Archivio del Tag ‘habitat’
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Vale tutto, anche la mafia, tranne la vera storia del disastro
Il culto del lavoro ben fatto è la stella polare dell’operaio Faussone, il protagonista del romanzo “La chiave a stella”. Ma Fassone è un uomo libero: non ha nulla a che vedere col muratore prigioniero di Auschwitz che Primo Levi vide lavorare con zelo, sfinendosi, agli ordini dei kapò. Fino a che punto è un valore, il lavoro? Lo è fino a quando non è sottoposto a una legalità bestiale, come quella delle SS o quella del deposto regime sudafricano dell’apartheid. Anche il massone progressista Nelson Mandela spaccavava pietre, a Robben Island, ma non ne era certo felice. Legalità: maneggiare con cura, evitando di farne per forza un totem. O magari un mestiere, come Roberto Saviano. O una crociata politica, come Antonio Di Pietro. Beninteso: l’illegalità dilagante – mafia, corruzione – imputridisce l’habitat e trasforma una democrazia in un girone dantesco dove regna la paura, insieme alla menzogna. La Sicilia è un vasto cimitero di eroi antimafia: carabinieri, poliziotti, magistrati. Un politico come Pio La Torre, comunista del Pci, non aveva mai pensato di celebrare un’epica dell’antimafia. Si era limitato, per così dire, a fare la guerra alla mafia: creando una legge che avesse finalmente il potere di confiscare i patrimoni dei boss. Non è finito in televisione: è andato a un funerale, il suo.Oggi il presidente del Senato, il palermitano Pietro Grasso, già magistrato antimafia, è invocato da Pierluigi Bersani come possibile salvatore della patria – o meglio, della “ditta”, come Bersani è abituato a chiamare il partito in cui milita. Da capo del Pd non esitò a devastare e amputare la Costituzione “più bella del mondo” sfigurandola con il pareggio di bilancio imposto dai “mandanti” di Monti, salvo poi dare battaglia a Renzi che voleva semplicemente archiviare il Senato elettivo. Ora, Bersani sogna a occhi aperti una candidatura di Grasso, cioè di un simbolo dell’antimafia, come se la mafia – nel 2017 – fosse la vera emergenza nazionale, come lo era ai tempi di Pio La Torre, assassinato nel 1982. Allora, l’Italia aveva già perso buona parte della sua sovranità finanziaria, dopo il divorzio da Bankitalia. Ma non era ancora caduta nella trappola del Britannia, del Trattato di Maastricht e dell’Eurozona, dell’Unione Europea governata dai banchieri privati che dettano legge alla Bce, trasformando in diligenti kapò i governanti di interi paesi. Lo ha ripetuto fino alla noia lo spigoloso Paolo Barnard: prima dell’euro-regime il Pil italiano volava, nonostante la mafia, la corruzione della politica e un’evasione fiscale da record.Dimostrò coraggio, l’allora giovanissimo Saviano, nel denunciare il fenomeno criminale della nuova camorra imprenditrice, la sua insospettabile pervasività, ma poi – esplosa la grande crisi – lo stesso Saviano non ha usato la sua enorme visibilità per aggiornare l’analisi sulle cause del disastro italiano. Si infuria, Di Pietro, se qualcuno gli fa notare che il pool Mani Pulite ha azzerato una casta corrotta ma non così prona ai grandi poteri anti-italiani come quella che ne ha preso il posto, offrendo il collo dell’Italia a una sorta di sacrificio rituale da milioni di vittime e decine di migliaia di aziende chiuse. Analisi estranee alla narrativa politica di Di Pietro ma anche a quella di Grasso e della sua collega della Camera, Laura Boldrini, sempre severissima con i teppisti del web ma insensibile alla catastrofe socio-economica di un paese che ha smesso di andare a votare, nauseato dallo spettacolo elettorale. La scelta è solo apparente, ancora e sempre teatrale: la recita giovanilista di Renzi, il copione dei grillini duri e puri (ma senza un programma per l’Italia) e l’ennesima reincarnazione di nonno Silvio, altro grande attore, lieto di constatare quanto sia ancora valida, numeri alla mano, la sua sceneggiatura di cartapesta. Era già decrepita nel 1994 la rivoluzione para-neoliberista del Cavaliere: se oggi tiene ancora banco, significa che i suoi ipotetici antagonisti sono ancora peggio di nonno Silvio, perlomeno come attori.Il culto del lavoro ben fatto è la stella polare dell’operaio Faussone, il protagonista del romanzo “La chiave a stella”. Ma Faussone è un uomo libero: non ha nulla a che vedere col muratore prigioniero di Auschwitz che Primo Levi vide lavorare con zelo, sfinendosi, agli ordini dei kapò. Fino a che punto è un valore, il lavoro? Lo è fino a quando non è sottoposto a una legalità bestiale, come quella delle SS o quella del deposto regime sudafricano dell’apartheid. Anche il massone progressista Nelson Mandela spaccava pietre, a Robben Island, ma non ne era certo felice. Legalità: maneggiare con cura, evitando di farne per forza un totem. O magari un mestiere, come Roberto Saviano. O una crociata politica, come Antonio Di Pietro. Beninteso: l’illegalità dilagante – mafia, corruzione – imputridisce l’habitat e trasforma una democrazia in un girone dantesco dove regna la paura, insieme alla menzogna. La Sicilia è un vasto cimitero di eroi antimafia: carabinieri, poliziotti, magistrati. Un politico come Pio La Torre, comunista del Pci, non aveva mai pensato di celebrare un’epica dell’antimafia. Si era limitato, per così dire, a fare la guerra alla mafia: creando una legge che avesse finalmente il potere di confiscare i patrimoni dei boss. Non è finito in televisione: è andato a un funerale, il suo.
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Brucio, dunque esisto. Muoia la valle di Susa, Italia minore
Duemila ettari in fiamme, case distrutte, centinaia di persone evacuate. E la gigantesca nube di fumo che invade le strade di Torino, la città che “riscopre” la sua minacciosa contiguità geografica con la valle di Susa, il territorio considerato ostile perché da vent’anni in rivolta contro la grande opera più inutile d’Europa, la linea Tav Torino-Lione. Un caso più unico che raro: l’agenda politica ha deciso semplicemente di non occuparsene, ignorando tutti gli allarmi, incluso l’appello rivolto alle massime autorità dello Stato da 360 tecnici, esperti e docenti universitari. Maxi-opera desolatamente inutile, doppione perfetto della linea internazionale già esistente, la Torino-Modane, che attraversa la valle e raggiunge la Francia attraverso il traforo del Fréjus, appena riammodernato (400 milioni di euro) in modo da poter caricare, sui treni in transito, anche i grandi container “navali”. Il problema? Le merci sono sparite: la rotta nord-ovest è ormai un binario morto, senza treni. Per l’autorità elvetica incaricata da Bruxelles di monitorare i trasporti alpini, la valle di Susa potrebbe quasi decuplicare il traffico sulla linea attuale. Ma invece di prenderne atto, si va avanti coi lavori per la linea-bis: un fiume di miliardi, e di devastazioni. Prima vittima, l’acqua: cioè il bene più prezioso, specie quando la montagna brucia.I padrini politici della Torino-Lione, prontamente definiti “sciacalli” dai NoTav, nei giorni del grande fuoco si sono subito fatti avanti, offrendo soldi come compensazione per i danni degli incendi. «No, grazie», rispondono i sindaci. «La prevenzione dagli incendi, come dalle alluvioni e dal dissesto geologico – scrive Sandro Plano, di Susa – dev’essere affrontata con specifici capitoli di spesa, indipendenti dal discorso relativo alla nuova linea ferroviaria». Vale per lo sviluppo economico, dalle strade alle infrastrutture culturali come i teatri: «Tutto ciò che nel resto d’Italia è definito “contributo pubblico”, qui è definito “compensazione”». In realtà, sottolinea Claudio Giorno, storico esponente del movimento NoTav, sarebbe incalcolabile il costo della compensazione per la valle di Susa, storicamente sacrificata sull’altare delle grandi opere che l’hanno sventrata, impoverita e anche prosciugata, alterandone l’habitat e il clima: e così oggi bastano tre mesi senza pioggia per innescare una catastrofe. «Di telecamere siamo invasi – scrive, sul suo blog – ma per inquadrare noi, la nostra ribellione contro chi, prima che qualcuno desse fuoco ai boschi, ha bucato per decenni le nostre montagne, i recipienti millenari di acqua potabile e di quella di fossi e torrenti che oggi sarebbe stata preziosa per difendere le case, oltre le piante».Milioni di metri cubi persi per sempre con la realizzazione – oltre mezzo secolo fa – della prima centrale idroelettrica in caverna, a Venaus, da parte dell’Enel e dei francesi di Edf, «che non appena appropriatisi del Moncenisio nel 1947 – come ritorsione per la guerra persa dall’Italia del Duce – vi hanno costruito una della più imponenti dighe d’alta quota d’Europa, decapitando una montagna trasformata in cava di inerti». Un tempo la traversata del verdissimo valico del Moncenisio era chiamata “la Carrier du Paradis”, ma forse oggi «dovrebbe essere rinominata “dell’inferno”», perché la “grande muraglia” della maxi-diga per il bacino dal quale oggi pescano l’acqua i Canadair è stata «la “nonna” di tutte le grandi opere in val di Susa». Un’inarrestabile brama di territorio e di acqua, fino al più recente, gigantesco impianto dell’Iren che, per alimentare Torino, ha svuotato la Dora Riparia da Oulx a Susa, riducendo il fiume a un rigagnolo. «Una follia costruire una diga alle spalle del centro di Susa tra versanti franosi, c’è il rischio-Vajont», disse inutilmente l’ingegner Floriano Villa, allora presidente dell’ordine dei geologi. Detto fatto: oggi quella diga incombe sull’abitato, ricordando ai valsusini che, da quelle parti, le decisioni del potere sembrano sempre surreali e imposte dall’alto, come nel feudalesimo.Il grande impianto “in caverna”, ricorda Claudio Giorno, ha mezzo disseccato anche il principale tributario della Dora, il torrente Cenischia, trasformando il paesaggio in un deserto asciutto, facile preda degli incendi, lungo un versante «che era già stato impoverito dagli anni ‘70 con lo scavo delle gallerie per il raddoppio delle ferrovia», e poi ancora fino agli anni ‘90 dallo scavo degli innumerevoli tunnel dell’autostrada del Fréjus, la A32. A quest’emorragia ora si aggiunge la mini-galleria di Chiomonte, teatro di aspre “battaglie” tra polizia e NoTav. Lungo 7 chilometri, quel “cunicolo” esplorativo «di acqua ne ha dispersa e avvelenata in modo sproporzionato», scrive Giorno, ricordando che nella peggiore delle ipotesi – l’eventuale tunnel Tav vero e proprio, lungo 57 chilometri – sarebbe impressionante (a detta degli stessi progettisti) la dispersione di acqua, «pari al fabbisogno di una città di un milione di abitanti». Intanto sono già centinaia le sorgenti disseccate: lo rivela uno studio del naturalista Paolo Ferrero, «che mostra la evidente interrelazione tra il loro disseccamento e il progredire dei cantieri delle grandi opere», attraverso delle slide «comprensibili persino da un politico di professione».L’Italia dell’euro-crisi avrebbe un disperato bisogno di opere pubbliche utili, per rilanciare l’economia, e invece continua a gettare soldi nel pozzo senza fondo di una maxi-opera completamente inutile e dannosa, pericolosa per l’ambiente, devastante sul piano della vivibilità urbanistica e addirittura letale sotto l’aspetto idrogeologico. Se mai quella sciagurata linea Tav si facesse davvero, scrive Luca Rastello di “Repubblica” nel saggio “Binario Morto”, la ferrovia dovrebbe bypassare Torino per allacciarsi alla rete nazionale Tav correndo in galleria a 30 metri di profondità, tagliando la falda idropotabile che alimenta la metropoli. Ma nulla sembra poter arrestare il sistema-Italia delle grandi opere inutili: la rete Tav è stata realizzata con largo impiego di aziende della mafia e della camorra, dice Ferdinando Imposimato, magistrato di lungo corso. Le grandi opere – spiega lo scrittore Massimo Carlotto – sono una macchina perfetta per riciclare denaro sporco: lo sa la mafia ma lo sanno anche le banche, in cui i soldi vengono depositati, e lo sanno i politici collegati alle banche.Il potere torinese della filiera Tav non trova di meglio che offrire soldi alla valle di Susa in fiamme, mentre l’Italia affonda nella crisi? Non un partito che s’impunti sulla scandalosa follia della Torino-Lione. «Se ne sento ancora parlare – si permise di scrivere il grande Giorgio Bocca – tiro fuori il mio vecchio Thompson dal pozzo in cui l’avevo gettato nell’aprile del ‘45». Era il 2005, e lo scandalo era solo all’inizio. Sei anni dopo, si spinse in valle di Susa l’anziano Guido Ceronetti: visitò i cantieri, vide lo scempio di Chiomonte. Scrisse un memorabile reportage per “La Stampa” e, la sera, tenne una lettura di poesie, a Bussoleno, per i NoTav. In pagine altrettanto memorabili, Ceronetti ha svelato cosa c’è nella testa di un piromane: non solo l’isitinto perverso per la distruzione e l’inconfessabile piacere sadico di fronte all’estetica dell’apocalisse. C’è anche il senso del sacrilegio, della profanazione, dato che i boschi – dagli albori dell’umanità – sono sempre stati ritenuti sacri, vera e propria dimora degli déi. Ma se il piromane è una specie di psicopatico isolato, che dire di una politica specializzata in devastazioni su larga scala, freddamente progettate a dispetto di chiunque ne contesti il senso, la pericolosità e l’inevitabile eredità di morte?Duemila ettari in fiamme, case distrutte, centinaia di persone evacuate. E la gigantesca nube di fumo che invade le strade di Torino, la città che “riscopre” la sua minacciosa contiguità geografica con la valle di Susa, il territorio considerato ostile perché da vent’anni in rivolta contro la grande opera più inutile d’Europa, la linea Tav Torino-Lione. Un caso più unico che raro: l’agenda politica ha deciso semplicemente di non occuparsene, ignorando tutti gli allarmi, incluso l’appello rivolto alle massime autorità dello Stato da 360 tecnici, esperti e docenti universitari. Maxi-opera desolatamente inutile, doppione perfetto della linea internazionale già esistente, la Torino-Modane, che attraversa la valle e raggiunge la Francia attraverso il traforo del Fréjus, appena riammodernato (400 milioni di euro) in modo da poter caricare, sui treni in transito, anche i grandi container “navali”. Il problema? Le merci sono sparite: la rotta nord-ovest è ormai un binario morto, senza treni. Per l’autorità elvetica incaricata da Bruxelles di monitorare i trasporti alpini, la valle di Susa potrebbe quasi decuplicare il traffico sulla linea attuale. Ma invece di prenderne atto, si va avanti coi lavori per la linea-bis: un fiume di miliardi, e di devastazioni. Prima vittima, l’acqua: cioè il bene più prezioso, specie quando la montagna brucia.
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Scordatevi i parchi italiani: fanno gola, vogliono mangiarseli
Di fronte a un aumento galoppante dell’effetto serra, alla minaccia di estinzione di migliaia di specie animali e vegetali importantissime sia per l’equilibrio di interi habitat sia per il sostentamento umano, quale obiettivo si dovrebbe prefiggere un governo? Il buon senso direbbe un obiettivo di salvaguardia e incremento delle aree protette, di incentivi politici ed economici per la protezione del territorio e degli esseri viventi che lo abitano. E infine un obiettivo culturale per sviluppare nella popolazione e soprattutto nei giovani amore, rispetto e conoscenza della natura. Ma nel nostro paese sta succedendo esattamente il contrario. Con 249 voti a favore, 115 contrari e 2 astenuti, la Camera dei Deputati ha approvato la nuova legge in materia di parchi ed aree protette. E chi ne è stato informato, se ha a cuore l’ambiente, ha fatto davvero fatica a non cadere nello sconforto. La nuova legge è un’accozzaglia di concessioni e favoritismi nei confronti dei privati, di lobbies potenti come i cacciatori, di categorie come gli agricoltori. La politica entra a gamba tesa nella gestione dei parchi e lo fa come una ruspa in una foresta vergine, con protervia e ignoranza e con l’unico obiettivo di favorire interessi economici e speculazioni.Ma vediamo nel dettaglio cosa comporta questa legge e perché ha fatto levare un coro di proteste da parte di tutte le associazioni ambientaliste. In primo luogo, a chi governerà i parchi, ovvero i presidenti e i direttori, non sarà più richiesta alcuna competenza scientifica e i presidenti saranno nominati dal ministro e dalle Regioni, cioè dai politici; nei consigli direttivi dei parchi la metà dei membri sarà scelta dalle amministrazioni comunali, un quarto sarà composto di sindaci, ma ci sarà posto anche per gli agricoltori. Si apre la strada a interessi economici privati, interessi politici e clientelistici (d’altra parte si dichiara che questa riforma è fatta per lo sviluppo economico), alle ditte del legname e all’industria del turismo. Viene scardinata l’idea che un’area naturale protetta sia prima di tutto necessaria alla salvaguardia dell’ambiente, a preservare il futuro di un territorio, oltre che il presente. Passa l’idea che l’economia e il profitto siano l’unico obiettivo e metro di giudizio nei riguardi della natura. Il mondo scientifico viene emarginato nella gestione dei parchi, e anche il mondo ambientalista è messo in un angolo, a favore di categorie politiche ed economiche.Si apre la strada a possibili trivellazioni ed estrazioni petrolifere, si potrà inquinare pagando delle royalties, si apre alle attività di caccia col pretesto del controllo degli ungulati, con le conseguenze di disturbo, danneggiamento e migrazione di altre specie anche rare e protette. Una serie di vergognose scelte difese con assoluta facciatosta da voltagabbana dell’ambientalismo come Ermete Realacci, che da presidente di Legambiente è passato armi e bagagli al carrozzone politico e riesce a elogiare con accanimento una legge “mostro” inqualificabile. Tale legge, tra l’altro, considera marginali le aree marine protette, privandole dei fondi e delle organizzazioni che spettano ai parchi naturali. C’è poi la questione del delta del Po, da anni tema di proteste e proposte per realizzare un parco nazionale. Un’area che l’Unesco ha dichiarato area prioritaria, che rientra nella Convenzione di Ramsar sugli uccelli migratori, e che ora è spezzettata in tre provincie con diverse concezioni e gestioni.Questa legge-pastrocchio indecente ha fatto infuriare il Wwf Italia, che parla di aree naturali protette «usate come merce di scambio da mettere in mano ai poteri di parte e locali, invece che un bene comune che appartiene ai cittadini», e rincara la dose dichiarando: «La Camera ha portato indietro di 40 anni la legislazione di salvaguardia della natura». Anche la Lipu parla di «mortificazione di una legge storica fondamentale per la conservazione della natura in Italia, e una delle pagine più grigie della legislazione ambientale italiana». Ecco dunque le disastrose decisioni prese dal nostro governo e avvallate da una parte dell’opposizione. Le ricadute ambientali, sociali e anche economiche potrebbero essere devastanti ma, per avvantaggiare interessi economici privati, si buttano alle ortiche i nostri beni più preziosi. Beni che non appartengono solo a noi ma anche alle generazioni future e che con questa legge saranno invece compromessi. Ancora una volta una decisione politica antipopolare e che distrugge il patrimonio e l’immagine dell’Italia.(Martino Danielli, “Addio parchi italiani”, da “Il Cambiamento” dell’11 agosto 2017).Di fronte a un aumento galoppante dell’effetto serra, alla minaccia di estinzione di migliaia di specie animali e vegetali importantissime sia per l’equilibrio di interi habitat sia per il sostentamento umano, quale obiettivo si dovrebbe prefiggere un governo? Il buon senso direbbe un obiettivo di salvaguardia e incremento delle aree protette, di incentivi politici ed economici per la protezione del territorio e degli esseri viventi che lo abitano. E infine un obiettivo culturale per sviluppare nella popolazione e soprattutto nei giovani amore, rispetto e conoscenza della natura. Ma nel nostro paese sta succedendo esattamente il contrario. Con 249 voti a favore, 115 contrari e 2 astenuti, la Camera dei Deputati ha approvato la nuova legge in materia di parchi ed aree protette. E chi ne è stato informato, se ha a cuore l’ambiente, ha fatto davvero fatica a non cadere nello sconforto. La nuova legge è un’accozzaglia di concessioni e favoritismi nei confronti dei privati, di lobbies potenti come i cacciatori, di categorie come gli agricoltori. La politica entra a gamba tesa nella gestione dei parchi e lo fa come una ruspa in una foresta vergine, con protervia e ignoranza e con l’unico obiettivo di favorire interessi economici e speculazioni.
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Summa Symbolica: noi e la memoria ancestrale dell’universo
C’è un non-luogo, chiamato “memoria ancestrale”, in cui è depositata ogni traccia di vita: l’impronta invisibile di pensieri e azioni, eventi materiali e immateriali. Una banca dati sconfinata, una sorta di “preistoria del tempo”. L’ipotesi è profondamente suggestiva: ogni nostra cellula conterrebbe in sé una parte di quella “memoria universale”: la condivide, le corrisponde – per vie analogiche e misteriose, attraverso processi istantanei che non possiamo controllare, e di cui non abbiamo neppure consapevolezza. Tutto quello che riusciamo a verificare è soltanto a valle del “prima”, è qualcosa che avviene dopo. E’ la nostra imperfetta traduzione di quel “grande prima”. E può esprimersi in due modi: sotto forma di miti, cioè narrazioni, oppure di simboli, ovvero rappresentazioni. Ma gli eventi, raccontati o rappresentati, sono i medesimi: si chiamano archetipi, e popolano (da sempre) un non-tempo che ci riguarda da vicinissimo. Una dimensione che “frequentiamo” soltanto in sogno. Per tentare di risalire all’origine, scoprendone il senso segreto, uno strumento efficace è quello che Gianfranco Carpeoro chiama “scienza simbolica”. Materia vastissima, spesso sfiorata da svariati campi del sapere (dalla filosofia alla psicologia, fino alla semiotica) ma mai affrontata separatamente e in modo analitico, sistematico – scientifico, appunto.Proprio l’approccio razionale al mondo sfuggente dei simboli è l’ambizioso l’obiettivo di “Summa Symbolica”, primo volume – introduttivo, metodologico – del vasto lavoro di Carpeoro, simbologo di formazione massonica e rosicruciana, con alle spalle trent’anni di studi sul mondo dei segni tradotti in simboli – segni visivi ma anche sonori, musicali, e persino olfattivi, tattili e gustativi. E’ una dimensione, quella simbolica, nella quale siamo costantemente immersi: meno ce ne rendiamo conto, e più rischiamo di subirla. Esempio: «Verso mezzogiorno, nei supermercati, viene spesso diffuso il profumo del pane caldo, appena sfornato: è un odore che diventa simbolo, innesca la memoria di ciascuno e serve a incrementare la motivazione d’acquisto, da parte degli ignari consumatori». Un simbolo può essere acustico: è il caso del segnale di pericolo emesso dalla gazzella quando, nella savana, avvista la leonessa in caccia. E’ un richiamo straziante, drammatico: l’imitazione perfetta dell’ultimo rantolo esalato, chissà quando, da una gazzella catturata e sbranata. Lo hanno scoperto gli etologi: le gazzelle superstiti assistettero alla predazione e udirono quel grido. Che da allora, una volta riprodotto, avverte le consimili, in modo inequivocabile, dell’imminente pericolo di morte.Ricostruendo l’origine del simbolo, a partire dal “simbolo Universo” e dal “simbolo prima del segno”, Carpeoro si sofferma a lungo sull’analisi del mondo originario da cui il simbolo discende, cioè la dimensione degli archetipi che affollano la “memoria ancestrale”. L’autore esamina le diverse interpretazioni del mondo archetipico sviluppate dal pensiero contemporaneo a partire da Jung, per poi passare attraverso studiosi come Mircea Eliade, Elémire Zolla, il simbologo René Guénon, pensatori meno noti come Réné Alleau e autori controversi come Julius Evola. «A nostro avviso – scrive Carpeoro – i nostri primi grandi archetipi, che noi denominiamo “protoarchetipi” o “specula” sono quelli fondati appunto sulla specularità: buio-luce, silenzio-suono, dolore-piacere, vita-morte». Che cosa sono? «Sono le nostre prime cognizioni o percezioni», cioè «gli eventi primari, fisici o metafisici», tutti derivanti dall’evento base, primigenio, espresso da Amleto: “Essere o non essere”». La cronologia esatta va invertita, e cioè: “non-essere, essere”. Prima il nulla, poi la creazione. Quel motto di Amleto caratterizza anche «il dubbio esistenziale, psicoanalitico e letterario, relativo ai sogni e alla distinzione dei medesimi rispetto alla vita reale, sintetizzato dalla massima “La vita è un sogno e la morte è il risveglio”, del grande scrittore spagnolo Pedro Calderón de la Barca”».«L’evento base “non essere, essere”, o anche “tutto e il contrario di tutto”, realizza il Primo Archetipo», che Carpeoro chiama “Speculum”, specchio. Da quello, e dagli altri “protoarchetipi”, «derivano tutti gli schemi simbolici che ci circondano e ci spiegano la storia e il cosmo, se e quando ci troviamo nella condizione di interpretarli». Fiabe, leggende e allegorie ripropogono sistemi simbolici anche complessi, poi tradotti nella stessa interpretazione dei sogni, a cui tanta importanza ha attribuito la psicanalisi. Sono tutte porte aperte sul misterioso mondo del “prima”, dove la nostra cognizione della vita comincia a nascere, in modo inafferrabile, a partire dallo “speculum” iniziale, l’opposizione tra “non essere” e “essere”, in realtà destinata poi a ricomporsi in modo complementare, nella comprensione del tutto. In altre parole, il linguaggio dei simboli – in cui si specchiano gli archetipi – può dirci qualcosa di importante sul vero luogo in cui nasce, da sempre, la nostra possibilità di pensiero. Il simbolo, poi, fa a meno dell’ordinario codice alfabetico: può viaggiare per secoli e millenni, conservando intatto il suo messaggio primigenio, a prescindere dale epoche e dalle civiltà attraversate. E’ un messaggero del “grande prima”: ci parla del nostro passato più in ombra, quello che non finisce sui libri di storia: è la meta-storia, quella del pensiero (anche invisibile) da cui poi sgorga la storia vera e propria.Nell’agile narrazione del primo volume di “Summa Symbolica”, arricchita da rapide escursioni nel mondo dell’arte, fino al cinema contemporaneo, si coglie lo sforzo di collocare la “scienza simbolica” in un preciso contesto di ricerca, a metà strada tra filosofia e neuroscienze, nell’intento di restituire piena dignità a una materia sempre e solo affrontata in modo tangenziale, periferico e accessorio. Fondamentale, nel lavoro di Carpeoro, la precisione con cui l’autore descrive la meccanica del simbolo, il suo funzionamento, che risponde a regole precise (l’autore le chiama “leggi”). La prima è quella che definisce il simbolo come rappresentazione di un archetipo. Fondamentale la Prima Legge di Guénon: nel simbolo, il piccolo può rappresentare il grande, l’inferiore il superiore, la parte il tutto – mai viceversa. Esistono leggi statiche, che espandono il simbolo in orizzontale, e leggi di corripondenza, secondo cui il simbolo deve contenere le esatte corripondenze della realtà rappresentata (nella frase “come in cielo, così in terra” rivive il motto esoterico “quod superius, sicut inferius” degli antichi alchimisti: al microcosmo corrisponde sempre il macrocosmo).Il simbolo, riassume Carpeoro, obbedisce anche a leggi dinamiche: può essere trasmesso in modo consapevole, mediante iniziazione, o in maniera inconsapevole, per semplice ripetizione (tradizione). Il simbolo ha inoltre precise funzioni: sintetica ed evocativa. «Se per la funzione sintetica è sufficiente un unico simbolo, per la funzione evocativa è necessaria una pluralità di simboli organizzata in linguaggio». A cascata, i sistemi simbolici che costituiscono il cuore delle fiabe vivono in un habitat narrativo fatto di emotività (pathos), mentre è l’epos a “ingigantire” la narrazione delle leggende, e una terza chiave – l’ethos – governa l’allegoria, imponendovi un preciso ordine. Nel sogno, infine, si articola il lògos (parola, racconto), che deriva la greco léghein (legare, collegare) da cui derivano vocaboli come “intelligenza”. Proprio nel sogno, scrive Carpeoro, il cerchio si chiude: in quella esclusiva dimensione, gli archetipi rivivono in purezza. Durante il sonno, la “memoria ancestrale” ci parla direttamente, senza mediazioni. Non disponendo di un linguaggio per tradurla, siamo costretti a ricorrere a espedienti ingegnosi: i simboli, appunto. Per questo è importante imparare il loro linguaggio: potremmo scoprire qualcosa di fondamentale della nostra storia, del nostro pensiero, della nostra vita. Fino a “riconoscere” che molte cose che sappiamo, o crediamo di sapere, hanno un’origine remotissima: “abitano”, da sempre, nella “memoria ancestrale” dell’universo.(Il libro: Giovanni Francesco Carpeoro, “Summa Symbolica. Istituzioni di studi simbolici e tradizionali”, parte prima, “Origine e dinamica dei simboli”, edizioni L’Età dell’Acquario, 221 pagine, 24 euro).C’è un non-luogo, chiamato “memoria ancestrale”, in cui è depositata ogni traccia di vita: l’impronta invisibile di pensieri e azioni, eventi materiali e immateriali. Una banca dati sconfinata, una sorta di “preistoria del tempo”. L’ipotesi è profondamente suggestiva: ogni nostra cellula conterrebbe in sé una parte di quella “memoria universale”: la condivide, le corrisponde – per vie analogiche e misteriose, attraverso processi istantanei che non possiamo controllare, e di cui non abbiamo neppure consapevolezza. Tutto quello che riusciamo a verificare è soltanto a valle del “prima”, è qualcosa che avviene dopo. E’ la nostra imperfetta traduzione di quel “grande prima”. E può esprimersi in due modi: sotto forma di miti, cioè narrazioni, oppure di simboli, ovvero rappresentazioni. Ma gli eventi, raccontati o rappresentati, sono i medesimi: si chiamano archetipi, e popolano (da sempre) un non-tempo che ci riguarda da vicinissimo. Una dimensione che “frequentiamo” soltanto in sogno. Per tentare di risalire all’origine, scoprendone il senso segreto, uno strumento efficace è quello che Gianfranco Carpeoro chiama “scienza simbolica”. Materia vastissima, spesso sfiorata da svariati campi del sapere (dalla filosofia alla psicologia, fino alla semiotica) ma mai affrontata separatamente e in modo analitico, sistematico – scientifico, appunto.
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La materia è pensiero: Giordano Bruno anticipò la scienza
«Non è la materia che genera il pensiero, è il pensiero che genera la materia», scrive l’astrofisica Giuliana Conforto. «La Forza è la Vita Cosmica». Giordano Bruno? «Non esprime filosofia, ma una scienza del futuro e una saggezza antica. Testimonia l’eterno presente e, con l’Arte della Memoria, indica il modo per viverlo». Di fatto, il grande pensatore rinascimentale bruciato vivo a Roma il 17 febbraio 1600 «anticipa la scoperta della Forza, la Vita Cosmica, e rivela il grande segreto della materia nucleare che la scienza non ha ancora compreso: la comunione diretta e quindi l’etica naturale di ogni essere umano con la Forza». Fu questo, aggiunge la Conforto, il motivo vero della sua condanna, «perché rende vano il ruolo delle chiese come presunte rappresentanti di Dio». Infatti, «la comunione diretta rivela la centralità dell’uomo e spiega il faticoso preludio al grande evento: la nascita dell’uomo nuovo che, per il fatto di “aver mutato intento”, diverrà cosciente, responsabile di sé e capace di creare un nuovo mondo». Da sempre, sulla Terra, sottolinea una studiosa come Manuela Racci, esistono esseri che «indicano la via per edificare un nuovo mondo, per aprire il cammino all’umanità verso una nuova aurora: sono esseri di luce, accomunati dalla stessa forza ed energia, marchiati dalla stessa solitudine». Forse «venuti troppo presto, nati postumi con la mente dinamite», come direbbe Nietzsche.Giordano Bruno potrebbe davvero considerarsi un nobile antesignano di questa specie chiamata “indaco”, giunta a edificare un nuovo mondo, «un mondo di luce per esseri di luce che vedono e sentono con gli stessi occhi e la stessa mente sia gli universi visibili che quelli invisibili», scrive la Racci, in una riflessione ripresa dal blog “Visione Alchemica”. «Un grande pensatore, arso vivo per il vizio di pensare; un filosofo di una modernità quasi inquietante, ma soprattutto un uomo fuori del comune, uno spirito folletto, fantasioso, originale». Quello che trasmetteva «non era solo un’immagine della vita, ma un’emozione del mondo». Giordano Bruno «era un grande: in lui albergava la conoscenza dei mondi paralleli, della metempsicosi, delle energie sottili». Straordinario, per quei tempi. La sua profondità «non è quella che connota il pensiero tecnico-scientifico da secoli imperante in Occidente». Va ricercata nell’inconscio della scienza stessa, «che è a un tempo ciò da cui la scienza scaturisce e ciò che la scienza rimuove». Innegabili sono i miglioramenti che la scienza ha apportato alla vita dell’uomo occidentale. «Ma sotto l’aspetto della felicità, della ricerca di una pace interiore, di una quiete dell’anima in piena armonia con la natura e più ampiamente con il Tutto, risulta più difficile parlare di progresso».Per la professoressa Racci, sembra quasi che la scienza abbia sdradicato l’uomo dal suo habitat naturale, la fusione con la natura, «facendolo sentire meno alienato di fronte a un computer che al cospetto di un tramonto». Allo stesso modo, la religione, «per quanto antiscientifica possa sembrare», ha sovente «cercato il connubio con la ragione, con l’evidenza e la chiarezza del “lumen” naturale, perdendo in realtà la sua vera “quidditas”, la sua dimensione sacrale». Per questo Giordano Bruno fu messo al rogo: «La sua “nova filosofia” non era né scientifica, né strettamente religiosa, in quanto si fondava sulla “magia naturale”, sulla “prisca Aegiptorum sapientia”», l’amtica sapienza egizia. «Bruno è infatti il vero sensitivo immerso nella “fusis”, convinto che si possano abbattere le barriere tra l’umano e il divino». E attenzione: «Niente è più positivo dello sfondamento dei limiti, dello spostare le pietre di confine per arrivare alla comprensione che l’uomo, la Natura e Dio sono la stessa cosa. Nell’universo tutto è Vita, tutto è animato da uno stesso spirito vivificatore». Letteralmente: «Tutte le cose sono nell’universo e l’universo è in tutte le cose», in perfetta armonia.E’ un’innegabile forma di animismo: per Bruno, tra le piante, gli animali, gli uomini non c’è differenza se non di grado. La differenza è nel “Dorso della Forma”, sono fenomeni di un’unica sostanza universale. Pensare che il mondo sia là solo per l’uomo è un grave errore: «Il filosofo esce così dalla cultura occidentale cristiana e modula il suo sentire sul registro affine a quello buddista». Con l’ammirazione dovuta a chi sacrifica la vita per le proprie idee, «Bruno andrebbe inserito in una sfera iniziatica, riferendosi non tanto alla sua laicità, bensì alla sua sacralità, al suo vedere la presenza divina in ogni cosa, alla sua ansia di ricerca che trascende il raziocinio nel suo identificarsi nella natura, che è per lui un vero e proprio “indiamento”», cioè un’unione estatica tra l’umano e il divino. Si tratta di varcare il limite dell’homo sapiens per avviarsi «verso altra natura, altri corsi, altri mondi».La materia dunque non è inerte, ma viva, animata (pampsichismo) e costituisce uno dei centri archimedei del pensiero di Bruno: infatti, continua Manuela Racci, il filosofo perviene a una concezione della materia universale come fonte dell’infinito prodursi di tutta la realtà: come la gestante che riscuote da sé la sua prole, la materia contiene in sé tutte le forme, è «cosa divina e ottima parente, genitrice e madre di cose naturali, anzi la natura tutta in sustanza»; è «fonte de l’attualità» di ogni cosa. Per Bruno la materia è Vita, materia infinita, e tra l’anima dell’uomo e quella delle bestie non c’è alcuna differenza sostanziale. «Potremmo dire che la “magia naturale” di Bruno si colloca in quella sotterranea corrente che prende il nome di “pensiero per immagini” che, pur perdente in Occidente, costituisce la fonte segreta del sapere, fonte a cui si accede non per via logico-architettonica ma per pratica amorosa». La concezione che Bruno ha della forza dell’Amore ribadisce la pregnanza e l’attualità di tale concetto in campo metafisico e metempirico: la forza «che move il sole e l’altre stelle», di cui parla Dante, è «l’unica che muove infiniti mondi e li rende vivi». E quella “magia naturale” che solo il vero saggio da sempre sente.«L’amore, dice il filosofo, sa “comprendere” ciò che la ragione non sa “spiegare”, là dove la scienza può spiegare tutto, senza nulla comprendere». L’astrofisica Giuliana Conforto, in uno studio irrinunciabile sulla futura scienza di Giordano Bruno, evidenzia come il pianeta si stia trasformando e come il filosofo nolano sia uno dei grandi saggi che l’abbiano previsto. «Quella di Bruno è scienza del futuro, coscienza delle infinite potenzialità dell’essere umano e soprattutto della sua immortalità. Egli annuncia la nascita dell’uomo nuovo, libero da tabù e paure, capace di ricevere e di riflettere nelle sue opere l’intero messaggio vitale, oggi noto come Dna, quindi di creare un nuovo mondo di pace e vera giustizia». In altre parole, «Bruno rivela il grande segreto, la magia della natura: la comunione naturale di ogni corpo con il messaggio genetico, che fu poi il motivo vero della sua condanna perché vanifica il ruolo della Chiesa come intermediaria tra l’uomo e Dio: Bruno rivela il ruolo centrale di protagonista dell’uomo nel progetto cosmico, prevede i tempi attuali e l’evento che ristabilirà l’antico volto: il risveglio dell’uomo alla coscienza dell’infinita e vera realtà, l’Amore».Quella forza cosmica prende il nome, in Bruno, di “eroico furore”: «L’uomo nuovo è il furioso, l’ebbro di Dio e arso d’amore che, con uno sforzo eroico (da eros) e appassionato, giunge a una sorta di sovrumana immedesimazione con il processo cosmico per cui l’Universo si dispiega nelle cose e le cose si risolvono nell’Universo, generando una sorta di copula d’amore tra lui e la Natura. Solo il fuoco dell’esperienza dell’Amore è in grado di aprire la strada alla visione di Dio, del Tutto, dell’unità». Scorrendo in particolare i suoi sette scritti magici, tra cui esemplare risulta essere la “Lampas triginta statuarum”, testo di eccezionale bellezza poetica e immaginativa, il lettore non può non cogliere questo moderno senso del divino nell’uomo come appartenenza al Tutto, scintilla perfetta di un Tutto unico e animato. Per Manuela Racci, è una affascinante concezione della metempsicosi di ascendenza orfico-pitagorica: la morte non è altro che una dissoluzione di legami, ma nessun spirito o nessun corpo celeste perisce; è solo un continuo mutare di complessione e combinazioni. Affiora un «senso etico di giustizia cosmica», che spinge le anime «a comunicarsi a corpi sempre diversi, in una sorprendente affinità con il Karma delle religioni orientali, nella commossa intuizione che l’anima possa istituire innumerevoli legami tra piani dell’universo».Prima ancora dello stesso movimento romantico, Giordano Bruno ha quindi riportato l’attenzione sull’intima connessione del Tutto rispetto all’analitica scansione delle parti, in cui il pensiero logico-razionale per natura trattiene se stesso, smarrendo i vincoli che legano tra loro tutte le cose. Dunque, «non essendoci nell’universo parte più importante dell’altra, non è concesso all’uomo quel primato che lo prevede possessore e dominatore del mondo, ma semplice cooperatore dell’operante natura». All’enfatizzazione del soggetto, Bruno contrappone un percorso opposto: non il primato dell’uomo, ma «il primato degli equilibri sempre instabili e sempre da ricostruire tra soggetto e oggetto, tra uomo e natura». La sua “magia”? «Non è potere sulla natura, ma scoperta dei vincoli con cui tutte le cose si incatenano, secondo il modello eracliteo dell’invisibile armonia». Ed è la proposta filosofica di Bruno, «antitetica sia alla matematica sia alla religione». Alla legge dell’uomo occidentale sul Tutto, la “magia” bruniana si volge alla legge del Tutto: siamo parte della natura, non i suoi dominatori. E la nostra possibilità di felicità risiede nella complementarità attraverso cui possiamo combaciare con altri esseri, al tempo stesso naturali e divini.Tra le idee straordinarie che Bruno ha consegnato alla modernità, aggiunge la Racci, è impossibile non citare le due opere in chiave ermetica che si presentano come veri trattati di arte della memoria, la mnemotecnica (“De umbris idearum” e “Cantus circaeus”). Ne sviluppa un’analisi sottile Gabriele La Porta, nel suo libro “Giordano Bruno. Vita e avventure di un pericoloso maestro del pensiero”: le immagini descritte dal filosofo non avrebbero solo il compito di potenziare e raffinare la memoria visiva, ma rivestirebbero anche un significato propriamente “magico”. «Infatti la loro contemplazione e la loro rammemorazione porterebbero in contatto con energie cosmiche primordiali, con la vera “quidditas” delle cose, con le realtà supreme e archetipe, infondendo nell’animo pace, quiete, serenità». Secondo La Porta, Bruno si propone di suscitare una sorta di rivoluzione spirituale: «Seguendo le vie di un sapere esoterico, che ha tutti i caratteri di un’illuminazione, l’uomo si libera dai pregiudizi, dalle passioni negative, dagli egoismi, per diventare saggio, cioè in grado di percorrere la via della Forza, quella Forza che è trasparenza, libertà, verità».Una vera e propria scienza futura, che i saggi come Bruno già conoscevano: «Una coscienza che comprende interamente il messaggio della Vita e soprattutto il ruolo cosmico, immortale dell’essere umano». Come non ricordare poi la sua vulcanica intuizione cosmologica? Giordano Bruno, aggiunge la Racci, fu il primo a dedurre che la vita intelligente è distribuita un po’ dappertutto nell’universo, «ponendo così le basi alla giustificazione dei trasferimenti di essa da pianeti in estinzione ma ad alto livello di tecnologia a pianeti non abitati ma tali da consentire la vita». A ragione, Bruno viene visto come il primo ufologo: «Oggi le sue osservazioni sono considerate il punto di partenza per la ricerca di altre forme di vita nell’universo». Superando la rivoluzione copernicana, Bruno immaginava un universo infinito, popolato da un’infinità di stelle che, abbattute le muraglie del cielo fisso e finito, corrono per ogni dove. «Stelle come il nostro sole, ciascuna circondata da pianeti, su taluni dei quali prosperano altre intelligenze, creature viventi senzienti e razionali».«Apri la porta attraverso la quale possiamo osservare il firmamento senza limiti», era il suo motto. «Così si magnifica l’eccellenza di Dio, si manifesta la grandezza de l’imperio suo: non si glorifica in uno, ma in soli innumerevoli, non in una terra, un mondo, ma in duecentomila, dico in infiniti». Un universo dunque senza limiti, dai caratteri divini: infinito lo spazio, infiniti i mondi, infinite le creature, infinita la vita e le sue forme. Per Manuela Racci si potrebbe chiudere questa riflessione, meramente propedeutica alla necessità di far risorgere le intuizioni bruniane, con un’asserzione efficace del geniale filosofo che più volte sostiene di essere la reincarnazione di Ermes, il messaggero degli dei, sceso per aprire gli occhi agli uomini. «L’umanità ha bisogno di persone che testimonino la possibilità della fratellanza, in nome della conoscenza e della ricerca». Obiettivo: «Gettare i semi per piante che fruttifereranno nel futuro». Non è possibile dire quando, «ma è importante lasciare un segno, dire parole, formulare pensieri, viver in una dimensione di segno opposto a quella dell’attuale imbecillità. E soprattutto, non scoraggiarsi».«Non è la materia che genera il pensiero, è il pensiero che genera la materia», scrive l’astrofisica Giuliana Conforto. «La Forza è la Vita Cosmica». Giordano Bruno? «Non esprime filosofia, ma una scienza del futuro e una saggezza antica. Testimonia l’eterno presente e, con l’Arte della Memoria, indica il modo per viverlo». Di fatto, il grande pensatore rinascimentale bruciato vivo a Roma il 17 febbraio 1600 «anticipa la scoperta della Forza, la Vita Cosmica, e rivela il grande segreto della materia nucleare che la scienza non ha ancora compreso: la comunione diretta e quindi l’etica naturale di ogni essere umano con la Forza». Fu questo, aggiunge la Conforto, il motivo vero della sua condanna, «perché rende vano il ruolo delle chiese come presunte rappresentanti di Dio». Infatti, «la comunione diretta rivela la centralità dell’uomo e spiega il faticoso preludio al grande evento: la nascita dell’uomo nuovo che, per il fatto di “aver mutato intento”, diverrà cosciente, responsabile di sé e capace di creare un nuovo mondo». Da sempre, sulla Terra, sottolinea una studiosa come Manuela Racci, esistono esseri che «indicano la via per edificare un nuovo mondo, per aprire il cammino all’umanità verso una nuova aurora: sono esseri di luce, accomunati dalla stessa forza ed energia, marchiati dalla stessa solitudine». Forse «venuti troppo presto, nati postumi con la mente dinamite», come direbbe Nietzsche.
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Orso: rabbia e odio esploderanno, al rogo servi e traditori
Più passa il tempo, più le osservazioni della realtà socio-politica italiana ed europea mediterranea mi spingono a trarre una sola conclusione: ci sarà una Rivoluzione, forse un dì ma non ora, e sarà inevitabilmente sanguinosa, con un tasso altissimo di violenza per regolare conti, sociali e politici, rimasti troppo a lungo in sospeso. Non so come e non so chi la farà, quella benedetta Rivoluzione, ma ci saranno grandi e catartici spargimenti di sangue, perché le abbiette falangi del collaborazionismo neoliberista avranno imperversato per interi lustri incontrastate, vessando e addirittura torturando le popolazioni. Rabbia e odio da troppo covano sotto le ceneri, senza trovare uno sfogo, mescolate a un senso diffuso di abbandono a se stessi, di concreta impotenza politica, d’impossibilità di determinare il proprio futuro. C’è la schizofrenia, suscitata ad arte dal sistema, di una realtà “reale” completamente divergente da quella virtuale dipinta dai media. Ci sono prigioni dai muri altissimi, conseguenza del ricatto economico, della paura di “fallire” individualmente e degli stili di vita truffaldini imposti in un habitat neocapitalistico.Il darwinismo sociale più feroce fa da contraltare ai risibili e vuoti diritti liberaldemocratici, mantenuti in vita propagandisticamente. La competizione pleistocenica fra dominati, per la pagnotta, che il dominio del mercato ha scatenato non porta alla civiltà, ma al suo esatto contrario. Darwinismo sociale senza welfare e competizione esasperata per una “pagnotta” sempre più misera sono il destino delle classi dominate, come in tanti, pur confusamente, dovrebbero aver intuito. Le “aspettative decrescenti” si sostituiscono prepotentemente, se permane in chi giudica un po’ di senso della realtà, a quelle crescenti di fine novecento, mentre procede il grande travaso di risorse dal lavoro (e dal piccolo capitale produttivo) al grande capitale finanziario. Nel nostro lembo d’Occidente, l’euro ha proprio questa specifica funzione di esproprio e impoverimento massivo. Grecia, Portogallo e persino Italia non dovrebbero più esistere, secondo la classe globale dominante che manovra la Troika, perché inutili alla creazione del valore finanziaria, azionaria e borsistica.Lo smottamento sociale continua, “ma il Re del Mondo ci tiene prigioniero il cuore” [“Il Re del Mondo”, Franco Battiato]. I mendicanti di Baudelaire, nel ventre della Parigi ottocentesca, avevano migliori prospettive dei nostri precari alla canna del gas. Distrutto il futuro e ottenebrate le menti, il neocapitalismo finanziario gestisce attraverso il mercato la politica, l’alimentazione, la biologia, la chimica, le nanotecnologie, la balistica, la teologia. Una superfetazione finanziaria, che esplode periodicamente in bolle e travolge i confini e le resistenze, rischia di annichilire il pianeta. La trasformazione dell’uomo è in pieno corso, ed è una diminuzione senza scampo. Magari fosse soltanto il passaggio da consumatore/produttore a precario/escluso, o la discesa in una nuova classe inferiore, nella parte più bassa della piramide sociale. “Sotto il mare sta cambiando la mia struttura e il mio corpo è sempre più uguale ai pesci. I miei capelli diventano alghe” [“Plancton”, Franco Battiato].E’ L’Italia che sconta la peggior manipolazione culturale-antropologica delle neoplebi precarie, sorta di futuri “schiavi autosussistenti” (che dovranno badare da soli alla propria sopravvivenza, pur essendo schiavi, senza alcun intervento del padrone) costretti a lavorare o semplicemente a campare con 400 euro il mese, o anche di meno. I segnali sono evidenti, perché è qui che si afferma senza contrasti la sinistra neoliberista più forte d’Europa (piddì), al soldo di Goldman Sachs e di Soros, non ci sono sommosse sociali, disordini di piazza, movimenti extraparlamentari apertamente contro, attivi e inquieti. C’è soltanto il nulla della dominazione neocapitalistica, condito con uno dei più alti tassi di corruzione del mondo (e le due cose sono collegate). Sarà l’Italia il banco di prova importante, in Occidente, del trionfo neocapitalista, perché non basterà la trasformazione in semi-Stato, espropriato di qualsivoglia sovranità e retto da infami collaborazionisti subpolitici (piddì). Si arriverà allo stadio finale, attraverso il commissariamento definitivo a cura della Troika e un esecutivo “ponte”, nominato ed esplicitamente straniero. Preludio alla dissoluzione finale delle istituzioni e al dominio dei “mercati & investitori”, esercitato in loro nome e per loro conto dagli organi sopranazionali della mondializzazione.I collaborazionisti subpolitici serviranno ancora all’inizio dello stadio finale, per ratificare in Parlamento le decisioni prese dalle élite. Questo sarà il misero ruolo, prima della sua scomparsa, della “sinistra più forte d’Europa” (piddì). Non “Romperemo l’asfalto con dei giardini colorati” [“Paranoia”, Franco Battiato], perché il riscatto sarà duro e difficile, soprattutto se il “risveglio” avverrà fuori tempo massimo. Dopo lustri d’inerzia della popolazione, torturata dai servi del grande capitale finanziario (sinistra neoliberista, piddì) e ingannata da gruppi parlamentari d’opposizione politicamente corretta (cinque stelle), dopo la latitanza di nuove élite rivoluzionarie disposte a rischiare per scardinare il sistema, la Rivoluzione in extremis (in punto di morte, letteralmente) se ci sarà non potrà che essere violentissima, costellata di roghi e di stragi di collaborazionisti, catartica come non mai, ma sommamente incerta negli esiti. Le masse straccione mosse dalla rabbia non saranno i mugik di Lenin, ma ci assomiglieranno un po’, complice la fame (quella vera) che farà capolino fra un po’, nell’Italia che si avvicinerà alla Grecia.Saranno, costoro, più feroci dei contadini poveri dell’Ottobre Rosso, nel remoto 1917, perché in una sola generazione avranno perso troppo – lavoro, reddito, futuro, dignità e diritti, cose che i contadini russi del ’17 non avevano e non si sognavano neppure. Non mi azzardo a prevedere quanti anni ci vorranno ancora (forse un lustro?) perché la corda sia ben tesa, tanto da rompersi. Non so quali gruppi e quali forze politico-sociali guideranno le masse inferocite, e con quali programmi alternativi (keynesiano dirigista-assistenziale, neocomunista?). Di certo non saranno quelli che vediamo oggi, alla guida di opposizioni finte e vigliacche – Landini, Civati, Vendola, Fassina, Cuperlo, in una la “sinistra radicale” – semplicemente inutili – il cinque stelle, Di Maio, Di Battista – o deboli perché prigioniere della liberaldemocrazia – nel nostro caso Salvini. Forse stanno aspettando, nell’ombra, ancora inconsapevoli del ruolo che affiderà loro la storia, o forse lasceranno l’opposizione debole, ingabbiata dal sistema, per seguire altre strade, più radicali e cruente. Dalle opposizioni finte e vigliacche e da quelle inutili, invece, non dovremo aspettarci niente di buono. Andranno rapidamente verso l’estinzione.(Eugenio Orso, “Una rivoluzione sanguinosa”, da “Pauper Class” del 7 giugno 2015).Più passa il tempo, più le osservazioni della realtà socio-politica italiana ed europea mediterranea mi spingono a trarre una sola conclusione: ci sarà una Rivoluzione, forse un dì ma non ora, e sarà inevitabilmente sanguinosa, con un tasso altissimo di violenza per regolare conti, sociali e politici, rimasti troppo a lungo in sospeso. Non so come e non so chi la farà, quella benedetta Rivoluzione, ma ci saranno grandi e catartici spargimenti di sangue, perché le abbiette falangi del collaborazionismo neoliberista avranno imperversato per interi lustri incontrastate, vessando e addirittura torturando le popolazioni. Rabbia e odio da troppo covano sotto le ceneri, senza trovare uno sfogo, mescolate a un senso diffuso di abbandono a se stessi, di concreta impotenza politica, d’impossibilità di determinare il proprio futuro. C’è la schizofrenia, suscitata ad arte dal sistema, di una realtà “reale” completamente divergente da quella virtuale dipinta dai media. Ci sono prigioni dai muri altissimi, conseguenza del ricatto economico, della paura di “fallire” individualmente e degli stili di vita truffaldini imposti in un habitat neocapitalistico.
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Neghiamo la verità, ci fa paura: è così che ci estingueremo
Abbiamo così paura della verità che stiamo per autodistruggerci: evitiamo di guardare in faccia il conto alla rovescia della catastrofe climatica, quindi rimandiamo ogni soluzione e ci consegniamo alla fine. Secondo gli scienziati più pessimisti, l’estinzione dell’umanità potrebbe essere vicinissima, addirittura fra 15 anni, nel 2030. «E’ opinione diffusa oggi che stiamo per vivere la sesta grande estinzione di massa nella storia del pianeta», avverte Robert Burrowes. «L’ultima è avvenuta 65 milioni di anni fa, quando scomparvero i dinosauri». Oggi? «Stiamo perdendo la biodiversità a un ritmo simile ad allora. Ma questa estinzione la stiamo causando noi stessi. E noi ne saremo una delle vittime. L’unico dubbio è quando avverrà esattamente. E questo dubbio – aggiunge Burrowes – è fondato sulla presunzione non dichiarata, e fortemente discutibile, che possiamo continuare ad evitare una guerra nucleare». A indicare il termine ravvicinatissimo del 2030 è uno scienziato come Guy McPherson, che parla di «crisi del clima ed estinzione umana a breve termine». La “tempesta perfetta” di attacchi ambientali che stiamo attualmente infliggendo al clima del pianeta «sono già molto oltre quello che la Terra possa sopportare e assorbire».
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Putin agli Usa: agite da nemici, sappiate che resisteremo
A Sochi, nell’ottobre 2014, Putin ha “resettato” drasticamente il rapporto tra la sua Russia e Washington. Un discorso ben meditato, che sarebbe grave errore, per tutti, sottovalutare. Molto più forte, a tratti drammatico nella sua chiarezza, di quello da lui pronunciato a Monaco, nel 2007. Nei 14 anni del suo potere il presidente russo non si era mai spinto fino a questo punto. E si capisce il perché solo seguendo il suo ragionamento. Vediamo di quale reset si tratta. Fino all’altro ieri Putin era rimasto “dentro” lo schema del post guerra fredda. C’era rimasto sia perché non aveva scelte diverse da fare, sia perché – con ogni probabilità – a quello schema credeva e lo riteneva utile e realistico. La crisi era già visibile. La Russia ci stava dentro scomoda. Ma rimaneva l’intenzione di superarla, con il tempo, costruendo una nuova architettura della sicurezza mondiale assieme agli Stati Uniti. Per anni, dopo il crollo del Muro, la Russia ha dovuto sopportare molti “sgarbi”. È un eufemismo. In molti casi la parola giusta sarebbe schiaffi.La Russia è stata emarginata da numerosi momenti decisionali di rilievo internazionale, messa in secondo piano, scartata senza troppi complimenti. Era (anche) un modo per farle capire che non contava e che non si voleva che contasse. Espulsa dalla gestione dei conflitti africani, ignorata nel dibattito finanziario, messa in fila per il Wto. E duramente offesa nell’intera vicenda jugoslava, fino al bombardamento di Belgrado e all’indipendenza del Kosovo. Ammessa in sala riunioni solo là dove era indispensabile che ci fosse, nel negoziato con l’Iran e nella crisi siriana. Peggio ancora: con gli ultimi presidenti americani, da Clinton, via George Bush Junior, fino a tutto Obama compreso, gli Stati Uniti hanno manovrato su scala planetaria ignorando platealmente ogni riconoscimento delle zone d’influenza russa, passeggiandovi dentro senza alcun riguardo diplomatico. Tutta l’Asia centrale ex sovietica è stata praticamente occupata dalle loro iniziative: dall’Azerbaigian fino alla Kirghisia. Non dovunque con gli stessi successi. Ma quello che conta, è il significato: Washington semplicemente mandava a dire a Mosca che non avrebbe tenuto in alcun conto il peso della Russia in quelle aree.Per non parlare della Nato, la cui espansione a est – dopo la fine del patto di Varsavia – ha proceduto senza soste, alla pari con l’allargamento dell’Unione Europea su tutta l’Europa orientale, fin dentro alcuni territori che erano stati parte dell’Unione Sovietica, come le tre repubbliche baltiche. Il tutto violando gli accordi, verbali e scritti, che impegnavano la Nato a non portare basi e armamenti nelle nuove repubbliche che via via aderivano all’Unione Europea. Espansione accompagnata da dichiarazioni sempre più incongruenti con i fatti, secondo cui l’estensione della Nato non sarebbe stata indirizzata all’accerchiamento progressivo della Russia. Infine le operazioni degli ultimissimi anni, con l’inserimento della Georgia di Saakashvili nei meccanismi Nato e la promessa di un futuro ingresso a vele spiegate nella Nato della quarta repubblica ex sovietica; e con le analoghe pressioni e promesse nei confronti della Moldavia. Da ricordare la “guerra georgiana”, conclusasi con la secca sconfitta di Tbilisi dopo il massacro di Tzkhinvali e l’intervento delle forze armate russe per ricacciare indietro i georgiani dal territorio dell’Ossetia del Sud.Il riconoscimento russo delle due repubbliche di Abkhazia e Ossetia del Sud (che Putin non aveva concesso fino all’agosto 2008) fu il primo segnale che il Cremlino aveva deciso – sebbene non di propria iniziativa ma pressato dall’iniziativa avversaria – di alzare il segnale di stop verso Washington. Tutto questo è stato superato, d’un colpo, dall’avventura spericolata del colpo di stato a Kiev, dal rovesciamento violento di Yanukovic e dal varo di una nuova Ucraina dichiaratamente ostile e bellicosa nei confronti di Mosca. Il tutto non solo con il consenso ma con il finanziamento, la direzione, il controllo americano delle operazioni sul territorio, e politiche e, infine, militari. Non si comprende la sintesi putiniana di Sochi se non tenendo conto della sommatoria di questi eventi. La conclusione è esplicita: la leadership americana non prevede alcun multipolarismo, né alcun rispetto delle regole di un qualsivoglia partenariato tra eguali. Non ci sono più regole condivise. Esiste uno stato di caos, senza alcuna direzione. Putin prende atto – senza dirlo esplicitamente, ma facendo capire che ha ben compreso – che il bersaglio è lui in persona. Che le sanzioni non sono cominciate colpendo la Russia, ma colpendo il suo stesso entourage. Che negli atteggiamenti e nelle dichiarazioni dei leader occidentali è riconoscibile l’idea che Putin non rappresenta la Russia e che, dunque, una volta eliminato lui, la Russia sarà ricondotta all’ovile. In altri termini: l’Occidente non intende negoziare con la Russia fino a che Putin sarà alla sua testa.La risposta di Sochi è ora nettissima, un vero e proprio punto di non ritorno. Poggiato su alcuni pilastri. Il primo è l’idea che l’unità dell’Occidente è precaria. L’Europa non è compatta dietro l’America. Resta un partner, anche se si trova sotto costrizione. Lo dicono i numeri delle relazioni economiche e commerciali, oltre che la storia del dopoguerra. Questo è il primo pilastro. Potrebbe essere una scommessa che non si verificherà. Ma è un modo per tenere aperto un campo di manovra. Putin mostra di sapere perfettamente che la Russia che si trova tra le mani è incastonata in mille modi nel sistema occidentale. Anche nei suoi quattordici anni di potere, non solo in quelli elstsiniani, la Russia si è legata mani e piedi ai destini dell’Occidente. Dunque è vulnerabile e dovrà pagare prezzi salati, forse salatissimi. Qui Putin è con le spalle al muro, e dovrà dimostrare ai suoi cittadini che riesce a svincolarsene. Lo spazio potrà forse aprirsi come effetto della crisi politica di questa Europa.Lo sfaldamento della tenuta dei partiti politici tradizionali, quasi dovunque, mostra che ci possono essere altri interlocutori, oltre ai conservatori tradizionali, ormai avvinghiati alle sinistre socialdemocratiche, tutte emigrate oltre Oceano. L’Europa popolare va a destra, si muove in senso antieuropeo, antiamericano e antiglobalista, e converge sull’altro pilastro su cui Putin si appoggia: quello del patriottismo, del conservatorismo etico, dei valori tradizionali della famiglia, dell’educazione, del rispetto della memoria. La “famiglia europea” potrebbe cambiare di segno nei prossimi anni. E c’è un altro pilastro, ormai evidente: l’Oriente, la Cina, l’Iran, il resto del mondo. Verso quella direzione – andassero male i tentativi verso l’Occidente – guarderà l’aquila bifronte. Le sanzioni – dice Putin – non fermeranno questa Russia, che nelle parole di Putin appare vicina, risvegliata, compatta come non lo era da molti decenni.È una specie di preludio a un governo di salvezza nazionale, in cui entreranno forse i comunisti di Ziuganov, i liberal-democratici di Zhirinovskij, i nazionalisti di destra e di sinistra, saltando a piè pari le distinzioni europee-occidentali che in Russia hanno sempre contato poco. L’America di Obama, l’America che Mosca vede come in preda a una crisi senza ritorno (perché dopo Obama potrebbe venire il peggio, con una Hillary Clinton che vince le elezioni con il programma dei repubblicani più forsennati), non è più un partner. L’orso russo – proprio questo ha detto Putin – non intende uscire dal suo habitat. Non ha ambizioni espansive. Ma non è disposto a farsi sloggiare. Putin a questa conclusione è giunto. Questo è il suo piano di resistenza. Si tratta ora di vedere se è in condizione di reggerlo. E con un’America che gioca alla “o la va o la spacca”, sarà una partita dura. È dura quando entrambi i contendenti hanno le spalle al muro.(Giulietto Chiesa, “Il reset di Putin”, da “Megachip” del 26 ottobre 2014).A Sochi, nell’ottobre 2014, Putin ha “resettato” drasticamente il rapporto tra la sua Russia e Washington. Un discorso ben meditato, che sarebbe grave errore, per tutti, sottovalutare. Molto più forte, a tratti drammatico nella sua chiarezza, di quello da lui pronunciato a Monaco, nel 2007. Nei 14 anni del suo potere il presidente russo non si era mai spinto fino a questo punto. E si capisce il perché solo seguendo il suo ragionamento. Vediamo di quale reset si tratta. Fino all’altro ieri Putin era rimasto “dentro” lo schema del post guerra fredda. C’era rimasto sia perché non aveva scelte diverse da fare, sia perché – con ogni probabilità – a quello schema credeva e lo riteneva utile e realistico. La crisi era già visibile. La Russia ci stava dentro scomoda. Ma rimaneva l’intenzione di superarla, con il tempo, costruendo una nuova architettura della sicurezza mondiale assieme agli Stati Uniti. Per anni, dopo il crollo del Muro, la Russia ha dovuto sopportare molti “sgarbi”. È un eufemismo. In molti casi la parola giusta sarebbe schiaffi.
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Offsetting: finanziarizzare la natura per rapinare la Terra
Al confronto, la privatizzazione dell’acqua fa ridere. Lo chiamano “biodiversity offsetting” o “ecosystem offsetting”: è il nuovo trucco della finanza globale per mettere definitivamente le mani sugli ecosistemi. Tutto deve avere un prezzo, l’ambiente va comprato e venduto, trasformato in business. Finanziarizzazione della natura, istruzioni per l’uso. Energia, miniere, trasporti: le grandi opere devastano un’intera area? Niente paura, basta “quotare” il danno e trasferire il risarcimento altrove. Europa, istituzioni finanziarie e governi (Regno Unito in testa) premono per introdurre il concetto della “compensazione traslata” del danno ambientale, in particolare di habitat protetti e biodiversità. Se la “valutazione di impatto ambientale” punta a causare il minor danno possibile, il nuovo meccanismo non si cura più di salvare il territorio minacciato ma si limita a quantificare il danno. «Parallelamente, si sta creando un mercato di titoli collegati alla biodiversità e agli habitat naturali da avviare alla compravendita, come per qualsiasi altro titolo di investimento altamente speculativo», spiega Rebecca Rovoletto su “Democrazia Km Zero”.Una pratica simile a quella dei famigerati “crediti di carbonio”, che permette alle aziende responsabili del danno di dichiararsi “investitori nella protezione dell’ambiente”, con conseguente ritorno d’immagine e “greenwashing” dei loro prodotti e servizi. Così, la protezione dell’ambiente si trasforma in un sottoprodotto commerciale. «Il paradosso è che le più grandi aberrazioni in tema di ambiente vengono concepite proprio in occasione dei grandi vertici internazionali, spacciati per momenti di bilancio e autocritica, per ricercare soluzioni alle drammatiche emergenze dell’umanità e del pianeta». Già il Protocollo di Kyoto aveva sostenuto la logica dei “permessi di inquinamento” per il carbonio, ma il peggio è avvenuto nel giugno 2012 al vertice di Rio +20: la “Dichiarazione sul Capitale Naturale e sui Servizi resi da un ecosistema”, elaborata dalla grande finanza, sdogana ufficialmente il “mercato delle indulgenze ambientali”.Cibo, fibre, acqua, aria, salute, energia, sicurezza climatica: i beni e i servizi degli ecosistemi del “capitale naturale” ogni anno ammontano a trilioni di dollari. Sono fondamentali per la nostra sopravvivenza, anche se il loro immenso beneficio non è “registrato all’interno dei nostri sistemi economici”. Grosso problema, per chi non conosce altra misura che il denaro. Che il vero benessere non influisca sul Pil, ai “padroni dell’universo” non sta bene: non è “sostenibile”, letteralmente, il mancato conteggio – in soldoni – di tutto quanto ci è davvero indispensabile per vivere. «Non esiterei a paragonarla a una dichiarazione di guerra al pianeta e ai suoi abitanti», protesta Rebecca Rovoletto: la pretesa mercificazione finale dell’habitat «impone una sofisticata e sordida “anschluss” semantica», dove anche la natura viene assorbita dal mondo del mercato. «E questo sta avvenendo mentre ovunque nel mondo ci si batte per la difesa dei territori, per la sovranità alimentare e l’accesso alla terra, per il diritto alla gestione e tutela dei beni comuni naturali da parte delle comunità».Mentre sale la protesta dei movimenti sovranisti organizzati, coi contro-vertici di Bruxelles e Edimburgo, nel sistema globalizzato non c’è istituzione che non sostenga questa nuova, perversa visione: si va dall’Unesco al Wwf, che ha sottoscritto la Dichiarazione di Rio e «sposato questa falsa soluzione in un’ottica di investimento di capitali finanziari in alcune riserve protette, a discapito però di tutte le altre aree aggredite». Per Rovoletto, si aprono scenari inimmaginabili: «La natura è unica e complessa, è impossibile misurarne la biodiversità: allora chi e come stabilisce il valore di un ecosistema?». Alcuni ecosistemi hanno impiegato migliaia di anni per raggiungere il loro stato attuale: «Possono essere riproducibili? E che valore hanno i loro abitanti, umani e non umani? Che fine faranno la sussistenza, le economie, la cultura?». Attenzione: «La natura ha un ruolo sociale, spirituale e di sostegno per le comunità, che definiscono il proprio territorio sulla base di interrelazioni tradizionali con la terra: come si può pensare di sfollare intere comunità?».Per il mercato, tutto questo si traduce in un prezzo, «calcolato da discutibili software», con simulatori che conteggiano, al volo, i “crediti di natura”. Il “pallottoliere digitale” è destinato ai proprietari di terreni e foreste intenzionati a mettere all’asta, come “offset”, i loro tesori naturali: «Nasceranno istituti per certificare i valori degli habitat, società di rating per stabilire le classifiche degli investimenti più redditizi, broker e intermediari per un mercato dalle infinite e infernali potenzialità». I casi studiati, aggiunge “Democrazia Km Zero”, dimostrano come questa pratica incentivi lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali, minando ogni tipo di pianificazione “verde”: «La logica dell’offsetting della biodiversità separa le persone dall’ambiente e dai territori in cui vivono, marginalizzandole fino a minacciare lo stesso diritto alla vita».In Brasile, per esempio, il nuovo codice forestale permette ai proprietari di terre di distruggere i boschi contro l’acquisto di “certificati di riserve ambientali” emessi dallo Stato e commercializzati alla Borsa Verde di Rio, cioè, il “mercato di titoli verdi” creato di recente dal governo brasiliano. Si sta muovendo il super-potere mondiale, regista della disastrosa globalizzazione del pianeta: la Banca Mondiale e la Bei, Banca Europea per gli Investimenti, puntano a includere l’offsetting della biodiversità nei propri standard, «come strumento per “compensare” il danno permanente causato dalle grandi infrastrutture che queste stesse istituzioni finanziano». E mentre Londra sta cercando di introdurre l’offsetting nel proprio quadro normativo, «compromettendo l’iter decisionale democratico e indebolendo le voci delle comunità», in Francia fa scandalo il progetto aeroportuale di Notre Dame des Landes: l’agenzia Biotope ha ricalcolato il “valore” dell’ecosistema considerando le sue “funzioni” e non la sua estensione, così il maxi-costruttore Vinci dovrà provvedere all’offsetting di appena 600 ettari di zona umida, anziché 1.000.«Da 40 anni l’opposizione degli abitanti ha permesso di bloccare il progetto e ha messo in discussione lo schema di offsetting», ma ora la Commissione Europea sta intervenendo anche sul caso francese: attraverso la “strategia europea 2020 sulla biodiversità”, Bruxelles vuole dotarsi di una legislazione sull’offsetting che includa la creazione di una “banca degli habitat” per consentire l’offsetting di specie e habitat naturali all’interno dei confini europei. «Lo scopo è quello di annullare la “perdita netta” (no net loss) della biodiversità, obiettivo assolutamente diverso da quello precedentemente perseguito di garantire “nessuna perdita” (no loss)». E’ la stessa filosofia iper-liberista della Banca Mondiale, che ha finanziato il mega-progetto di estrazione mineraria di nichel e cobalto Weda Bay in Indonesia.L’azienda mineraria francese Eramet dichiara di coniugare “business e biodiversità”, dal nome dell’ambiguo progetto europeo che punta a raccogliere fondi anche dalla Banca Asiatica di Sviluppo, dalla Banca Giapponese per la Cooperazione Internazionale (Jpic) e dalle francesi Coface e Agenzia di sviluppo (Afd). L’impatto sulle persone e sul territorio? Enorme: infatti, «il progetto è contestato dalle comunità indonesiane e da organizzazioni della società civile internazionale». Per Rebecca Rovoletto, «è chiaro che ci troviamo di fronte a un giro di boa fondamentale nella folle corsa che sta sistematizzando il paradigma della finanziarizzazione globale della natura, all’interno del noto orizzonte sviluppista-speculativo e della retorica mistificante che si appella alla sostenibilità e alla salvaguardia, alla partecipazione e all’equità. Un paradigma dalle profonde implicazioni, queste sì, davvero eversive dell’ordine naturale del creato».Al confronto, la privatizzazione dell’acqua fa ridere. Lo chiamano “biodiversity offsetting” o “ecosystem offsetting”: è il nuovo trucco della finanza globale per mettere definitivamente le mani sugli ecosistemi. Tutto deve avere un prezzo, l’ambiente va comprato e venduto, trasformato in business. Finanziarizzazione della natura, istruzioni per l’uso. Energia, miniere, trasporti: le grandi opere devastano un’intera area? Niente paura, basta “quotare” il danno e trasferire il risarcimento altrove. Europa, istituzioni finanziarie e governi (Regno Unito in testa) premono per introdurre il concetto della “compensazione traslata” del danno ambientale, in particolare di habitat protetti e biodiversità. Se la “valutazione di impatto ambientale” punta a causare il minor danno possibile, il nuovo meccanismo non si cura più di salvare il territorio minacciato ma si limita a quantificare il danno. «Parallelamente, si sta creando un mercato di titoli collegati alla biodiversità e agli habitat naturali da avviare alla compravendita, come per qualsiasi altro titolo di investimento altamente speculativo», spiega Rebecca Rovoletto su “Democrazia Km Zero”.
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Api a rischio estinzione: in gioco il 90% del nostro cibo
Ora sappiamo esattamente cosa uccide le api: l’estinzione delle colonie di api in tutto il mondo non è un grande mistero come vorrebbero farci credere le aziende chimiche. Gli scienziati conoscono il problema: sanno che le api da miele stanno morendo per via dei pesticidi in agricoltura, della siccità, della distruzione del loro habitat naturale, del riscaldamento. I biologi, spiega Rex Weyler di “Greenpeace”, hanno trovato tracce di 150 diversi pesticidi chimici nel polline delle api, un cocktail mortale secondo Eric Mussen, apicoltore della University of California. Le aziende chimiche Bayer, Syngenta, Basf, Dow, DuPont e Monsanto hanno scrollato le spalle, come se il “mistero” fosse troppo complesso per essere decifrato. E comunque, «non hanno messo in atto alcun cambiamento in merito alle politiche sui pesticidi: dopotutto, la vendita di veleni a coltivatori in tutto il mondo è vantaggiosa». Come se non bastasse, l’habitat delle api selvatiche si riduce di anno in anno a causa dell’attività agroindustriale che distrugge praterie e foreste per lasciar spazio alle monocolture, contaminate dai veleni.
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Salvare il pianeta? Prima, salviamo il genere umano
È più facile rimettere in discussione i nostri sistemi di consumo piuttosto che quelli di produzione? Se nessuno più ignora l’ampiezza della crisi ambientale che l’umanità sta affrontando, la crisi di civiltà a cui questa si accompagna rimane poco conosciuta. Non si può tuttavia uscire dall’impotenza se non la si diagnostica e non se ne misura l’effettiva gravità. Il pianeta Terra, modo di dire per designare il nostro habitat naturale, peggiora a vista d’occhio, ne siamo largamente consapevoli e non c’è formazione politica che non includa, almeno nei suoi discorsi, la causa ecologica. Il pianeta Uomo, modo di dire per designare il genere umano, peggiora in maniera altrettanto allarmante, ma non si è consapevoli del livello di gravità raggiunto e non c’è formazione politica in grado non foss’altro di attribuire alla causa antropologica un’importanza pari a quella ecologica.
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Revelli: non crediate di piegare il popolo della val Susa
La gente della Val di Susa, domenica, ha fatto davvero un miracolo, nel senso etimologico del termine (dal latino mirari, come si dice di “cosa grande che meraviglia” o anche di “cosa grande e insperata”). Deludendo l’intero universo politico-mediatico che aveva spasmodicamente atteso l’incidente (e in buona misura l’aveva anche preparato) per mettere, una volta per tutte, una pietra sopra la Valle e la sua resistenza. Hanno costruito un capolavoro: un corteo di migliaia e migliaia di persone di ogni età e condizione, che si snoda per sentieri di montagna (credo che sia l’unica esperienza al mondo), tra castagneti e blocchi di polizia, aggirando barriere e tagliando reticolati in un ordine assoluto, senza un gesto o una parola fuori posto, senza l’aggressività e la volgarità che invadono il mondo politico, senza neanche un petardo acceso o una pietra lanciata.