del “cambiamento” all’italiana, solo per tentare di differenziarsi dall’alleato-concorrente Salvini, che ha scelto di prendere il treno per Strasburgo in compagnia dei “sovranisti” Orban e Le Pen. «Viltà inaudita e imperdonabile, consegnare il Movimento 5 Stelle a questo esito: l’incredibile “genuflessione” alla Merkel fa di Luigi Di Maio un cialtroncello», sentenzia Gioele Magaldi: «Da ex “monello”, ora Di Maio è diventato “allievo modello”: spero venga defenestrato dal movimento, che non merita di avere questa classe dirigente». Durissimo, il presidente del Movimento Roosevelt, sul vicepremier grillino: dove sarebbe il coraggio che il valente Pino Cabras attribuisce a Di Maio, nel fronteggiare l’insidioso Deep State ramificato da Bruxelles al Quirinale? Eccolo, il vero Di Maio: «Un personaggio opportunista, preoccupato di salvarsi la poltrona avendo compreso che il cambiamento promesso è fallito». Per chi non l’avesse ancora capito, «il governo gialloverde non fa paura a nessuno». E se persino Di Maio tifa per la Merkel, tanto vale rinunciare alle urne delle europee: voto inutile.Salvini? Più bravo, se non altro, a salvare la faccia: «Almeno a parole, la Lega mantiene ancora un atteggiamento meno arrendevole verso Bruxelles», ammette Magaldi, in web-streaming su YouTube. «Però – aggiunge – ha anch’essa ceduto rovinosamente sul deficit, rinunciando alla linea di Paolo Savona». In più, la Lega «insiste nel baloccarsi con i sovranismi farlocchi come quello di Orban, che strizza l’occhio ai Popolari Europei». Quanto alla Le Pen, è «condannata a consegnare la Francia a qualsiasi avversario, da Hollande a Macron». Certo, Matteo Salvini «parla bene», ma nel momento della verità «se la fa sotto, anche lui, di fronte alle letterine di Juncker». Rispetto a Di Maio, almeno, «nel leader della Lega c’è un barlume di dignità, ma purtroppo senza consistenza: non ci sono parole per commentare la resa italiana di fronte al veto di Bruxelles sull’espansione del deficit». Attenzione: per Magaldi, le «frasi infelici» di Di Maio dimostrano la grande preoccupazione che agita il governo gialloverde: «Il Pil peggiora, l’Italia è malata e non c’è stata nessuna cura. Cosa si inventeranno, adesso? Quanto a lungo può reggere ancora, il bluff? Avanti così saranno spazzati via dalla storia: non è più tempo di piccoli uomini».E se frana l’esperienza gialloverde, aggiunge Magaldi, certo non rinasce il centrodestra berlusconiano: «Il popolo è stanco di chi propone le stesse solfe da 25 anni». Non sta meglio il Pd che attacca l’esecutivo Conte: «In passato, al governo, ha fatto anche di peggio». Nessuno infatti può rimpiangere Letta, Renzi e Gentiloni. La franosità della situazione italiana, per Magaldi, rivela una triste verità: «Il sistema non ha nessuna paura del “governo del cambiamento”, che infatti non ha cambiato niente. E oggi in Italia non c’è nessuna novità politica, né al governo né all’opposizione». Secondo il presidente del Movimento Roosevelt, promotore del “Partito che serve all’Italia” (prossima assemblea il 25 aprile a Roma), queste elezioni europee non cambieranno niente: un voto perfettamente sterile. «Non usciranno nuovi assetti di potere. Del resto, perché mai votare Di Maio se loda la Merkel? Tanto vale votare esponenti del Ppe». Per Magaldi occorre creare «un fronte democratico reale, che in Europa sconfigga gli equilibri attuali, basati sulla globalizzazione post-democratica». Persino il terrorismo targato Isis, aggiunge, «è alimentato dai gestori del sistema, per aumentare il potere di controllo sui cittadini».Di fronte a questo, aggiunge Magaldi, «non bastano più le sole analisi, offerte sporadicamente da voci alternative invitate in televisione solo come “sparring partner” degli esponenti dell’establihment». Insiste, il presidente del Movimento Roosevelt: «Non c’è più tempo per le riforme: serve una rivoluzione, che abbatta il paradigma dell’ideologia neoliberista». Come agire? «In modo nonviolento, ma risoluto: a muso duro, come Gandhi». Gli italiani, insiste Magaldi, capiranno ben presto che la missione del governo Conte è fallita, e che il sistema ordoliberista di Bruxelles «non può essere riformato dall’interno, ma solo rovesciato con una rivoluzione democratica su scala europea». Una rivoluzione, annuncia, «a cui il Movimento Roosevelt e il “Partito che serve all’Italia” daranno un decisivo contributo», partendo da una mobilitazione generale, porta a porta. Funzionerà? E’ inevitabile, sostiene sempre Magaldi, perché la situazione sociale è insostenibile, è l’inconsistenza dell’offerta politica è ormai palese. In campagna elettorale, Lega e 5 Stelle avevano denunciato chiaramente il problema. Poi però si sono fatti ingabbiare dal potere eurocratico: e ora – con il Pil in frenata – non potranno più gestire in modo indolore nemmeno il modestissimo deficit ottenuto per gentile concessione di Bruxelles. Un finale che sembra già scritto: “game over”, per i gialloverdi.Dettaglio ulteriormente increscioso, la smaccata giravolta di Di Maio in favore della Merkel, emblema vivente dell’austerity che i gialloverdi avevano promesso di contrastare: il Movimento 5 Stelle, con questa dirigenza, dimostra di non avere alcuna utilità per l’Italia, sostiene Magaldi. «A che serve fare la piattaforma Rousseu se poi è opaca, con i profili taroccati?», attacca ancora il presidente del Movimento Roosevelt, citando il filosofo illuminista Jean-Jacques Rousseau, l’inventore del “contratto sociale”, a cui deve il nome la piattaforma di Casaleggio. «Quale contratto sociale è possibile – aggiunge Magaldi – se Di Maio ora bacia la pantofola della Merkel, esattamente come tutti i suoi predecessori?». Era stato tra i pochi osservatori esterni, Magaldi, a difendere l’esordio gialloverde, meno di un anno fa, al punto da chiedere le dimissioni del Mattarella che aveva sbarrato a Savona le porte del dicastero dell’economia. Persino Di Maio aveva evocato l’impeachment, per attentato alla Costituzione. Ora – ammainate tutte le bandiere – eccolo prostrarsi ai piedi della Cancelliera. Non è nuovo, il Movimento 5 Stelle, a clamorosi voltafaccia (con relative figuracce, come il “no” rimediato dagli ultra-euristi dell’Alde quando Grillo chiese a Guy Verhofstadt di “traslocare” sotto le sue bandiere, in compagnia di Mario Monti, il gruppo europarlamentare pentastellato). Ora ci risiamo: gli ex “rivoluzionari” italiani tornano a bussare umilmente alle porte dei padroni d’Europa.Da posizioni oltranziste, un giornalista come Paolo Barnard l’aveva detto fin dall’inizio: è una follia, fidarsi della Lega e dei 5 Stelle come ipotetici paladini dell’Italia. Altri, invece – come Magaldi – all’esperimento gialloverde avevano concesso un’apertura di credito, sia pure condizionata, se non altro perché non c’erano alternative, in Parlamento, a leghisti e grillini: da una parte gli zombie del Pd renziano, dall’altra le salme (politiche) di Berlusconi e Tajani. Contro il governo gialloverde anche tutti i grandi media, a reti unificate. Di Maio pasticcione, Toninelli gaffeur. E soprattutto, Salvini “fascista”. Non ha avuto vita facile, il governo Conte: è stato continuamente sabotato dallo “Stato profondo”, avverte lo stesso Cabras, neo-parlamentare pentastellato. A maggior ragione: quale tipo di demenza autolesionistica ha spinto Di Maio a omaggiare la Merkel? Così si accelera soltanto la rottamazione dei gialloverdi, e in particolare dei 5 Stelle. Senza che l’Italia – stando così le cose – abbia una sola speranza di veder cambiare la situazione. Tanto vale stare a casa, il 26 maggio: ora – chiosa Magaldi – sappiamo definitivamente che votare per Di Maio e Salvini non servirà proprio a niente.Magari ce l’avessimo noi, un politico come Angela Merkel. Giù il cappello: inchino firmato da Luigi Di Maio, intervistato da “Die Welt”. Ma come, il terribile leader “populista” italiano ora cinguetta parole d’amore per la cancelliera tedesca, donna-simbolo dell’eurocrazia teutonica che ha disastrato il nostro paese? Così, gli elettori 5 Stelle sono serviti: ecco fin dove s’è abbassato, il campione del “cambiamento” all’italiana, solo per tentare di differenziarsi dall’alleato-concorrente Salvini, che ha scelto di prendere il treno per Strasburgo in compagnia dei “sovranisti” Orban e Le Pen. «Viltà inaudita e imperdonabile, consegnare il Movimento 5 Stelle a questo esito: l’incredibile “genuflessione” alla Merkel fa di Luigi Di Maio un cialtroncello», sentenzia Gioele Magaldi: «Da ex “monello”, ora Di Maio è diventato “allievo modello”: spero venga defenestrato dal movimento, che non merita di avere questa classe dirigente». Durissimo, il presidente del Movimento Roosevelt, sul vicepremier grillino: dove sarebbe il coraggio che il valente Pino Cabras attribuisce a Di Maio, nel fronteggiare l’insidioso Deep State ramificato da Bruxelles al Quirinale? Eccolo, il vero Di Maio: «Un personaggio opportunista, preoccupato di salvarsi la poltrona avendo compreso che il cambiamento promesso è fallito». Per chi non l’avesse ancora capito, «il governo gialloverde non fa paura a nessuno». E se persino Di Maio tifa per la Merkel, tanto vale rinunciare alle urne delle europee: voto inutile.
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Rai e cultura restano al Pd: nessuno “racconta” i gialloverdi
Ma dov’è la rivoluzione culturale di un governo che si è presentato come una svolta radicale rispetto all’establishment, alle “élite” e ai poteri precedenti? Dieci mesi sono pochi per cambiare ma sono abbastanza per indicare una direzione, per delineare almeno un’intenzione, l’avvio di un nuovo percorso. E invece non s’intravede l’accenno di un inizio. Né sul piano delle idee e dei programmi né sul piano degli uomini e dei criteri di selezione. Totale continuità, piatta prosecuzione dell’ancien régime, conformità al politically correct, permanenza dell’egemonia culturale precedente. Vedete la Rai, vedete le istituzioni e i luoghi della cultura, vedete il clima generale. Come già accadde al tempo del centro-destra, oltre l’ossequio formale al governo in carica, magari l’intervista-marchetta al leader di turno e il trattamento di favore ad personam ai personaggi governativi, la narrazione generale è sempre la stessa, gli uomini che la somministrano sono pressoché gli stessi, i criteri e le priorità sono rimasti invariati. Nei telegiornali la musica non è cambiata, l’impostazione è la stessa.Sembra che al Tg1 il carneade che ne ha assunto la guida vada a lezioni private dal predecessore. Ad eccezione del Tg2 diretto da Gennaro Sangiuliano, sembra che tutto sia rimasto invariato in tutte le testate, a partire dalla linea, salvo lo spazio inevitabile alle iniziative del governo e un minuto di celebrità ai suoi esponenti. Il linguaggio è lo stesso e la suddivisione degli spazi risulta sbilanciata ancora a favore della sinistra: in generale le voci filogovernative vengono di solito sommerse e doppiate dal coro invariante e polemico delle opposizioni. In media: due opinioni governative contro quattro antigovernative. La formula è stanca e si ripete in modo meccanico, le dichiarazioni dei microfonisti di partito suonano come nenie e mantra, testi imparati a memoria da foche ammaestrate. Non diverso è il clima che si respira nelle reti televisive, dove l’immagine della Rai resta ancorata a personaggi-simbolo, come Fabio Fazio che cercando il martirio ha perfino aumentato le dosi del suo sinistrismo becero e untuoso per rimarcare la sua gloriosa opera di Dissidente Eroico, pagato pochi milioni di euro per dire, fare, invitare tutto ciò che è contrario a quel che dice, pensa e fa l’opinione “salviniana” oggi prevalente in Italia.Ma il coro resta lo stesso ed è linciaggio se qualcuno osa dire qualcosa di buon senso, come per esempio, restituire la compagnia di giro della sinistra televisiva a un suo canale dedicato, come era RaiTre, evitando lo sconfinamento che ferisce la maggioranza degli utenti non allineati al loro catechismo. Pagano un canone e non vogliono subire un canone ideologico. Ma il discorso sulla Rai fa il paio con le istituzioni culturali rimaste invariate nei loro assetti. Un esempio tra tanti, la Dante Alighieri in cui è stato confermato il fondatore della comunità di sant’Egidio ed ex-ministro dei governi di sinistra, Andrea Riccardi; ma la stessa cosa accade nelle direzioni dei musei e degli istituti culturali in Italia e all’estero, rimasti d’impronta renziana e franceschiniana, o all’Enciclopedia italiana, il cui direttore generale, il dalemiano Massimo Bray, è anche presidente della Fondazione per il Libro, la Musica e la Cultura. Per non dire del ruolo dell’Anpi e di altri organismi politicamente orientati a sinistra nelle scuole, nelle istituzioni pubbliche e nelle ricerche finanziate con denaro pubblico.Non basta l’egemonia culturale nelle università o nell’editoria, i festival del libro, gli organismi culturali ma anche ciò che dipende direttamente dal governo, resta tutto invariato. Certo, alcuni ruoli non sono in scadenza, altri non dipendono direttamente dal governo, ma tutto resta come prima. Qualcosa faticosamente si muove a livello locale, ma la spiegazione di questa diversità è semplice: nei governi locali non ci sono i grillini che sono il cavallo di troia del politically correct, i portatori sani di cultura radical-progressista. Oltre l’acquiescenza e la complicità dei grillini quali sono i motivi di questa neutralità o remissività sul piano culturale? Paura di attacchi e quieto vivere; ignoranza della materia; assenza di nomi e conoscenze alternative; penuria di visione culturale, di strategia e lungimiranza. Non capiscono, i governativi, che nessuna rivoluzione sarà mai possibile se non parte e non passa dalle idee, dai luoghi chiave in cui si forma e si stratifica il consenso, dai messaggi, dalla cultura e dalla mentalità.Pensare di cambiare un paese solo a colpi di tweet e boutade, appelli di pancia e grandi annunci di leggi e riforme, senza nessun racconto, nessuna profonda trasformazione, nessun cambiamento di verso e di simboli, è una puerile, rovinosa illusione. Così facendo e persistendo, passeranno senza lasciar traccia quando il vento cambierà e gli umori si sposteranno su altri temi e altre facce. Non è bastata la lezione del centro-destra che non ha lasciato eredità di alcun tipo sul piano culturale-istituzionale? Tutto questo accade mentre Zingaretti e gli altri esponenti della sinistra, con sprezzo del ridicolo, continuano a denunciare la spartizione dei posti e l’occupazione vorace delle poltrone da parte del governo. Col supporto e la risonanza della stampa e propaganda fiancheggiatrice. Se lo occupano loro è norma, se lo fanno gli altri è anomalia. Ma il ridicolo è che nemmeno lo fanno, e restano quasi dappertutto le tanto detestate “élite” del precedente establishment. Accusati di spartirsi le poltrone che restano saldamente sotto i glutei sinistri…(Marcello Veneziani, “La rivoluzione apparente”, da “La Verità” del 4 aprile 2019; articolo ripreso sul blog di Veneziani).Ma dov’è la rivoluzione culturale di un governo che si è presentato come una svolta radicale rispetto all’establishment, alle “élite” e ai poteri precedenti? Dieci mesi sono pochi per cambiare ma sono abbastanza per indicare una direzione, per delineare almeno un’intenzione, l’avvio di un nuovo percorso. E invece non s’intravede l’accenno di un inizio. Né sul piano delle idee e dei programmi né sul piano degli uomini e dei criteri di selezione. Totale continuità, piatta prosecuzione dell’ancien régime, conformità al politically correct, permanenza dell’egemonia culturale precedente. Vedete la Rai, vedete le istituzioni e i luoghi della cultura, vedete il clima generale. Come già accadde al tempo del centro-destra, oltre l’ossequio formale al governo in carica, magari l’intervista-marchetta al leader di turno e il trattamento di favore ad personam ai personaggi governativi, la narrazione generale è sempre la stessa, gli uomini che la somministrano sono pressoché gli stessi, i criteri e le priorità sono rimasti invariati. Nei telegiornali la musica non è cambiata, l’impostazione è la stessa.
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Con Haftar, la Francia riprova a sfrattare l’Italia dalla Libia
La Francia ci sta riprovando: vorrebbe sfrattare l’Italia dalla Libia, come già tentato da Sarkozy all’epoca dell’omicidio di Gheddafi. La nuova pedina francese si chiama Khalifa Aftar, uomo forte della Cirenaica: l’ordine di marciare su Tripoli è partito dall’Eliseo, dove ora a comandare è Macron. Ma la “guerra lampo” per conquistare la Tripolitania è già fallita. Rischi enormi di guerra civile, ovviamente, ed esplosione del caos. Vie d’uscita? Una sola: pazienti pressioni diplomatiche, per rimettere insieme i cocci di una Libia plausibile, che oggi è il vero campo di battaglia di tutte le potenze che si stanno contendendo l’egemonia sul Mediterraneo. L’analisi è firmata da Renato Farina sul “Sussidiario”. Premessa: bisogna «uscire da una meschina restrizione d’animo (e anima) per cui quelli che conterebbero sarebbero solo gli immediati interessi italiani». Più che mai, in questo caso, le chance dell’Italia «coincidono con il bene di questa parte di mondo, il Mediterraneo, ormai terreno di scontro tra le superpotenze, e il retroterra umano: l’Africa e le sue genti». Sconsigliabile limitarsi al “particulare” nazionale, avverte Farina: per servire davvero l’Italia conviene «alzare lo sguardo», oltre l’immediato orticello (petrolio e gas, Eni e migranti). Come? Fungendo da “ponte” credibile tra mondi diversissimi, oggi sul piede di guerra.«Khalifa Aftar punta ad essere il nuovo Gheddafi», spiega Farina. «Per questo ha preso la rincorsa con le sue troppe mobili per prendersi tutta la Libia». Haftar è partito da Bengasi, capitale della Cirenaica, per occupare la Tripolitania, e sconfiggere «quelli che chiama – non del tutto a torto – “i terroristi”». Sulla carta, a Tripoli siede il governo unitario di tutta la Libia, guidato da Fayez al Serraj. «Costui in effetti è un re travicello, espressione dei Fratelli Musulmani, piazzato dall’Onu e in rapporti di sudditanza con i gruppi islamisti coinvolti con il traffico di migranti, che gli tengono la pistola sulla tempia». Tuttavia, aggiunge Farina, Serraj è anche l’uomo che tutti i recenti governi italiani «hanno accettato, sostenuto, e con cui hanno trattato». Per due ragioni: «Partivano dalle coste della Tripolitania i battelli dei migranti condotti dai trafficanti d’uomini; ed è soprattutto in quel territorio che l’Eni pompa petrolio e gas, e per noi è strategico preservare le forniture d’energia». Il problema? In una Libia frantumata, abbiamo preteso di risolvere le questioni «occupandoci solo dell’ultimo miglio, e da soli». E l’abbiamo fatto «prima con una meritoria opera di salvataggio e accoglienza, poi con una chiusura senza brividi di umanità». In un caso e nell’altro, sostiene Farina, «senza visione geopolitica», ovvero senza la capacità di «mettere al servizio degli ideali la conoscenza del rapporto tra le potenze nella consapevolezza dei fattori in gioco».Certo non è facile, ammette Farina, che però ricorda che l’Italia vanta «un patrimonio storico rappresentato dal filone De Gasperi, Moro, Andreotti, Cossiga, Craxi», ovvero «gente capace di dialogo, uomini che vedevano la collocazione dell’Italia nel Mediterraneo come un’occasione di amicizia e di pace, cerniera positiva tra l’Occidente dalle radici cristiane con il mondo musulmano ed ebraico». Tutto questo è stato dimenticato, osserva Farina. Nella Libia del dopo-Gheddafi ci siamo limitati a «guadagnare legami superficiali e spesso ricattatori di convenienza, senza lungimiranza, con chi capitava e poteva garantirci un minimo di tranquillità sui confini». Secondo Farina, dal 2011 in poi il solo Marco Minniti – ministro dell’interno con Gentiloni, ha «provato a spezzare le catene di un minimalismo pragmatico», cercando di «andare con Tripoli ma oltre Tripoli, non riducendo la politica delle migrazioni al tentativo illusorio di tamponare il flusso». Anziché limitarsi alla gestione del “rubinetto”, Minniti avrebbe cercato di stabilire rapporti di fiducia «sia con le tribù che proteggevano gli schiavisti, sia con i governi che si affacciano sul Sahara». La speranza: «Impiantare sia in Italia sia in Europa la consapevolezza che, se abbandoniamo l’Africa, essa morendo ci ucciderà».Oggi, continua Farina, dinanzi all’azione improvvisa di Haftar, «che manda al diavolo tutte le strette di mano e gli accordi con Serraj», l’Italia è si è scoperta «totalmente sprovveduta e balbettante». Haftar, spiega Farina, non è solo il capo della Cirenaica, il generale legato all’Egitto, all’Arabia Saudita e alla Russia. «Haftar è la Francia», sottolinea Farina: «Non un amico della Francia, ma il suo personale Gheddafi». Tanto per capirci: «Il tentativo di Sarkozy, appoggiato dalla Clinton e da Cameron, di prendere il posto dell’Italia come riferimento economico e strategico di Tripoli, può realizzarsi con la sperata vittoria di Haftar, armato da Parigi con il tramite degli Emirati Arabi Uniti». Solo che la guerra-lampo non ha funzionato. «Haftar credeva di schiantare le milizie legate ai Fratelli Musulmani (finanziate dal Qatar e dalla Turchia) in pochi giorni. Si era comprato l’accordo con molte delle 240 milizie all’opera in Libia. Ma sono accordi beduini, scritti appunto sulla sabbia. E il trionfo non gli è riuscito». La Russia, «che in teoria dovrebbe stare con Haftar, e che ha disegni egemonici sul Mediterraneo in sostituzione degli Usa», di fatto «non ha condiviso l’azione frettolosa del generale, la cui formazione è stata nell’Armata Rossa sovietica». E dal suo l’America, com’era prevedibile, «dinanzi al colpo di mano ha alzato la voce». E così «la Francia ha dovuto adeguarsi, chiedendo ai cirenaici di fermarsi e trattare».Buona cosa, osserva Farina, che aggiunge: il ministro degli esteri del governo gialloverde, Enzo Moavero Milanesi, ha conoscenza delle procedure e credibilità internazionale. Le doti ideali, insomma, per poter essere un ottimo mediatore. «Perché la cosa peggiore di tutte, in ogni senso – scrive Farina – è l’esplodere di una guerra civile, con migliaia di morti». La conseguenza immediata sarebbe «la sua tracimazione in Italia con attentati tramite “foreign fighters”, centomila migranti caricati su canotti e mandati allo sbaraglio». Sempre secondo Farina, «è bene che non si premi l’aggressione di Haftar (e della Francia)». Alla vigilia dell’assemblea di concordia nazionale, organizzata dall’Onu a Ghadames a metà aprile (proprio nel giorno in cui il segretario generale Onu era a Tripoli) Haftar «ha fatto come Brenno, ha messo la sua spada sul piatto della bilancia». Comunque vada a finire, conclude Farina, gli equilibri in Libia sono cambiati a suo favore: e non ci possiamo fare niente. «Ma sarebbe un prezzo accettabile, purché gli si imponga ragionevolezza, si ottenga la pace e un percorso elettorale trasparente, sorvegliato con un preminente impegno dell’Italia». Niente guerra civile, insomma, o interventi armati occidentali. Molto meglio «rendere conveniente la pace», tramite «pressioni diplomatiche consapevoli di forze piccole e grandi, implicate nell’ombra dello scacchiere». Soprattutto: «Alziamo lo sguardo, non chiudiamoci nel nostro orto con il filo spinato. Marciremmo, e pure male».La Francia ci sta riprovando: vorrebbe sfrattare l’Italia dalla Libia, come già tentato da Sarkozy all’epoca dell’omicidio di Gheddafi. La nuova pedina francese si chiama Khalifa Aftar, uomo forte della Cirenaica: l’ordine di marciare su Tripoli è partito dall’Eliseo, dove ora a comandare è Macron. Ma la “guerra lampo” per conquistare la Tripolitania è già fallita. Rischi enormi di guerra civile, ovviamente, ed esplosione del caos. Vie d’uscita? Una sola: pazienti pressioni diplomatiche, per rimettere insieme i cocci di una Libia plausibile, che oggi è il vero campo di battaglia di tutte le potenze che si stanno contendendo l’egemonia sul Mediterraneo. L’analisi è firmata da Renato Farina sul “Sussidiario”. Premessa: bisogna «uscire da una meschina restrizione d’animo (e anima) per cui quelli che conterebbero sarebbero solo gli immediati interessi italiani». Più che mai, in questo caso, le chance dell’Italia «coincidono con il bene di questa parte di mondo, il Mediterraneo, ormai terreno di scontro tra le superpotenze, e il retroterra umano: l’Africa e le sue genti». Sconsigliabile limitarsi al “particulare” nazionale, avverte Farina: per servire davvero l’Italia conviene «alzare lo sguardo», oltre l’immediato orticello (petrolio e gas, Eni e migranti). Come? Fungendo da “ponte” credibile tra mondi diversissimi, oggi sul piede di guerra.
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Magaldi: gialloverdi al 70% se osano sfidare il Deep State
Primo round: il governo gialloverde fa qualcosa di veramente eretico, straordinario e rivoluzionario. Ovvero: annuncia un deficit del 7-8%, o anche del 10%. Secondo round: l’eurocrazia insorge, massacrando l’Italia con ogni mezzo. E quindi minacce, ritorsioni, spread a mille, bocciatura del bilancio (e assedio dei media pro-Ue, a reti unificate). Terza mossa: il governo si dimette, clamorosamente, appellandosi agli elettori. Magari indice un referendum, come quello voluto in Grecia da Tsipras. Poi affronta nuove elezioni, e incassa un plebiscito: gialloverdi al 70% dei consensi. A quel punto, finalmente, la resa dei conti: epurazione di tutti i burocrati infiltrati dal potere-ombra negli uffici che contano, cominciando dai ministeri. Un sogno? Per ora, sì. Ma se non si agisce in questo modo, sostiene il sognatore Gioele Magaldi, la rivoluzione non l’avremo mai. E attenzione: per come siamo ridotti, proprio una rivoluzione – pacifica, democratica – è l’unica soluzione possibile, l’unica via d’uscita dignitosa dall’euro-stagnazione inflitta a tutta l’Europa, e in particolare all’Italia, dai signori del neoliberismo. Sono i super-oligarchi che impongono regole di ferro agli altri, ma campano alla grande facendosi fare leggi su misura per il loro business, anche truccando i conti pubblici come fa la Germania (che dichiara un debito all’80% del Pil mentre quello reale è il triplo).Non se ne esce mai, dal trappolone europeo? Certo, e non se ne uscirà fino a quando il cosiddetto Deep State sarà saldamente radicato in tutti i gangli vitali dello Stato. Burocrati e tecnocrati, servizi segreti pubblici e privati, banca centrale, uffici ministeriali, Quirinale. Ne ha parlato apertamente un parlamentare pentastellato, Pino Cabras, il 30 marzo a Londra. Eletto alla Camera in Sardegna lo scorso anno, Cabras – storico collaboratore di Giulietto Chiesa – ha partecipato al convegno “Un New Deal per l’Italia e per l’Europa”, promosso dal Movimento Roosevelt, soggetto meta-partitico fondato da Magaldi per rigenerare in senso democratico la politica italiana, stimolando i partiti a fare di più per recuperare la perduta sovranità popolare. Decisamente fuori programma l’esplicita ammissione di Cabras: a unire Lega e 5 Stelle, alleati ma sostanzialmente divisi su tutto, è l’impegno a resistere insieme alle “mostruose” pressioni del Deep State, che si è attivato per frenare il cambiamento promesso: dare più soldi agli italiani, ampliando il welfare e tagliando le tasse. Ed è intervenuto sin dal primo giorno, lo “Stato profondo”, inserendo le sue pedine nell’esecutivo Conte. Postilla: senza i “controllori di volo” (esempio, Tria al posto di Savona), il governo non sarebbe mai nato.Di Maio e Salvini hanno accettato la sfida: meglio di niente, si sono detti, perché solo il governo gialloverde (benché azzoppato in partenza) avrebbe potuto almeno tentare di cambiare qualcosa, liberando l’Italia dall’incubo dell’austerity. Ce l’ha fatta? No, purtroppo. Si è visto bocciare persino la timida richiesta di portare il deficit al 2,4%, cioè ben al di sotto del famigerato tetto del 3% imposto da Maastricht (e che la Francia di Macron violerà, con l’alibi della protesta dei Gilet Gialli). Proprio i Gilet Jaunes, sostiene Magaldi, erano un regalo della massoneria progressista internazionale. Il piano: destabilizzare la Francia, sentinella dell’euro-rigore, proprio mentre l’Italia friggeva, per quel misero 2,4%, sulla graticola della Commissione Europea. Ma il governo Conte non ne ha saputo approfittare: raro caso di insipienza politica e di mancanza di coraggio, di assenza di visione. Ora i pericoli sono dietro l’angolo: senza la necessaria benzina finanziaria per mantenere le promesse, i 5 Stelle sono già in picchiata nei sondaggi. Regge la Lega, ma solo per ora, grazie alla muscolarità (verbale) di Salvini. Però il tempo vola: in soli due anni, Matteo Renzi è passato dal 40% all’estinzione politica.Si spera nelle europee, per erodere il potere dello “Stato profondo” neoliberista che utilizza come clava l’asse franco-tedesco? Pie illusioni: secondo Magaldi non cambierà proprio niente, fino a quando la bandiera della protesta sarà agitata dai sedicenti sovranisti, velleitari demagoghi delle piccole patrie. Per chi non se ne fosse accorto, impera la globalizzazione: tutto è fatalmente interconnesso. Nessun paese, da solo, può sperare di uscire indenne da una fiera diserzione. Parla per tutti la Grecia, che disse “no” all’euro-tagliola. Risultato: Tsipras fu intimidito e costretto a piegarsi, tradendo la volontà del popolo. Alla Grecia arrivarono aiuti finanziari, ma solo per soccorrere le banche tedesche e francesi esposte con Atene. Il paese è stato sventrato, svenduto e distrutto, riducendo i greci in povertà. E nessuno Stato europeo è intervenuto in suo soccorso. In Francia, era stato François Hollande a candidarsi come anti-Merkel, promettendo di allentare il rigore di bilancio imposto da Bruxelles. Esito inglorioso: blandizie e minacce, compresi gli attentati terroristici targati Isis. In pochi mesi, Hollande ha ceduto su tutta la linea, rassegnandosi al ruolo di docile esecutore dell’ordoliberismo Ue.Anni fa, proprio Magaldi sosteneva che solo l’Italia avrebbe potuto accendere la miccia del cambiamento. «L’Italia traccia le strade», diceva Rudolf Steiner, attribuendo al Belpaese un ruolo storico di battistrada. Una specie di destino: prima il “format” dell’Impero Romano, poi il Rinascimento e la democrazia comunale, le prime università, le prime banche. Italia caput mundi, nel bene e nel male: in fondo, Hitler si considerava allievo del maestro Mussolini. Proprio l’Italia primeggiò ancora una volta nel dopoguerra: fece il record mondiale di crescita, con il boom economico, anche se non tutti applaudivano. L’uomo-simbolo di quegli anni ruggenti, Enrico Mattei, fu disintegrato a bordo del suo aereo. Oggi, dopo mezzo secolo, l’Europa è ancora una volta alle prese con il “problema” Italia, grazie a un governo teoricamente non-allineato a Bruxelles. Esecutivo capace di firmare un memorandum d’intesa commerciale con la Cina, che irrita pericolosamente gli Usa e manda su tutte le furie Parigi e Berlino, ovvero i due maggiori nazionalismi anti-europeisti su cui si regge l’infame Disunione Europea, quella che ha lasciato morire impunemente i bambini greci, negli ospedali rimasti senza medicine.Non bastano più, dice Magaldi, le sole analisi degli economisti democratici che in questi anni hanno smascherato tutte le bugie del neoliberismo. La prima: tagliare il debito pubblico risana l’economia. Falso: lo dimostra la scienza economica, da Keynes in poi, e lo confermano Premi Nobel come Krugman e Stiglitz. Ovvero: il deficit strategico – a patto che sia massiccio, e investito con oculatezza – può valere anche il 400%, in termini di Pil. Tradotto: oggi spendo dieci, e domani incasserò quattro volte tanto (lavoro, salari, consumi, e infine anche tasse). Beninteso: lo sanno tutti, a cominciare da quelli che fingono di non saperlo. Come Mario Draghi, che fu allievo del maggior economista keynesiano europeo – italiano, tanto per cambiare: il professor Federico Caffè. Tesi di laurea del giovane Draghi: l’insostenibilità di una moneta unica europea. Farebbe ridere, se non ci fosse da piangere. Specie se si calcola che Draghi fu accolto a bordo del Britannia, all’epoca della grande spartizione della Penisola, alla vigilia delle privatizzazioni degli anni ‘90 che hanno sabotato la nostra florida economia. Lo stesso Draghi ha lasciato il segno anche in Grecia: prima come manager della Goldman Sachs, la banca-killer che gonfiava i bilanci di Atene, e poi – a disastro compiuto – come inflessibile censore della Bce, in seno alla spietata Troika europea.Ancora lui, Mario Draghi, è l’uomo a cui risponde, di fatto, il governatore di Bankitalia. E proprio da Ignazio Visco, il presidente Mattarella – con una mossa senza precedenti – spedì l’allora premier incaricato, Conte, a prendere appunti su come non attuarlo affatto, il cambiamento appena promesso agli elettori. Pino Cabras lo chiama “Stato profondo”, e difende la strategia di Di Maio e Salvini: accettare la logica di una guerra di logoramento, dice Cabras, è l’unica soluzione praticabile. Non la pensa così Gioele Magaldi: a suo parere, è una tattica perdente. Nel libro “Massoni”, uscito nel 2014 per Chiarelettere, ridisegna la mappa del Deep State, presentandolo come interamente massonico. Un potere a due facce: quella progressista (da Roosevelt ai Kennedy, fino allo svedese Olof Palme) spinse avanti la modernità dei diritti sociali in senso democratico, nei decenni del grande benessere diffuso. L’altra faccia, oligarchica – Merkel e Macron, Prodi e D’Alema, lo stesso Draghi – ha chiuso i rubinetti della finanza pubblica, inaugurando la globalizzazione del rigore e quindi l’impoverimento generale della popolazione occidentale, fino alla quasi-sparizione della classe media (che infatti oggi in Italia vota Salvini e Di Maio).Contro questo regime, insiste Magaldi, non valgono più né le pregevoli rivelazioni dei tanti economisti onesti, né i recenti tatticismi dei gialloverdi. Serve una rivoluzione, a viso aperto. Un paese che dica: “Adesso sforiamo il tetto di Maastricht. E se non vi va bene, sospendiamo la vigenza dei trattati europei”. Addirittura? Certo, altra via non esiste. Se ci si piega al racket, l’estorsione continua all’infinito. Anche in politica: la molla su cui fa leva il prevaricatore è sempre la stessa, la paura. Se si smette di avere paura, tutto il castello crolla. Perché quel ricatto è basato su un sortilegio psicologico, come quello che rende misteriosamente tenebroso l’invisibile Mago di Oz, in apparenza invincibile: in realtà è soltanto una bolla, che può dissolversi in un attimo. E’ già successo, nella storia. Sotto la sferza della Grande Depressione, la destra economica consigliò a Roosevelt di tagliare il debito – pena, l’apocalisse. Ma il presidente, ispirato da Keynes, fece l’esatto contrario: espansione smisurata del deficit. Risultato: l’America, che era alle prese con l’incubo quotidiano della fame, divenne una superpotenza. Non è che siano cambiate, le regole: il sistema è sempre quello capitalista. Non solo: è diventato universale, incorporando anche Russia e Cina (che infatti, così come gli Usa e il Giappone, non hanno nessuna paura di fare super-deficit, sapendo che è il solo modo per alimentare il mercato interno dei consumi, e quindi l’occupazione).Il Mago di Oz ora si chiama Unione Europea, si chiama Eurozona. Una vergogna mondiale, senza più democrazia: comanda la Bce, insieme alla Commissione formata da tecnocrati non-eletti. Non c’è una vera Costituzione, e il Parlamento Europeo non può eleggere il governo europeo. Siamo precipitati nella barbarie di un neo-feudalesimo, una specie di Sacro Romano Impero. D’accordo, ma per volere di chi? Magaldi non ha esitazioni nell’indicare i responsabili: massoni reazionari. Militano nelle Ur-Lodges neoaristocratiche. Sono strutture segrete e trasversali, spregiudicate e apolidi, senz’altra patria che il denaro. Hanno deformato la stessa geopolitica: quando parliamo di Russia, Europa, Cina e Stati Uniti, dovremmo invece saper distinguere tra élite oligarchiche ed élite a vocazione democratica. Esistono anche quelle, infatti: sono di segno progressista. Negli ultimi decenni sono state costrette a cedere il passo alla plutocrazia neoliberista, ma adesso stanno rialzando la testa. Lo stesso Magaldi ammette di agire d’intelligenza con alcune di queste strutture, come la superloggia Thomas Paine. Problema pratico, innanzitutto: se è stata la supermassoneria a creare il problema, non può che essere la stessa supermassoneria (lato B, progressista) a contribuire a risolverlo.Magaldi non demonizza le Ur-Lodges, non ne fa una speculazione complottistica. Se la massoneria sa di aver fondato la modernità – Stato di diritto, laicità delle leggi, suffragio universale democratico – è umano che pensi (sbagliando) di poter fare quello che vuole, della sua “creatura”. La distorsione è cominciata negli anni ‘70, con il saggio sulla “Crisi della democrazia” commissionato dalla Trilaterale, potente entità paramassonica. La tesi: troppa democrazia fa male. Dove siamo arrivati, oggi? Lo si è visto: un certo signor Pierre Moscovici, non votato da nessuno, ha il potere di bocciare il bilancio del governo italiano regolarmente eletto. Lo si può subire in silenzio, un affronto simile? Nossignore: la verità va gridata. Lo stesso Moscovici sa benissimo che un deficit robusto farebbe volare l’economia. Una volta, lo sapeva anche la sinistra (che oggi tace). Lega e 5 Stelle? Si limitano a brontolare, ma poi ingoiano il rospo. Peggio: sparano a vanvera contro la massoneria, fingendo di non sapere che sono proprio i supermassoni oligarchici a ostacolare il loro governo. Cosa aspettano a vuotare il sacco?Magaldi è esplicito: le Ur-Lodges progressiste sono pronte ad aiutarli, se smetteranno di essere ipocriti sulla massoneria, come se non sapessero che persino il governo gialloverde pullula di massoni occulti, non dichiarati. Sperano nelle europee, leghisti e grillini? Errore grave: nessuno verrà in aiuto dell’Italia, se non sarà il nostro paese – per primo – ad alzare la testa. Come? Nell’unico modo possibile: una rivoluzione gandhiana, basata sull’obiezione ideologica. Può svanire in attimo, la grande paura del Mago di Oz, se solo qualcuno avrà l’elementare coraggio democratico che oggi ancora manca, ai gialloverdi. Una rivoluzione potrebbe spazzarli via in un amen, i mammasantissima del peggior Deep State. Restano invece al loro posto, i boiardi dello “Stato profondo”, proprio perché a proteggerli – prima di ogni altra cosa – è proprio la nostra stessa paura. Per Magaldi, scontiamo anche un vuoto culturale: da riempire, per la precisione, ricorrendo al socialismo liberale teorizzato da Carlo Rosselli. Una corrente di pensiero illuminante ma rimasta in ombra, schiacciata dal fascismo e dallo stesso socialismo massimalista, prima ancora che dal comunismo. Poi venne l’atroce neoliberismo, nelle due versioni: quella sfrontata, della destra economica reaganiana, e quella – più ambigua nella forma ma identica della sostanza – del “terzismo” di Anthony Giddens adottato dall’ex-sinistra occidentale, da Blair fino a D’Alema, grandi protagonisti dell’attuale post-democrazia.Il succo non cambia: Stato minimo. Il privato ha sempre ragione. Nei fatti, il neoliberismo è un imbroglio: santifica l’impresa, ma a spese dello Stato. E quando scoppia Wall Street, è il bilancio pubblico a tenere in piedi le banche-canaglia. Turbo-globablizzazione mercantile, e addio diritti. Delocalizzazioni, privatizzazioni. Parola d’ordine, per i non privilegiati: arrangiarsi. Dogma assoluto: demolire l’impresa pubblica, che era il cemento armato del boom italiano. In Svezia, Olof Palme impegnò lo Stato a salvare le aziende traballanti, a due condizioni: management statale, e lavoratori coinvolti come azionisti (con tanto di dividendi, a fine anno). Fu ucciso a Stoccolma nel 1986, all’uscita di un cinema. Tuttora sconosciuto il killer, ma non il mandante: possiamo chiamarlo Deep State. Con Palme, questa Europa cialtrona non sarebbe mai potuta nascere. Al leader svedese, il Movimento Roosevelt dedicherà un convegno a Milano il 3 maggio. Sul podio altri due giganti, lo stesso Rosselli e l’africano Thomas Sankara, anch’essi assassinati. Non difettavano di coraggio: sapevano di dover combattere, sfidando il potere ostile a viso aperto. E’ quello che dovrebbe fare anche l’Italia, ribadisce Magaldi. Sapendo che, da sole, le élite possono fare poco. Se però si sveglia il popolo, allora non c’è Deep State che tenga. E’ così che funzionano, le rivoluzioni che mandano avanti, da sempre, la storia dell’umanità.(Le riflessioni di Gioele Magaldi sono tratte dalla diretta web-streaming su YouTube “Gioele Magaldi Racconta” del 1° aprile 2019, condotta da Fabio Frabetti di “Border Nights”).Primo round: il governo gialloverde fa qualcosa di veramente eretico, straordinario e rivoluzionario. Ovvero: annuncia un deficit del 7-8%, o anche del 10%. Secondo round: l’eurocrazia insorge, massacrando l’Italia con ogni mezzo. E quindi minacce, ritorsioni, spread a mille, bocciatura del bilancio (e assedio dei media pro-Ue, a reti unificate). Terza mossa: il governo si dimette, clamorosamente, appellandosi agli elettori. Magari indice un referendum, come quello voluto in Grecia da Tsipras. Poi affronta nuove elezioni, e incassa un plebiscito: gialloverdi al 70% dei consensi. A quel punto, finalmente, la resa dei conti: epurazione di tutti i burocrati infiltrati dal potere-ombra negli uffici che contano, cominciando dai ministeri. Un sogno? Per ora, sì. Ma se non si agisce in questo modo, sostiene il sognatore Gioele Magaldi, la rivoluzione non l’avremo mai. E attenzione: per come siamo ridotti, proprio una rivoluzione – pacifica, democratica – è l’unica soluzione possibile, l’unica via d’uscita dignitosa dall’euro-stagnazione inflitta a tutta l’Europa, e in particolare all’Italia, dai signori del neoliberismo. Sono i super-oligarchi che impongono regole di ferro agli altri, ma campano alla grande facendosi fare leggi su misura per il loro business, anche truccando i conti pubblici come fa la Germania (che dichiara un debito all’80% del Pil mentre quello reale è il triplo).
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Cabras: è la lotta contro il Deep State a unire Lega e M5S
«E’ vero, nella maggioranza siamo in due, 5 Stelle e Lega, ma al governo c’è anche un terzo incomodo: lo “Stato profondo”». Ricompare a Londra, il fantasma del Deep State, nelle parole di Pino Cabras, neo-deputato grillino. Platea: il forum economico del Movimento Roosevelt per un New Deal europeo, che rottami l’austerity rispolverando Keynes. Tra i presenti Nino Galloni e Ilaria Bifarini, l’ex banchiere Guido Grossi, imprenditori come Danilo Broggi e Fabio Zoffi. Ammette Cabras: «Noi e la Lega siamo divisi su tutto, tranne che sul Deep State: siamo consapevoli di dover scardinare quel meccanismo». Paradosso: «Senza lo “Stato profondo”, il governo gialloverde non sarebbe neppure nato. Però era un’occasione irripetibile». In altre parole: Di Maio e Salvini hanno accettato di salpare con a bordo i controllori del potere-ombra. Altra possibilità non c’era. Del resto, sostiene Cabras, questo è l’unico governo che può provare a smontare il paradigma del rigore neoliberista: «Certo non può farlo il Pd di Zingaretti, di cui ho osservato con sgomento i primi dieci giorni da segretario: è allucinante che si sia mantenuto fedele al peggio del verbo di Renzi, cioè allo schema che ha imprigionato l’Italia in questi anni». In compenso, il Deep State non molla i gialloverdi: «Non avete idea delle pressioni a cui Di Maio e Salvini vengono sottoposti».Il convitato di pietra ha un nome preciso: si chiama supermassoneria reazionaria. «Se i gialloverdi fossero meno ipocriti sulla massoneria, la parte progressista di quel Deep State (che non è un monolite) li potrebbe aiutare», sostiene Gioele Magaldi. «A dire il vero l’ha anche già fatto: la rivolta francese dei Gilet Gialli contro Macron, proprio mentre il governo Conte affrontava Bruxelles sulla questione del deficit, è stato un regalo della massoneria progressista. Regalo di cui, incredibilmente, i gialloverdi non hanno saputo approfittare, per portare a casa almeno il loro iniziale 2,4%», comunque modestamente inferiore al 3% di Maastricht e, a maggior ragione, al 3,5% ora concesso all’Eliseo. Il guaio? «Con un atteggiamento discriminatorio, i 5 Stelle proclamano di non volere massoni tra le loro fila, ignorando che era massone lo stesso Gianroberto Casaleggio». Peggio: «Il governo Conte pullula di massoni. Per questo, fingere di non saperlo è ipocrisia pura». Tradotto: sacrosanta la denuncia contro il Deep State. Ma perché non chiamare le cose con il loro nome? Inoltre: se nello “Stato profondo” ci sono anche massoni contrari al dominio oligarchico, sparare a casaccio sulla massoneria non li invoglia certo a impegnarsi per assistere Di Maio e Salvini, alle prese con i tecnocrati di Bruxelles e i loro terminali italiani, da Bankitalia al Quirinale.Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt ed esponente del network massonico progressista internazionale, si candida a fare da “sindacalista”, in appoggio al governo. A una condizione: che i gialloverdi, e in particolare i 5 Stelle, smettano di dicriminare (a parole) i massoni. Dal canto suo, Cabras fornisce una lucida analisi sul vero potere che condiziona pesantemente il governo a partire dalla sua nascita. «Avremmo voluto altri ministri», ammette, alludendo anche al veto opposto da Mattarella alla nomina di Paolo Savona al dicastero strategico dell’economia. «Sappiate che quel potere di firma è decisivo, fa la differenza», sottolinea Cabras, che aggiunge: «Ci sono strutture molto “profonde”, che non possono essere ignorate, e che determinano ancora molto l’orientamento del potere. E non sono strutture facili da scardinare». Magaldi lo chiama “back-office”. Da noi, dice Cabras, «il back-office sta in un edificio molto in alto, a Roma, ed è il punto di equilibrio di tante realtà – che sono corpose, nella vicenda di uno Stato, e probabilmente sono diverse dal modo di pensare abituale della politica. Attenzione, questa cosa esiste in tutti gli Stati del mondo: non penserete che Trump sia il decisore unico, vero?».Pino Cabras prova a difendere l’operato del governo, fin dal primo giorno avversato dai media a reti unificate. Stando ai giornali sarebbe crollato l’export, che invece è cresciuto. Lo spread? La tempesta paventata non s’è vista. «Avevano detto che non sarebbe stato possibile fare una misura come “Quota 100”, che invece ha dato respiro a famiglie e lavoratori». Quanto al “decreto dignità”, «ha cercato di incentivare i contratti a lungo termine, e invece i media mainstream hanno ripetuto che avrebbe causato solo licenziamenti e disastri (e invece sta funzionando bene, lo dice l’Istat)». Il reddito di cittadinanza? Non è la cuccagna promessa in campagna elettorale, «ma almeno è una prima risposta al dilagare della nuova povertà». Troppo poco? Forse, ammette Cabras, ma non si può certo volare alto, con un deficit bloccato al 2%. «Ci hanno fatto davvero la guerra, un mare di pressioni. Hanno cercato di usare ogni possibile “waterboarding”, contro di noi». Lo si è visto: la macchina del fango si è avventata su Di Maio, mentre Salvini è stato accusato di sequestro di persona solo per non aver lasciato sbarcare i migranti della Diciotti, in realtà liberissimi di andarsene dove volevano.«Tra il dire e il fare c’è lo “Stato profondo”, che determina la libertà di decisione su tante cose», insiste Cabras, senza con questo voler accampare alibi. La sua, al contrario, è una denuncia esplicita. Il tema del convegno londinese era l’economia? Benissimo: ma il Piano-B a cui sta lavorando Cabras (moneta completamentare, sotto forma di crediti fiscali scambiabili come forma di pagamento alternativa) rischia di andare per le lunghe. «Eppure – rileva Fabio Zoffi – Lega e 5 Stelle avrebbero i numeri per attuarla in 24 ore, una misura del genere». Certo, ammette Cabras. Ma è impossibile fare i conti senza l’oste. Un esempio clamoroso? «I decreti attuativi per risarcire i risparmiatori truffati dalle banche, con la complicità dei governi precedenti. Stiamo parlando di un miliardo e mezzo di euro, già a bilancio», precisa Cabras. «Bene, quelle carte sono pronte da mesi: stanno su qualche scrivania al ministero delle finanze, ma nessuno le ha ancora firmate». Perché non denunciarli, i boiardi che remano contro, facendo nomi e cognomi? «Ci abbiamo provato, e ricordate cos’è successo? Tutti i media ci hanno dato addosso, facendoci passare per “sfasciacarrozze”». Memorabile la gogna mediatica cui fu sottoposto Rocco Casalino, per aver osato annunciare un “repulisti” nei ministeri.E quello della burocrazia ministeriale, sottolinea Magaldi, è solo lo strato più basso del Deep State: esecutori e passacarte. A monte c’è ben altro, ovviamente: Mattarella arrivò a “invitare” l’incaricato Conte a visitare Bankitalia, cioè il terminale italiano del supermassone Draghi. Pino Cabras, per ora, mostra una certa fiducia verso le elezioni europee in arrivo: spera che contribuiscano a indebolire l’euro-sistema. Ammette, francamente, che Lega e 5 Stelle sono divisi praticamente su tutto: famiglia, legittima difesa, concezione dello Stato, politica estera. «Però siamo uniti nell’impegno a “smontare”, poco alla volta, lo “Stato profondo”». Come? «Conquistando gradualmente alcune “casematte”». A chi rimprovera scarso coraggio ai gialloverdi, Cabras risponde: «Ho rispetto per Di Maio, ha solo 31 anni e ha già affrontato prove tali da far tremare i polsi. Lega e 5 Stelle hanno dimostrato un coraggio di cui non c’era traccia da anni, nella politica italiana». Il nocciolo è questo: «Vogliamo aumentare il potere d’acquisto dei cittadini, e rimettere l’Italia nelle condizioni di esprimere una politica economica». Il nemico è il Deep State, e siede nei posti-chiave. Di Maio e Salvini lo sanno, e hanno accettato di affrontare una guerra di logoramento. Per Magaldi non basta: serve una sfida frontale, perché la crisi italiana non aspetta. E senza veri risultati, gli elettori si ribelleranno: stanno già “scaricando” i 5 Stelle, e domani potrebbero dire addio allo stesso Salvini, anche se oggi sembra inaffondabile. Lo sembrava anche Renzi, che aveva il 40%.«E’ vero, nella maggioranza siamo in due, 5 Stelle e Lega, ma al governo c’è anche un terzo incomodo: lo “Stato profondo”». Ricompare a Londra, il fantasma del Deep State, nelle parole di Pino Cabras, neo-deputato grillino. Platea: il forum economico del Movimento Roosevelt per un New Deal europeo, che rottami l’austerity rispolverando Keynes. Tra i presenti Nino Galloni e Ilaria Bifarini, l’ex banchiere Guido Grossi, imprenditori come Danilo Broggi e Fabio Zoffi. Ammette Cabras: «Noi e la Lega siamo divisi su tutto, tranne che sul Deep State: siamo consapevoli di dover scardinare quel meccanismo». Paradosso: «Senza lo “Stato profondo”, il governo gialloverde non sarebbe neppure nato. Però era un’occasione irripetibile». In altre parole: Di Maio e Salvini hanno accettato di salpare con a bordo i controllori del potere-ombra. Altra possibilità non c’era. Del resto, sostiene Cabras, questo è l’unico governo che può provare a smontare il paradigma del rigore neoliberista: «Certo non può farlo il Pd di Zingaretti, di cui ho osservato con sgomento i primi dieci giorni da segretario: è allucinante che si sia mantenuto fedele al peggio del verbo di Renzi, cioè allo schema che ha imprigionato l’Italia in questi anni». In compenso, il Deep State non molla i gialloverdi: «Non avete idea delle pressioni a cui Di Maio e Salvini vengono sottoposti».
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Se la Cina ci ripensa: Via Polare della Seta, e addio Italia
E se la Cina ci ripensa, dopo aver costretto l’Italia a convivere con i maxi-investimenti per i porti di Genova e Trieste? Paolo Barnard teme che l’accordo commerciale con Pechino possa rivelarsi un fardello insostenibile, per il nostro paese: lavoro “schiavistico” e inquinamento pesantissimo. Ma forse la prospettiva peggiore è un’altra: fra dieci anni, perdurando il “climate change”, la Cina potrebbe trascurare il Mediterraneo scegliere l’Artico, come direttrice mercantile, accorciando molto il tragitto verso Rotterdam. E questo senza contare la via ferroviaria eurasiatica, in pieno sviluppo. Tradotto: sicuri che scelta portuale italiana sia davvero strategica, capace di dare lavoro per più di un decennio? Giornalista e studioso di economia, Barnard rispolvera innanzitutto Keynes e poi la teoria monetaria moderna: la carta vincente non è mai il mercantilismo, il cui campione europeo è la Germania, ma il mercato interno. La chiave: produzione e consumi a chilometri zero, o quasi, valgono assai più dell’export. L’Italia è alle corde, come molti altri paesi dell’Eurozona, proprio perché non riesce più a emettere moneta sufficiente (deficit positivo) per supportare le aziende e i consumi interni. Legarsi mani e piedi a una potenza come quella asiatica, però, secondo Barnard potrebbe non essere una soluzione: specie se si considera che lo stile cinese non è esattamente ecologico, né amico dei diritti del lavoro.In un’analisi publicata sul suo blog, Barnard fa notare che il gigante logistico cinese Cccc (China Communications Construction Co.) esporrebbe gli scali italiani a pericoli considerevoli. Il primo: «Trieste e Genova possono trasformarsi in cloache d’inquinanti cinesi, avvelenando i cittadini e costringendo le amministrazioni a costi per danni di centinaia di milioni». Il secondo: «Gli investitori cinesi sono spietati: un solo sciopero di lavoratori portuali italiani, una sola vertenza ambientale italiana, e ci possono far causa per milioni o anche miliardi». Motivo: nel 1985, l’Italia ha firmato un trattato bilaterale con la Cina, ancora valido, dove il nostro paese s’impegna a rispettare la micidiale “Risoluzione delle dispute tra investitore e Stato” (Isds), dove «qualsiasi investitore cinese può far causa all’Italia se ritiene che le sue leggi gli danneggino il business, e i termini dei processi sono scandalosamente sbilanciati verso le mega-aziende». Poi c’è l’insidia degli eventuali lavoratori a contratto: non per forza italiani, magari cinesi. E nel caso, pesantemente sfruttati. Ma se i rischi connessi al lavoro riguardano le sole maestranze, l’inquinamento investirebbe le intere aree urbane.I quattro porti più inquinanti al mondo, avverte Barnard, sono ad alta intensità di navi cargo cinesi. «Singapore, Hong Kong, Tianjin e Port Klang. E’ un caso che nessuno di essi sia in Usa o in Europa?». Gli scali commerciali “vomitano” oltre 20 milioni di tonnellate all’anno di CO2, ossidi di azoto e di zolfo, metano e particolato Pm10. «E’ noto che i cargo di containers sputano veleni anche se fermi in porto, e si calcola che queste emissioni terribilmente nocive per gli abitanti delle città portuali si quadruplicheranno entro il 2050, secondo dati Unctad-Ocse del 2015». Emissioni, calcola Barnard, che in termini di danni collaterali (salute) costeranno 12 miliardi di euro all’anno, secondo le stime dell’Ocse sugli abitanti delle 50 principali città portuali (e questo già oggi, senza ancora la mega-espansione del traffico a Genova e Trieste). Nel porto greco del Pireo, ingigantito e gestito dal colosso cinese Cosco, gli operai hanno scioperato per ottenere almeno «il triste titolo di “lavoratori di mansioni usuranti e insalubri”». Qualcuno ci ha pensato, firmando il Memorandum Italia-Cina? Quanto al business, per Genova e Trieste «si parla più di un aumento di traffico di cargo che di partecipazioni societarie cinesi».Innanzitutto, continua Barnard, non è affatto chiaro chi pagherà per gli enormi ampliamenti strutturali dei due porti. La Cina? «Pechino ci presterà milioni, a patto che gli appalti vadano alle sue aziende? O ci presterà soldi e basta? O ce li metteremo noi? C’è caos, su questi punti». E poi: cosa significa mettere lavoratori sotto il controllo dei colossi cinesi? Gli esperti del Global Human Rights Lawyers (Ius Laboris, diritti del lavoro) scrivono quest’anno che «per gli Stati Uniti le scelte sono chiare in tema di Via della Seta: o si chiudono a riccio sul mercato interno con alto protezionismo, oppure accettano di abbassare il costo del lavoro e le protezioni sindacali dei propri lavoratori per competere coi cinesi». Chiaro il concetto? Washington ha già provato cosa significhi aprire ai colossi cinesi: a Saipan, territorio off-shore degli Stati Uniti, pochi anni fa gli americani concessero appalti a tre mega-aziende cinesi per la costruzione di un enorme sito turistico. Ebbene, il 91% dei posti di lavoro fu importato dalla Cina. Scaduti i visti, scrive Barnard, «i cinesi piuttosto che pagare di più per impiegare operai americani locali truffarono le autorità Usa importando lavoratori cinesi illegali con finti visti turistici». Li facevano lavorare 13 ore al giorno, con salari illegali negli Usa. «La sicurezza sul lavoro fu definita “atroce”, con montagne di feriti e persino di morti, come denunciato da Aaron Halegue della New York University Law School. Washington dovette intervenire, e fu una strage di cause e litigi, con una ridda di manager cinesi in galera».Stessa storia ad Atene, se non peggio: al Pireo, il colosso cinese Cosco s’è inventato «un sindacato cinese fittizio che vigilava su diritti fittizi», dopo aver preteso «la quasi totale esclusione del sindacato portuale ellenico». Anche in Grecia c’erano molti operai cinesi. Dopo le proteste furono rispediti a casa, «ma al loro posto non furono assunti i portuali greci, bensì operai a contratto dall’Est Europa». Così, Atene è rimasta senza lavoro. Nel 2014 i portuali greci organizzarono uno sciopero per denunciare l’alto tasso d’infortuni sul lavoro, sotto il management di Cosco. «Il premier Samaras gli mandò immediatamente la polizia in assetto antisommossa, e perché? Perché all’istante – scrive ancora Barnard – l’ambasciata cinese ad Atene aveva chiamato il governo, minacciando ritorsioni milionarie per danni al loro business secondo il sopraccitato infame sistema Isds». Conclusione: visto che le imponenti espansioni di Trieste e Genova coinvolgeranno manodopera cinese, il governo ha pensato a come affrontare l’eventuale ricatto, se Pechino dovesse imporre le sue maestranze, come condizione per onorare i suoi impegni finanziari? Sempre secondo Barnard, questi aspetti – piuttosto decisivi – non emergono mai, nelle dichiarazioni rilasciate dai presidenti delle autorità portuali Zeno D’Agostino (Trieste) e Paolo Signorini (Genova), nonché dal sottosegretario “gialloverde” Michele Geraci: cauti e garantisti sui media italiani, ma assai più filo-cinesi (business puro, senza tutele) se intervistati da giornali stranieri.Barnard sottolinea l’enorme asimmetria fra Italia e Cina: «L’economia cinese ha una potenza di fuoco da circa 14.000 miliardi di dollari; quella italiana è circa 1.900 miliardi di dollari, 7 volte di meno». Per i cinesi, investire in Italia per far profitti per appena 10 anni e poi tirarsi indietro, lasciando “arrugginire” le banchine di Genova e Trieste una volta spremuto il Belpaese, «è un rischio da spiccioli del caffè». Per noi, invece, sarebbe un disastro. «Ma attenti: le chance che questo accada si stanno materializzando già oggi», avverte Barnard, paventando la peggiore delle ipotesi: quella che vede la Cina in fuga dall’Italia, bypassando Suez e il Mediterraneo grazie alle due vere vie commerciali del futuro, l’Artico e l’Eurasia. Tutti oggi parlano della Via della Seta (marittima), ma Pechino sta già lavorando alla “Via Polare della Seta”. Ovvero: i ghiacci del Polo Nord si stanno sciogliendo a un ritmo vertiginoso, con estati a 30 gradi simili a quelle dell’Adriatico. Come i giganti occidentali dei cargo (ed esempio la Maersk), anche i cinesi stanno scommettendo sulle rotte marittime del Grande Nord liberato dai ghiacci.Per ora, riassume Barnard, i cargo seguono ancora la rotta del Sud, dalla Cina al Mediterraneo, attaverso Malesia, India, Golfo di Aden e Canale di Suez. Da qui l’interesse per Genova e Trieste. Tragitto: 13.000 miglia marittime. Ma se le navi fanno invece rotta verso Nord (Siberia, Russia, Norvegia), arrivano a Rotterdam dopo sole 8.000 miglia, tagliando i tempi di due settimane, con risparmi colossali. Ad oggi la direttrice artica è ancora poco battuta, ma la Copenhagen Business School – spiega Barnard – ha calcolato che, dati gli sforzi sia russi che cinesi, la Via Polare della Seta (già oggi percorribile anche d’inverno) diventerà frequentatissima in meno di 20 anni. Altro motivo per cui Pechino potrebbe preferirla: «La rotta tradizionale, a Sud, costringe i cinesi a passare per infinite “gogne” imposte dal dominio americano di ogni miglio di quella tratta, un fatto che strategicamente è intollerabile per la Cina». E non è tutto: a peggiorare le prospettive di Genova e Trieste c’è anche la rotta ferroviaria, sempre per le merci cinesi. Attraversa tutta l’Asia Centrale, la Turchia e i Balcani, arrivando in Europa occidentale attraverso la Grecia. «Anche su questa rotta il presidente Xi Jinping sta investendo cifre e soprattutto tecnologie forsennate, perché per questa via le merci arrivano da noi in meno di 14 giorni, un record».Le nuove tratte a scorrimento veloce «ridurranno i tempi ad addirittura 10 giorni», cioè record «imbattibili da qualsiasi rotta marittima». Questo poterebbe i costi ferroviari – oggi superiori a quelli marittimi – entro i limiti della convenienza. «E allora diventa fin banale arrivarci: noi italiani – conclude Barnard – adesso partiremo come pazzi a ingigantire Genova e Trieste, con investimenti “mega” che ancora nessuno sa da chi veramente saranno pagati. Stiamo facendo una scommessa senza precedenti, con pericoli ambientali e lavorativi alti o altissimi». Ma qualcuno, dalle parti di Di Maio, ha pensato a cosa potrebbe accadere fra una decina d’anni, con il boom della rotta marittima del Nord e l’esplosione ferroviaria eurasiatica? Il traffico verso l’Italia potrebbe crollare del 30%, con effetti devastanti sul nostro Pil entro il 2030. «Avete un’idea di che razza di voragine significherà, per le due città e per l’Italia che hanno investito e/o si sono indebitate?». Prima di firmare, il goveno ha affidato serie previsioni ai massimi esperti mondiali? «Bella roba, ritrovarci con Trieste e Genova fra pochi anni trasformate in ipertrofie di cemento e acciaio, inquinate come fogne, con disoccupazione, e ad arrugginirsi al sole. Debiti, buchi di bilancio, titoli da ripagare… Non sarebbe il primo, né l’ultimo, dei soliti dilettanteschi “Italian Jobs”».E se la Cina ci ripensa, dopo aver costretto l’Italia a convivere con i maxi-investimenti per i porti di Genova e Trieste? Paolo Barnard teme che l’accordo commerciale con Pechino possa rivelarsi un fardello insostenibile, per il nostro paese: lavoro “schiavistico” e inquinamento pesantissimo. Ma forse la prospettiva peggiore è un’altra: fra dieci anni, perdurando il “climate change”, la Cina potrebbe trascurare il Mediterraneo scegliere l’Artico, come direttrice mercantile, accorciando molto il tragitto verso Rotterdam. E questo senza contare la via ferroviaria eurasiatica, in pieno sviluppo. Tradotto: sicuri che scelta portuale italiana sia davvero strategica, capace di dare lavoro per più di un decennio? Giornalista e studioso di economia, Barnard rispolvera innanzitutto Keynes e poi la teoria monetaria moderna: la carta vincente non è mai il mercantilismo, il cui campione europeo è la Germania, ma il mercato interno. La chiave: produzione e consumi a chilometri zero, o quasi, valgono assai più dell’export. L’Italia è alle corde, come molti altri paesi dell’Eurozona, proprio perché non riesce più a emettere moneta sufficiente (deficit positivo) per supportare le aziende e i consumi interni. Legarsi mani e piedi a una potenza come quella asiatica, però, secondo Barnard potrebbe non essere una soluzione: specie se si considera che lo stile cinese non è esattamente ecologico, né amico dei diritti del lavoro.
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Cavalli spara sull’orco Salvini? Così la sinistra si estinguerà
«E se Salvini fosse niente?». O meglio: «Niente mischiato con niente», nemmeno con la malta incolore del post-ideologico? Forse è solo «il formidabile intercettatore di ciò che la gente si vuol far sentire dire, disponibile ad abbracciare qualsiasi ideologia e poi contraddirla seguendo l’algoritmo della pancia degli italiani, come ha appena fatto per la cittadinanza di Ramy», che in poche ore – da “parente di pregiudicati” è diventato addirittura “un figlio”, avendo capito, il leader leghista, «che la maggioranza degli italiani non voleva sentir parlare di burocrazia per il ragazzino eroe». A sparare su Salvini, dalle pagine web de “Linkiesta”, stavolta è l’attore e scrittore Giulio Cavalli, già minacciato dalla mafia e impegnato in Lombardia prima col rozzo giustizialista Antonio Di Pietro (Italia dei Valori) e poi con il post-comunista Nichi Vendola (Sinistra Ecologia e Libertà). La furia iconoclastica di Cavalli si abbatte sul vicepremier gialloverde, dipinto come un mostro di cinismo e spregiudicatezza, capace di essere «tutto e il contrario di tutto». Ovvero: «Da anti-napoletano a patriota amico del Sud». Voltafaccia? Sbagliando, Cavalli imputa a Salvini anche una retromarcia sulla Torino-Lione, dimenticando che la Lega non è stata mai NoTav, ma sempre favorevole alla “grande opera inutile” della valle di Susa.Per Cavalli, Salvini ha cambiato casacca anche in politica estera: da anti-Usa sarebbe diventato pro-Trump, «facendo anche arrabbiare l’amichetto Putin». Anche qui: ai tempi di Bossi, la Lega Nord si schierò con Milosevic e contro i bombardamenti su Belgrado ordinati da Clinton, ma restò alleata del Berlusconi “amico” di Bush, il più che ambiguo presidente del G8 di Genova e poi soprattutto dell’11 Settembre. Quando Salvini ereditò un partito ridotto al 4%, alla Casa Bianca c’era Obama: è per frenare il neo-imperialismo bellicista dei “democrat” che Salvini si avvicinò a Putin, tifando però apertamente per Trump, prima ancora che venisse eletto. Secondo Cavalli, invece, il demone Salvini rivela «la spregiudicatezza di chi è pronto a vivere una contraddizione» pur di «racimolare più voti, accontentare più stomaci, infiammare la claque». Debolezza ideologica: «Salvini non ha un’ideologia perché non ha un’idea sua», sostiene Cavalli. Il capo della Lega, di cui evidentemente non si tollera il successo elettorale, «vive ascoltando il pensiero comune e lo trasforma in promessa politica». Come per «una digestione veloce che non si preoccupa del sapore dei cibi», il boss leghista sarebbe addirittura «pronto a infornare merda», testualmente, per poi «rivenderla come cioccolata, se è il popolo a chiederlo».Visto così, l’orco Salvini sembra un’inammissibile anomalia dentro uno zoo che, senza di lui, sarebbe perfetto. Fuori di polemica: come “voltafaccista” Salvini è un dilettante, rispetto ai 5 Stelle (vaccini, F-35, Tap). E quale nobile impianto idologico rileva, Cavalli, nell’encefalogramma politicamente piatto di Berlusconi e Tajani? Quale segno di vita rintraccia nell’altro zombie, il Pd, che ancora non sa trovare il coraggio autocritico di denunciare l’impostura tecnocratica dell’austerity, che poi è esattamente la fonte della crisi che ha gonfiato le vele degli insopportabili gialloverdi? Vola basso, Cavalli: «Qui siamo oltre la fluidità di Renzi, che riusciva a dire impunemente cose di destra fingendo una posa di sinistra». Lessico da età della pietra: dov’era, la “sinistra”, quando l’Italia veniva immolata sull’altare della falsa Europa? Fischiava il perfido Berlusconi, senza accorgersi che proprio agli eredi della tradizione social-comunista – D’Alema, Prodi e compagnia – il vero potere oligarchico, finanziario e plutocratico affidava il compito strategico di smantellare l’Italia, deindustrializzarla e privatizzarla, senza che nessuno – elettorato, sindacati – muovesse un dito per denunciare lo smottamento anti-nazionale che avrebbe provocato il disastro (di cui oggi raccolgono i cocci, in termini elettorali, proprio la Lega e i 5 Stelle).Per Cavalli, invece, Salvini è «perfino oltre la post-ideologia di Di Maio, che altro non è che un vuoto rimbombante». Ma vogliamo parlare della post-ideologia di Veltroni? O di quella di Carlo Calenda, secondo cui «potremmo pure fare più deficit, ma poi nessuno ci comprerebbe il nostro debito?». Post-ideologia, appunto: ai tempi della “sinistra”, il debito era ancora pubblico. A “privatizzarlo” di fatto fu l’eroe Ciampi, che costrinse l’Italia a rivolgersi al mercato finanziario dei cosiddetti investitori, quelli che per Calenda sono e restano l’unico interlocutore possibile. Non c’è alternativa: lo diceva la Thatcher, e da allora “la sinistra” (anche italiana) si è semplicemente adeguata. Anche perché a dare gli Stati in pasto a Wall Street era stata un’altra “sinistra”, quella statunitense: fu proprio Clinton ad abolire il Glass-Stegall Act, la separazione tra banche d’affari e credito alle imprese, scatenando gli appetiti smisurati della speculazione. Per i fondi d’investimento, da allora, divenne un vero business acquisire titoli del debito, da Stati costretti a mettersi all’asta. E in tutto questo “che c’azzecca”, come avrebbe detto Di Pietro, il Salvini che aveva 8 anni al tempo dello sciagurato divorzio fra Tesoro e Bankitalia, e poco più di 20 quando Clinton regalò il mondo ai finanzieri?Connessioni elementari, che però Giulio Cavalli sembra non voler cogliere, nella sua invettiva semplicistica contro l’estetica discutibile e spesso indigesta del salvinismo. L’eco della storia affiora solo a fette grosse, scomodando paroloni, nel classico ricorso all’armamentario dell’antifascismo convenzionale: Salvini, scrive Cavalli, «fa il fascista quando l’anima fascista del paese spinge per chiedere un gesto», ma poi riesce a irritare “Primato Nazionale”, cioè CasaPound, «per il suo diventare improvvisamente europeista». Europeista Salvini? Socio di Macron, Merkel e Juncker? Urgono spiegazioni, ma Cavalli sorvola. Preferisce scrivere che Salvini «lecca Bannon, lecca Trump, lecca Putin, lecca tutto ciò che i suoi algoritmi gli chiedono di leccare». Sta anche “ingoiando” gli elettori grillini, «affascinati dalla sua capacità di intercettare gli umori». Il che è «il massimo, per un elettorato che intende la politica come filiale di un fast food». Bei tempi, invece, quando un principe della politica come il post-comunista D’Alema si vantava di aver trasformato Palazzo Chigi in una merchant bank, realizzando il record europeo delle privatizzazioni. Cavalli – bontà sua – sa già che Salvini è «tutto e il contrario di tutto: fondamentalmente, niente». E sa già che «alla fine, si inchinerà ai poteri e ai potenti». Quando odiava Berlusconi, la sinistra di potere aveva appena svenduto l’Italia. Ora che odia Salvini, si candida a scomparire anche dal Parlamento. A meno che non sorga qualcosa che finalmente assomigli a un pensiero politico, che sostituisca le facili pernacchie con cui denunciare il presunto non-pensiero dell’avversario, squalificato – come sempre – innnanzitutto per la sua pretesa inferiorità morale.«E se Salvini fosse niente?». O meglio: «Niente mischiato con niente», nemmeno con la malta incolore del post-ideologico? Forse è solo «il formidabile intercettatore di ciò che la gente si vuol far sentire dire, disponibile ad abbracciare qualsiasi ideologia e poi contraddirla seguendo l’algoritmo della pancia degli italiani, come ha appena fatto per la cittadinanza di Ramy», che in poche ore – da “parente di pregiudicati” è diventato addirittura “un figlio”, avendo capito, il leader leghista, «che la maggioranza degli italiani non voleva sentir parlare di burocrazia per il ragazzino eroe». A sparare su Salvini, dalle pagine web de “Linkiesta”, stavolta è l’attore e scrittore Giulio Cavalli, già minacciato dalla mafia e impegnato in Lombardia prima col rozzo giustizialista Antonio Di Pietro (Italia dei Valori) e poi con il post-comunista Nichi Vendola (Sinistra Ecologia e Libertà). La furia iconoclastica di Cavalli si abbatte sul vicepremier gialloverde, dipinto come un mostro di cinismo e spregiudicatezza, capace di essere «tutto e il contrario di tutto». Ovvero: «Da anti-napoletano a patriota amico del Sud». Voltafaccia? Sbagliando, Cavalli imputa a Salvini anche una retromarcia sulla Torino-Lione, dimenticando che la Lega non è stata mai NoTav, ma sempre favorevole alla “grande opera inutile” della valle di Susa.