Archivio del Tag ‘handicap’
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Il senso di Fedez per l’emergenza democratica italiana
Tempo di profeti, tatuati e non: dopo l’urgentissimo “ius soli” per riconoscere l’italianità dei figli degli stranieri emigrati (lo propone l’euro-vaticano Enrico Letta, quello di “Morire per Maastricht”), ecco il Ddl Zan “contro l’omofobia” rilanciato dal rapper-influencer Fedez direttamente dalla messa solenne del Primo Maggio, irrinunciabile palestra di democrazia televisiva, pagata dal canone Rai nelle bollette Enel e dunque per definizione inclusiva e non divisiva. Nel paese più felice del mondo, per giunta nel momento più felice della sua storia, ecco un altro tema-chiave su cui finalmente far crescere l’opinione pubblica, mobilitando un confronto entusiasmante, nella piena consapevolezza delle vere emergenze con le quali si sta attualmente confrontando il popolo italiano (o quel che ne resta, tra un decreto e l’altro). Nel pianeta-Covid, in cui ormai è obbligatorio specificare che chi parla non è un omicidia seriale, un terrorista “negazionista”, è addirittura increscioso dover premettere che ogni eventuale critica alla gestione polemica di certi temi avviene ovviamente a valle delle acquisizioni date per scontate: i diritti civili sono sacri, così com’è sacrosanto il contrasto di qualsiasi, odiosa discriminazione.
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Lockdown, medioevo nel 2021: i terrapiattisti del Covid
Uscire dal medioevo: lo chiedeva (in modo “gridato”) un giornalista come Paolo Barnard, co-fondatore di “Report”, almeno dieci anni fa. Nel saggio “Il più grande crimine”, denunciava il carattere neo-feudale dell’élite eurocratica ordoliberista, capace di coniugare neoliberismo economico e autoritarismo politico-sociale nell’adesione fanatica al dogma mercantilista dell’economia “neoclassica”, tra i fantasmi settecenteschi di David Ricardo (prima produco, poi risparmio: senza possibilità di investire a monte, scommettendo sull’economia), come se il denaro fosse ancora un bene materiale e limitato, paragonabile alle materie prime e ai prodotti agricoli come il grano. Al centro della polemica innescata da Barnard campeggiava la grande menzogna sulla “scarsità di moneta”, utilizzata (ormai in tempi di valuta “fiat”, virtualmente illimitata e a costo zero) da un oligopolio privatistico, pronto a imporre l’austerity per ottenere la più grande retrocessione sociale di massa della storia moderna: il debito pubblico come colpa e come handicap, non più interpretato in modo keynesiano come leva strategica destinata a produrre benessere diffuso attraverso investimenti lungimiranti.
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Dittatura: nella religione sanitaria, la mascherina è il burka
Da sei mesi siamo entrati nell’era globale della mascherina e non sappiamo quando ne usciremo. Siamo in pieno conflitto etico, epico ed estetico sul suo uso e il suo rifiuto. La contesa va al di là delle ragioni sanitarie e riguarda un modo di intendere la vita e i rapporti umani; è diventata infatti una questione politica, simbolica e ideologica. La battaglia per il suo uso o il suo rifiuto, nel nome della sicurezza o della libertà, lo scontro tra chi dice di non voler rischiare la salute e chi invece non vuol perdere la faccia, ha assunto ormai toni ideologici che vanno al di là della profilassi, dell’effettiva efficacia della mascherina e dei rischi di contagio. Per dirla con Giorgio Gaber la mascherina è di sinistra, il viso scoperto è di destra. Abbiamo sentito in questi mesi accusare di negazionismo irresponsabile e di fasciosovranismo smascherato coloro che ostentavano il rifiuto della mascherina. Trump, Bolsonaro, Johnson e da noi Salvini, Briatore, Sgarbi. In effetti nell’atteggiamento ribelle verso le mascherine c’è qualcosa d’intrepido e temerario che ricorda gli arditi e i fascisti, dal me ne frego al “vivi pericolosamente”; e c’è pure qualcosa di libertario e liberista che rifiuta lacci e lacciuoli, regole e bavagli.Un atteggiamento che in sintesi potremmo definire fascio-libertario. Il superuomo nietzscheano può accettare il distanziamento sociale, e perfino auspicarlo, anche se detesta l’imposizione; ma la mascherina no, è una schiavitù umiliante, una coercizione all’uniformità. Ma perché non cogliere pure sull’altro versante l’ideologia serpeggiante che unisce gli apologeti della mascherina, e il suo forte significato simbolico e metaforico, al di là del suo uso sanitario e della sua effettiva utilità? Per molti fautori della mascherina si tratta di qualcosa di più che una semplice profilassi; quasi un bisogno inconscio, una coperta di Linus, un istinto di gregge, il retaggio di un’ideologia. La mascherina è una livella ugualitaria e uniformatrice, la protesi della paura che accomuna la popolazione in semilibertà vigilata; la mascherina sfigura i volti e cancella le differenze in una specie di comunismo facciale, anche se esalta gli occhi e nasconde le brutture; genera isolamento pur restando in una prospettiva ospedaliero-collettivista, rende più difficile la comunicazione, evoca il bavaglio e la museruola, ha qualcosa di inevitabilmente angoscioso e orwelliano.Lo spettacolo di folle in mascherina sarà confortante per il senso civico-sanitario ma è deprimente, ha qualcosa di umanità addomesticata e impaurita, ridotta a silenzio e servitù dal terrore della malattia e dal relativo terrorismo sanitario. Ma non solo. Il politically correct è la mascherina ideologica per non vedere in faccia la realtà e non farsi contagiare dalla verità nuda e cruda. Quando non vuoi chiamare le persone, le cose, i comportamenti col loro vero nome ma li mascheri in un linguaggio paludato; quando correggi la realtà, la natura, la storia e l’esperienza con i canoni dell’ipocrisia e della rettificazione; quando copri le statue e i simboli della civiltà e della storia patria, nascondi i crocifissi, per non urtare la suscettibilità di qualcuno cosa fai se non costringere il mondo a indossare la mascherina? Se per tutelare le donne e i gay, i migranti e i rom, i disabili e i neri, devi mascherare il linguaggio, la vita reale, i rapporti umani, le forme espressive cosa fai se non calare una gigantesca mascherina sul mondo? Non conta più il mondo ma la sua rappresentazione, non il volto ma la maschera. Viviamo nel tempo mascherato.La mascherina è inevitabilmente associata al totalitarismo sanitario imposto nei mesi scorsi, con le sue restrizioni della libertà più elementari e dei diritti primari: la prigionia domestica, il coprifuoco e la segregazione precauzionale. La mascherina è come una prigione portatile, la gabbia da asporto o la prosecuzione del domicilio coatto con altri mezzi. Sul piano geoetnico la mascherina evoca altri mondi diversi dal nostro, italiano, europeo e occidentale; cancella la bellezza sfacciata dei volti che è stata la gloria della nostra arte figurativa, i ritratti, i sentimenti che si leggono in viso, l’umanità dei volti. Anche se persona in origine significa maschera, da noi la maschera ha una connotazione negativa o al più grottesca. Mascherato è il rapinatore, il killer o il carnevale. S’incappucciano gli ordini esoterici, le confraternite religiose.La mascherina è in uso nelle popolazioni asiatiche, i bavagli profilattici dei cinesi in fila e le protezioni sanitarie dei giapponesi da raffreddori e inquinamento. Ma evoca soprattutto i veli imposti dall’Islam alle donne, dal chador al burka. La mascherina è il burka della salute, perché la nostra è ormai una religione sanitaria. Il nuovo comandamento è ricordati di sanificare le feste. Poi c’è la realtà. Al di là della contesa simbolica e ideologica di cui è stata caricata la mascherina vale l’utilità pratica di indossarla, magari il minimo indispensabile, evitandola laddove siamo soli, nelle nostre auto o all’aperto, lontani da ogni assembramento. E cercando di ridurre al minimo il tempo di permanenza in luoghi o situazioni che la richiedono. Perché la mascherina non la sopportiamo, fisicamente e psicologicamente, ce ne vogliamo liberare il più presto possibile, e rifiutiamo l’ipotesi inquietante che il nostro futuro sia quello di vivere mascherati, in seguito a un osceno baratto, dopo quello tra convivialità e salute: la pelle in cambio della faccia.(Marcello Veneziani, “L’ideologia mascherata e il burka della salute”, dal numero 38 di “Panorama”, settembre 2020).Da sei mesi siamo entrati nell’era globale della mascherina e non sappiamo quando ne usciremo. Siamo in pieno conflitto etico, epico ed estetico sul suo uso e il suo rifiuto. La contesa va al di là delle ragioni sanitarie e riguarda un modo di intendere la vita e i rapporti umani; è diventata infatti una questione politica, simbolica e ideologica. La battaglia per il suo uso o il suo rifiuto, nel nome della sicurezza o della libertà, lo scontro tra chi dice di non voler rischiare la salute e chi invece non vuol perdere la faccia, ha assunto ormai toni ideologici che vanno al di là della profilassi, dell’effettiva efficacia della mascherina e dei rischi di contagio. Per dirla con Giorgio Gaber la mascherina è di sinistra, il viso scoperto è di destra. Abbiamo sentito in questi mesi accusare di negazionismo irresponsabile e di fasciosovranismo smascherato coloro che ostentavano il rifiuto della mascherina. Trump, Bolsonaro, Johnson e da noi Salvini, Briatore, Sgarbi. In effetti nell’atteggiamento ribelle verso le mascherine c’è qualcosa d’intrepido e temerario che ricorda gli arditi e i fascisti, dal me ne frego al “vivi pericolosamente”; e c’è pure qualcosa di libertario e liberista che rifiuta lacci e lacciuoli, regole e bavagli.
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Sale lo spread e arriva Draghi: soluzione pronta per l’Italia
«Se Mario Draghi ha accettato di incontrare Luigi Di Maio e l’ha autorizzato a rendere noto l’incontro non è perché gliel’ha chiesto Di Maio. Deve averglielo chiesto qualcuno di molto, ma molto più autorevole. E dunque qualcuno cui non si poteva dire di no. Per sentirsi chiedere dal capo grillino di sostituire presto Conte al vertice di un esecutivo di larghe intese, gestire per due anni l’emergenza della ripresa e poi essere nominato al Quirinale al posto dell’uscente Mattarella. Sarebbe un bel percorso». Questa la lettura che, sul “Sussidiario”, offre dell’ultimo round italo-europeo un giornalista di lunga esperienza come come Sergio Luciano, già responsabile delle pagine politico-economiche della “Stampa”, del “Sole 24 Ore” e di “Repubblica”. Punto di partenza, l’ennesimo pugno di mosche rimediato da Conte a Bruxelles. In primis, Luciano chiarisce un equivoco legato all’espressione Recovery Fund: «Letteralmente “recovery” significa recupero», e quindi «soldi che ci vengono dati per poi recuperarne la gran parte». Più prestito che dono, insomma. E dato che «i partner dell’Unione politica più sgangherata del mondo non hanno alcuna fiducia l’uno dell’altro, ecco che alcuni Stati, definiti frugali ma che tali non sono affatto, si sono di buon grado accollati il ruolo dei guastafeste».Paesi come l’Olanda di Mark Rutte, che assorbono immense risorse italiane grazie al dumping fiscale, «contrastano senza mezzi termini la pretesa italiana (e non solo) di poter prendere questi soldi senza dare alcuna garanzia sulle modalità attraverso le quali ciascuno Stato debitore può ragionevolmente impegnarsi a restituirli». Proprio l’Olanda, aggiunge Luciano, «è un vergognoso caso di paradiso fiscale infra-europeo, uno di quelli che se i Trattati fossero stati scritti con la testa e non con i piedi, avrebbe dovuto essere messo al bando o ricondotto a disciplina fiscale ordinaria». Ma tant’è: gli olandesi ci sono, restano, pesano e passano pure per frugali. In sostanza, Rutte dice che l’Italia deve impegnarsi con un piano di riforme serissimo, «tanto più severo quanto meno credibile è la buona volontà italiana di por mano agli handicap pluridecennali che stanno soffocando la nostra economia». E quindi un piano particolareggiato, da monitorare nel suo andamento. «Il governo italiano pretende di poter incassare l’abbondante fetta di Recovery Fund che ci spetterebbe, 172 miliardi su 750, senza prendere in cambio alcun impegno gestionale sull’economia». Gli olandesi, invece, ripetono che prima dobbiamo presentare riforme credibili, poi dimostrare di essere capaci di attuarle (e solo dopo saremo finanziati).Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, sta mediando. E ora, scrive sempre Luciano, ha proposto una cosa che sembra un assist al governo italiano. Cioè: ogni paese fa i piani che vuole e li presenta senza dover temere il “niet” degli altri. Strada facendo, i partner potranno controllare l’attuazione delle riforme nello Stato sotto indagine e, se necessario, bloccare l’erogazione dei fondi. «Insomma: luce verde per avere i soldi, luce rossa – se serve – qualora li spendessimo male». In realtà, aggiunge Luciano, il diavolo è nei dettagli: «A Bruxelles sanno perfettamente che l’Italia, accalappiata com’è in un nodo gordiano di ingestibile burocrazia, non sarà mai in grado di presentare un piano sostenibile. Quindi, per carità di patria, anzi di Unione, possono addivenire all’idea che sui piani non si va per il sottile e si sganciano i primi soldi, riservandosi però il diritto di chiudere i rubinetti quando sarà palese che le promesse della prima ora sono state vane».Nel frattempo, si fa notare la presidente della Bce, Christine Lagarde: «Ai giornalisti che le chiedevano se i modesti importi (relativamente modesti) che settimanalmente la banca centrale tramite le sue affiliate spende per rilevare Bond statali sono sufficienti, ha detto di sì. E se considera sufficienti importi che non riescono a ridurre sotto la soglia dei 170 punti base lo spread italiano – scrive ancora Luciano – vuol dire che si prepara a utilizzare la leva dello spread, lo spauracchio numero uno, per costringere l’Italia a rientrare ne ranghi. Ma con quale governo? Con questa compagine di sprovveduti? Improbabile». Per Luciano, «rimane una speranza e anche un’incognita», cioè il governo Draghi. Innescato dalla crisi dello spread come quello (nafasto) di Monti nel 2011, ma stavolta dal segno opposto: sempre dallo spread si partirebbe – questa è l’ipotesi – ma per invertire la rotta: sarebbe dunque Draghi il garante ideale, l’uomo giusto per convincere l’Ue a cambiare le regole. A fine marzo, l’ex capo della Bce mise le carte in tavola in un editoriale sul “Financial Times”: di fronte al Covid (cioè al lockdown) c’è solo una possibilità, e cioè finanziare gli Stati con miliardi da non restituire più. Sarà dunque lo spread manovrato dalla Lagarde a spingere Mattarella a licenziare Conte e invitare Draghi a Palazzo Chigi?«Se Mario Draghi ha accettato di incontrare Luigi Di Maio e l’ha autorizzato a rendere noto l’incontro non è perché gliel’ha chiesto Di Maio. Deve averglielo chiesto qualcuno di molto, ma molto più autorevole. E dunque qualcuno cui non si poteva dire di no. Per sentirsi chiedere dal capo grillino di sostituire presto Conte al vertice di un esecutivo di larghe intese, gestire per due anni l’emergenza della ripresa e poi essere nominato al Quirinale al posto dell’uscente Mattarella. Sarebbe un bel percorso». Questa la lettura che, sul “Sussidiario“, offre dell’ultimo round italo-europeo un giornalista di lunga esperienza come Sergio Luciano, già responsabile delle pagine politico-economiche della “Stampa”, del “Sole 24 Ore” e di “Repubblica”. Punto di partenza, l’ennesimo pugno di mosche rimediato da Conte a Bruxelles. In primis, Luciano chiarisce un equivoco legato all’espressione Recovery Fund: «Letteralmente “recovery” significa recupero», e quindi «soldi che ci vengono dati per poi recuperarne la gran parte». Più prestito che dono, insomma. E dato che «i partner dell’Unione politica più sgangherata del mondo non hanno alcuna fiducia l’uno dell’altro, ecco che alcuni Stati, definiti frugali ma che tali non sono affatto, si sono di buon grado accollati il ruolo dei guastafeste».
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Tv e 5 Stelle all’assalto: addosso a Salvini, Maglie e Le Iene
Solo poltiglia italiana, dopo l’effimera stagione delle promesse gialloverdi tenute in vita dalle parole della Lega e smentite dai tradimenti a catena dei pentastellati. Impietoso il riflesso nell’acquario mediatico, dove si scivola ogni giorno più in basso. Tanto per non smentirsi, piuttosto che guardare in faccia la realtà, i 5 Stelle (dilaniati da dissidi interni dopo l’alleanza col Pd imposta da Grillo d’intesa con Renzi) se la prendono coi giornalisti non allineati, come Maria Giovanna Maglie. Su Twitter, in risposta a una critica a Virginia Raggi, l’attivista Marco Vaccari apostrofa l’ex corrispondente della Rai: «Ma che ca*** stai dicendo, giornalaia? Roma fa schifo per colpa degli idioti fannulloni imboscati incapaci ladri mafiosi collusi che hanno preceduto la Raggi». La risposta della Maglie: «Metodo 5 Stelle doc, nessuna responsabilità per il presente, quando tocca a loro: sempre colpa degli altri. E insulti a gogo, minacce di manette». Quindi, rivolta a Vaccari: «Ehi, fenomeno, la Raggi è sindaco da giugno 2016». In tre anni, non ha fatto praticamente niente. Eppure accende ancora i cuori degli hoolingan alla festa – mestissima – che i 5 Stelle hanno abborracciato a Napoli, attorno al fantasma di Di Maio. Solo che i fan hanno acceso un principio di rissa all’apparire di Filippo Roma, de “Le Iene”, accolto come un mascalzone provocatore.Tuona Vittorio Sgarbi: «Fascisti, pericolosi, minacciosi: una aggressione fisica che non ha precedenti». Aggiunge Sgarbi, «Si minimizza la violenza fascista dei 5 Stelle, mentre l’episodio d’intolleranza verso Gad Lerner a Pontida è stato stigmatizzato da chiunque». Prima ancora, «per giorni si era parlato del figlio di Matteo Salvini sulla moto d’acqua della polizia», gridando allo scandalo. Oggi, invece, «incredibilmente», si tace sulle intemperanze dei grillini a Napoli. Nel frattempo, migliaia di italiani hanno sottoscritto la protesta di Marco Moiso (Movimento Roosevelt) affidata a “Change.org”: la giornalista de “La7” è accusata di aver trasformato “Otto e mezzo” in un poligono di tiro nel quale esercitare la propria faziosità a senso unico, anche ricorrendo al bullismo del “body shaming” contro Salvini, cui è stato contestato il fisico non esattamente palestrato. Peggio: la Gruber permise a Mario Monti di mentire spudoratamente sulla massoneria (“non so nemmeno cosa sia”), evitando peraltro di citare la fonte della notizia, Gioele Magaldi, che aveva appena dichiarato l’identità massonica di Monti (superloggia reazionaria “Babel Tower”).La notizia della petizione contro la Gruber, invitata ad abbandonare la conduzione della trasmissione, è stata ripresa da “Affari Italiani”, da “Blasting News” e anche da “Libero”, il quotidiano di Vittorio Feltri. Basta comunque cambiare canale per scoprire che, Gruber o meno, la musica è la stessa: la suona, su “Rai 2”, il duetto composto da Fabio Fazio e Rula Jebreal. Nello studio di “Che tempo che fa” aleggia sempre lo stesso spettro, quello di Matteo Salvini. «Nessuno nasce razzista, bisogna imparare ad essere razzisti e ad odiare», premette la giornalista. Aggiunge: la crisi economica non aiuta le famiglie a essere generose coi migranti. Poi spara: «Purtroppo siamo ancora vittime della propaganda xenofoba di questi soggetti che utilizzano la retorica degli anni ‘20 e anni ‘30». A Napoli, i grillini insultano e minacciano l’inviato delle “Iene”, ma a tener banco da Fazio sono ancora le offese rivolte a Gad Lerner dai leghisti di Pontida. «Lui è un italiano ma di religione ebraica, quello che è successo – dice Rula – ti fa capire che la divisione non sarà solo contro l’immigrazione ma anche contro chi come te critica i sovranisti, contro chi come me ha la pelle diversa, magari contro omosessuali, handicappati e altro». Nientemeno.Quello che Fazio e la sua ospite si dimenticano di dire è che Lerner, come ricordato dallo stesso Salvini intervistato dalla Gruber, si augurò per iscritto la morte del leader leghista. Una battuta veramente infelice: peccato che Salvini non fosse nei paraggi, scrisse Lerner giorni fa, commentando l’esplosione incidentale di un missile russo. «Non è carino, che qualcuno si auguri la tua morte», ha scandito Salvini, dalla Gruber. «Chiederò scusa a Lerner per quello che è accaduto a Pontida dopo che Lerner avrà chiesto scusa a me per essersi augurato la mia morte». Questo è il tenore della narrazione giornalistica sulla politica italiana, mentre i carri armati di Erdogan marciano sul Kurdistan siriano e “l’Europa” fa scena muta, insieme alla Nato. Non solo: Bruxelles fa capire che, al di là delle promesse, non accetterà facilmente di accogliere migranti sbarcati in Italia. E mentre il governo giallorosso avvia l’ennesima, penosa lotteria per racimolare spiccioli e gestire il declino italiano a suon di tasse, Giuseppe Conte è nella bufera per il sospetto che abbia abusato dei servizi segreti per fare un favore a Trump. L’orizzonte epocale del nostro paese? Ovvio, le elezioni regionali in Umbria: Perugia, caput mundi.Solo poltiglia italiana, dopo l’effimera stagione delle promesse gialloverdi tenute in vita dalle parole della Lega e smentite dai tradimenti a catena dei pentastellati. Impietoso il riflesso nell’acquario mediatico, dove si scivola ogni giorno più in basso. Tanto per non smentirsi, piuttosto che guardare in faccia la realtà, i 5 Stelle (dilaniati da dissidi interni dopo l’alleanza col Pd imposta da Grillo d’intesa con Renzi) se la prendono coi giornalisti non allineati, come Maria Giovanna Maglie. Su Twitter, in risposta a una critica a Virginia Raggi, l’attivista Marco Vaccari apostrofa l’ex corrispondente della Rai: «Ma che ca*** stai dicendo, giornalaia? Roma fa schifo per colpa degli idioti fannulloni imboscati incapaci ladri mafiosi collusi che hanno preceduto la Raggi». La risposta della Maglie: «Metodo 5 Stelle doc, nessuna responsabilità per il presente, quando tocca a loro: sempre colpa degli altri. E insulti a gogo, minacce di manette». Quindi, rivolta a Vaccari: «Ehi, fenomeno, la Raggi è sindaco da giugno 2016». In tre anni, non ha fatto praticamente niente. Eppure accende ancora i cuori degli hoolingan alla festa – mestissima – che i 5 Stelle hanno abborracciato a Napoli, attorno al fantasma di Di Maio. Solo che i fan hanno acceso un principio di rissa all’apparire di Filippo Roma, de “Le Iene”, accolto come un mascalzone provocatore.
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Presunta superiorità morale, la mafia del politically correct
Il politically correct è la pretesa di dire agli altri come devono essere, cosa devono dire, come devono comportarsi. Presuppone dunque un punto di superiorità di chi giudica. Il politically correct è poi una lente ideologica che altera la vista di uomini, idee e cose secondo un pregiudizio indiscusso e indiscutibile, assunto a priori come porta della verità, del bene e del progresso. Nasce dalla convinzione che tutto ciò che proviene dal passato sia falso e superato. La realtà, la natura, la famiglia, la storia, la civiltà come l’avete finora conosciute, vissute e denominate, sono sbagliate, vanno ridefinite e corrette. Così nasce il politically correct, questo busto ortopedico applicato alla mente e alla vita. Il politicamente corretto è il moralismo in assenza di morale, il razzismo etico in assenza di etica, il bigottismo clericale in assenza di religione. Il politically correct è il rococò della rivoluzione, come la posa residua del caffè. Non riuscendo a cambiare il mondo, si cambiano le parole. Il linguaggio politicamente corretto è lessico bollito e condito con la mostarda umanitaria. Inoltre è oicofobia, dice Roger Scruton, è rifiuto della casa, primato dell’estraneo e dello straniero sul nostrano e sul connazionale. E, infine, è riduzionismo: la varietà del mondo e dei suoi problemi è ridotta all’ossessione su due-tre temi.Dove nasce il politically correct? La prima risposta è in America, laboratorio globale del futuro e capitale mondiale dell’Impero dei segni. È famoso il saggio di Robert Hughes (un australiano, peraltro), “La cultura del piagnisteo” (Adelphi), sul bigottismo progressista. Prima di lui Tom Wolfe denunciò già nel 1970 l’artefice del politically correct, il radical chic. Un testo importante sul vizio progressista è “La chiusura della mente americana” di Allan Bloom. E potremmo citarne altri. Ma non si esaurisce negli States la matrice del politically correct. Qualcosa del genere ha serpeggiato nel Nord Europa, nelle socialdemocrazie scandinave, elette per decenni a modello progressista di emancipazione. La Svezia è la sua vera patria, sostiene Jonathan Friedman in “Politicamente corretto” (ed. Meltemi). L’autore è stato toccato da vicino, perché sua moglie, ricercatrice, fu accusata di razzismo solo perché ha documentato, dati alla mano e analisi rigorose, che in Svezia è stato un fallimento il multiculturalismo e la politica di accoglienza dell’immigrazione.Ma il P.C. non nasce in un luogo bensì in un’epoca: nasce sulle ceneri del ’68, diventa il catechismo adulto di quelli che da ragazzi furono iconoclasti. Dopo aver processato l’ipocrisia del linguaggio cristiano-borghese e autoritario-patriottardo, gli ex-sessantottini adottarono quel nuovo lessico ipocrita e quel galateo manierista. Dal perbenismo al perbuonismo. Il politically correct nasce quando finisce l’effetto del marxismo, tramonta l’idea di rivoluzione, si perdono i riferimenti mondiali del comunismo. Lo spirito liberal e radical rifluiscono nel codice progressista globale. Si passa dall’Intellettuale Collettivo al Demente Collettivo, il conformista dai riflessi condizionati; il comunista si fa luogocomunista, giudica per stereotipi prefabbricati, riscrive la storia, il pensiero e i sentimenti ad usum cretini. C’è una ricca letteratura che denuncia il politically correct: l’ultimo è “Politicamente corretto” di Eugenio Capozzi (ed. Marsilio), che lo ritiene l’erede di tutti i progressismi.Per passare la censura del politically correct è necessaria la presenza di almeno uno o più ingredienti d’obbligo di ogni narrazione, reportage o fiction: il nero, il migrante, il Rom, l’omosessuale, la femminista, il disabile e l’ebreo. Sempre vittime o eroi, comunque personaggi positivi per definizione in ogni storia o trama. La ditta del politicamente corretto fabbrica pregiudizi seriali, in dosi liofilizzate; la loro applicazione esime dal ragionare, risparmia la fatica del giudizio critico. E infonde a chi lo usa una sensazione di benessere etico, una presunzione di superiorità sugli altri. Quando ci libereremo da questa cappa, da questa cupola ideologico-mafiosa? E qui il problema si sposta nell’altro campo: l’assenza di alternative, la mancata elaborazione di strategie, culture e linguaggi, il silenzio e la rassegnazione. Dopo il rigetto, urge il progetto.(Marcello Veneziani, estratto da “La nausea per un mondo ‘corretto’”, da “La Verità” del 28 febbraio 2019, articolo ripreso sul blog di Veneziani).Il politically correct è la pretesa di dire agli altri come devono essere, cosa devono dire, come devono comportarsi. Presuppone dunque un punto di superiorità di chi giudica. Il politically correct è poi una lente ideologica che altera la vista di uomini, idee e cose secondo un pregiudizio indiscusso e indiscutibile, assunto a priori come porta della verità, del bene e del progresso. Nasce dalla convinzione che tutto ciò che proviene dal passato sia falso e superato. La realtà, la natura, la famiglia, la storia, la civiltà come l’avete finora conosciute, vissute e denominate, sono sbagliate, vanno ridefinite e corrette. Così nasce il politically correct, questo busto ortopedico applicato alla mente e alla vita. Il politicamente corretto è il moralismo in assenza di morale, il razzismo etico in assenza di etica, il bigottismo clericale in assenza di religione. Il politically correct è il rococò della rivoluzione, come la posa residua del caffè. Non riuscendo a cambiare il mondo, si cambiano le parole. Il linguaggio politicamente corretto è lessico bollito e condito con la mostarda umanitaria. Inoltre è oicofobia, dice Roger Scruton, è rifiuto della casa, primato dell’estraneo e dello straniero sul nostrano e sul connazionale. E, infine, è riduzionismo: la varietà del mondo e dei suoi problemi è ridotta all’ossessione su due-tre temi.
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E’ andata a casa con il negro, la troia. Al rogo pure Vasco?
Chissà cosa direbbe oggi la cosiddetta società civile se un Tiziano Ferro qualunque o Laura Pausini usassero lo stesso frasario di Vasco Rossi nella sua celebre canzone “Colpa d’Alfredo”: «L’ho vista uscire mano nella mano con quell’africano che non parla neanche bene l’italiano». Urlava così, Vasco Rossi, al live Modena Park del 2017. E i giovani di oggi – italiani bianchi, neri, omosessuali, eterosessuali, cattolici, musulmani e atei – erano sotto il palco a braccia tese verso il loro idolo, pronti a cantare a squarciagola col Blasco e a spellarsi le mani dagli applausi. Nessuno ha pensato che ad un certo punto Vasco dice che «è andata a casa con il negro, la troia»: roba che se ti provi a scriverla oggi su Facebook il sistema ti banna fino all’età della pensione (cioè per sempre). E’ il politicamente corretto, bellezza. Peccato che il moralismo mainstream il razzismo non solo non lo distrugga affatto, ma che addirittura lo crei. In che senso, il politicamente corretto crea razzismo?Leggiamo su Wikipedia (sì, lo so, abbiate pazienza) che «l’espressione “politicamente corretto” designa una linea di opinione e un atteggiamento sociale di estrema attenzione al rispetto generale, soprattutto nel rifuggire l’offesa verso determinate categorie di persone. L’opinione, comunque espressa, che voglia aspirare alla correttezza politica dovrà perciò apparire chiaramente libera, nella forma e nella sostanza, da ogni tipo di pregiudizio razziale etnico, religioso, ecc». Qui siamo alle semplici definizioni online, e a prima vista sembra tutto ok. Assolutamente condivisibile. Però a ben pensarci, anche nella mera definizione, c’è qualcosa che stride, dato che si parla di pregiudizio, cioè di un giudizio espresso verso una persona o una categoria di persone prima di conoscerle. Già in questo assunto c’è qualcosa che non torna. Se in ufficio volessi dire che quell’ascensore è troppo stretto per la sedia a rotelle del mio amico disabile, non lo potrei oggi fare perchè il politicamente corrretto vuole l’espressione “diversamente abile”. Anzi, meglio sarebbe non dire proprio niente: l’ideale sarebbe far riferimento a un amico impossibilitato a salire in ascensore a causa della sua sedia a rotelle. Punto.Il che, però, non aiuta alla piena comprensione dei miei interlocutori, perchè potrebbe trattarsi di una situazione momentanea (un amico che ha appena subito un intervento chirurgico e che starà sulla sedia a rotelle per qualche giorno, ad esempio). Mentre io, nel far riferimento all’handicap, chiarisco meglio con la parola “disabile” o “handicappato”: cosa c’entra il pregiudizio? Non è forse vero che l’amico cui faccio riferimento si trova in una situazione di menomazione fisica? Nel caso del razzismo, i danni del politicamente corretto sono ancora più evidenti. Se, ad esempio, un passante di origine subsahariana assiste a un incidente stradale, e la polizia che sta eseguendo i rilievi chiede se ci sono dei testimoni, gli interessati si possono trovare in imbarazzo a dire: «Sì, un negro ha visto tutto» (ma anche solo un “nero”, o persino un “signore di colore”). Il politicamente corretto impone che si dica “un signore”, ma questo impedisce in gran parte la comprensione, e impedirebbe persino ai poliziotti di rintracciare il testimone, se egli si trovasse tra una folla di curiosi “bianchi” che assistono alla scena dopo l’intervento della polizia.Il razzismo nasce oggi quando, obbligati dal linguaggio imposto, noi contraddiciamo l’evidenza empirica (un nero per il senso della vista è nero, un disabile è disabile, ecc. ecc.). Da qui la necessità – vietata socialmente – di marcare la distinzione si rafforza a livello inconscio. In altri termini se, di fronte a persone di colore devo stare attento a come parlo, questo finisce per rimarcare, inconsciamente, che quelle persone sono diverse. Nella canzone di Vasco, noi ragazzini degli anni Ottanta ci riconoscevamo perché, chi più chi meno, tutti soffrivavamo di un certo provincialismo. Ne facevamo parte, ma non lo amavamo. Vasco cantava in modo arrabbiato e triste le delusioni d’amore e la superficialità dei coetanei (in questo caso, di una coetanea) che apprezzavano solo chi aveva un determinato stile di vita (la bella macchina). C’entrava un beato beeep il fatto che l’antagonista fosse “nero”; ehm, anzi no, “di colore”, anzi no, “afroitaliano”. Urca: che ho detto? “Un signore”.Secondo il filosofo e psicologo sloveno Slavoj Zizek, se qui in Occidente volessimo davvero sconfiggere il razzismo, il primo passo sarebbe farla finita con questo processo politicamente corretto di auto-colpevolizzazione. L’Occidente ha una tendenza a colpevolizzarsi: dopo essere stati i dominatori del terzo mondo, oggi possiamo ancora esserne i padri moralisti. Se un paese del terzo mondo si macchia di terribili crimini, non è mai pienamente sua responsabilità: sta soltanto imitando quello che faceva il padrone coloniale, ecc. La logica del politicamente corretto attiva quei meccanismi che possiamo chiamare di “sensibilità delegata”, spesso secondo questa linea di argomentazione: «Non mi urtano i discorsi sessisti o razzisti o di odio, o chi si prende gioco delle minoranze, ma io parlo a nome di quelli che potrebbero essere offesi da quelle parole».Il punto di vista è quindi quello di questi “altri” che, viene dato per scontato, sono così ingenui e indifesi da aver bisogno di protezione perché non capiscono l’ironia o non sono in condizione di rispondere agli attacchi. Detto in modo ancora diverso, secondo Zizek noi abbiamo maturato una sensibilità da preti e la proiettiamo su un “altro” ingenuo, producendo così una sua infantilizzazione. Il che è come dire che ci riteniamo ancora superiori e che dobbiamo proteggere i nostri concittadini, amici, compagni, mogli, mariti, figli adottivi e non adottivi, colleghi di lavoro che, magari, sono neri perchè da soli non ce la farebbero. E perchè non ce la farebbero? Perché non sono bianchi.(Massimo Bordin, “E’ andata a casa con il negro, la troia”, dal blog “Micidial” del 4 ottobre 2018).Chissà cosa direbbe oggi la cosiddetta società civile se un Tiziano Ferro qualunque o Laura Pausini usassero lo stesso frasario di Vasco Rossi nella sua celebre canzone “Colpa d’Alfredo”: «L’ho vista uscire mano nella mano con quell’africano che non parla neanche bene l’italiano». Urlava così, Vasco Rossi, al live Modena Park del 2017. E i giovani di oggi – italiani bianchi, neri, omosessuali, eterosessuali, cattolici, musulmani e atei – erano sotto il palco a braccia tese verso il loro idolo, pronti a cantare a squarciagola col Blasco e a spellarsi le mani dagli applausi. Nessuno ha pensato che ad un certo punto Vasco dice che «è andata a casa con il negro, la troia»: roba che se ti provi a scriverla oggi su Facebook il sistema ti banna fino all’età della pensione (cioè per sempre). E’ il politicamente corretto, bellezza. Peccato che il moralismo mainstream il razzismo non solo non lo distrugga affatto, ma che addirittura lo crei. In che senso, il politicamente corretto crea razzismo?
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“L’Italia sotto iettatura, l’arma segreta dei mass-merda”
L’arma segreta che i Mass merda stanno usando contro il governo gialloverde è la iettatura. È un continuo invocare disgrazie, annunciare tragedie, prevedere catastrofi e fughe dall’Italia. Hanno capito che l’unica carta da giocarsi contro l’opinione pubblica vincente è suscitare l’antico disfattismo nazionale. Da un po’ di tempo l’Italia è diventata un paese leopardiano. Non per sensibilità poetica, letteraria e filosofica, ma per pessimismo economico, sociale e vitale. C’è un rapporto sugli indici di prosperità che ci vede agli ultimi posti nel mondo in fatto di aspettative e fiducia. Vediamo nero, come l’Africa. Il nostro vero premier non è Giuseppe Conte o chi ne fa le veci, ma il Gatto Nero e ogni volta che ci attraversa la strada sono dolori. Il nostro vero Presidente della Repubblica non è Mortarella ma lo Iettatore, e a ogni occhiata di sbieco che getta sul paese accadono catastrofi. Oscilliamo tra il dark e il noir. Un tempo, diceva il Censis, ci sviluppavamo a macchie di leopardo, ora la macchia è unica e il leopardismo è totale.Avessimo almeno preso da Leopardi, nel senso del “giovane favoloso”, la vena poetica, l’ispirazione profonda, la sofferenza sublimata in canto. Macché, abbiamo solo il suo pessimismo e l’Italia si è ingobbita come lui, che a Napoli chiamavano o’Scartellato. Ma nella smorfia e nella vita il gobbo almeno portava fortuna ed era raffigurato con un curniciello. Invece il nostro leopardismo è solo funesto e lagnoso, ha perso pure il pregio fortunoso della gobba e si capovolge in iella e auto-sfiga. A questo punto la nostra ultima carta da giocare è mutare l’handicap in risorsa e, per restare in letteratura con Pirandello, farci riconoscere la patente internazionale di iettatori, in modo da intimorire chi vuole infliggerci procedure d’infrazione, retrocederci o cacciarci dall’Europa. Non trattateci male, altrimenti vi guardiamo di malocchio.(Marcello Veneziani, “L’Italia sotto iettatura”, dal quotidiano romano “Il Tempo” del 20 settembre 2018, post ripresso dal dito di Veneziani. Giornalista, saggista e intellettuale, laureato in filosofia, Veneziani ha lavorato al “Tempo” e al “Giornale”, collaborando anche il “Messaggero”, “Repubblica”, la “Stampa”, il “Secolo d’Italia”, “L’Espresso”, “Panorama”, il “Mattino”, la “Nazione”, il “Resto del Carlino”, il “Giorno” e la “Gazzetta del Mezzogiorno”. Redattore del Giornale Radio Rai di mezzanotte, da vent’anni collabora come commentatore della Rai. Il sodalizio con Vittorio Feltri, iniziato con “L’Indipendente” e con “Il Giornale”, è proseguito con “Libero”. Veneziani è stato membro del Cda della Rai durante la XIV Legislatura e membro del consiglio di amministrazione di Cinecittà).L’arma segreta che i Mass merda stanno usando contro il governo gialloverde è la iettatura. È un continuo invocare disgrazie, annunciare tragedie, prevedere catastrofi e fughe dall’Italia. Hanno capito che l’unica carta da giocarsi contro l’opinione pubblica vincente è suscitare l’antico disfattismo nazionale. Da un po’ di tempo l’Italia è diventata un paese leopardiano. Non per sensibilità poetica, letteraria e filosofica, ma per pessimismo economico, sociale e vitale. C’è un rapporto sugli indici di prosperità che ci vede agli ultimi posti nel mondo in fatto di aspettative e fiducia. Vediamo nero, come l’Africa. Il nostro vero premier non è Giuseppe Conte o chi ne fa le veci, ma il Gatto Nero e ogni volta che ci attraversa la strada sono dolori. Il nostro vero Presidente della Repubblica non è Mortarella ma lo Iettatore, e a ogni occhiata di sbieco che getta sul paese accadono catastrofi. Oscilliamo tra il dark e il noir. Un tempo, diceva il Censis, ci sviluppavamo a macchie di leopardo, ora la macchia è unica e il leopardismo è totale.
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Giannuli: Di Maio, neoliberismo populista funzionale all’élite
Può sembrare un paradosso, ma il Movimento 5 Stelle è quello che sta messo peggio di tutti: in politica, contrariamente a quel che si crede, gestire i successi è molto più difficile che gestire le sconfitte. Secondo il politologo Aldo Giannuli, storico dell’unviersità di Milano, la cosa migliore per i grillini sarebbe «un governo di centrodestra appoggiato dal Pd». Stando all’opposizione, l’anno prossimo alle europee il M5S «supererebbe il 40%». Attenti al successo, dunque, che prepara i peggiori scivoloni: «Le vittorie spesso ingenerano sicurezze malfide». Il giorno dopo il voto, il vincitore infatti si sente dire: bene, a adesso fammi vedere quello che sai fare. In campagna elettorale, Giannuli ammette di esser stato «molto morbido», con i 5 Stelle, evitando di dire tutto quello che pensava. Oggi che elezioni sono ormai alle spalle, afferma di poter parlare «senza peli sulla lingua». Non che non le avesse espresse, Giannuli, le sue perplessità. Ora, semplicemente, ci torna sopra in modo più marcato. A cominciare dall’analisi del programma pentastellato: «Era molto poco tranquillizzante», sia in quanto «accozzaglia di luoghi comuni e proposte da bar dello sport», sia perché «era debolissimo su punti decisivi come la politica estera, le politiche sul lavoro», ma anche «la questione del debito pubblico». Grande imputato: il neoliberismo, presente nell’agenda grillina in salsa populista.«Aleggiava un certo odore neoliberista, che poi Di Maio provvedeva ad amplificare con dichiarazioni del tipo “dobbiamo metterci in testa che i governi devono accettare l’andamento dei mercati finanziari senza pretendere di influenzarli” o giù di lì». Il che, aggiunge Giannuli nel suo blog, «fa pensare che se il Pd (riposi in pace) fu la “socialdemocrazia neoliberista”, il M5S si candida ad essere il “populismo neoliberista”». E la scelta dei ministri, aggiunge il politologo, conferma purtroppo questa impressione. «I tre ministri dell’economia vengono dipinti come keynesiani o neo-keynesiani e si invocano le ombre di Krugman e di Stiglitz, ma sia l’uno che l’altro sono sostanzialmente dei neoliberisti che cercano di innestare quote di keynesismo nel neoliberismo, e non sono affatto fautori del superamento di questo sistema». Sempre che un governo Di Maio poi effettivamente nasca, continua Giannuli, staremo vedere come Fioramonti «pensa di abbattere del 40% il debito pubblico in 10 anni, di dare il reddito minimo di cittadinanza (che peraltro è una ricetta neoliberista), e di abbattere la pressione fiscale. Non è che le promesse son state troppe?». E poi, come ci si regola con l’Europa e con gli apparati ministeriali italiani?Quanto alla squadra di governo, Giannuli teme ci siano troppi “tecnici” (e di dubbia competenza), che farebbero tremendamente somigliare l’esecutivo Di Maio «ad un governo Monti in carta 5 Stelle» (Gioele Magaldi l’ha definito «un governo Monti senza Monti»). E al di là degli aspetti di linea politica, Giannuli ricorda che il Movimento 5 Stelle ha una serie di gravi handicap nel suo modello organizzativo: «Il debolissimo radicamento territoriale, il carattere di movimento di opinione assai volatile e il forte rischio di essere “scalato”», visti i meccanismi di selezione dei candidati: «Se il “controllo di qualità” è quello che abbiamo visto, la prossima volta nelle liste ci troviamo Dracula e Jack lo Squartatore!». Tutte cose che, per Giannuli, «minacciano la statica del Movimento, anzi del partito, che tale è al di là dei nominalismi». Un raggruppamento fortissimo sul piano elettorale ma assai fragile su quello politico. E quel che è peggio, con le idee tutt’altro che chiare sulla politica economica. Grosso rischio: l’entusiasmo degli elettori – 11 milioni di italiani, un votante su tre – potrebbe rapidamente trasformarsi in delusione, e quindi in rabbia. In altre parole: la vittoria è insidiosa, va maneggiata con cura.Può sembrare un paradosso, ma il Movimento 5 Stelle è quello che sta messo peggio di tutti: in politica, contrariamente a quel che si crede, gestire i successi è molto più difficile che gestire le sconfitte. Secondo il politologo Aldo Giannuli, storico dell’unviersità di Milano, la cosa migliore per i grillini sarebbe «un governo di centrodestra appoggiato dal Pd». Stando all’opposizione, l’anno prossimo alle europee il M5S «supererebbe il 40%». Attenti al successo, dunque, che prepara i peggiori scivoloni: «Le vittorie spesso ingenerano sicurezze malfide». Il giorno dopo il voto, il vincitore infatti si sente dire: bene, a adesso fammi vedere quello che sai fare. In campagna elettorale, Giannuli ammette di esser stato «molto morbido», con i 5 Stelle, evitando di dire tutto quello che pensava. Oggi che elezioni sono ormai alle spalle, afferma di poter parlare «senza peli sulla lingua». Non che non le avesse espresse, Giannuli, le sue perplessità. Ora, semplicemente, ci torna sopra in modo più marcato. A cominciare dall’analisi del programma pentastellato: «Era molto poco tranquillizzante», sia in quanto «accozzaglia di luoghi comuni e proposte da bar dello sport», sia perché «era debolissimo su punti decisivi come la politica estera, le politiche sul lavoro», ma anche «la questione del debito pubblico». Grande imputato: il neoliberismo, presente nell’agenda grillina in salsa populista.
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Mediocrità e ipocrisia nell’Italia di Renzi alla Casa Bianca
Mi è capitata fra le mani una foto dei cosiddetti “italiani eccellenti” portati da Matteo Renzi la scorsa settimana alla Casa Bianca. Costoro, secondo la scelta del nostro primo ministro, dovrebbero rappresentare il meglio dell’Italia. Roberto Benigni: un traditore del cinema a doppia mandata. Prima volta traditore, perché ha rubato l’idea di “La vita è bella” ad un suo collega, il regista rumeno Radu Mihaileanu. Mihaileanu aveva mandato a Benigni la sceneggiatura del suo film, “Train de vie”, chiedendogli di fare il protagonista. Benigni finse di non essere interessato, solo per correre di nascosto a scrivere il suo film, “La vita è bella”, con il quale avrebbe vinto l’Oscar. Le trame dei due film sono diverse, ma l’idea di ambientare un film comico sullo sfondo dell’Olocausto è identica. Seconda volta traditore, perchè mentre il film di Mihaileanu finisce – giustamente – con il protagonista dietro al filo spinato di Auschwitz, quello di Benigni finisce in modo antistorico, con un happy end del tutto improbabile che strizza l’occhio ai poteri forti di Hollywood: quando mai un ragazzino esce vivo da una Auschwitz liberata dagli americani, solo per incontrare la sua mamma che lo aspetta sorridente sotto un albero?Nemmeno negli spot del Mulino Bianco succedono queste cose. Ma, lo sappiamo tutti, pur di vincere un Oscar c’è anche chi è disposto a stravolgere il senso della Storia. Beatrice Vio: lo sport paraolimpico è una triste invenzione dei tempi del politically correct: da una parte il mondo delle persone normali, che si ripuliscono dai sensi di colpa verso gli handicappati inventando delle Olimpiadi fatte su misura per loro. Dall’altra questi handicappati, vittime designate di questa catarsi collettiva, nella quale si finge di esaltarsi per imprese sportive che sono tali solo nei parametri del nostro relativismo sociale. Le paraolimpiadi sono il festival dell’ipocrisia collettiva, e i loro eroi non sono che il trofeo sociale di questa ipocrisia. Giusy Nicolini: il sindaco di Lampedusa è un esempio innegabile di altruismo, generosità e profondo senso civico. Ma Giusy Nicolini è soltanto la sottile foglia di fico che nasconde, proprio grazie alla sua generosità, una tragedia infinita sia dal punto di vista umano che da quello politico. La tragedia di un sistema – la cosiddetta civiltà occidentale – che da una parte porta guerre d’invasione in tutto il mondo, e dall’altra è assolutamente incapace di gestire i risultati catastrofici che queste guerre vengono a creare.Di Paolo Sorrentino so poco (“E ci sarà un motivo”, direbbero Aldo Giovanni e Giacomo). So solo che ha fatto un film mediocre, con il quale è riuscito inspiegabilmente a vincere un Oscar. Forse gli americani hanno creduto di trovarsi di fronte ad un nuovo “La dolce vita”, ma sta di fatto che nessun critico italiano, per quanto venduto possa essere, è riuscito a gridare al capolavoro. Sorrentino è il classico emblema della mediocrità elevata ad eccellenza per semplice mancanza di talenti reali. Raffaele Cantone: il famoso magistrato incaricato da Renzi di combattere corruzione, mafia e clientelismo nel nostro paese. Finge di beccare qualcuno ogni tanto, spara sentenze feroci (ma innocue) contro i corrotti, mentre in realtà si presta volentieri a fare da emblema di un’Italia che finge di combattere i propri mali, quando questi stessi mali vengono alimentati da scelte politiche decisamente ambigue, come ad esempio i continui condoni per gli evasori fiscali.Giorgio Armani: “Re Giorgio” è sicuramente un’eccellenza di valore assoluto. Ma eccellenza di che cosa, se non dell’effimero? Che cosa rappresenta l’alta moda, in un mondo di 6 miliardi di persone nel quale cinque e mezzo di loro fanno la fame, se non il trionfo dell’élite a discapito di tutti gli altri? Celebrare un uomo che ha costruito un impero basato sull’apparenza invece che sulla sostanza significa in fondo celebrare l’effimero al posto del reale, l’inutile al posto dell’utile, la stupidità al posto dell’intelligenza. Con questa squadra di persone (e pochi altri) il nostro premier ha pensato bene di andare a rappresentare l’Italia alla Casa Bianca. Qualcuno potrebbe domandarsi, a questo punto, perché non abbia scelto di portare invece un tornitore della Breda in cassa integrazione, un agricoltore del Salento che lavora sottocosto, o un disoccupato del Lodigiano costretto a dormire in macchina con tutta la famiglia perché non riesce più a pagare il mutuo della sua casa. Ma questo sarebbe stato troppo, perché si rischiava che di colpo la dura realtà di oggi facesse irruzione nel mondo da cartolina del nostro amatissimo Matteo Renzi.(Massimo Mazzucco, “Foto di gruppo alla Casa Bianca”, dal blog “Luogo Comune” del 24 ottobre 2016).Mi è capitata fra le mani una foto dei cosiddetti “italiani eccellenti” portati da Matteo Renzi la scorsa settimana alla Casa Bianca. Costoro, secondo la scelta del nostro primo ministro, dovrebbero rappresentare il meglio dell’Italia. Roberto Benigni: un traditore del cinema a doppia mandata. Prima volta traditore, perché ha rubato l’idea di “La vita è bella” ad un suo collega, il regista rumeno Radu Mihaileanu. Mihaileanu aveva mandato a Benigni la sceneggiatura del suo film, “Train de vie”, chiedendogli di fare il protagonista. Benigni finse di non essere interessato, solo per correre di nascosto a scrivere il suo film, “La vita è bella”, con il quale avrebbe vinto l’Oscar. Le trame dei due film sono diverse, ma l’idea di ambientare un film comico sullo sfondo dell’Olocausto è identica. Seconda volta traditore, perchè mentre il film di Mihaileanu finisce – giustamente – con il protagonista dietro al filo spinato di Auschwitz, quello di Benigni finisce in modo antistorico, con un happy end del tutto improbabile che strizza l’occhio ai poteri forti di Hollywood: quando mai un ragazzino esce vivo da una Auschwitz liberata dagli americani, solo per incontrare la sua mamma che lo aspetta sorridente sotto un albero?
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Se gli americani ora scoprono chi è davvero Hillary Clinton
Vuoi vedere che Trump ce la fa? «Se Hillary perderà il merito sarà ovviamente di Trump, ma la colpa principale sarà sua e del suo inqualificabile passato», scrive Marcello Foa, che non ha mai dato per spacciato il candidato repubblicano, nemmeno quando la maggior parte dei sondaggi – ampiamente manipolati, secondo Wikileaks, e diffusi con la massima risonanza dalla grancassa dei media mainstream – attribuiva a Hillary un vantaggio abissale. Sondaggi in ogni caso di dubbia affidabilità: «Pronosticare un risultato su scala nazionale consultando 1.300 persone non è convincente, tanto più dopo il fiasco del Brexit e di altre elezioni». Foa ha seguito dal vivo due campagne presidenziali – nel 2004 e nel 2008 – scoprendo «l’America profonda, quella che di solito decide le presidenziali», dove oggi un candidato come Trump potrebbe essere «molto più popolare di quanto l’establishment, di cui i grandi media sono la voce, sia disposto ad ammettere». Ora persino i sondaggi mainstream ammettono il “crollo” della Clinton, su cui si abbatte anche il nuovo “emailgate” con la riapertura dell’inchiesta da parte dell’Fbi sui messaggi di posta elettronica cancellati da Hillary.«Attenzione, si profila uno scenario imprevedibile fino a poche ore fa: il sorpasso di Trump su Hillary nell’ultima settimana della campagna elettorale», scrive Foa nel suo blog sul “Giornale”. «L’emailgate è devastante per l’immagine della Clinton, perché alimenta il sospetto che non sia affidabile, che abbia qualcosa da nascondere, che sia una mentitrice seriale». Ovvero: «Rafforza la diffidenza nei confronti della sua persona, che è stato il suo principale handicap in questi mesi». I contorni della vicenda sono da film: l’Fbi ha trovato le email di Hillary indagando su Anthony Weiner, ex politico emergente del partito democratico ed ex marito della sua assistente personale, la giovane e fidatissima Huma Abedin, il quale «è stato denunciato per molestie nei confronti di ragazzine minorenni, a cui inviava sue foto in costume adamitico». Osserva Foa: «Forse è il karma che colpisce i Clinton: pensavano di aver fatto fuori Trump pubblicando gli audio dei suoi commenti sulle donne e ora proprio uno scandalo sessuale rischia di rovinare la carriera dell’ex first-lady».Ma anche senza il colpo di coda dell’emailgate, aggiunge Foa, Hillary sarebbe stata in difficoltà. Motivo: ormai «la maggior parte degli americani diffida dei cosiddetti media mainstream (grandi tv e grandi giornali) e molti di loro preferiscono informarsi su siti di informazione che sono letteralmente esplosi in quei mesi come “Breitbart”, “Drudge Report”, “Infowars”, quasi tutti filorepubblicani e gli unici ad aver dato conto regolarmente dell’altro enorme scandalo ignorato dai grandi organi di informazione: quello di Wikileaks con la pubblicazione di migliaia di email del capo della campagna democratica, John Podesta, e di altri collaboratori, che sono stati hackerati». Dalla lettura di quelle email «emerge il doppio linguaggio dell’ex first lady su temi fondamentali con evidenti contraddizioni tra quanto promette agli elettori e quel che dice a prete chiuse alle lobby più influenti». Ed emergono «gli “inciuci” con una stampa servile e quella che appare come una corruzione implicita, multimilionaria, tramite la sua Fondazione anche con governi stranieri», come Qatar e Arabia Saudita (Isis e Fondazione Clinton, stessi sponsor). Emerge insomma «il vero volto del mondo della Clinton e, in genere, del potere di Washington, che provoca disgusto e rabbia negli americani».Vuoi vedere che Trump ce la fa? «Se Hillary perderà il merito sarà ovviamente di Trump, ma la colpa principale sarà sua e del suo inqualificabile passato», scrive Marcello Foa, che non ha mai dato per spacciato il candidato repubblicano, nemmeno quando la maggior parte dei sondaggi – ampiamente manipolati, secondo Wikileaks, e diffusi con la massima risonanza dalla grancassa dei media mainstream – attribuiva a Hillary un vantaggio abissale. Sondaggi in ogni caso di dubbia affidabilità: «Pronosticare un risultato su scala nazionale consultando 1.300 persone non è convincente, tanto più dopo il fiasco del Brexit e di altre elezioni». Foa ha seguito dal vivo due campagne presidenziali – nel 2004 e nel 2008 – scoprendo «l’America profonda, quella che di solito decide le presidenziali», dove oggi un candidato come Trump potrebbe essere «molto più popolare di quanto l’establishment, di cui i grandi media sono la voce, sia disposto ad ammettere». Ora persino i sondaggi mainstream ammettono il “crollo” della Clinton, su cui si abbatte anche il nuovo “emailgate” con la riapertura dell’inchiesta da parte dell’Fbi sui messaggi di posta elettronica cancellati da Hillary.
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Se Zalone rottama l’Italia dove tutti avevano un lavoro
Si è già scritto parecchio, e da diversi punti di vista, sul film di Checco Zalone “Quo Vado?”. C’è chi lo accusa di essere pro-governativo e chi contro. Il “Corriere della Sera” definisce il film come rottamatore del posto fisso, il “Fatto Quotidiano” lo stronca perché attacca donne, neri e portatori di handicap. Io credo che un film di indiscusso successo meriti qualche ulteriore considerazione, anche in chiave economica; non si può restare indifferenti di fronte alle parole della canzone finale del film dove si parla del debito pubblico come fardello lasciato ai nipoti e dei tanti vizi e delle inesistenti virtù dell’Italia della Prima Repubblica. Il film gioca sui luoghi comuni del posto fisso statale, in difesa del quale il protagonista combatte una tenace battaglia contro il tecnico incaricato direttamente dal ministro il quale, in pieno clima di spending review, vuole dar prova di saper snellire ed efficientare la pubblica amministrazione. Un ragazzo che guarda il film potrebbe farsi un’idea dell’Italia che non combacia con la realtà.È vero che il posto fisso statale in Italia è stato utilizzato anche come ammortizzatore sociale, per assorbire una parte della disoccupazione prodotta da un sistema industriale che per crescere in produttività ha ridotto l’occupazione, invece di aumentare la domanda aggregata con deficit produttivi. È vero anche che la produttività (che in realtà bisogna capire meglio cosa rappresenti) dell’impiegato Zalone non era di sicuro la massima possibile, ma quell’Italia con le sue inefficienze era comunque la quinta potenza industriale al mondo. Saranno esistiti di sicuro i paraplegici che danzavano, come dice la canzone, e che ricevevano comunque i sussidi, ma oggi un vero paraplegico rischia di chiedere l’elemosina per poter vivere.Nel film, Zalone fa ricorso a tanti strumenti per tenersi stretto il posto fisso, alcuni legittimi (come l’aspettativa) altri meno (simulare una malattia), ma sono strumenti che fanno parte di un welfare conquistato con dure lotte dai nostri padri, in grado di garantire al lavoratore la tutela del proprio lavoro. La ridicolizzazione di questi istituti nel film può creare un clima di favore nel pubblico alla loro riduzione (se non eliminazione) perché può favorire l’idea che se ci sono persone che abusano di questi strumenti allora lo strumento è sbagliato e va eliminato. Infine merita una considerazione anche il sindaco mafioso che, non avendo più i tanti soldi da elargire tramite il consenso, mostra tutta la sua crudeltà nel tagliare i fondi delle attività sociali in un Sud già povero in molti sensi. Sicuramente, penso senza volerlo, si mostra come in questa situazione di austerità il sindaco mafioso diventa a sua volta “picciotto” di uno Stato mandante con le stesse criminali finalità.Quando Zalone entra nel terreno che non sa essere della macroeconomia, risulta di sicuro pesantemente impreparato o malconsigliato. La sua arguzia comica funziona in termini di successo al botteghino, ma rischia di allinearsi alla più banale campagna liberista. È giusto ridere dei vizi di un paese sapendo, però, che questa volta le risate sono solo di “pancia” e non di “testa”. Infine, è sempre il caso di ricordarsi che 8,5 euro di biglietto non potrà mai pagarli un disoccupato, mentre è probabilissimo lo possa fare chi ha un posto fisso. Per qualunque Stato a moneta sovrana è sempre meglio un posto fisso poco produttivo che un disoccupato. È la macroeconomia.(Stefano Sanna, “Quo vado? Di sicuro non vero la macroeconomia”, dal blog “Rete Mmt” del 14 gennaio 2016).Si è già scritto parecchio, e da diversi punti di vista, sul film di Checco Zalone “Quo Vado?”. C’è chi lo accusa di essere pro-governativo e chi contro. Il “Corriere della Sera” definisce il film come rottamatore del posto fisso, il “Fatto Quotidiano” lo stronca perché attacca donne, neri e portatori di handicap. Io credo che un film di indiscusso successo meriti qualche ulteriore considerazione, anche in chiave economica; non si può restare indifferenti di fronte alle parole della canzone finale del film dove si parla del debito pubblico come fardello lasciato ai nipoti e dei tanti vizi e delle inesistenti virtù dell’Italia della Prima Repubblica. Il film gioca sui luoghi comuni del posto fisso statale, in difesa del quale il protagonista combatte una tenace battaglia contro il tecnico incaricato direttamente dal ministro il quale, in pieno clima di spending review, vuole dar prova di saper snellire ed efficientare la pubblica amministrazione. Un ragazzo che guarda il film potrebbe farsi un’idea dell’Italia che non combacia con la realtà.