Archivio del Tag ‘guera’
-
Che bel regalo, Draghi senatore a vita e poi al Quirinale
Che bel regalo, se Mario Draghi venisse nominato senatore a vita. Regalo per chi? Ovvio: per quelli che, come Gioele Magaldi, sono impegnati a smascherare l’ineffabile inventore del “pilota automatico”, la tragica farsa dell’algoritmo finanziario che di fatto confisca la sovranità democratica e rende inutili le elezioni. «Una volta al potere in Italia, Draghi sarebbe costretto a mostrare il suo vero volto: e dovrebbe andare in giro non con una, ma con cinque scorte». Il draghetto Mario? «Più che a Palazzo Chigi o meglio ancora al Quirinale, lo vedrei bene in tribunale: dovrebbe rispondere, finalmente, di tutti i danni che ha causato al nostro paese», dice Magaldi, che nel saggio “Massoni” (Chiarelettere, 2014) traccia un profilo inedito del “venerabile” super-banchiere. Allievo dell’economista keynesiano Federico Caffè, si laureò con una tesi che oggi può sembrare sconcertante. Ovvero: imporre all’Europa una moneta unica sarebbe un suicidio economico. Poi, accadde qualcosa. Il 2 giugno 1992, anche Draghi – allora direttore generale del Tesoro – salì a bordo del panfilo Britannia ormeggiato a Civitavecchia, dove il gotha della finanza atlantica progettava la grande privatizzazione del Belpaese. Da allora, anche grazie a Super-Mario, s’è scritta tutta un’altra storia: crisi e disoccupazione, erosione dei risparmi, iper-tassazione. Fino al “golpe bianco” del 2011 innescato dalla letterina della Bce – firmata insieme a Trichet – per la “deposizione” di Berlusconi e l’avvento di Mario Monti, con la regia di Napolitano.Folgorante, l’ascesa di Draghi nell’élite finanziaria mondiale: dal vertice di Bankitalia a quello della Bce, la mega-banca che emette l’euro, cioè la moneta che sarebbe stata “impossibile” e letteralmente insostenibile, per il giovane studente Mario. Determinante, si dice, il transito negli Usa: Draghi è stato uno stratega della Goldman Sachs, la banca speculativa più temuta al mondo: quella che, tra l’altro, truccò i bilanci della Grecia, creando le premesse per il crollo di Atene. A disastro avvenuto, Draghi si occupò dei greci anche nelle vesti di inflessibile censore della Troika europea, in rappresentanza della Bce. Una conversione, la sua – da Keynes al neoliberismo – che lascia stupefatti: il geniale economista inglese aveva ispirato le politiche espansive che hanno arricchito l’Europa, mentre i suoi avversari (da Von Hayek a Friedman) hanno impoverito i nostri popoli, espropriandoli del potere statale di spesa a beneficio dell’oligarchia finanziaria, divenuta l’unica padrona del denaro. Come si spiega, un simile voltafaccia, da parte di quello che, ai tempi di Caffè, si presentava come un promettente economista post-keynesiano? L’immenso potere del denaro, certo: il dominio di Wall Street è divenuto assoluto, specie dopo che Clinton abolì il Glass-Stegall Act, la norma con la quale Roosevelt aveva tagliato le unghie alla speculazione (separazione netta tra banche d’affari e credito alle imprese). Franata la diga, la finanza predatoria è diventata una lotteria perversa, capace di piegare gli Stati. E oggi infatti eccoci qui, a elemosinare decimali di deficit, implorando una tecnocrazia di non-eletti.Ma non è tutto. Nel suo saggio, Magaldi svela un retroscena illuminante: il massone Draghi milita in ben 5 Ur-Lodges. Le superlogge sovranazionali sono in tutto 36 organismi occulti e molto trasversali, in grado di controllare il pianeta, ben al di sopra dei governi. Per la cronaca, il presidente della Bce sarebbe affiliato alla “Edmund Burke”, alla “Pan-Europa” e alla “Der Ring”, nonché alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum” e alla “Three Eyes”, veri e propri santuari della supermassoneria “neoaristocratica”, protagonista dell’attuale globalizzazione finanziaria e post-democratica imposta a mano armata anche con la guerra e, all’occorrenza, persino il terrorismo e la strategia della tensione, oltre che con l’arma dell’austerity che ha precarizzato il lavoro e impoverito le popolazioni occidentali. Tutto merito loro: a imporre le durezze della crisi sono i signori del “back office” supermassonico. Sono questi, dice Magaldi, i veri “azionisti” di Mario Draghi, comicamente celebrato – dai media – come una specie di salvatore della patria. E’ vero l’esatto contrario: l’Italia ha patito le conseguenze dell’azione di Draghi, che appartiene a un’oligarchia apolide, senz’altra patria che il denaro. «Viene presentato come il santo protettore dell’Italia? Mettetelo a Palazzo Chigi, e poi vedrete di che pasta è fatto», dice Magaldi, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”.Certo, visto dall’Italia oggi sembra remotissimo, Super-Mario, impegnato a vegliare sull’Europa dall’alto dell’Eurotower di Francoforte. Per questo, gli italiani riescono a bersi la versione del mainstream, che poi è questa: se non ha potuto fare abbastanza, per l’Italia, è perché il povero Draghi «aveva le mani legate dalle presunte regole della Banca Centrale Europea», e magari «era costretto a mediare con Jens Weidmann della Bundesbank». Tutte storie: «Fatelo governare, e vedrete di cosa sarà capace». Quanto sono fondate, le voci secondo cui Mattarella lo promuoverebbe senatore a vita, come già fece Napolitano con Monti, per poi proiettarlo a Palazzo Chigi? L’incarico alla Bce scadrà in autunno, e si sa che Draghi ambirebbe a prendere il posto di Christine Lagarde al vertice del Fmi. Secondo Magaldi, potrebbe anche concedersi un periodo sabbatico. Certo è che qualsiasi decisione sarà come sempre concertata con il super-potere finanziario, di cui Draghi resta una pedina di prima grandezza a livello mondiale. Senatore a vita, dunque? Non è dato saperlo. Probabilmente, dice Magaldi, la nomina potrebbe gradirla non tanto come “ascensore” verso la guida del governo, ma come viatico per un obiettivo più ambizioso: la presidenza della Repubblica. In ogni caso, aggiunge Magaldi, se mai dovesse fare il premier «sarebbe un regalo, per noi che combattiamo contro ciò che Mario Draghi rappresenta».Un simile esito sarebbe perfettamente speculare rispetto all’esperienza di Monti, che nel 2011 era osannato dai media, quando dalle pagine del “Corriere della Sera” «dispensava saggi consigli, ma non aveva mostrato come li avrebbe messi in pratica». Duro l’impatto con la realtà: «Averlo visto governare ci ha liberato per sempre dall’idea che Monti sia un uomo saggio e soprattutto preoccupato del bene collettivo degli italiani». Non pensate che con Draghi sarebbe diverso, chiarisce Magaldi, dal 2015 presidente del Movimento Roosevelt e ora promotore del “Partito che serve all’Italia”, per recuperare la perduta sovranità democratica. Draghi? Tuttora, viene proposto dal mainstream come il paladino degli interessi italiani, «l’uomo che ha risolto la crisi economica e che dalla Bce ha assicurato il “quantitative easing”, salvando le banche». Tutto falso: «Come banchiere centrale, è intervenuto quando i buoi erano già scappati dalla stalla, cioè quando l’economia europea era in picchiata e parecchi paesi erano ormai stati commissariati con l’avvento dei tecnocrati al governo». A quel punto, «Draghi ha fatto in modo che i denari arrivassero alle banche e non all’economia reale, per aiutare la quale non ha mosso un dito».Severo il giudizio di Magaldi sul super-banchiere europeo: «Mario Draghi è fra i registi di questa pessima governance post-democratica europea. E’ colui che ha detto che il “pilota automatico” è inserito nel sistema di gestione dell’economia dei vari paesi europei, e quindi non importa chi viene eletto: o aderisce alle indicazioni di questo “pilota automatico”, o viene delegittimato». In più c’è l’ombra, imbarazzante, della crisi Mps: «Insieme ad Anna Maria Tarantola, che all’epoca guidava la vigilanza di Bankitalia – continua Magaldi – Draghi è anche responsabile, per l’Italia, di quello che è accaduto nella pessima gestione del Monte dei Paschi di Siena». Quindi, non dovrebbe essere gratificato di un posto di senatore a vita: «Semmai – dice Magaldi – dovrebbe essere messo sotto processo, anche per i danni che ha fatto, nella gestione delle privatizzazioni all’italiana, come direttore generale del ministero del Tesoro, carica rivestita ininterrottamente dal 1992 al 2001». Purtroppo viviamo in un mondo orwelliano, che ribalta la verità: e così Mario Draghi, «che è stato tra i personaggi più funesti, per il destino d’Europa e d’Italia», oggi «viene santificato dai media mainstream».“Mister Euro” direttamente al comando dell’Italia, una volta rottamata la deludente esperienza gialloverde? Niente paura, dice Magaldi: «Questa situazione ci deve mettere di buon umore». E perché mai? «Perché è tipica dei momenti pre-rivoluzionari: alla vigilia di ogni rivoluzione, da chi occupa poltrone che stanno per franare miseramente proviene sempre un sussulto di arroganza, di disprezzo della verità, di imbroglio della comunicazione». Draghi a Palazzo Chigi? «Sarebbe un ottimo modo per vedere il suo vero volto, perché in questo mondo così veloce ormai le menzogne e i bluff durano poco. Dategli anche la presidenza della Repubblica, e poi ci divertiremo: perché ormai siamo arrivati alla frutta». Sulla crisi in corso, Magaldi è nettissimo: «L’Italia è stanca di essere malata, e ormai vede che non c’è stata nessuna cura». Pie illusioni, quelle alimentate dai gialloverdi: «Ignominiosa la rinuncia a lottare per il deficit, e vergognosa le genuflessione di Di Maio davanti alla Merkel». Tradotto: l’Italia ha perso un anno di tempo, dando credito a Lega e 5 Stelle. Domani il super-potere oserà schierare addirittura Draghi per spegnere gli ultimi focolai di ribellione, disinnescando la speranza che dall’Italia possa partire il riscatto democratico europeo? Quello, scommette Magaldi, sarà il segnale: di fronte a tanta arroganza, gli elettori finalmente insorgeranno. Primo passo: licenziare i finti rivoluzionari gialloverdi, che si sono fatti prendere a sberle dai signori di Bruxelles e dal loro nume tutelare, il potentissimo Mario Draghi.Che bel regalo, se Mario Draghi venisse nominato senatore a vita. Regalo per chi? Ovvio: per quelli che, come Gioele Magaldi, sono impegnati a smascherare l’ineffabile inventore del “pilota automatico”, la tragica farsa dell’algoritmo finanziario che di fatto confisca la sovranità democratica e rende inutili le elezioni. «Una volta al potere in Italia, Draghi sarebbe costretto a mostrare il suo vero volto: e dovrebbe andare in giro non con una, ma con cinque scorte». Il draghetto Mario? «Più che a Palazzo Chigi o meglio ancora al Quirinale, lo vedrei bene in tribunale: dovrebbe rispondere, finalmente, di tutti i danni che ha causato al nostro paese», dice Magaldi, che nel saggio “Massoni” (Chiarelettere, 2014) traccia un profilo inedito del “venerabile” super-banchiere. Allievo dell’economista keynesiano Federico Caffè, si laureò con una tesi che oggi può sembrare sconcertante. Ovvero: imporre all’Europa una moneta unica sarebbe un suicidio economico. Poi, accadde qualcosa. Il 2 giugno 1992, anche Draghi – allora direttore generale del Tesoro – salì a bordo del panfilo Britannia ormeggiato a Civitavecchia, dove il gotha della finanza atlantica progettava la grande privatizzazione del Belpaese. Da allora, anche grazie a Super-Mario, s’è scritta tutta un’altra storia: crisi e disoccupazione, erosione dei risparmi, iper-tassazione. Fino al “golpe bianco” del 2011 innescato dalla letterina della Bce – firmata insieme a Trichet – per la “deposizione” di Berlusconi e l’avvento di Mario Monti, con la regia di Napolitano.
-
Abolire le lezioni di storia: i docenti non insegnano niente
Un po’ di giorni fa, le associazioni dei docenti di storia e l’Istituto Storico per la Storia della Resistenza hanno lanciato un grido di dolore contro la proposta di abolire la traccia di storia fra quelle degli esami di Stato, additando l’incultura di chi ha fatto l’infausta proposta ed hanno colto l’occasione per la solita geremiade sulle cattedre perse, della marginalizzazione delle ore di insegnamento della storia ridotte ad una sola negli istituti tecnici, eccetera. La commissione ministeriale che ha approvato questa riforma degli esami di Stato è certamente composta da allevatori di bestiame capitati non si sa come in quella posizione, non discuto. Ma bisogna riconoscere che qualche ragione ce l’hanno: è un fatto che nell’ultimo decennio (più o meno) la traccia è stata scelta solo dall’1% dei candidati. E la cosa, cari colleghi, non vi dà nessun sospetto? Se il 99% degli studenti scansa la traccia di storia, non dipenderà dal fatto che la storia gli è stata insegnata con i piedi? Non cominciamo con le solite scuse sulla vulgata corrente che marginalizza le materie umanistiche e disincentiva i giovani a studiare la storia, su quella trappola infernale che è Internet, eccetera eccetera; il punto è che i nostri docenti non riescono ad interessare i ragazzi alla materia in questione.E questo si inserisce nel problema più generale dei troppi insegnanti che, magari, conoscono la materia ma non la sanno insegnare, e questo vale per tutte le discipline. In estate lessi di una classe di un istituto livornese dove erano stati bocciati o rimandati 40 studenti su 41, e un imbecille di docente confessava come giustificazione: «Non riusciamo a farli studiare». Come dire che “non sappiamo fare il nostro mestiere”, visto che il compito del docente è proprio quello di motivare i ragazzi a studiare. Morale: licenziamo in blocco i docenti di quella classe e faremo una cosa santa. Ma, si dice, della storia ha bisogno non solo la cultura ma anche la democrazia, perché, si dice, la storia ha un alto valore formativo. Ecco: il punto è proprio questo: la storia, così come viene insegnata, ha ancora questo valore formativo? Direi proprio di no. Per il modo in cui è ora mal insegnata non ha alcun valore culturale e, meno che mai, professionale. La storia non serve a “far bella figura in società” o ad assecondare una qualche voglia individuale di intrattenimento. La storia ha una funzione precisa nella spiegazione e critica del presente e, solo a questa condizione, è elemento utile al dibattito politico e culturale.Frugare a caso nel passato non serve a niente, quello che serve è risalire lungo la catena dei nessi causa effetto-che spieghino l’attuale stato di cose e servano da lente di ingrandimento per individuare cosa va conservato e cosa mutato nell’attuale ordinamento. Ora, c’è qualcuno che ha il coraggio di sostenere che l’attuale insegnamento serva a questo? Quanti docenti sarebbero in grado di spiegare il passaggio dalla formula merce-denaro-merce a quella denaro1-merce-denaro2 e spiegarne la portata storica? Quale insegnante saprebbe spiegare le conseguenze della decisione di Nixon sulla non convertibilità del dollaro nel 1971? Quanti docenti hanno una pur vaga idea del pensiero politico di Gandhi, Sukarno, Kemal Ataturk o sanno chi sono stati Nasser, Al Qutb o Franz Fanon? E chi saprebbe presentare adeguatamente il processo di codificazione dello Stato moderno europeo o il passaggio dalla decretazione alla legge? Ne dubito fortemente, perché i nostri docenti in massima parte sono filosofi o letterati che non capiscono nulla di diritto o economia e poco di sociologia o politologia.D’altro canto, i libri di testo che hanno a disposizione non parlano di certe cose e ripropongono la solita sbobba identica a se stessa da almeno 60 anni. Sì, ci abbiamo appiccicato a forza qualche capitolo sulla storia delle donne, dei giovani o dell’ambiente (che nessun docente trova il tempo di spiegare e che sono posti senza alcun legame con tutto il resto) ma la struttura resta quella di sempre, nella quale è possibile distinguere con chiarezza i suoi vari strati alluvionali: alla base il catechismo della “religione della Patria” con i suoi martiri (Menotti, Speri, Bandiera) e il suo glorioso cammino verso l’unità; poi il capitolo sulla Prima Guerra Mondiale per lo più di derivazione fascista; quindi la grande cupola dell’insegnamento crociano con il suo culto per l’analogia e il suo insopportabile moralismo, per cui il fine della storia è il giudizio morale (insomma, il voto in condotta a chi ci ha preceduto) e la sua totale insensibilità ai dati istituzionali ed economici; infine un po’ di catechismo antifascista.Beninteso: sono antifascista da sempre, non ritengo affatto che l’antifascismo sia un valore superato, ma non sopporto alcun tipo di catechismo. Si può capire che nel primo trentennio della Repubblica fosse necessario radicare la condanna del fascismo, ma vogliamo capire che la storia del fascismo va studiata in riferimento al tipo di modernità che si è costruita in questo paese? E che dopo il fascismo ci sono stati 70 anni di storia che sono bellamente ignorati dai nostri manuali? E senza che questo attenui di un etto la condanna del fascismo. L’antifascismo va benissimo, ma facciamolo vivere nel quadro del presente e non trasformiamolo in un polveroso museo di memorie. Insomma, è accettabile che il nostro insegnamento ignori cose come la decolonizzazione, la strategia della tensione, il Sessantotto, i mutamenti dell’ordine monetario, il crollo dell’Urss e dell’ordinamento bipolare, la trasformazione imperiale della presidenza americana, le rivoluzioni di Cina, Indonesia, Algeria, Vietnam, le guerre mediorientali, eccetera eccetera? Caro colleghi, ma in che secolo vivete?E non si tratta solo di recuperare il passato più recente, ma di leggere con altri occhi anche tutto il resto della storia alla luce dell’attuale ordinamento del mondo. Ad esempio, siamo sicuri che la storia degli Assiri, dei Babilonesi, dei Fenici sia così importante, mentre si trascurano del tutto le ben più importanti civiltà di India e Cina? Certo che la storia romana dobbiamo studiarla, ma è necessario beccarsi tutta la solfa delle dinastie gallo-romane, l’elenco completo delle battaglie di Cesare, gli imperatori più insignificanti, e non tentare una comparazione con le parallele vicende dell’India? Il medioevo va studiato, ma è così fondamentale dare tanto spazio alla lotta per le investiture, piuttosto che dare uno sguardo all’evoluzione dell’economia cinese a metà del XIV secolo, con il passaggio all’economia del riso e con il parallelo affermarsi del dispotismo asiatico? E, nella storia moderna, si potrebbe restringere un po’ il solito elenco di guerre e battaglie, ma dare più spazio alla nascita del diritto commerciale o al colbertismo. Quanto alla storia contemporanea, va bene che si parli della Shoà, ma non sarebbe più urgente e importante parlare del colonialismo e del suo residuo permanente? Magari ci riuscirebbe di capire meglio un fenomeno come il terrorismo jhadista.Tutto questo, però, presupporrebbe un corpo docente ben altrimenti formato. Anche l’istituzione del corso di laurea in storia è stato un vero disastro: nessun insegnamento di economia, diritto, scienza della politica, una infarinatura appena di sociologia, psicologia e antropologia e, in cambio, una valanga delle storie più minute e meno utili. Solito schema per le storie generali all’interno del solito eurocentrismo. Un marziano che scendesse sulla Terra e leggesse i nostri manuali di storia per farsi unìidea, capirebbe che l’unico protagonista della storia è sempre stato l’uomo bianco, salvo qualche rapida comparsata di qualche altro; che la storia umana ha seguito un unico cammino rettilineo, e che gli umani si sono sempre preoccupati solo dell’aspetto ideologico, dedicando di tanto in tanto qualche cenno di attenzione ai processi materiali. Cari colleghi, diciamolo, voi non fate storia, fate una noiosissima antiquaria. E non parliamo dell’aspetto metodologico: quanti docenti hanno idea di cosa sia la scienza della complessità o sarebbero spiegare cosa è un modello di simulazione e come funziona (anche un semplice wargame)? Quanti se la sentirebbero di accennare un approccio comparatistico? E quanti potrebbero provare una spiegazione dei processi storici in termini di psicoanalisi di massa? Lasciamo perdere.Già sento la risposta: «Dobbiamo rispettare i programmi ministeriali». Già, l’annosa piaga dei programmi ministeriali che mi fanno pensare che sia arrivato il momento di sbarazzarci della scuola statale (non ho detto della scuola pubblica, ma di quella statale): un modello organizzativo che ha avuto i suoi meriti ma che oggi, forse, è il caso di superare. In ogni caso, non mi è capitato di leggere di nessuna protesta dei docenti, dei loro sindacati, delle loro associazioni disciplinari contro i famigerati programmi ministeriali, pecoronescamente applicati. Tutto ciò premesso, come si fa a sostenere che l’attuale insegnamento della storia abbia una qualche utilità e possa riscuotere più di qualche sbadiglio dei ragazzi? Capisco la difesa più che della storia, degli impiegati statali incaricati di spiegare la “storia” da cui cercano “di tirare quattro paghe per il lesso”, ma se l’insegnamento della storia deve essere questo, forse è meglio che lo aboliamo del tutto. E forse i ragazzi odieranno di meno la storia e qualcuno inizierà a studiarla per proprio conto.(Aldo Giannuli, “Una modesta proposta sull’insegnamento della storia: aboliamolo. Lettera aperta ai colleghi storici”, dal blog di Giannuli del 30 ottobre 2018).Un po’ di giorni fa, le associazioni dei docenti di storia e l’Istituto Storico per la Storia della Resistenza hanno lanciato un grido di dolore contro la proposta di abolire la traccia di storia fra quelle degli esami di Stato, additando l’incultura di chi ha fatto l’infausta proposta ed hanno colto l’occasione per la solita geremiade sulle cattedre perse, della marginalizzazione delle ore di insegnamento della storia ridotte ad una sola negli istituti tecnici, eccetera. La commissione ministeriale che ha approvato questa riforma degli esami di Stato è certamente composta da allevatori di bestiame capitati non si sa come in quella posizione, non discuto. Ma bisogna riconoscere che qualche ragione ce l’hanno: è un fatto che nell’ultimo decennio (più o meno) la traccia è stata scelta solo dall’1% dei candidati. E la cosa, cari colleghi, non vi dà nessun sospetto? Se il 99% degli studenti scansa la traccia di storia, non dipenderà dal fatto che la storia gli è stata insegnata con i piedi? Non cominciamo con le solite scuse sulla vulgata corrente che marginalizza le materie umanistiche e disincentiva i giovani a studiare la storia, su quella trappola infernale che è Internet, eccetera eccetera; il punto è che i nostri docenti non riescono ad interessare i ragazzi alla materia in questione.
-
L’oligarca Rothschild o la Le Pen? Vinceranno paura e odio
Il risultato del primo turno delle presidenziali francesi regala al candidato di plastica Emmanuel Macron, l’uomo dei Rothschild, le apparenti maggiori possibilità di vittoria per il secondo appuntamento alle urne, quello del 7 maggio, quando dovrà vedersela con Marine Le Pen. I quattro candidati più votati (Macron, Le Pen, Fillon, Mélenchon) si sono spartiti l’80 per cento dei voti, collocandosi ciascuno poco sopra o poco sotto il 20 per cento. Con un dato di partenza così basso, il meccanismo del ballottaggio non potrà mai a giocarsi sul consenso per sé, ma sul dissenso verso l’altro candidato. Non vincerà il più amato e apprezzato, perderà il più odiato e temuto. Entrambi i candidati sono in grado di attirare su di sé le principali forme di dissenso già sperimentate in questi anni nel discorso pubblico dei paesi occidentali. Ognuna di queste forme ha i suoi intellettuali organici, i suoi media di riferimento, i suoi argomenti dominanti. Prendiamo Emmanuel Macron. È un prodotto sfornato direttamente dalle officine dell’élite atlantista come un avatar telegenico che deve dare un volto elettoralmente fungibile agli interessi della grande finanza, di cui è espressione immediata.Una volta consumato oltre ogni dire l’impresentabile presidente Hollande, l’élite filo-Nato e filo-Ue ha equipaggiato in fretta e furia il giovane Emmanuel con tutto il corredo retorico del “nuovo” e del “dinamico” (il suo partito istantaneo si chiama “En Marche!”, ossia “In Cammino!”), senza poterlo tuttavia riparare completamente dalla verità che lo riguarda né dalla repulsione di chi conosce questa verità: Macron è l’ennesimo fantoccio neoliberista, un continuatore delle politiche neocolonialiste che hanno fatto della Francia uno dei maggiori perturbatori della pace negli ultimi anni, un distruttore dei diritti del lavoro. Ha dalla sua parte le grandi Tv e i grandi giornali dell’oligarchia francese, che sono organici al suo mondo di provenienza, ma questo elemento di forza – pur potentissimo – sconta il fatto che la corrente principale dei media è sempre più invisa a decine di milioni di persone, che si informano su altri canali e hanno altri intellettuali di riferimento.Dal canto suo, Marine Le Pen non è certo una candidata artificiale e il suo Front National non è un partito finto, bensì una forza popolare radicata da decenni, durante i quali ha assunto un profilo staccato dalle caratteristiche fasciste impresse dal suo fondatore, e padre di Marine, Jean-Marie Le Pen, ormai espulso dal partito. Ma le dinamiche elettorali hanno inerzie e resistenze molto lunghe, che riguardano l’identità e la psicologia di grandi masse di elettori. Saranno in tanti a continuare a votare in base a pregiudiziali destra-sinistra: la lunga storia xenofoba del partito a guida Le Pen farà turare ancora milioni di nasi, cui non basterà il suo profilo sociale, il suo radicamento nei quartieri operai, i suoi progetti di ripresa della sovranità rispetto alle tecnocrazie europoidi, perché temeranno le sue ricette più dure in tema di immigrazione e di sicurezza pubblica. Marine Le Pen ha una certa presa popolare attraverso i media fuori dal mainstream, ma non le sarà risparmiata alcuna forma di manipolazione e “spin” mediatico da parte di un sistema disposto a vendere cara la pelle, con uno schieramento impressionante di politici già in lotta per far vincere Macron.La cosa può anche non funzionare. Gli esempi recenti non mancano. Di fronte al Brexit e all’ascesa di Donald Trump la linea di difesa aggressivissima del “kombinat” politico-mediatico non ha retto nelle urne, dove i risultati sono stati quelli opposti al suo volere. Tanto che sono dovuti scattare dei “piani B”: sia a Londra che a Washington sono riusciti, sì, a normalizzare le scelte dei governi nati dai terremoti elettorali, ma con grande fatica e incertezza, in uno scenario di crisi sistemica meno manovrabile dall’élite: se sei un guerrafondaio neoconservatore russofobo e sei riuscito a castrare le velleità di The Donald, beh, la cosa ti va lo stesso di lusso, date le circostanze, ma alla Casa Bianca preferivi comunque avere qualcun altro. Anche in Italia, con il referendum costituzionale del 4 dicembre, il risultato è stato opposto a quello voluto dai padroni del vapore, al punto che Matteo Renzi è stato ridimensionato, con un governo che intanto galleggia senza progetto. Tuttavia, nelle forme in cui avviene l’espressione della volontà popolare, conta parecchio il tipo di sistema elettorale. Il ballottaggio francese ha caratteristiche importantissime che influiscono sulle possibilità reali di vittoria. E vincere implica trasformare un 20 per cento in un 51 per cento in appena quindici giorni.Se con piccole variazioni percentuali Macron non avesse raggiunto il ballottaggio e lo avesse conquistato qualcun altro, avremmo misurato l’avversione a quell’altro candidato con altri criteri. Ad esempio, come si sarebbero evolute le posizioni anti-Ue e anti-Nato del candidato della sinistra, Mélenchon, di fronte alle analoghe posizioni della Le Pen? Sarebbe stata un’altra dinamica, o no? E se al ballottaggio fosse giunto il gollista Fillon, che voleva ripristinare un dialogo amichevole con la Russia spazzando le sanzioni, come sarebbe cambiata la geografia elettorale? E se Marine Le Pen non fosse giunta al ballottaggio, come avrebbero votato i suoi elettori? Avrebbe prevalso un euroscettico o un atlantista sfegatato Dato il sistema del ballottaggio, Macron prende il via comunque da favorito, perché una parte massiccia delle personalità e delle formazioni sociali che pure non lo ha votato teme di più Le Pen e si mobiliterà in tal senso. Ora non si tratta tanto dello schieramento – davvero scontato – dell’élite, ma anche delle associazioni nei quartieri, dei sindacati a livello locale, di tutta una miriade di organizzazioni con radici popolari.Certo, è un mondo che stavolta ha dato al candidato socialista Benoît Hamon soltanto un miserrimo 6 per cento dei voti, ma è anche un mondo che ha una lunga storia dove dire ‘non’ a Le Pen è stata sempre una pregiudiziale inflessibile, quartiere per quartiere, villaggio per villaggio. Buona parte degli elettori di sinistra di Mélenchon condivide molti più punti programmatici sociali con la presidente del Fronte Nazionale che con il rampollo della finanza predatoria. Ma per Marine Le Pen conquistare quei voti significa dover demolire un “di più” di sfiducia verso il portato storico e ideologico che lei rappresenta. È prevedibile che farà allora di tutto per presentarsi come l’Alternativa possibile, cercando di erodere il Fronte che già si è costituito contro di lei, pescando tanto a sinistra, quanto fra gli euroscettici che pure hanno votato il moderato Fillon. In mezzo al risultato colpisce la disfatta totale dei socialisti francesi, che ripete quella dei socialisti olandesi di marzo. La sinistra socialdemocratica europea è in rotta, e le sue residue bandiere le consegna a difendere un bidone della banca Rothschild.(Pino Cabras, “#Macron, #LePen, chi perderà di più?”, da “Megachip” del 24 aprile 2017).Il risultato del primo turno delle presidenziali francesi regala al candidato di plastica Emmanuel Macron, l’uomo dei Rothschild, le apparenti maggiori possibilità di vittoria per il secondo appuntamento alle urne, quello del 7 maggio, quando dovrà vedersela con Marine Le Pen. I quattro candidati più votati (Macron, Le Pen, Fillon, Mélenchon) si sono spartiti l’80 per cento dei voti, collocandosi ciascuno poco sopra o poco sotto il 20 per cento. Con un dato di partenza così basso, il meccanismo del ballottaggio non potrà mai a giocarsi sul consenso per sé, ma sul dissenso verso l’altro candidato. Non vincerà il più amato e apprezzato, perderà il più odiato e temuto. Entrambi i candidati sono in grado di attirare su di sé le principali forme di dissenso già sperimentate in questi anni nel discorso pubblico dei paesi occidentali. Ognuna di queste forme ha i suoi intellettuali organici, i suoi media di riferimento, i suoi argomenti dominanti. Prendiamo Emmanuel Macron. È un prodotto sfornato direttamente dalle officine dell’élite atlantista come un avatar telegenico che deve dare un volto elettoralmente fungibile agli interessi della grande finanza, di cui è espressione immediata.