Archivio del Tag ‘Grameen Bank’
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Migranti d’oro: finanziare la disperazione “vale” 445 miliardi
È una domanda che tutti, almeno una volta, ci siamo posti: chi finanzia i costosi viaggi della morte che spingono migliaia di disperati su imbarcazioni di fortuna, tra mille peripezie e l’incognita dell’approdo? Molti giornalisti si sono impegnati nella ricostruzione dei calvari degli emigranti per arrivare al porto di partenza, delle condizioni schiavistiche cui sono sottoposti dalla criminalità locale. Ma rimane irrisolto il tassello iniziale di queste tragiche diaspore, ossia la disponibilità di somme di denaro ragguardevoli, esorbitanti se rapportate al tenore di vita locale, per intraprendere il viaggio. Le inchieste in merito sono limitate e le nostre domande cadono nel vuoto. Nel cercare di comprendere questo enigmatico fenomeno ci viene in aiuto uno studio condotto dalla sociologa Maryann Bylander in Cambogia tra il 2008 il 2010. Analizzando la frequenza e le modalità di emigrazione della popolazione si scopre una correlazione diretta tra espansione del microcredito e aumento dei flussi migratori verso l’estero. Stesso nesso si riscontra in un altro Stato del Terzo Mondo, il Bangladesh, paese di origine di circa un decimo dei migranti che ogni anno arrivano in Italia (oltre 10.000 nel solo 2017).
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Il caso Attali: credito, per finanziare i viaggi dei migranti
Conosciuto come l’eminenza grigia della politica francese dai tempi di Mitterand e noto per il suo ultraeuropeismo, Jacques Attali è l’uomo che ha scoperto Macron, presentandolo al presidente Hollande del quale è diventato consigliere. A lui viene attribuita la paternità di una frase molto esplicativa sul sentimento elitarista: «Ma cosa crede, la plebaglia europea: che l’euro l’abbiamo creato per la loro felicità?». Meno nota è invece un’altra affermazione dell’illustre economista, professore, finanziere e a lungo consigliere di fiducia dell’Eliseo: «La forma di egoismo più intelligente è l’altruismo». La filantropia, questo vezzo umanitarista che sembra contagiare gli uomini di maggiore successo, non ha risparmiato Jacques Attali, che nel 1998 fonda l’associazione no-profit Planet Finance. Certo, il nome tradisce un po’ da subito quello che dovrebbe essere il fine umanitario di questa organizzazione che opera in 60 paesi e offre servizi e consulenze di tipo finanziario, microfinanza per l’esattezza. Finita nell’occhio del ciclone per il trattamento economico “schiavistico” riservato agli stagisti cui si richiedevano requisiti di prim’ordine, la società cambia nome e diventa Positive Planet, evocando nel nome la positività del modello economico di cui si fa portatrice.Tra i suoi obiettivi ci sono “l’inclusione economica, sociale e ambientale in tutto il mondo in modo sostenibile ed equo”. Come? Rendendo possibile l’accesso ai servizi finanziari da parte dei paesi più poveri. La sua mission è infatti quella di “combattere la povertà attraverso lo sviluppo della microfinanza”. Per realizzarla si serve di otto unità specializzate, compresa un’agenzia di rating di microfinanza. L’organizzazione è così efficiente da aver ricevuto un premio per l’80esima migliore Ong del mondo secondo il “Global Journal” nel 2013. Nello stesso anno ha realizzato un fatturato (chiffre d’affaires) di 2 milioni e 251.000 euro. Gli organi societari annoverano nomi di grande peso sul piano politico ed economico mondiale. Da Jacques Delors al ministro degli affari esteri dell’Oman, passando per partner di colossi della consulenza come Ernst & Young e Bain, fino al presidente di Microsoft International. Dulcis in fundo, il cofondatore di questa ramificatissima Ong è il bengalese Muhammad Yunus, il padre del microcredito moderno. Grazie all’appoggio di illustri sostenitori, come i Clinton e Bill Gates e con il sostegno della stessa Banca Mondiale, nei primi anni Ottanta creò in Bangladesh la Grameen Bank, un istituto finanziario che concedeva denaro alle persone più indigenti, impossibilitate ad avere accesso al credito.Come già riscontrato in uno studio condotto sulla Cambogia, in cui analizzando la frequenza e le modalità di emigrazione della popolazione è emersa una correlazione diretta tra espansione del microcredito e aumento dei flussi migratori verso l’estero, anche qui i prestiti concessi si tramutarono in un incentivo all’emigrazione per la popolazione locale. Il Bangladesh è infatti paese di origine di circa un decimo dei migranti che ogni anno arrivano in Italia (oltre 10 mila nel solo 2017). Ed è proprio qui che è nato il business dei cosiddetti “migration loans”, i prestiti per finanziare i viaggi dei migranti, gestiti dalla Brac (Bangladesh Rural Advancement Commitee), leader nel settore e la più grande Ong al mondo, che opera anche in Asia e in Africa. Una commistione molto fruttuosa quella tra Ong, migranti e finanza, un vaso di Pandora ancora da scoperchiare del tutto e che ci riserverà incredibili sorprese.(Ilaria Bifarini, “Ong, finanza e migranti: il caso Jacques Attali”, dal blog di Ilaria Bifarini del 27 giugno 2018).Conosciuto come l’eminenza grigia della politica francese dai tempi di Mitterand e noto per il suo ultraeuropeismo, Jacques Attali è l’uomo che ha scoperto Macron, presentandolo al presidente Hollande del quale è diventato consigliere. A lui viene attribuita la paternità di una frase molto esplicativa sul sentimento elitarista: «Ma cosa crede, la plebaglia europea: che l’euro l’abbiamo creato per la loro felicità?». Meno nota è invece un’altra affermazione dell’illustre economista, professore, finanziere e a lungo consigliere di fiducia dell’Eliseo: «La forma di egoismo più intelligente è l’altruismo». La filantropia, questo vezzo umanitarista che sembra contagiare gli uomini di maggiore successo, non ha risparmiato Jacques Attali, che nel 1998 fonda l’associazione no-profit Planet Finance. Certo, il nome tradisce un po’ da subito quello che dovrebbe essere il fine umanitario di questa organizzazione che opera in 60 paesi e offre servizi e consulenze di tipo finanziario, microfinanza per l’esattezza. Finita nell’occhio del ciclone per il trattamento economico “schiavistico” riservato agli stagisti cui si richiedevano requisiti di prim’ordine, la società cambia nome e diventa Positive Planet, evocando nel nome la positività del modello economico di cui si fa portatrice.
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Indagine-choc: fibre di plastica nell’acqua del rubinetto
Quanta plastica beviamo? Molte ricerche ormai mostrano la presenza di fibre plastiche, praticamente ovunque: negli oceani, nelle acque dolci, nel suolo e nell’aria. E oggi uno studio americano prova l’esistenza di una contaminazione da plastica persino nell’acqua corrente domestica, spiegano Dan Morrison e Chris Tyree in un report su “Repubblica”. «Dai rubinetti di casa di tutto il mondo, da New York a Nuova Delhi, sgorgano fibre di plastica microscopiche», secondo una ricerca originale di “Orb Media”, un sito di informazione no-profit di Washington. Insieme ai ricercatori dell’università statale di New York e dell’università del Minnesota, “Orb Media” ha testato 159 campioni di acqua potabile di città grandi e piccole nei cinque continenti. L’83% dei campioni contiene microscopiche fibre di plastica: compresa l’acqua che esce dai rubinetti del Congresso degli Stati Uniti. E se la plastica è nell’acqua di rubinetto, probabilmente sarà presente anche nei cibi preparati con l’acqua, come pane, pasta, zuppe e latte artificiale. «È una notizia che dovrebbe scuoterci», dice Muhammad Yunus, Premio Nobel per la Pace 2006. «Sapevamo che questa plastica tornava da noi attraverso la catena alimentare. Ora scopriamo che torna da noi attraverso l’acqua potabile. Abbiamo una via d’uscita?».Yunus, il fondatore della banca di microcredito Grameen Bank, progetta di lanciare un’iniziativa contro lo spreco di plastica nei prossimi mesi. Ricerche sempre più numerose, aggiungono Morrison e Tyree, dimostrano la presenza di microscopiche fibre di plastica negli oceani, nelle acque dolci, nel suolo e nell’aria: «Questo studio è il primo a provare l’esistenza di una contaminazione da plastica nell’acqua corrente di tutto il mondo». Attenzione: «Gli scienziati non sanno in che modo le fibre di plastica arrivino nell’acqua di rubinetto, o quali possano essere le implicazioni per la salute. Qualcuno sospetta che possano venire dai vestiti sintetici, come gli indumenti sportivi, o dai tessuti usati per tappeti e tappezzeria. Il timore è che queste fibre possano veicolare sostanze chimiche tossiche, come una sorta di navetta che trasporta sostanze pericolose dall’acqua dolce al corpo umano». Negli studi su animali, «era diventato chiaro molto presto che la plastica avrebbe rilasciato queste sostanze chimiche, e che le condizioni dell’apparato digerente avrebbero facilitato un rilascio piuttosto rapido», racconta Richard Thompson, direttore della ricerca all’università di Plymouth, Gran Bretagna.Dalle osservazioni sulla fauna selvatica e l’impatto che sta avendo questa cosa abbiamo dati a sufficienza per essere preoccupati, aggiunge Sherri Mason, una delle pioniere della ricerca sulla microplastica, che ha supervisionato lo studio della “Orb Media”: «Se sta avendo un impatto sulla fauna selvatica, come possiamo pensare che non avrà un impatto su di noi?». La contaminazione, scrive “Repubblica”, sfida le barriere geografiche e di reddito: il numero di fibre trovate nel campione di acqua di rubinetto prelevato nei bagni del Trump Grill, il ristorante della Trump Tower a New York, è uguale a quello dei campioni prelevati a Quito, la capitale dell’Ecuador. “Orb Media” ha rilevato fibre di plastica persino nell’acqua in bottiglia, e nelle case in cui si usano filtri per l’osmosi inversa. Le autorità sono spiazzate: gli Usa non hanno nemmeno inserito le particelle di plastica nella lista delle possibili sostanze contaminanti rintracciabili nell’acqua di rubinetto. Dei 33 campioni d’acqua prelevati in varie città degli Stati Uniti, il 94% è risultato positivo alla presenza di fibre di plastica. E’ la stessa media dei campioni raccolti a Beirut, Libano. Fra le altre città monitorate figurano Delhi (India, 82%), Kampala (Uganda, 81%), Giacarta (Indonesia, 76%), nonché Quito (Ecuador, 75%) e varie città europee (72%).La ricerca, precisa “Repubblica”, è stata progettata dal dipartimento di geologia e scienza ambientale dell’università statale di New York, e i test sono stati eseguiti dalla ricercatrice Mary Kosuth, della scuola di salute pubblica dell’università del Minnesota. «E’ la prima indagine a livello globale sull’inquinamento da plastica nell’acqua di rubinetto», afferma la Kosuth. I risultati rappresentano «un primo sguardo sulle conseguenze dell’uso e dello smaltimento della plastica». I campioni sono stati raccolti da scienziati, giornalisti e volontari addestrati, seguendo i protocolli stabiliti. «Questa ricerca si limita a scalfire la superficie, ma ha l’aria di essere una questione molto seria», ammette Hussan Hawwa, amministratore delegato della società di consulenze ambientali Difaf, che si è occupata della raccolta dei campioni in Libano. «La ricerca sulle conseguenze per la salute umana è appena agli inizi», dice Lincoln Fok, studioso dell’ambiente presso l’Education University di Hong Kong. In ogni caso, la ricerca «solleva più interrogativi di quelli che risolve», secondo Albert Appleton, già commissario alle acque del Comune di New York. «C’è un bioaccumulo? Influisce sulla formazione delle cellule? È un vettore per la trasmissione di agenti patogeni nocivi? Se si scompone, che cosa produce?».Il mondo, riassume “Repubblica”, sforna ogni anno 300 milioni di tonnellate di plastica. Oltre il 40% di questa massa «viene usato una volta soltanto, a volte per meno di un minuto, e poi buttato via». Ma la plastica «rimane nell’ambiente per secoli». Secondo un recente studio, dagli anni ‘50 a oggi sono stati prodotti in tutto il mondo oltre 8,3 miliardi di tonnellate di plastica. Sono migliaia di miliardi le scorie plastiche disseminate sulla superficie dell’oceano: fibre di plastica sono state ritrovate «dentro i pesci venduti nei mercati, nel Sudest asiatico, nell’Africa orientale e in California». E la plastica dal rubinetto di casa? «È una cosa brutta: si sentono così tante cose sul cancro», ha detto Mercedes Noroña, 61 anni, dopo essere stata informata che un campione di acqua prelevato dal suo rubinetto di casa, a Quito, conteneva fibre di plastica. «Forse esagero, ma ho paura delle cose che ci beviamo con l’acqua». Non è sola, nella sua inquietudine: un recente sondaggio Gallup svela che il 63% degli americani è «fortemente preoccupato» per l’inquinamento dell’acqua potabile.Tra le fonti inquinanti, aggiungono Dan Morrison e Chris Tyree, c’è anche l’abbigliamento: gli indumenti sintetici emettono fino a 700.0006 fibre a lavaggio, ma gli impianti di depurazione delle acque ne intercettano solo la metà (il resto finisce nei corsi d’acqua, per un totale di 29 tonnellate di microfibre di plastica al giorno, secondo l’università di Plymouth). E poi l’aria: uno studio del 2015 calcolava che a Parigi, ogni anno, si depositano sulla superficie fra le 3 e le 10 tonnellate di fibre sintetiche. Laghi e fiumi possono essere contaminati da deposizioni atmosferiche cumulative, afferma Johnny Gasperi, professore dell’università di Parigi-Est Créteil: «Nelle ricadute atmosferiche è presente un’enorme quantità di fibre». Questo, osserva “Repubblica”, potrebbe spiegare perché si trovano fibre di plastica anche in sorgenti idriche sperdute, in tutto il mondo. Ma la “Orb” ha trovato fibre di plastica anche in acque di rubinetto provenienti da falde sotterranee. Tante le incognite: quanto è grande il pericolo se le fibre di plastica assorbono “perturbatori endocrini” che alterano i nostri sistemi ormonali? «Non abbiamo mai veramente preso in considerazione questo rischio prima», ammette Tamara Galloway, ecotossicologa all’università di Exeter.Le città stanno appena cominciando a fare i conti con l’inquinamento da fibre di plastica e con il ruolo che giocano in tutto questo le lavatrici di casa, continua il report su “Repubblica”. Rallentare il processo di trattamento delle acque reflue consentirebbe di intercettare una maggior quantità di fibre di plastica, dice Kartik Chandran, ingegnere ambientale della Columbia University. Ma potrebbe anche accrescere i costi. «I grandi marchi dell’abbigliamento dicono che stanno lavorando per migliorare i loro tessuti sintetici in modo da ridurre l’inquinamento da fibre. E sta venendo fuori tutta una serie di filtri, di prodotti da inserire nel cestello della lavatrice durante il lavaggio e di altri prodotti per ridurre le emissioni di fibre durante i lavaggi. Test indipendenti mostreranno quale di questi metodi è più efficace». Sherri Mason, la prima ricercatrice a scoprire la forte presenza di inquinamento da microplastica nella regione americana dei Grandi Laghi, si dice «sconvolta» dai risultati dei test sull’acqua potabile: «La gente mi chiedeva sempre: “Ma queste cose ci sono anche nell’acqua che beviamo?”. Io rispondevo sempre che non lo sapevo». Ora invece, purtroppo, lo sa.Quanta plastica beviamo? Molte ricerche ormai mostrano la presenza di fibre plastiche, praticamente ovunque: negli oceani, nelle acque dolci, nel suolo e nell’aria. E oggi uno studio americano prova l’esistenza di una contaminazione da plastica persino nell’acqua corrente domestica, spiegano Dan Morrison e Chris Tyree in un report su “Repubblica”. «Dai rubinetti di casa di tutto il mondo, da New York a Nuova Delhi, sgorgano fibre di plastica microscopiche», secondo una ricerca originale di “Orb Media”, un sito di informazione no-profit di Washington. Insieme ai ricercatori dell’università statale di New York e dell’università del Minnesota, “Orb Media” ha testato 159 campioni di acqua potabile di città grandi e piccole nei cinque continenti. L’83% dei campioni contiene microscopiche fibre di plastica: compresa l’acqua che esce dai rubinetti del Congresso degli Stati Uniti. E se la plastica è nell’acqua di rubinetto, probabilmente sarà presente anche nei cibi preparati con l’acqua, come pane, pasta, zuppe e latte artificiale. «È una notizia che dovrebbe scuoterci», dice Muhammad Yunus, Premio Nobel per la Pace 2006. «Sapevamo che questa plastica tornava da noi attraverso la catena alimentare. Ora scopriamo che torna da noi attraverso l’acqua potabile. Abbiamo una via d’uscita?».