Archivio del Tag ‘guerra’
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L’accordo con l’Iran prelude alla guerra: sarà violato?
Attenti: lo storico accordo con l’Iran sul nucleare potrebbe addirittura preludere a una guerra. Ovvero: sembra fatto apposta per provocare una reazione militare, nel caso in cui Teheran dovesse disattenderlo. Lo sostiene Tony Cartalucci, rileggendo il perverso rapporto 2009 della Brooking Institutions, alla voce “Which path to Persia”. «Qualsiasi operazione militare contro l’Iran sarà probabilmente molto impopolare in tutto il mondo e richiederà un adeguato contesto internazionale, sia per garantire supporto logistico all’operazione che per ridurre al minimo il contraccolpo», sostenevano solo qualche anno fa gli strateghi americani, ben consapevoli di dover costruire a tavolino un casus belli sufficientemente solido. «Il modo migliore per ridurre al minimo lo sdegno internazionale e massimizzare il sostegno (anche riluttante o dissimulato)», secondo gli analisti statunitensi consiste nel «colpire solo quando vi sia una diffusa convinzione che agli iraniani è stati fatta un’offerta superba, ma che essi hanno respinto – un’offerta così buona che solo un regime determinato a dotarsi di armi nucleari ed a farlo per motivazioni malvagie poteva rifiutare».In tali circostanze, continua il rapporto, «gli Stati Uniti (o Israele) potrebbero presentare le loro operazioni come prese con dolore, non con rabbia, e almeno alcuni nella comunità internazionale concluderebbero che gli iraniani “se la sono cercata”, rifiutando un buon affare». Il documento, ricorda Cartalucci, è stato scritto anni fa, «quando gli Usa, l’Arabia Saudita e Israele già stavano complottando per invadere con Al-Qaeda il vicino Iran, alleato della Siria, allo scopo di indebolire la Repubblica islamica prima di una guerra inevitabile». Il documento «mostra integralmente come l’“affare nucleare iraniano” sia in effetti una farsa». Secondo Cartalucci, autore di un’analisi su “Information Clearing House”, in realtà l’Occidente non ha alcuna intenzione di fare alcun accordo duraturo con l’Iran, riguardo alla capacità nucleare, e anche l’acquisto di armi nucleari da parte di Teheran non è mai stato veramente una minaccia esistenziale per le nazioni occidentali o i loro partner regionali.«Il problema dell’Occidente con l’Iran è la sua sovranità e la sua capacità di proiettare i propri interessi in ambiti tradizionalmente monopolizzati dagli Stati Uniti e dal Regno Unito in tutto il Medio Oriente», continua Cartalucci. «A meno che l’Iran pianifichi la rinuncia alla propria sovranità ed alla propria influenza regionale, insieme con il suo diritto di sviluppare e utilizzare la tecnologia nucleare, il tradimento di un “accordo sul nucleare” è semplicemente inevitabile, come inevitabile è la guerra che deve seguire subito dopo la disdetta dell’accordo». Denunciare la doppiezza che accompagna gli “sforzi” occidentali per raggiungere un accordo significherà «minare gravemente il loro tentativo di utilizzare l’accordo come leva per giustificare le operazioni militari contro l’Iran». Sia Teheran che i suoi alleati «devono essere preparati per la guerra», tanto più quando l’Occidente «finge interesse per la pace». La Libia? E’ un esempio perfetto: chi non abbassa la testa di fronte all’Occidente firma la propria condanna a morte.Attenti: lo storico accordo con l’Iran sul nucleare potrebbe addirittura preludere a una guerra. Ovvero: sembra fatto apposta per provocare una reazione militare, nel caso in cui Teheran dovesse disattenderlo. Lo sostiene Tony Cartalucci, rileggendo il perverso rapporto 2009 della Brooking Institutions, alla voce “Which path to Persia”. «Qualsiasi operazione militare contro l’Iran sarà probabilmente molto impopolare in tutto il mondo e richiederà un adeguato contesto internazionale, sia per garantire supporto logistico all’operazione che per ridurre al minimo il contraccolpo», sostenevano solo qualche anno fa gli strateghi americani, ben consapevoli di dover costruire a tavolino un casus belli sufficientemente solido. «Il modo migliore per ridurre al minimo lo sdegno internazionale e massimizzare il sostegno (anche riluttante o dissimulato)», secondo gli analisti statunitensi consiste nel «colpire solo quando vi sia una diffusa convinzione che agli iraniani è stati fatta un’offerta superba, ma che essi hanno respinto – un’offerta così buona che solo un regime determinato a dotarsi di armi nucleari ed a farlo per motivazioni malvagie poteva rifiutare».
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Allarme rosso, anzi giallo: la Cina abbandona il dollaro
«Con una scelta sovrana, la banca centrale cinese ha dichiarato senza mezzi termini che “accumulare riserve in valute estere non raccoglie più i favori della Cina”». Tutte le valute, naturalmente, «ma in modo particolare, e certamente preoccupante per gli Stati Uniti, a essere oggetto di questa decisione è il biglietto verde». Per Valerio Lo Monaco si tratta della notizia più importante, a livello macroeconomico e geopolitico, delle ultime settimane. «La stampa internazionale non le ha dato grande risalto, quella interna italiana non ne ha parlato proprio: tutta presa, come è da mesi e mesi, a commentare le quisquilie interne. Ivi inclusa la grottesca battaglia attorno ai 2 miliardi di euro per abolire la seconda rata dell’Imu nello stesso momento in cui l’Italia ne spende 1.600 all’anno e ne dovrà trovare ulteriori 50 nel corso del 2014 per rispettare il Fiscal Compact sottoscritto a suo tempo».Quella cinese, al contrario, è una vera bomba da 3,66 trilioni di dollari: a tanto ammontano le riserve cinesi in moneta statunitense, «operazione messa in piedi per tenere alto il livello del dollaro e allo stesso tempo basso quello dello yuan, onde rendere quest’ultimo estremamente competitivo per le esportazioni cinesi». Ma la musica sta cambiando. Con questa storica decisione, Pechino «imprime una nuova accelerazione alla strategia già in atto da tempo di dismissione delle riserve in valuta statunitense», scrive Lo Monaco su “La Voce del Ribelle”. La Cina smette di comprare dollari? «Gli Usa dovrebbero tremare». Se finora la politica economica cinese ha favorito il proprio export mettendo fuori gioco le nostre aziende, ora lo “smarcamento” dal dollaro significa che «lo yuan è pronto a invadere il mondo», sostituendo gradualmente il dollaro come valuta internazionale di scambio.«Dal punto di vista prettamente statunitense, la cosa è di portata enorme», insiste Lo Monaco, perché «per avere dei prestiti, gli Usa dipendono fortemente da chi ne acquista i titoli di Stato». Ma se questi iniziano a non essere più graditi, «il dollaro, di fatto, inizia a non valere più nulla». Già ora, tutto si regge quasi esclusivamente sulla “promessa” del valore del biglietto verde. Se il gigante asiatico lo “ripudia”, è facile immaginare i contraccolpi negli Usa ma anche in Europa. «Cresceranno probabilmente i tassi di interesse che gli Usa dovranno concedere per vendere i propri titoli», mentre lo yuan insidierà il dollaro come moneta di scambio per la materia più importante di tutte, il petrolio: secondo la Reuters, alla Borsa di Shangai si inizierà prestissimo a quotare i diritti di acquisto (futures) sul greggio in yuan.A cosa servirà più, dunque, il dollaro? E a cosa “serviranno” più gli Usa? Come si terranno in piedi? Dalle sconfitte internazionali delle politiche neocon di Iraq e Afghanistan alla crisi dei subprime agli schiaffi presi giorno per giorno dalla Russia sul caso Siria e Iran sino a questo ulteriore pugno in pieno volto proveniente da Shanghai: l’Impero sta per cadere in ginocchio, dice Lo Monaco. «Allora, molto chiaramente: la Cina è pronta per diventare il punto di riferimento per tutta l’Asia, in sostituzione degli Stati Uniti». E, complice anche la decadenza costante dell’euro, «a questo punto non si vede altra moneta mondiale, e altra potenza commerciale, in grado di contrastarla». In tempi non brevissimi, naturalmente.«Questa della dismissione di dollari è politica in atto ormai da anni, e la tappa relativa al commercio di petrolio in yuan necessita di passaggi successivi». Ma la direzione è ormai tracciata. Conseguenze: «Le merci acquistate dagli statunitensi, dopo la caduta del dollaro, costeranno molto di più. E il tenore di vita tenuto artificiosamente alto, o almeno a galla, dopo lo scoppio dell’ultima crisi, è destinato a crollare sensibilmente». Morale: «La falsa – e cieca – prosperità degli Stati Uniti appare arrivata al termine e a presentare i conti». Accettabile? No, ovviamente. «A una azione di questo calibro della Cina non potrà che esserci una reazione Usa». Ammonivano Bush e Cheney ancora prima del 2.000: «Il tenore di vita degli americani non è negoziabile». Almeno fino a quando gli Usa conserveranno l’attuale supremazia: quella delle portaerei.«Con una scelta sovrana, la banca centrale cinese ha dichiarato senza mezzi termini che “accumulare riserve in valute estere non raccoglie più i favori della Cina”». Tutte le valute, naturalmente, «ma in modo particolare, e certamente preoccupante per gli Stati Uniti, a essere oggetto di questa decisione è il biglietto verde». Per Valerio Lo Monaco si tratta della notizia più importante, a livello macroeconomico e geopolitico, delle ultime settimane. «La stampa internazionale non le ha dato grande risalto, quella interna italiana non ne ha parlato proprio: tutta presa, come è da mesi e mesi, a commentare le quisquilie interne. Ivi inclusa la grottesca battaglia attorno ai 2 miliardi di euro per abolire la seconda rata dell’Imu nello stesso momento in cui l’Italia ne spende 1.600 all’anno e ne dovrà trovare ulteriori 50 nel corso del 2014 per rispettare il Fiscal Compact sottoscritto a suo tempo».
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Truce Germania smemorata: noi le condonammo i debiti
Strana, pericolosa Germania: è risorta dalla vergogna mondiale del nazismo ricorrendo alla “politica della memoria” che l’ha riabilitata, beneficiando di un colossale taglio del debito accordatole nel ’53 (per motivi geopolitici, certo) da ben 65 paesi, tra cui l’Italia. Ma ora pare vittima di un’amnesia capitale, pretendendo che il debito altrui venga saldato, costi quel che costi, foss’anche la morte per fame dei poveri greci o la devastazione economica di un grande paese come il nostro. Per Barbara Spinelli, rischia di tornare in scena il peggio della storia europea: proprio i tedeschi stanno infliggendo al resto d’Europa la stessa “punizione” che furono i primi a subire, per mano della Francia, che dopo la Prima Guerra Mondiale demolì la Repubblica di Weimar spianando la strada alle camicie brune. Stessa ricetta degli “austeritari” di allora: deflazione spietata, super-export, crollo dei consumi interni, crescente irresponsabilità bellicosa verso i vicini.
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Pallante: monasteri del terzo millennio, così ci salveremo
Ora che tutto sta crollando, meglio si intende la strana lingua degli eretici. Lo spettacolo aiuta a comprendere: l’economia in recessione, la frana del Pil, l’assurdità lunare delle “grandi opere inutili” e la catastrofica impresentabilità di una politica ridotta a balbettare rottami di dogmi. Sono solo appunti sotto dettatura, sillabati da un mainstream autistico e pilotato dalle grandi lobby coi loro economisti di complemento, i profeti disonesti del rigore altrui. Di fronte al crollo storico del mito progressivo dello sviluppo – “comunque vada, il futuro sarà migliore” – la scena critica è dominata da due approcci paralleli e complementari: il primo è quello di chi sostiene la necessità di dare innanzitutto battaglia, per impedire a una minoranza “golpista” di rovinare milioni di cittadini. Il secondo schieramento, nel quale milita da decenni un intellettuale come Maurizio Pallante, all’analisi dei rapporti di forza (lo scontro sociale) preferisce lo sguardo lungo, la prospettiva culturale, il mondo che verrà.Se il regime di Wall Street e Bruxelles impone un nuovo feudalesimo senza più diritti, proprio dal cuore del medioevo Pallante ripesca una lezione dimenticata e attualissima: quella del sistema socio-economico cooperativo. “Monasteri del terzo millennio”, mini-saggio comparso per la prima volta diversi anni fa grazie al “Manifesto”, si ripresenta oggi per i tipi di Lindau in una versione aggiornata, e arricchita di nuovi contributi. Quei “monasteri” non invecchiano, tutt’altro: orto, comunità e fede restano le tre parole-chiave per tornare a respirare, verso un futuro credibile. Sovranità alimentare e cibo per tutti, relazioni sociali collaborative e liberate dalla mercificazione industriale. La “fede” di ieri si traduce oggi in un impianto ideologico che diventa una “contro-narrazione del mondo”. Televisione e pubblicità hanno desertificato il nostro immaginario di neo-schiavi compulsivi, ora frustrati anche dal ritrovarci in bolletta? La lezione dei monaci è chiara: contemplare la bellezza (letteralmente: racchiuderla in un tempio) è un “motore” potente, per animare un’umanità responsabile e vitale, non ostile, capace di produrre economia sana grazie al sistema della mutualità.A un quarto di secolo dal visionario “Comitato per l’uso razionale dell’energia”, fondato insieme a scienziati come Tullio Regge, il fondatore del Movimento per la Decrescita Felice torna a scommettere sui “suoi” monasteri, oggi reincarnati in casali di collina, borgate di montagna, quartieri “solidali”, orti urbani, co-housing, gruppi di acquisto solidale, finanza etica. «La potenza raggiunta dalla megamacchina industriale sta esaurendo gli stock di risorse non rinnovabili ed emette quantità crescenti di scarti», cioè residui liquidi, solidi e gassosi «non metabolizzabili dalla biosfera». Per questo, occorre cominciare a pensare a un “nuovo rinascimento” fondato su modelli economici praticabili e concreti, alternativi e funzionali. Solo «relazioni umane fondate sulla collaborazione e la solidarietà» hanno il potere di «promuovere l’autosufficienza, soprattutto alimentare ed energetica, delle comunità locali». Si comincia dal posto in cui si vive, ma l’obiettivo è il mondo: si tratta di «realizzare forme più eque di redistribuzione delle risorse tra i popoli», in modo da «garantire il futuro delle generazioni a venire», respingendo definitivamente il totem bugiardo della crescita indiscriminata di un valore-spazzatura come il Pil.Rivoluzione dolce, la chiama Pallante, citando Gandhi: «Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo». La crescita incessante della produzione di merci, aumentata in modo esponenziale dalle innovazioni tecnologiche, «ha indotto a confondere il ben-essere col tanto-avere», e a utilizzare come unico indicatore il prodotto interno lordo, «ovvero il valore monetario degli oggetti e dei servizi scambiati con denaro». Così, i beni (quelli veri) sono finiti nel magma su cui galleggiano le merci (comprese quelle usa e getta, senza valore) e «le cose sono diventate più importanti delle relazioni». Scenari più che allarmanti: entro il 2050, il 75% dell’umanità si ammasserà nelle aree urbane, 27 delle quali supereranno i venti milioni di abitanti, e qualcuna i trenta. Risultato: dipendenza totale dai servizi, nessuna capacità di procurarsi cibo. Mai l’umanità è stata così vulnerabile. Milioni di persone (miliardi) lavorano in modo cieco, per servizi alienanti e prodotti di dubbia utilità, che non controlleranno mai. Pallante richiama l’attenzione sui monasteri medievali, vere e proprie “aziende” per comunità autosufficienti, a chilometri zero. «Se il lavoro che svolgi risponde davvero a un bisogno umano, questo attenua il disagio, riduce la fatica e migliora il rendimento, la comunicazione, la qualità della vita».Coi politici, è un dialogo tra sordi: non uno di loro rinuncia a parlare, ancora, di “crescita”. E’ un tragico equivoco: l’impennarsi del Pil è fatto anche di rifiuti, gas di scarico, auto in coda, case-colabrodo non protette dal freddo. Oggi, “crescita” è esattamente l’opposto di “progresso”. In più, ormai anche il mitico Pil sta franando. «Se la causa della crisi è la crescita, tutti i tentativi di superare la crisi rimettendo in moto la crescita sono destinati a fallire: non si può risolvere un problema aggravando le cause che l’hanno generato». La grande eresia della decrescita – ridurre gli sprechi velenosi, per pesare meno sulla Terra e vivere meglio, impedendo alla grande crisi di travolgerci – si sta facendo faticosamente strada, “aiutata” dal disastro che avanza: collasso energetico, climatico, economico-finanziario. Spesso, chi invoca una svolta sovranista e democratica per opporsi all’oligarchia del super-potere trascura il quadro mondiale, vicino all’implosione per raggiunti limiti di espansione e saturazione delle capacità di consumo. Intanto, cresce una foresta silenziosa di individui e gruppi, decisi a resistere ma non ancora rappresentati. Se il “monastero” potesse anche votare, e dotarsi di propri portavoce, probabilmente la “rivoluzione dolce” potrebbe davvero cominciare, col necessario sostegno di politiche strategiche, capaci di rilanciare l’occupazione “utile”: l’unica possibile, quella del futuro.(Il libro: Maurizio Pallante, “Monasteri del terzo millennio”, Lindau, 176 pagine, 13 euro).Ora che tutto sta crollando, meglio si intende la strana lingua degli eretici. Lo spettacolo aiuta a comprendere: l’economia in recessione, la frana del Pil, l’assurdità lunare delle “grandi opere inutili” e la catastrofica impresentabilità di una politica ridotta a balbettare rottami di dogmi. Sono solo appunti sotto dettatura, sillabati da un mainstream autistico e pilotato dalle grandi lobby coi loro economisti di complemento, i profeti disonesti del rigore altrui. Di fronte al crollo storico del mito progressivo dello sviluppo – “comunque vada, il futuro sarà migliore” – la scena critica è dominata da due approcci paralleli e complementari: il primo è quello di chi sostiene la necessità di dare innanzitutto battaglia, per impedire a una minoranza “golpista” di rovinare milioni di cittadini. Il secondo schieramento, nel quale milita da decenni un intellettuale come Maurizio Pallante, all’analisi dei rapporti di forza (lo scontro sociale) preferisce lo sguardo lungo, la prospettiva culturale, il mondo che verrà.
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Destinazione Italia, grande svendita del nostro paese
“Aprire l’Italia ai capitali e ai talenti del mondo”, così si apre la pagina destinazioneitalia.gov.it dedicata alla “consultazione popolare” che chiede ai cittadini di integrare le 50 misure del Piano Destinazione Italia, approvato dal governo Letta il 13 settembre scorso e presentato, ancor prima che al Parlamento e alle parti sociali, al gotha finanziario di Wall Street. Se non fosse che le misure indicate nel piano comporteranno nuove pesanti ricadute sociali per la popolazione italiana, il documento potrebbe essere definito esilarante. Come quando (misura 49) si dice: «Gli italiani che lavorano, insegnano e studiano all’estero sono i primi ‘Ambasciatori dell’Italia nel mondo’ e possono contribuire a raccontare l’Italia in modo nuovo». Mentre rimaniamo in spasmodica attesa di questi straordinari racconti, accontentiamoci per ora di sapere che, per gli studenti e i ricercatori italiani all’estero (cervelli in fuga da un paese impossibile), verrà attivato il programma di sensibilizzazione “V.I.P – Volunteer for Italy’s Promotion” per propagandare oltre frontiera il brand Italia.Ma aldilà dell’umorismo, il Piano Destinazione Italia è un documento “strategico” con l’obiettivo, attraverso una serie di riforme, di rendere il paese un luogo attraente per i grandi investimenti finanziari dall’estero. Attraverso quali misure? Il Piano Destinazione Italia prevede alcuni provvedimenti “quadro”, dai quali si comprende subito dove si voglia andare a parare: la svendita dei diritti e dei beni comuni. Infatti, si prevedono, per investimenti oltre una certa soglia, accordi fiscali particolari (misura 1), la radicale modifica della conferenza dei servizi sulle grandi opere (misura 2), accordi specifici in materia di condizioni di lavoro, come quello già approvato per Expo 2015 (misura 4), completa liberalizzazione del mercato dell’energia elettrica e del gas (misura 12). Conseguentemente a questi passaggi, l’Italia, a quel punto irresistibilmente sexy, può mettere in vendita le sue grazie.La seconda parte del piano si intitola infatti “Un Paese che valorizza i propri asset” e prevede: un piano di privatizzazioni di società direttamente o indirettamente controllate dallo Stato e un piano di privatizzazione e accorpamento in grandi mutiutility dei servizi pubblici locali (misura 17); un piano di rivitalizzazione del mercato borsistico attraverso il collocamento delle piccole e medie imprese (misura 19); l’affidamento a privati della gestione dei beni culturali (misura 23); la dismissione dei beni demaniali (misura 24); la totale liberalizzazione del mercato immobiliare (misure 25-29); la consegna della formazione e della ricerca universitaria agli investimenti delle imprese (misure 30-32); il rilancio delle grandi opere infrastrutturali, i cui relativi investimenti verranno esclusi dai vincoli del Patto di Stabilità (misura 36); l’abrogazione (misura 40) dei procedimenti di Via (Valutazione di Impatto Ambientale), Vas (Valutazione Ambientale Strategica) e Aia (Autorizzazione Integrata Ambientale); la valorizzazione della green economy, attraverso lo sviluppo dei biocarburanti e della chimica verde, la termovalorizzazione dei rifiuti e la modernizzazione (leggi privatizzazione) del servizio idrico (misura 43).Siamo di fronte ad un vero e proprio piano di svendita del paese, attraverso la drastica riduzione dei diritti sociali e del lavoro, la consegna dei beni comuni ai mercati finanziari, la privatizzazione di ogni funzione pubblica e la prostituzione dell’intelligenza collettiva. Il tutto per rispondere ai diktat monetaristi di un’Europa in mano ai grandi interessi finanziari, che, attraverso le catene imposte col Trattato di Maastricht e con lo shock, creato ad arte, del debito pubblico, ha deciso, tra i profitti in Borsa delle grandi multinazionali e la vita delle persone, di scegliere senza ombra di dubbio, i primi. In pratica, e all’unico scopo di perpetuare il capitalismo finanziarizzato, si è deciso di dichiarare una vera e propria guerra alla società, basata sulla trappola del debito pubblico e sul mantra “i soldi non ci sono”, da contrapporre ad ogni rivendicazione sociale. Tanto più contro un paese che, solo due anni fa, ha osato, con la straordinaria vittoria referendaria sull’acqua, mettere in discussione il pensiero unico del mercato e l’ideologia del “privato è bello”, affermando a maggioranza assoluta la volontà di riappropriazione sociale dell’acqua, dei beni comuni e della democrazia.A quel paese va detto ora e a chiare lettere che, se anche fosse vero che “privato” non è bello, privato è in ogni caso obbligatorio e ineluttabile. È in questo quadro che avanza a livello istituzionale il tentativo di mettere mano alla Costituzione, permettendone, come recentemente affermato dalla banca d’affari Jp Morgan, la sua “modernizzazione”, attraverso la progressiva espunzione di tutti i richiami alla cultura antifascista, socialista ed egualitaria, di cui sarebbe ancora intrisa. D’altronde, come conciliare le politiche di feroce austerità, di spoliazione dei diritti, di privatizzazione dei beni comuni con il mantenimento di una Costituzione che quei diritti afferma, per quanto nel tempo ripetutamente violati? Serve una democrazia “austeritaria”, ovvero che usi l’autoritarismo per imporre le politiche di austerità e che risponda all’autolegittimazione del potere, quando quest’ultimo non possa più basarsi sul consenso.Oltre venti anni fa, il 2 giugno 1992, festa della Repubblica, lo yacht reale Britannia incrociava al largo dell’Argentario, con a bordo non principi e regine, né valletti o dame di compagnia, ma banchieri d’affari inglesi, banchieri italiani, boiardi e grand commis di Stato. L’evento venne organizzato da una società allora chiamata “British Invisibles”, una sorta di Confindustria delle imprese finanziarie che oggi raggruppa 150 aziende del settore sotto il nome di International Financial Services. Fra gli italiani che salirono a bordo del panfilo vi furono Beniamino Andreatta, dirigente dell’Eni e futuro ministro, Riccardo Galli, dirigente dell’Iri, Giulio Tremonti, allora ancora in veste di avvocato fiscalista, e soprattutto Mario Draghi, chiamato da Guido Carli alla Direzione Generale del Tesoro all’inizio del 1991, che si presentò come punto di riferimento italiano per la finanza internazionale. E così, tra un’orchestrina della Royal Navy e un lancio di paracadutisti, che scesero come stelle filanti intorno al panfilo di Sua Maestà, prese il via la stagione delle privatizzazioni italiane. Oggi, senza bisogno di salire a bordo di un fastoso quanto pittoresco panfilo reale, bensì occupando le grigie stanze di un governo di “larghe intese e zero consenso”, il premier Enrico Letta ci ripropone lo stesso scenario e un nuovo mastodontico processo di dismissione del paese. Dobbiamo impedirlo.(Marco Bersani, “Destinazione Italia: povertà”, intervento pubblicato dal sito di “Attac” e ripreso da “Megachip” il 25 novembre 2013).“Aprire l’Italia ai capitali e ai talenti del mondo”, così si apre la pagina destinazioneitalia.gov.it dedicata alla “consultazione popolare” che chiede ai cittadini di integrare le 50 misure del Piano Destinazione Italia, approvato dal governo Letta il 13 settembre scorso e presentato, ancor prima che al Parlamento e alle parti sociali, al gotha finanziario di Wall Street. Se non fosse che le misure indicate nel piano comporteranno nuove pesanti ricadute sociali per la popolazione italiana, il documento potrebbe essere definito esilarante. Come quando (misura 49) si dice: «Gli italiani che lavorano, insegnano e studiano all’estero sono i primi ‘Ambasciatori dell’Italia nel mondo’ e possono contribuire a raccontare l’Italia in modo nuovo». Mentre rimaniamo in spasmodica attesa di questi straordinari racconti, accontentiamoci per ora di sapere che, per gli studenti e i ricercatori italiani all’estero (cervelli in fuga da un paese impossibile), verrà attivato il programma di sensibilizzazione “V.I.P – Volunteer for Italy’s Promotion” per propagandare oltre frontiera il brand Italia.
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Ma il vero complottismo è quello della verità ufficiale
Per anni, i custodi della verità ufficiale hanno bollato come “fanatico cospirazionista” chi osava sostenere che il leader dei palestinesi Yasser Arafat fosse stato assassinato. Oggi l’autopsia rivela che Arafat è stato quasi certamente avvelenato col polonio-210, la stessa sostanza radioattiva che nel 2006 causò la morte della spia Alexandr Litvinenko. Le stesse persone che deridevano i “complottisti” pronti ad accusare Israele per la morte di Arafat non ebbero invece esitazioni sul caso Litvinenko: giustiziato da Putin, conclusero, ovviamente senza uno straccio di prova. Questi due casi, osserva Neil Clark, dimostrano che ci sono teorie del complotto “ufficialmente approvate”, e teorie del complotto che non godono di un simile beneplacito: etichettare qualcuno come “complottista”, da parte dei difensori delle verità ufficiali dell’Occidente, non ha niente a che vedere con la presenza di prove reali. «Definire qualcuno un “complottista” è la loro modalità operativa standard per dichiarare che una certa persona deve essere isolata». E’ il modo migliore soffocare il dibattito e spegnere il dissenso, alla faccia della libertà d’opinione.Non c’è maggior complottista dell’élite occidentale, scrive Clark in un intervento su “Rt” ripreso da “Megachip”. Obiettivo: ingannare l’opinione pubblica, che tende a fidarsi della narrazione dominante dell’establishment. Negli ultimi vent’anni, sono proprio i custodi della verità ufficiale ad aver barato in modo sistematico, e con conseguenze sanguinose come il mezzo milione di morti inflitto all’Iraq, attaccato nel 2003 con l’alibi – inventato – delle armi di distruzione di massa di Saddam. Dieci anni dopo, ecco la replica in Siria: gli stessi “guardiani della verità” hanno accusato Assad di aver bombardato la popolazione della capitale con gas tossici, a due passi dagli ispettori Onu appena arrivati in città. Prove? Inesistenti. E anche “inutili”, dopotutto, se il bersaglio sta dalla parte “sbagliata”: i media mainstream abboccano (o obbediscono, a seconda delle interpretazioni) e il gioco è fatto: l’indiziato diventa colpevole, di fronte al tribunale mediatico occidentale. E’ un gioco al massacro che si ripete identico: contro Hugo Chávez in Venezuela e contro Mahmoud Ahmadinejad in Iran, accusati entrambi di aver truccato i risultati elettorali. E le prove? Le ha pretese a gran voce un commentatore come Stephen Hildon, ma nessuno gli ha ancora risposto.«Quando il paese in discussione è un “nemico ufficiale”, non servono prove per fare delle affermazioni contro di esso», scrive Clark. «Non serve nemmeno che le affermazioni siano logiche». Esempio: se Bush e Blair avessero sinceramente ritenuto che l’Iraq possedesse armi nucleari, come avrebbero potuto attaccarlo in modo così imprudente? Il medesimo senso comune «ci dice anche che sarebbe stata pura follia, da parte del governo siriano, lanciare un esteso attacco chimico nei pressi di Damasco proprio mentre gli ispettori dell’Onu si trovavano in città, e mentre i falchi a favore del conflitto in Occidente non aspettavano che un qualunque pretesto per lanciare un attacco militare nel paese. E tuttavia ci si aspetta ancora che noi ci si beva queste teorie, nonostante la mancanza di prove ed il fatto che siano del tutto prive di senso». Al contrario, se il paese sotto osservazione è un paese occidentale o un alleato dell’Occidente come Israele, chiunque lo critichi viene immediatamente isolato come “complottista”, anche se si basa su fatti accertati e rispondenti a una logica ragionevole. «Se state cercando di trovare delle strampalate teorie del complotto – conclude Clark – l’esperienza degli ultimi vent’anni ci dice che il posto migliore in cui trovarle non è sul web o sui media “alternativi”, ma nelle voci (e nelle penne) degli stessi guardiani della verità ufficiale».Per anni, i custodi della verità ufficiale hanno bollato come “fanatico cospirazionista” chi osava sostenere che il leader dei palestinesi Yasser Arafat fosse stato assassinato. Oggi l’autopsia rivela che Arafat è stato quasi certamente avvelenato col polonio-210, la stessa sostanza radioattiva che nel 2006 causò la morte della spia Alexandr Litvinenko. Le stesse persone che deridevano i “complottisti” pronti ad accusare Israele per la morte di Arafat non ebbero invece esitazioni sul caso Litvinenko: giustiziato da Putin, conclusero, ovviamente senza uno straccio di prova. Questi due casi, osserva Neil Clark, dimostrano che ci sono teorie del complotto “ufficialmente approvate”, e teorie del complotto che non godono di un simile beneplacito: etichettare qualcuno come “complottista”, da parte dei difensori delle verità ufficiali dell’Occidente, non ha niente a che vedere con la presenza di prove reali. «Definire qualcuno un “complottista” è la loro modalità operativa standard per dichiarare che una certa persona deve essere isolata». E’ il modo migliore soffocare il dibattito e spegnere il dissenso, alla faccia della libertà d’opinione.
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Offsetting: finanziarizzare la natura per rapinare la Terra
Al confronto, la privatizzazione dell’acqua fa ridere. Lo chiamano “biodiversity offsetting” o “ecosystem offsetting”: è il nuovo trucco della finanza globale per mettere definitivamente le mani sugli ecosistemi. Tutto deve avere un prezzo, l’ambiente va comprato e venduto, trasformato in business. Finanziarizzazione della natura, istruzioni per l’uso. Energia, miniere, trasporti: le grandi opere devastano un’intera area? Niente paura, basta “quotare” il danno e trasferire il risarcimento altrove. Europa, istituzioni finanziarie e governi (Regno Unito in testa) premono per introdurre il concetto della “compensazione traslata” del danno ambientale, in particolare di habitat protetti e biodiversità. Se la “valutazione di impatto ambientale” punta a causare il minor danno possibile, il nuovo meccanismo non si cura più di salvare il territorio minacciato ma si limita a quantificare il danno. «Parallelamente, si sta creando un mercato di titoli collegati alla biodiversità e agli habitat naturali da avviare alla compravendita, come per qualsiasi altro titolo di investimento altamente speculativo», spiega Rebecca Rovoletto su “Democrazia Km Zero”.Una pratica simile a quella dei famigerati “crediti di carbonio”, che permette alle aziende responsabili del danno di dichiararsi “investitori nella protezione dell’ambiente”, con conseguente ritorno d’immagine e “greenwashing” dei loro prodotti e servizi. Così, la protezione dell’ambiente si trasforma in un sottoprodotto commerciale. «Il paradosso è che le più grandi aberrazioni in tema di ambiente vengono concepite proprio in occasione dei grandi vertici internazionali, spacciati per momenti di bilancio e autocritica, per ricercare soluzioni alle drammatiche emergenze dell’umanità e del pianeta». Già il Protocollo di Kyoto aveva sostenuto la logica dei “permessi di inquinamento” per il carbonio, ma il peggio è avvenuto nel giugno 2012 al vertice di Rio +20: la “Dichiarazione sul Capitale Naturale e sui Servizi resi da un ecosistema”, elaborata dalla grande finanza, sdogana ufficialmente il “mercato delle indulgenze ambientali”.Cibo, fibre, acqua, aria, salute, energia, sicurezza climatica: i beni e i servizi degli ecosistemi del “capitale naturale” ogni anno ammontano a trilioni di dollari. Sono fondamentali per la nostra sopravvivenza, anche se il loro immenso beneficio non è “registrato all’interno dei nostri sistemi economici”. Grosso problema, per chi non conosce altra misura che il denaro. Che il vero benessere non influisca sul Pil, ai “padroni dell’universo” non sta bene: non è “sostenibile”, letteralmente, il mancato conteggio – in soldoni – di tutto quanto ci è davvero indispensabile per vivere. «Non esiterei a paragonarla a una dichiarazione di guerra al pianeta e ai suoi abitanti», protesta Rebecca Rovoletto: la pretesa mercificazione finale dell’habitat «impone una sofisticata e sordida “anschluss” semantica», dove anche la natura viene assorbita dal mondo del mercato. «E questo sta avvenendo mentre ovunque nel mondo ci si batte per la difesa dei territori, per la sovranità alimentare e l’accesso alla terra, per il diritto alla gestione e tutela dei beni comuni naturali da parte delle comunità».Mentre sale la protesta dei movimenti sovranisti organizzati, coi contro-vertici di Bruxelles e Edimburgo, nel sistema globalizzato non c’è istituzione che non sostenga questa nuova, perversa visione: si va dall’Unesco al Wwf, che ha sottoscritto la Dichiarazione di Rio e «sposato questa falsa soluzione in un’ottica di investimento di capitali finanziari in alcune riserve protette, a discapito però di tutte le altre aree aggredite». Per Rovoletto, si aprono scenari inimmaginabili: «La natura è unica e complessa, è impossibile misurarne la biodiversità: allora chi e come stabilisce il valore di un ecosistema?». Alcuni ecosistemi hanno impiegato migliaia di anni per raggiungere il loro stato attuale: «Possono essere riproducibili? E che valore hanno i loro abitanti, umani e non umani? Che fine faranno la sussistenza, le economie, la cultura?». Attenzione: «La natura ha un ruolo sociale, spirituale e di sostegno per le comunità, che definiscono il proprio territorio sulla base di interrelazioni tradizionali con la terra: come si può pensare di sfollare intere comunità?».Per il mercato, tutto questo si traduce in un prezzo, «calcolato da discutibili software», con simulatori che conteggiano, al volo, i “crediti di natura”. Il “pallottoliere digitale” è destinato ai proprietari di terreni e foreste intenzionati a mettere all’asta, come “offset”, i loro tesori naturali: «Nasceranno istituti per certificare i valori degli habitat, società di rating per stabilire le classifiche degli investimenti più redditizi, broker e intermediari per un mercato dalle infinite e infernali potenzialità». I casi studiati, aggiunge “Democrazia Km Zero”, dimostrano come questa pratica incentivi lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali, minando ogni tipo di pianificazione “verde”: «La logica dell’offsetting della biodiversità separa le persone dall’ambiente e dai territori in cui vivono, marginalizzandole fino a minacciare lo stesso diritto alla vita».In Brasile, per esempio, il nuovo codice forestale permette ai proprietari di terre di distruggere i boschi contro l’acquisto di “certificati di riserve ambientali” emessi dallo Stato e commercializzati alla Borsa Verde di Rio, cioè, il “mercato di titoli verdi” creato di recente dal governo brasiliano. Si sta muovendo il super-potere mondiale, regista della disastrosa globalizzazione del pianeta: la Banca Mondiale e la Bei, Banca Europea per gli Investimenti, puntano a includere l’offsetting della biodiversità nei propri standard, «come strumento per “compensare” il danno permanente causato dalle grandi infrastrutture che queste stesse istituzioni finanziano». E mentre Londra sta cercando di introdurre l’offsetting nel proprio quadro normativo, «compromettendo l’iter decisionale democratico e indebolendo le voci delle comunità», in Francia fa scandalo il progetto aeroportuale di Notre Dame des Landes: l’agenzia Biotope ha ricalcolato il “valore” dell’ecosistema considerando le sue “funzioni” e non la sua estensione, così il maxi-costruttore Vinci dovrà provvedere all’offsetting di appena 600 ettari di zona umida, anziché 1.000.«Da 40 anni l’opposizione degli abitanti ha permesso di bloccare il progetto e ha messo in discussione lo schema di offsetting», ma ora la Commissione Europea sta intervenendo anche sul caso francese: attraverso la “strategia europea 2020 sulla biodiversità”, Bruxelles vuole dotarsi di una legislazione sull’offsetting che includa la creazione di una “banca degli habitat” per consentire l’offsetting di specie e habitat naturali all’interno dei confini europei. «Lo scopo è quello di annullare la “perdita netta” (no net loss) della biodiversità, obiettivo assolutamente diverso da quello precedentemente perseguito di garantire “nessuna perdita” (no loss)». E’ la stessa filosofia iper-liberista della Banca Mondiale, che ha finanziato il mega-progetto di estrazione mineraria di nichel e cobalto Weda Bay in Indonesia.L’azienda mineraria francese Eramet dichiara di coniugare “business e biodiversità”, dal nome dell’ambiguo progetto europeo che punta a raccogliere fondi anche dalla Banca Asiatica di Sviluppo, dalla Banca Giapponese per la Cooperazione Internazionale (Jpic) e dalle francesi Coface e Agenzia di sviluppo (Afd). L’impatto sulle persone e sul territorio? Enorme: infatti, «il progetto è contestato dalle comunità indonesiane e da organizzazioni della società civile internazionale». Per Rebecca Rovoletto, «è chiaro che ci troviamo di fronte a un giro di boa fondamentale nella folle corsa che sta sistematizzando il paradigma della finanziarizzazione globale della natura, all’interno del noto orizzonte sviluppista-speculativo e della retorica mistificante che si appella alla sostenibilità e alla salvaguardia, alla partecipazione e all’equità. Un paradigma dalle profonde implicazioni, queste sì, davvero eversive dell’ordine naturale del creato».Al confronto, la privatizzazione dell’acqua fa ridere. Lo chiamano “biodiversity offsetting” o “ecosystem offsetting”: è il nuovo trucco della finanza globale per mettere definitivamente le mani sugli ecosistemi. Tutto deve avere un prezzo, l’ambiente va comprato e venduto, trasformato in business. Finanziarizzazione della natura, istruzioni per l’uso. Energia, miniere, trasporti: le grandi opere devastano un’intera area? Niente paura, basta “quotare” il danno e trasferire il risarcimento altrove. Europa, istituzioni finanziarie e governi (Regno Unito in testa) premono per introdurre il concetto della “compensazione traslata” del danno ambientale, in particolare di habitat protetti e biodiversità. Se la “valutazione di impatto ambientale” punta a causare il minor danno possibile, il nuovo meccanismo non si cura più di salvare il territorio minacciato ma si limita a quantificare il danno. «Parallelamente, si sta creando un mercato di titoli collegati alla biodiversità e agli habitat naturali da avviare alla compravendita, come per qualsiasi altro titolo di investimento altamente speculativo», spiega Rebecca Rovoletto su “Democrazia Km Zero”.
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Galtung: è un impero di assassini, il mondo ora si ribella
Il mondo si sta ribellando agli Usa: lo scandalo Datagate conferma che il centro dell’impero sta perdendo il controllo della periferia. Nel suo libro “This Town”, Mark Leibovich ritiene improbabile che il conglomerato politica-media di Washington riesca a trovare soluzioni a calamità tanto drammatiche come quelle che oggi ha di fronte Obama. La superpotenza sta letteralmente evaporando, sostiene Johan Galtung. Basta misurare la stizza di Angela Merkel di fronte alla scoperta di esser stata spiata dalla Nsa. O prendere alla lettera quello che ha dichiarato il generale Keith Alexander, direttore dell’intelligence digitale smascherata da Snowden: «Alla Nsa era stato richiesto da responsabili delle politiche Usa di scoprire le “intenzioni delle leadership” dei paesi stranieri». Alleati di cui Washington non si fida più: sta saltando il patto su si è retto l’Occidente per oltre mezzo secolo, protezione militare in cambio di obbedienza. Anche perché frana la moneta di scambio: il benessere, minacciato dalla grande crisi.Finora, scrive Galtung in un post ripreso da “Megachip”, il sistema ha funzionato con élite di periferia disposte a servire il centro: «Per dire, uccidere in Libia, in Siria, quando richiesto; assicurare gli interessi economici del centro in cambio di un taglio sostanzioso, servendo culturalmente da testa di ponte». Affinché ciò funzioni, le élite devono credere nell’impero. «Si nascondono dietro belle parole – democrazia, diritti umani, Stato di diritto – usate come scudi umani». Ma attenzione: «I costi possono essere ingenti, i benefici in calo». Periferie irrequiete, rivendicazioni. O peggio: cresce «la sensazione che l’impero non stia funzionando, che avanzi verso il declino e la caduta», e quindi i satelliti «vogliono uscirne». E’ per questo che la Nsa li ha “marcati a uomo”. Certo, resta il club esclusivo degli “affidabili”: Canada e Gran Bretagna, Australia e Nuova Zelanda. Chi sono? Famigerati stragisti e genocidi, risponde senza esitazioni il grande sociologo norvegese.Per Galtung, gli Usa e gli eredi del Commonwealth sono «un circolo di paesi selezionati su base razzista-culturalista». Sono tutti «bianchi e anglo, uccisori di popoli indigeni ovunque», gli Usa degli indiani nativi, il Canada idem. L’Australia ha sterminato gli aborigeni, la Nuova Zelanda ha emarginato i maori. Quanto al Regno Unito, ha compiuto stragi dappertutto, «facendo sì che gli altri si lanciassero su quel pendio scivoloso del genocidio e del sociocidio». Attenzione: «Lo sanno. Sanno che la maggioranza del mondo è costituita da quel tipo di genti che loro hanno ucciso, e sentono intensamente di dover restare insieme, diffidando dei non-membri». Ma gli Usa «spiano il partito laburista e il Parlamento britannici». E, insieme, Washington e Londra a loro volta spiano Canada, Australia e Nuova Zelanda. La Germania? Grosso problema: «Vuole entrare nel circolo al fine di un altro 5+1, per godere del potere di veto del Consiglio di Sicurezza Onu». Dettaglio: «La razza non è un problema, ma la cultura sì», perché i tedeschi «non sono anglo».Tanto più l’impero declina, osserva Galtung, quanto più ci si aspetta di spiare ancora per identificare il nemico all’interno. «Com’è la condizione dell’impero? Non buona». In Afghanistan, gli Usa «hanno guadagnato delle basi e un oleodotto», ma possono anche perdere tutto. L’Iran sta accrescendo la sua leadership in Medio Oriente e nel Golfo, le conquiste imperiali in Iraq non sono al sicuro, l’operazione di spaccatura della Siria è fallita. Un vero disastro in Egitto: «Gli Usa hanno frainteso la situazione nel suo insieme, sono arenati in una scelta fra due mali che non padroneggiano». In Libia, «altro fraintendimento, senza capire come un imperialismo laico occidentale (Italia-Regno Unito-Francia-Usa-Israele) abbia acceso un risveglio islamista (anziché arabo) e berbero-tuareg (anziché arabo)». Poi, ovviamente Israele: che spia la stessa élite Usa («la politica della coda che muove il cane»), mentre Tel Aviv ha contro anche i media, e si contorce «nella morsa angosciosa fra uno Stato ebraico e la democrazia», con di fronte «uno scenario sudafricano».Quanto ai Brics, siamo di fronte a una vera e propria orchestra sinfonica anti-Usa. In Brasile, la presidente Dilma Rousseff, è stata la prima a parlare all’Assemblea Generale dell’Onu con una critica devastante del programma spionistico Nsa, richiedendo server Internet alternativi. In Russia, Putin «può aver posto termine alla crisi siriana in quanto parte di una crisi generale del Medio Oriente – come Gorbaciov pose fine alla guerra fredda, non alla perenne guerra e minaccia di guerra Usa – richiedendo una fine alle armi di distruzione di massa, comprese quelle nucleari, nella regione». In Cina, l’agenzia mediatica Hsinhua si è appellata a una deamericanizzazione generale e a una fine del dollaro come “valuta di riserva mondiale”, proponendo «un paniere di valute», non più una sola moneta. «I “capi esteri” lo sanno – conclude Galtung – e tradirebbero i rispettivi popoli qualora non esplorassero le opzioni. La questione è come, quando». I satelliti di Washington «possono usare lo spionaggio Nsa come pretesto per ritirarsi dall’impero». Prima mossa: cancellare, o ritardare, il super trattato Ttip (Trans-Atlantic Partnership) con cui le multinazionali Usa progettano di sostituirsi – per gli arbitrati legali – alla magistratura dei paesi vassalli. Come uscirne? Servirebbe una leadership straordinaria, di cui non c’è traccia.Il mondo si sta ribellando agli Usa: lo scandalo Datagate conferma che il centro dell’impero sta perdendo il controllo della periferia. Nel suo libro “This Town”, Mark Leibovich ritiene improbabile che il conglomerato politica-media di Washington riesca a trovare soluzioni a calamità tanto drammatiche come quelle che oggi ha di fronte Obama. La superpotenza sta letteralmente evaporando, sostiene Johan Galtung. Basta misurare la stizza di Angela Merkel di fronte alla scoperta di esser stata spiata dalla Nsa. O prendere alla lettera quello che ha dichiarato il generale Keith Alexander, direttore dell’intelligence digitale smascherata da Snowden: «Alla Nsa era stato richiesto da responsabili delle politiche Usa di scoprire le “intenzioni delle leadership” dei paesi stranieri». Alleati di cui Washington non si fida più: sta saltando il patto su si è retto l’Occidente per oltre mezzo secolo, protezione militare in cambio di obbedienza. Anche perché frana la moneta di scambio: il benessere, minacciato dalla grande crisi.
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Panni sporchi: Napolitano e la resa della sinistra italiana
Dalle amicizie pericolose di Bersani a quelle di D’Alema, dalle ambigue innovazioni di Renzi alle ombre dell’Ilva su Vendola. Fino al “nuovo compromesso storico” di Enrico Letta e ai segreti di Giorgio Napolitano. Non risparmia nessuno “I panni sporchi della sinistra”, il libro di Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara (edito da “Chiarelettere”) che mette a nudo le magagne del centrosinistra. Un lavoro nel quale i due autori analizzano una serie di inchieste giudiziarie che riguardano, a vario titolo, il mondo della sinistra. Dalla galassia-Bersani, quella dei Penati, Pronzato e Veronesi, alla vicenda di Flavio Fasano, referente di D’Alema invischiato in una storia di mafia. Dallo scandalo Ilva al caso Unipol, passando per i trasferimenti di due magistrate, Clementina Forleo e Desirée Digeronimo, che avevano indagato sulle responsabilità di importanti esponenti politici di sinistra. Per l’ex sinistra italiana, una vera e propria “mutazione genetica”: tra Quirinale e Berlusconi, Cia e massoneria.
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Giulietto Chiesa: ma il nemico è Bruxelles, non l’Europa
«Voglio un’Europa democratica e solidale, giusta e pacifica, forte abbastanza per contare nell’arena mondiale», nonché «libera da ogni alleanza militare». Problema: «Nessuno dei nemici giurati dell’Europa e dell’euro dice queste cose: e questa è la ragione principale che mi fa diffidare di loro – di tutti, siano essi di destra o di sinistra». Giulietto Chiesa avverte: questa Unione Europea è indifendibile, ma il coro che sta salendo – in vista delle decisive elezioni europee del maggio 2014 – rischia di confondere le acque, promuovendo nazionalismi isterici e pericolose xenofobie. E’ il capolavoro finale dell’euro, moneta non più a disposizione degli Stati ed emblema di un sistema oppressivo. Nel suo “Manifesto per l’Europa”, firmato da grandi economisti come Bruno Amoroso, il laboratorio politico “Alternativa” propone un deciso ritorno alla sovranità finanziaria, attraverso la conquista di un governo finalmente democratico del continente: abolire il potere della Commissione Europea, da sostituire con un esecutivo legittimo, eletto dal Parlamento Europeo. Senza questo ripristino della legalità democratica, ogni scorciatoia può diventare pericolosa.
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Datagate, ovvero: a che serve la Nato senza più l’Urss
Siamo rimasti al guinzaglio della Nato anche dopo la fine dell’Urss? Non stupiamoci, allora, se il “grande alleato” ci sorveglia in modo invadente: teme la nostra libertà. E i leader europei – che fingono indignazione di fronte al Datagate – lo sanno benissimo. Com’era prevedibile, sullo scandalo sta calando una coltre di silenzio. Si improvviseranno «improbabili protocolli di garanzia della privacy» e Obama prometterà misure draconiane, ma poi tutto riprenderà come prima, in attesa della prossima puntata. Già, perché prima o poi, profetizza Aldo Giannuli, spunterà un altro “pentito” della Cia o della Nsa a risollevare la questione. Ma come mai nessuno si è chiesto perché i servizi europei abbiano docilmente collaborato con l’agenzia americana nello spionaggio dei loro leader? «Nessuno ha preso in considerazione il peso che in tutto questo ha la Nato», che è decisivo. Per un ufficiale europeo, la partecipazione a programmi Nato «è il modo migliore per fare una carriera folgorante. E se poi si riesce ad essere distaccati presso la sede centrale a Bruxelles, è il top».
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Expo-guerra, il bazar galleggiante dell’Italia che affonda
Il nemico complotta contro l’Italia fino a farla crollare, ma la portaerei Cavour – ammiraglia della marina militare, costata 3,5 miliardi – non si dirige contro chi attenta alla vita e al futuro degli italiani, tramando per devastare l’economia, impoverire il paese e trascinarlo nella catastrofe sociale pianificata tra Bruxelles e Berlino, Wall Street e Francoforte. Al contrario, la grande nave trasformata in expò galleggiante del made in Italy bellico preferisce incrociare in acque lontane: «Si vanno a vendere altre armi ai paesi mediorientali e africani, dominati da oligarchie e caste militari, provocando un ulteriore aumento delle loro spese militari che comporterà un ulteriore aumento della povertà soprattutto in Africa», scrive il “Manifesto”. Scopo ufficiale della “campagna navale” organizzata dal governo Letta, è presentare il “sistema paese” in movimento e «rafforzare la presenza dell’Italia nelle aree geografiche considerate strategiche per gli interessi nazionali», senza trascurare la consueta ipocrisia della «assistenza umanitaria alle popolazioni bisognose».Per il ministro Mauro, il bazar navigante – ribattezzato “crociera di morte” – non andrà a vendere armi di distruzione di massa al di fuori dalle convenzioni internazionali, ma resta una «missione di promozione» che incrocerà aree dove impazzano guerre e repressioni, come ad esempio Congo, Nigeria e Kenya, o terre «dove governi potenti finanziano guerre per procura», scrivono Manlio Dinucci e Tommaso Di Francesco, indicando paesi come l’Arabia Saudita impegnata in Siria, o il Barhein con la sua “primavera” cancellata dai militari. Regioni del mondo «dove le spese sociali vengono ridimensionate se non cancellate per sostenere la sicurezza interna e le frontiere, come in Angola e Mozambico». Oman, Dubai, Doha, Gibuti, Madagascar, Sudafrica, Ghana, Senegal, e poi su fino a Casablanca in Marocco, e poi Algeri. In navigazione fino al 7 aprile 2014. Costo: 20 milioni di euro, di cui 7 a carico dello Stato e 13 dei “partner dell’industria privata”. «Soldi ben spesi: potranno usare la portaerei, lunga 244 metri e larga 39, come una grande fiera espositiva itinerante», con stand per accogliere i clienti. Prezzo amico: 200.000 euro per ogni giorno di navigazione.La portaerei non venderà certo l’immagine turistica dell’Italia: gli “ambasciatori” del paese sono le industrie di Finmeccanica come Agusta-Westland (elicotteri da guerra), Oto Melara (cannoni), Selex Es (sistemi radar e di combattimento), Wass (siluri), Telespazio (satelliti), e poi Mbda, coi suoi missili Aspide, Aster, Teseo. Poi ci sono la Intermarine (vascelli militari) e Elt, che offre apparecchiature elettroniche per la guerra aerea, terrestre e navale, mentre Beretta mette in mostra le sue pistole, accanto agli stand di lusso che presentano gli aerei executive della Piaggio e della Blackshape. «Ogni cannone, ogni missile, ogni mitraglia venduta dai commessi viaggiatori della Cavour ai governi clienti – scrivono i giornalisti del “Manifesto” – significherà meno investimenti locali nel sociale e quindi altre migliaia di bisognosi, affamati e morti, soprattutto tra i bambini, per sottoalimentazione cronica e malattie che potrebbero essere curate». Ma niente paura, sulla nave «ci sono anche gli “operatori umanitari” pronti a soccorrere i disperati che abbiamo contribuito a creare con il traffico di armi, per dimostrare quanto l’Italia sia sensibile e pronta ad aiutare “le popolazioni bisognose”».Il nemico complotta contro l’Italia fino a farla crollare, ma la portaerei Cavour – ammiraglia della marina militare, costata 3,5 miliardi – non si dirige contro chi attenta alla vita e al futuro degli italiani, tramando per devastare l’economia, impoverire il paese e trascinarlo nella catastrofe sociale pianificata tra Bruxelles e Berlino, Wall Street e Francoforte. Al contrario, la grande nave trasformata in expò galleggiante del made in Italy bellico preferisce incrociare in acque lontane: «Si vanno a vendere altre armi ai paesi mediorientali e africani, dominati da oligarchie e caste militari, provocando un ulteriore aumento delle loro spese militari che comporterà un ulteriore aumento della povertà soprattutto in Africa», scrive il “Manifesto”. Scopo ufficiale della “campagna navale” organizzata dal governo Letta, è presentare il “sistema paese” in movimento e «rafforzare la presenza dell’Italia nelle aree geografiche considerate strategiche per gli interessi nazionali», senza trascurare la consueta ipocrisia della «assistenza umanitaria alle popolazioni bisognose».