Archivio del Tag ‘idee’
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Non trovi lavoro? Ti ha fregato Joseph Lee, 358 anni fa
Prendi il paradigma sociale, quello che oggi suona come una canzone di Gigliola Cinguetti, cioè una roba vecchia, da nonne. Prendilo e pensa a cosa vuole dire. Vuol dire che noi umani viviamo in gruppi, e siccome siamo tutti collegati, ci conviene avere un sistema dove ogni individuo mette un poco del suo per creare una rete di sicurezza comune. Così, se a chiunque capita una sventura, casca nella rete di sicurezza, non si sfracella al suolo, e tutto il sistema continua senza troppi danni. Logico, fila come l’olio. Eppure l’hanno distrutta, la rete. Si chiamava Stato (Sociale). Oggi va di moda un paradigma diverso, che è questo: noi viviamo in gruppi, ma l’individuo è sacro e sovrano, deve poter fare quello che vuole, e soprattutto è personalmente responsabile della sua fortuna/sventura. Faccia il suo interesse individuale con meno regole possibili, lo Stato non deve metterci bocca, e alla fine tutta la società ne trarrà profitto. Questo paradigma si chiama con un nome francese, il Laissez Faire, lasciate fare.Ora mi prudono le dita, comincerei un trattato di 80 pagine su come il Laissez Faire sia diventato modernità, dogma economico unico, Eurozona, Austerità, morte del sociale, morte dei diritti, disoccupazione di massa, Economicidio, etc. Ma no. Ancora solo pochissime righe. Vi faccio notare come funziona il Vero Potere. Prima lezione: quanto vecchie sono le sue idee. Questo mi affascina del Vero Potere. Esso non cambia mai idea, mai. Stabilì i suoi principi secoli fa, e li ripropone oggi identici sotto le vetrate da terzo millennio dell’Eurotower di Francoforte. Il Laissez Faire nasce in particolare nel 1656 da un tizio di nome Josph Lee, che lasciò scritto questo: «E’ una massima innegabile che ciascuno, per la luce della natura e della ragione, farà ciò che torna a suo maggior vantaggio… Il progredire della singola persona tornerà a vantaggio della comunità».Da allora il principio non è mai cambiato. I Neofeudali del Vero Potere lo hanno oggi portato all’apice, con la distruzione della sovranità di spesa degli Stati in Eurozona, dove viene proibito alla collettività di sborsare anche un singolo centesimo per creare il VERO lavoro. Non è la collettività che deve fare rete di sicurezza, mai! L’individuo si arrangi, sgomiti, o si riduca la vita a scaricare bancali all’Ikea dopo 6 anni di università, spacci, lecchi scarpe, faccia la puttana, si arricchisca sulla miseria di milioni di altri, o crepi. E se crepa è colpa sua, “voleva dire che era un inetto” (Margaret Thatcher, Monti, Barroso, Rehn, Amato, Draghi, Lagarde, tutti Mr & Ms Laissez Faire).Un Programma di Piena Occupazione finanziato dallo Stato, a reddito degno per il 100% dei disoccupati italiani, secondo la Mosler Economics Mmt, e che ti salverebbe vita, la dignità e i figli, caro disoccupato, è impossibile in un sistema odierno di Laissez Faire. Mi spiace, anzi, sorry, visto che lo devi a Mr. Joseph Lee che era inglese, e ti ha fottuto 358 anni fa. Il Vero Potere è antico, non cambia mai le sue idee. Impara a conoscerlo, che magari poi sei tu che lo fotti. Se lo conosci lo fotti (qualcuno lo dica ai 5 stelle).(Paolo Barnard, “Non trovi lavoro, ti ha fottuto Joseph Lee 358 anni fa”, dal blog di Barnard dell’11 maggio 2014).Prendi il paradigma sociale, quello che oggi suona come una canzone di Gigliola Cinguetti, cioè una roba vecchia, da nonne. Prendilo e pensa a cosa vuole dire. Vuol dire che noi umani viviamo in gruppi, e siccome siamo tutti collegati, ci conviene avere un sistema dove ogni individuo mette un poco del suo per creare una rete di sicurezza comune. Così, se a chiunque capita una sventura, casca nella rete di sicurezza, non si sfracella al suolo, e tutto il sistema continua senza troppi danni. Logico, fila come l’olio. Eppure l’hanno distrutta, la rete. Si chiamava Stato (Sociale). Oggi va di moda un paradigma diverso, che è questo: noi viviamo in gruppi, ma l’individuo è sacro e sovrano, deve poter fare quello che vuole, e soprattutto è personalmente responsabile della sua fortuna/sventura. Faccia il suo interesse individuale con meno regole possibili, lo Stato non deve metterci bocca, e alla fine tutta la società ne trarrà profitto. Questo paradigma si chiama con un nome francese, il Laissez Faire, lasciate fare.
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Vergogna Europa, critica Putin ma non tutela Snowden
Raggruppati in un’Unione che non ha niente da dire in politica estera – né sull’Ucraina, né sul Mediterrano, né sull’alleanza con gli Usa – i governi europei «s’aggirano sul palcoscenico del mondo come inebetiti», scrive Barbara Spinelli: «Si atteggiano a sovrani, ma hanno dimenticato cosa sia una corona, e cosa uno scettro». L’ossessione? E’ fare affari, ma dei mercati «continuano a ignorare le incapacità, pur avendole toccate con mano». Così, «s’aggrappano a un’Alleanza atlantica per nulla paritaria», dominata dalla superpotenza americana ormai in declino, «che proprio per questo tende a riprodurre in Europa il vecchio ordine bipolare, russo-americano, lascito della guerra fredda». Ignari di un mondo che attorno a loro sta mutando, «sono anni che gli europei dormono». Infatti «non c’è evento, non c’è trattativa internazionale che li veda protagonisti». Lo si vede ovunque: nella crisi di Kiev, nel Trattato Transatlantico, nello scandalo-Nsa rivelato da Snowden. «Sono tre prove essenziali, e l’Unione le sta fallendo tutte».In Ucraina, «l’Europa non ha ancora ripensato i rapporti con la Russia», scrive la Spinelli in un intervento su “Repubblica”, ripreso da “Micromega”. «Non sa nulla di quel che si muove e bolle in quel mondo enorme e opaco. Non sa valutare le paure e gli interessi moscoviti, né i pericoli della riaccesa volontà di potenza che Putin incarna. Non capisce come mai Putin sia popolare in patria, e anche in tante regioni ex sovietiche che appartengono ormai a altri Stati e includono vaste e declassate comunità russe». Così, non sapendo parlare con Mosca, gli europei «lasciano che siano gli Stati Uniti, ancora una volta, a fronteggiare il caos, inasprendolo: è Washington a promettere garanzie al governo ucraino, a diffidare Mosca da annessioni, ad allarmarla minacciando di spostare il perimetro Nato a est». L’Europa «sta a guardare, persuasa che bastino i piani di austerità proposti da Fondo Monetario e Commissione europea, se Kiev entrerà nella sua orbita, quasi che il dramma degli Stati fallimentari, nel mondo, fosse soltanto finanziario».Depoliticizzata, l’Europa «subisce il ritorno anacronistico del duopolio russo-americano», che vorrebbe fare di Kiev il nuovo scudo orientale della Nato, «nonostante il popolo ucraino preferisca evidentemente la neutralità». Si pensa ad un’Ucraina «occidentalizzata d’imperio, frantumabile come lo fu la Jugoslavia». Ha ragione Mosca, che «chiede che il paese diventi una federazione, anziché un agglomerato babelico di risentimenti nazionalisti». Strano, aggiunge Barbara Spinelli, che a domandarlo «non sia l’Europa, con le sue esperienze». Ma è questa Europa, assolutamente passiva nel negoziato euro-americano che darà vita a un patto economico destinato ad affiancare quello militare: il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Ttip). «Una trattativa colma di agguati, perché molte conquiste normative dell’Europa rischiano d’esser spazzate via. Non a caso le multinazionali negoziano in segreto, lontano da controlli democratici».Anche Barbara Spinelli condivide l’allarme da più parti segnalato: «Sono sotto attacco leggi sedimentate, diritti per cui l’Unione s’è battuta per decenni: tra questi il diritto alla salute, la cura dell’ambiente, le multe a imprese inquinanti». Salute a rischio: «I sistemi sanitari saranno aperti al libero mercato, che sulle esigenze sociali farà prevalere il profitto. Emblematico l’assalto delle grandi case farmaceutiche ai medicinali generici low cost». E sono in pericolo anche tasse cui l’Europa pare tenere, per frenare operazioni speculative e degrado climatico: la tassa sulle transazioni finanziarie e quella sulle emissioni di anidride carbonica. «Una controffensiva Ue contro il trattato commerciale ancora non c’è. Nell’incontro a Roma con Obama, Renzi ha auspicato l’accelerazione del negoziato senza chiedere alcunché, né per noi né per l’Europa». Il piatto è magro: solo un aumento dello 0,5% del Pil, a pieno regime (nel 2027) secondo l’istito “Prometeia”, mentre l’istituto austriaco “Öfse” (Ricerca per lo sviluppo internazionale) prevede addirittura un aumento dei disoccupati nel periodo di transizione, a causa della riorganizzazione del mercato del lavoro imposta dal Trattato Transatlantico.Non meno grave: le controversie commerciali si risolverebbero non attraverso giudizi in tribunali ordinari, ma in speciali corti extraterritoriali. «Saranno le multinazionali a trascinare in giudizio governi, aziende, servizi pubblici ritenuti non competitivi, e a esigere compensazioni per i mancati guadagni dovuti a diritti del lavoro troppo vincolanti, a leggi ambientali o costituzionali troppo severe». Tutto questo, in nome della “semplificazione burocratica”: «Parola d’ordine che Renzi predilige, virtuosa e al tempo stesso insidiosa». Nel contesto del Partenariato transatlantico, semplificare vuol dire abbattere le cosiddette “barriere non tariffarie”, cioè «parametri europei faticosamente elaborati: regole sanitarie a tutela della salute, canoni di sicurezza delle automobili, procedure di approvazione dei farmaci e molto altro ancora». Eppure, per l’Europa va bene così. D’altronde, questa è l’Europa della battaglia «indolente e infruttuosa» contro i piani di sorveglianza della Nsa disvelati da Edward Snowden nel 2013.Un sistema di sorveglianza tentacolare, predisposto dai servizi americani con la scusa di prevenire attentati terroristici: «Grazie a Snowden si è saputo che erano intercettati perfino i cellulari di leader europei (tra cui Angela Merkel), non si sa per quali ragioni di sicurezza». I governi dell’Unione? «Hanno protestato, ma ciascuno per conto suo e sempre più flebilmente». In un messaggio al Parlamento Europeo, stesso Snowden ha ironizzato sulle sovranità presunte dei singoli Stati: totalmente impotenti di fronte al Datagate. «La vicenda Snowden è anche questione di civiltà democratica», osserva Spinelli. «L’esistenza di smascheratori di misfatti – non spie ma whistleblower, denunziatori di reati commessi dalla propria organizzazione – potenzia la democrazia». Proprio per questo, è paradossale che i giornalisti implicati nel Datagate a fianco di Snowden abbiano ricevuto il Premio Pulitzer (uno schiaffo per Obama), e che lui stesso – il “soffiatore di fischietto” – abbia trovato riparo «non in un’Europa che promette nella sua Carta la “libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera”, ma nella Russia di Putin».Raggruppati in un’Unione che non ha niente da dire in politica estera – né sull’Ucraina, né sul Mediterrano, né sull’alleanza con gli Usa – i governi europei «s’aggirano sul palcoscenico del mondo come inebetiti», scrive Barbara Spinelli: «Si atteggiano a sovrani, ma hanno dimenticato cosa sia una corona, e cosa uno scettro». L’ossessione? E’ fare affari, ma dei mercati «continuano a ignorare le incapacità, pur avendole toccate con mano». Così, «s’aggrappano a un’Alleanza atlantica per nulla paritaria», dominata dalla superpotenza americana ormai in declino, «che proprio per questo tende a riprodurre in Europa il vecchio ordine bipolare, russo-americano, lascito della guerra fredda». Ignari di un mondo che attorno a loro sta mutando, «sono anni che gli europei dormono». Infatti «non c’è evento, non c’è trattativa internazionale che li veda protagonisti». Lo si vede ovunque: nella crisi di Kiev, nel Trattato Transatlantico, nello scandalo-Nsa rivelato da Snowden. «Sono tre prove essenziali, e l’Unione le sta fallendo tutte».
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Barnard: non mi candido, resto qui a combattere per voi
Dedicato al mio 0,2%. Dal 2004 sono stato cacciato tre volte dalla Tv nazionale per aver detto quello che non andava detto. Dicevo ciò che vi difende. Ho perso tutto il mio reddito, vivo della pensione di mia madre, ho 56 anni, con 30 anni di giornalismo sulle spalle che ha toccato quasi tutte le testate nazionali. Per voi ne vale la pena, voi, il mio 0,2%. Ricevo le vostre mail, non sapete che doni sono. Avevo iniziato a chiedere una parcella per le mie conferenze. Due volte su tre l’ho poi rifiutata. Ma ho smesso di chiederla. Non posso rischiare di perdere la vostra fiducia col sospetto che Barnard “ha preso soldi da tizio o caio”. Mi è stata proposta la candidatura alle europee da Fi-An e dal Pdl (con testimoni). Avete un’idea dei soldi che andavo a prendere? Ho rifiutato perché se no perdevo la vostra fiducia.Ho allontanato da me e dalla mia lotta per voi chiunque si stesse macchiando di compromessi sospetti, o decisamente sporchi, o di semplice stupidità. Perché chi combatte per voi deve essere uno dei 300 Spartani. Ne va della vostra vita. Per due volte, in due anni, ho pubblicamente sfidato CHIUNQUE a trovare lo scheletro nell’armadio di Paolo Barnard. Mi avessero trovato una sola, una sola!, compromissione con chiunque in politica o nella carriera. Nessuno si è fatto avanti con nulla. Io sono pulito come nessun altro, se no non avrei la vostra fiducia. Sono l’unico divulgatore in Italia, e forse nel mondo, che sta mettendo nelle mani del cittadino medio l’arma finale del Vero Potere: l’Economia. Io ve la traduco, ve la decifro, così che voi possiate capire subito cosa vi fanno, e con che mezzi, quelli che veramente comandano. Questo non è tollerato dal Vero Potere. Infatti…Ho paura spesso. Mi sono successe cose strane, non sto qui a raccontarle tutte. L’altro giorno ero dai carabinieri a denunciare il timore che mi nascondano droga in casa, visto che un individuo era stato visto rubarmi le chiavi dalla giacca. Ho trovato una corona celebrativa della morte dei partigiani appesa alla mia porta di casa, l’altra notte. Ho ricevuto lettere con avvisi. La paura me la faccio passare, per voi, se no non sarei utile a voi. So che in Italia uno come me non sarà mai noto, mai celebrato, mai seguito da tanti. Vorrei però essere ricordato un giorno come uno Spartano, uno dei 300, che ha fatto un pezzo di guerra guidato da un solo principio: il Principio Morale che impone la radicalità delle idee, e i duri prezzi da pagare per esse. Uno che li ha pagati. Il Principio Morale ha un solo nome: essere puliti e irremovibili sul quel principio. E io lo sono. Per voi. Ho già pubblicato in termini semplici per tutti, tutto ciò che c’è da sapere per salvare la vostra vita e il futuro dei vostri figli. Ho indicato il Vero Potere, chi davvero decide di voi, e cosa fare concretamente. Ora avanti, se ci sarà strada.(Paolo Barnard, “Pulito, al vostro servizio”, dal blog di Barnard del 1° maggio 2014).Dedicato al mio 0,2%. Dal 2004 sono stato cacciato tre volte dalla Tv nazionale per aver detto quello che non andava detto. Dicevo ciò che vi difende. Ho perso tutto il mio reddito, vivo della pensione di mia madre, ho 56 anni, con 30 anni di giornalismo sulle spalle che ha toccato quasi tutte le testate nazionali. Per voi ne vale la pena, voi, il mio 0,2%. Ricevo le vostre mail, non sapete che doni sono. Avevo iniziato a chiedere una parcella per le mie conferenze. Due volte su tre l’ho poi rifiutata. Ma ho smesso di chiederla. Non posso rischiare di perdere la vostra fiducia col sospetto che Barnard “ha preso soldi da tizio o caio”. Mi è stata proposta la candidatura alle europee da Fi-An e dal Pdl (con testimoni). Avete un’idea dei soldi che andavo a prendere? Ho rifiutato perché se no perdevo la vostra fiducia.
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Tempi duri per i nuovi Goebbels: il web li smaschera
Da sempre i governanti tentano di persuaderci circa la correttezza delle loro azioni, perché le folle non seguono gli uomini di cui si conosca appieno la cattiveria. Il XX secolo ha visto comparire nuove modalità di diffusione delle idee che non si fanno intralciare dalla verità. Gli occidentali fanno risalire la propaganda moderna al ministro nazista Joseph Goebbels. È un modo per far dimenticare che l’arte di distorcere la percezione delle cose è stata precedentemente sviluppata dagli anglosassoni. Nel 1916, il Regno Unito creò la Wellington House a Londra, seguita dalla Crewe House. Contemporaneamente, gli Stati Uniti crearono il Committee on Public Information (Cpi). Considerando che la Prima Guerra Mondiale contrapponeva le masse e non più solo le forze armate, queste organizzazioni hanno tentato di intossicare la propria popolazione altrettanto quanto quelle dei loro alleati e dei loro nemici.La propaganda moderna inizia con la pubblicazione a Londra del Rapporto Bryce sui crimini di guerra tedeschi, che fu tradotto in trenta lingue. Secondo questo documento, l’esercito tedesco aveva violentato migliaia di donne in Belgio, e pertanto l’ armata britannica lottava contro la barbarie. È stato scoperto alla fine della Prima Guerra Mondiale che l’intera relazione era una bufala, composta di false testimonianze con l’aiuto di giornalisti. Da parte sua, negli Stati Uniti, George Creel inventò un mito secondo il quale la Seconda Guerra Mondiale era una crociata delle democrazie per una pace volta a realizzare i diritti dell’umanità. Gli storici hanno dimostrato che la guerra mondiale rispondeva sia a cause immediate sia a cause profonde, delle quali la più importante era la competizione tra le grandi potenze per espandere i loro imperi coloniali.Gli uffici britannici e statunitensi erano organizzazioni segrete che lavoravano per conto dei loro Stati. A differenza della propaganda leninista, che aspirava a “rivelare la verità” alle masse ignoranti, gli anglosassoni cercavano di ingannarle per manipolarle. E per questo le agenzie statali anglosassoni dovevano nascondersi e usurpare delle false identità. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno trascurato la propaganda e le hanno preferito le pubbliche relazioni. Non si trattava più di mentire, ma accompagnare per mano i giornalisti affinché vedessero solo ciò che gli veniva mostrato. Durante la guerra del Kosovo, la Nato ricorse ad Alastair Campbell, consigliere del primo ministro britannico, affinché raccontasse alla stampa una storia edificante al giorno. Mentre i giornalisti la riproducevano, l’Alleanza poteva bombardare “in pace”. Lo storytelling puntava meno a mentire quanto semmai a distrarre.Tuttavia, lo storytelling è tornato in forze con i fatti dell’11 settembre 2001: si trattava di focalizzare l’attenzione del pubblico sugli attentati contro New York e Washington affinché non percepisse il colpo di Stato militare organizzato in quel giorno: il trasferimento dei poteri esecutivi del presidente Bush a un’unità militare segreta e gli arresti domiciliari di tutti i parlamentari. Questo avvelenamento avveniva particolarmente ad opera di Benjamin Rhodes, oggi consigliere di Barack Obama. Nel corso degli anni successivi, la Casa Bianca ha installato un sistema di intossicazione con i suoi alleati chiave (Regno Unito, Canada, Australia e naturalmente Israele). Ogni giorno questi quattro governi hanno ricevuto istruzioni o discorsi pre-scritti dall’Ufficio dei media globali per giustificare la guerra in Iraq o diffamare l’Iran. Per la rapida diffusione delle sue bugie, Washington si è appoggiata, sin dal dal 1989, alla Cnn. Nel corso del tempo, gli Stati Uniti hanno creato un cartello di catene d’informazione satellitari (Al-Arabiya, Al-Jazeera, Bbc, Cnn, France 24, Sky).Nel 2011, durante il bombardamento di Tripoli, la Nato giunse a sorpresa a convincere i libici che avevano perso la guerra e che era inutile resistere ancora. Ma nel 2012, la Nato non è riuscita a replicare questo modello e a convincere i siriani che il loro governo sarebbe inevitabilmente caduto. Questa tattica è fallita perché i siriani erano a conoscenza della manipolazione effettuata dalle televisioni internazionali in Libia e hanno potuto prepararsi. E questo fallimento segna la fine dell’egemonia di questo cartello dell’“informazione”. L’attuale crisi tra Washington e Mosca sull’Ucraina ha costretto l’amministrazione Obama a rivedere il proprio sistema. Infatti, Washington ora non è più la sola a parlare, deve contraddire il governo e i media russi, accessibili ovunque nel mondo via satellite e via internet. Il Segretario di Stato John Kerry ha perciò nominato un nuovo vice per la propaganda, nella persona dell’ex direttore di “Time Magazine”, Richard Stengel. Ancor prima di prestare giuramento, il 15 aprile, stava già occupando il suo ufficio e, dal 5 marzo, ha inviato ai principali mezzi di comunicazione atlantisti una “Scheda documentata” sulle “10 contro-verità” che Putin avrebbe enunciato sull’Ucraina. Si ripeteva il 13 aprile con una seconda scheda che presentava “10 altre contro-verità”.Ciò che colpisce nel leggere questa prosa è la sua inettitudine. Punta a convalidare la storia ufficiale di una rivoluzione a Kiev e screditare il discorso russo sulla presenza di nazisti nel nuovo governo. Tuttavia, ora sappiamo che in realtà più che di una rivoluzione, si trattava casomai di un colpo di Stato organizzato dalla Nato e attuato dalla Polonia e da Israele mescolando le ricette delle “rivoluzioni colorate” e delle “primavere arabe”. I giornalisti che hanno ricevuto queste schede e le hanno ritrasmesse conoscevano perfettamente le registrazioni delle conversazioni telefoniche dell’assistente del segretario di Stato Victoria Nuland, sulla maniera in cui Washington avrebbe cambiato il regime a spese dell’Unione europea, e il ministro affari esteri estone Urmas Paets sulla vera identità dei cecchini di Maidan. Inoltre, hanno poi appreso le rivelazioni del settimanale polacco “Nie” sulla formazione – due mesi prima degli eventi – dei rivoltosi nazisti presso l’Accademia di polizia polacca.Quanto a negare la presenza di nazisti nel nuovo governo ucraino, equivale ad affermare che la notte è luminosa. Non è nemmeno necessario andare a Kiev, per constatarlo basta leggere gli scritti degli attuali ministri o ascoltare i loro propositi. In definitiva, se questi argomenti contribuiscono a dare l’illusione di un ampio consenso dei media atlantisti, non hanno alcuna possibilità di convincere i cittadini curiosi. Al contrario, è così facile con Internet scoprire l’inganno che questo tipo di manipolazione non potrà che intaccare ancora di più la credibilità di Washington. L’unanimità dei media atlantisti in occasione dell’11 Settembre ha consentito di convincere l’opinione pubblica internazionale, ma il lavoro svolto da molti giornalisti e cittadini – di cui sono stato precursore – ha dimostrato l’impossibilità materiale della versione ufficiale. Tredici anni dopo, centinaia di milioni di persone sono diventate consapevoli di quelle menzogne.Questo processo potrà solo crescere, dato il nuovo dispositivo di propaganda statunitense. In definitiva, tutti coloro che riamplificano gli argomenti della Casa Bianca, specie i governi e i media della Nato, distruggono da soli la propria credibilità. Barack Obama e Benjamin Rhodes, John Kerry e Richard Stengel hanno effetto solo a breve termine. La loro propaganda convince le masse solo per poche settimane e fa sì che si ribellino quando capiscono la manipolazione. Involontariamente, minano la credibilità delle istituzioni degli Stati della Nato che le ritrasmettono consapevolmente. Hanno dimenticato che la propaganda del XX secolo poteva avere successo solo perché il mondo era diviso in blocchi che non comunicavano tra loro, e che il suo principio monolitico è incompatibile con i nuovi mezzi di comunicazione. La crisi ucraina non è finita, ma ha già profondamente cambiato il mondo: nel contraddire in pubblico il presidente degli Stati Uniti, Vladimir Putin ha compiuto un passo che ormai impedisce il successo della propaganda statunitense.(Thierry Meyssan, “Verso la fine della propaganda statunitense”, da “Megachip” del 20 aprile 2014).Da sempre i governanti tentano di persuaderci circa la correttezza delle loro azioni, perché le folle non seguono gli uomini di cui si conosca appieno la cattiveria. Il XX secolo ha visto comparire nuove modalità di diffusione delle idee che non si fanno intralciare dalla verità. Gli occidentali fanno risalire la propaganda moderna al ministro nazista Joseph Goebbels. È un modo per far dimenticare che l’arte di distorcere la percezione delle cose è stata precedentemente sviluppata dagli anglosassoni. Nel 1916, il Regno Unito creò la Wellington House a Londra, seguita dalla Crewe House. Contemporaneamente, gli Stati Uniti crearono il Committee on Public Information (Cpi). Considerando che la Prima Guerra Mondiale contrapponeva le masse e non più solo le forze armate, queste organizzazioni hanno tentato di intossicare la propria popolazione altrettanto quanto quelle dei loro alleati e dei loro nemici.
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Castells: grazie a Internet, la libertà non è più utopia
Premessa: «Il potere sta nella mente delle persone». Se controlli il modo in cui la gente pensa, comunica, si informa, controlli il potere. La riflessione non è certo nuova o rivoluzionaria, ma sono nuove (rivoluzionarie?) le conseguenze che produce in un’epoca come la nostra, in cui ogni minuto «in rete vengono mandati all’incirca centomila tweet, condivisi un milione e mezzo tra aggiornamenti e commenti Facebook e inviate oltre centosettanta milioni di mail». Ecco perché «le battaglie per la libertà nel nuovo sistema di comunicazione sono battaglie più importanti di quelle sul salario minimo». Lo dice Manuel Castells, il sociologo catalano-statunitense che ha insegnato a Berkeley per 25 anni (oggi è docente all’University of Southern California) e ha scritto libri celebri come “Galassia Internet”, “Comunicazione e potere” e la trilogia “L’età dell’informazione”.Lo spiega in un dialogo con Tomás Ibañez, a cui dobbiamo un ottimo “elogio del relativismo” pubblicato da Elèuthera nel 2012 (”Il libero pensiero”). Elèuthera ora ripropone anche questo botta e risposta informale, pubblicato in Spagna nel 2006. Titolo: “Dialogo su anarchia e libertà nell’era digitale”. Un libretto agile. Più che altro un’introduzione al tema. In cui si sostiene che l’era digitale ha creato le condizioni perché l’anarchismo (lui lo definisce “neoanarchismo”) e il pensiero libertario tornassero d’attualità. «Nella società attuale esiste un’esigenza di libertà» che va al di là dell’ideologia o delle battaglie condotte dai nuovi movimenti “alteromondisti”. E’ una questione empirica e strutturale. Ha a che vedere con la possibilità di costituire facilmente «reti di relazioni tra individualità», quindi non più individui atomizzati che subiscono passivamente il mercato anonimo e la comunicazione di massa.I movimenti si auto-organizzano e a volte riescono a darsi strutture autonome senza gerarchie stabilite, che lavorano in una sorta di assemblea permanente (una delle pratiche utopiche tipiche del pensiero anarchico). D’altra parte oggi è «la stessa struttura produttiva a richiedere, per essere più efficiente di prima, un funzionamento basato su strutture organizzative non gerarchizzate». Sta cambiando anche il modello di sviluppo, nel quale si intravvedono «modalità e relazioni che si allontanano dalle posizioni propriamente capitaliste e che si avvicinano al libertarismo». Nei tempi in cui viviamo, lo Stato, contro cui ha tradizionalmente lottato l’anarchismo, è diventato uno “strumento di dominio secondario”. La battaglia si è spostata sul piano della produzione e diffusione delle idee.E’ vero che le tecnologie informatiche non sono in grado di «promuovere, di per sé, un cambiamento sociale positivo», anche perché consentono alle autorità di avere un controllo senza precedenti sugli individui e le reti che li uniscono. Ma è pur vero che si tratta di “tecnologie di libertà” malleabili, flessibili: sono insomma un’occasione senza precedenti. Attraverso Internet ti possono sorvegliare, certo, ma potevano farlo anche prima, la differenza è che ora, grazie a Internet (a un suo utilizzo consapevole) «anche tu li puoi sorvegliare». Molto utile la postfazione di Andrea Staid, che mette i puntini sulle “i” e aggiorna il dialogo ai tempi (recentissimi) delle cosiddette “wikirivolte”, i nuovi movimenti insurrezionali che hanno spazzato via dittature longeve «nel più completo stupore delle democrazie occidentali».Non c’è rivoluzione che non abbia sfruttato il medium dell’epoca (una citazione di Foucault ci ricorda la funzione rivoluzionaria dei discorsi di Khomeini diffusi sotto forma di audiocassette) e quindi anche i social media possono essere uno strumento importante. Ma non potranno mai sostituire «la condivisione fisica delle emozioni» che avviene nelle strade e nelle piazze. Staid avverte: «Non dobbiamo commettere l’errore di pensare che sarà la rete a salvarci… Non basterà Internet per risolvere il problema dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sugli animali, sulla terra. La mutazione culturale libertaria deve essere in grado di penetrare nelle reti di rapporti reali fra esseri umani». Insomma, la cara vecchia battaglia per “decostruire il dominio”». Una cosa è certa: il pensiero libertario (l’anarchismo) non può che essere pluralista, “in divenire” e anti-dogmatico, si deve nutrire di una “concezione relativista critica”, quindi deve essere in grado di adattarsi ai contesti e alle circostanze, soprattutto oggi, in un’epoca in cui, come dice Castells, «il nodo problematico che caratterizza la società rimanda all’idea di libertà», che non può essere solo quella dell’individuo ma la «libertà di tutti».(Fabrizio Tassi, “Tecnologie di libertà”, da “Micromega” dell’11 marzo 2014. Il libro: Manuel Castells e Tomàs Ibañez, “Dialogo su anarchia e libertà nell’era digitale”, Eléuthera, 67 pagine, 7 euro).Premessa: «Il potere sta nella mente delle persone». Se controlli il modo in cui la gente pensa, comunica, si informa, controlli il potere. La riflessione non è certo nuova o rivoluzionaria, ma sono nuove (rivoluzionarie?) le conseguenze che produce in un’epoca come la nostra, in cui ogni minuto «in rete vengono mandati all’incirca centomila tweet, condivisi un milione e mezzo tra aggiornamenti e commenti Facebook e inviate oltre centosettanta milioni di mail». Ecco perché «le battaglie per la libertà nel nuovo sistema di comunicazione sono battaglie più importanti di quelle sul salario minimo». Lo dice Manuel Castells, il sociologo catalano-statunitense che ha insegnato a Berkeley per 25 anni (oggi è docente all’University of Southern California) e ha scritto libri celebri come “Galassia Internet”, “Comunicazione e potere” e la trilogia “L’età dell’informazione”.
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Rottamano la Costituzione perché hanno paura di noi
Pessima trovata, abolire il Senato. Segno di una politica senza idee, che ha paura degli elettori. E tenta di rifarsi il trucco per nascondere la sua incapacità di affrontare i veri problemi che abbiamo di fronte: «La concentrazione del potere economico e gli andamenti della finanza mondiale, l’impoverimento e il degrado del pianeta, le migrazioni di popolazioni. Ne subiamo le conseguenze, senza poter agire sulle cause». E la classe dirigente? «Non dirige un bel niente», accusa Gustavo Zagrebelsky. «Non tenta di mettere la testa fuori. Per far questo, occorrerebbe avere idee politiche e almeno tentare di metterle in pratica». Così, resta solo «il formicolio della lotta per occupare i posti migliori nella rete dei piccoli poteri oligarchici», un formicolio «che allontana e disgusta la gran parte che ne è fuori». Pura «autoconservazione del sistema di potere e dei suoi equilibri». Dietro ai tweet di Matteo Renzi, il giurista torinese vede «il blocco d’una politica che gira a vuoto, funzionale al mantenimento dello status quo».Una volta, ricorda Zagrebelsky, Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani definirono “razza padrona” un certo equilibrio oligarchico del potere. «Oggi, piuttosto riduttivamente, la chiamiamo “casta”. Un’interpretazione è che un sistema di potere incartapecorito e costretto sulla difensiva, avesse bisogno di rifarsi il maquillage. Se questo è vero, è chiaro che occorrevano accessori, riverniciature: il renzismo mi pare un epifenomeno». La classe dirigente italiana? «E’ decaduta a un livello culturale imbarazzante. La ragione è semplice: di cultura politica, la gestione del potere per il potere non ha bisogno. Sarebbe non solo superflua, ma addirittura incompatibile», dice il presidente onorario della Consulta alla giornalista Silvia Truzzi del “Fatto Quotidiano”. Sgomenta la memoria degli uomini che gestirono la ricostruzione del paese nel dopoguerra: Parri, Nenni, De Gasperi, Einaudi, Togliatti. «Non è che avessero le stesse idee, ma ne avevano: e le idee davano un senso politico alla loro azione».Le cose che oggi vengono dette e fatte dai politici «sono pezze, rattoppi d’emergenza necessari per resistere, non per esistere. Non è politica. Nella migliore delle ipotesi, se non è puro “potere per il potere”, è gestione tecnica». Attenzione: «La tecnica guarda indietro, la politica dovrebbe guardare avanti». Esempio, il governo Monti, cioè «la tecnica come surrogato della politica: un’illusione». Lancinante, l’assenza di politica, proprio nei momenti di massima crisi. «Basta essere nuovi e giovani? No. Quello che conta è la struttura dei poteri cui si fa riferimento e di cui si è espressione». Oggi, «in questo vuoto politico-sociale che cosa esiste e prospera? La rete degli interessi più forti. È questa rete che esprime i dirigenti attraverso cooptazioni. La democrazia resiste come forma, ma svuotata di sostanza. Se la si volesse rinvigorire, occorrerebbe una società capace di auto-organizzazione politica, ciò che una volta sapevano fare i partiti. Oggi, invece, sono diventati per l’appunto, canali di cooptazione, per di più secondo logiche di clan e di spartizione dei posti. Così, non si promuove il tanto necessario e sbandierato rinnovamento, ma si “allevano” giovani uguali ai vecchi».Ecco la parola: «Il rinnovamento sembra molto spesso un “allevamento”. Il resto è apparenza: velocità, fattività, decisionismo, giovanilismo, futurismo, creativismo. Tutte cose ben note e di spiegabile successo, soprattutto in rapporto con l’arteriosclerosi politica che dominava. Ma la novità di sostanza dov’è? La “rottamazione” a che cosa si riduce?». Magari al consueto refrain della necessità di modificare l’assetto costituzionale. «Le istituzioni possono sempre essere migliorate e rese più efficienti, ma mi pare che siano diventate il capro espiatorio di colpe che stanno altrove», sottolinea Zagrebelsky. Il vero problema: «Le difficoltà che incontra un aggregato di potere che sempre più difficoltosamente riesce a mediare e tenere insieme il quadro delle compatibilità, in presenza di risorse pubbliche da distribuire sempre più scarse». Ai tempi di Berlusconi, continua Zagrebelky, l’insofferenza nei confronti della Costituzione derivava «dalle esigenze di un potere aggressivo». Oggi, invece, «l’atteggiamento è piuttosto difensivo», perché i fautori delle “ineludibili” modifiche costituzionali dicono: c’è bisogno di cambiamenti per governare meglio, con più efficienza. Ma il vero scopo è difendersi dai cittadini, dalla democrazia: «Il terrore delle elezioni, la vanificazione dei risultati elettorali, i “congelamenti” istituzionali in funzione di salvaguardia vanno nella stessa direzione».Gli italiani avevano archiviato il Cavaliere? Ecco che Renzi l’ha prontamente riesumato. La Consulta ha definito il Parlamento illegittimo, eletto dall’incostituzionale Porcellum? Pazienza, si fa finta di niente. E proprio a parlamentari così “nominati” si chiede di manomettere la Costituzione. Larghe intese, quindi, per paura di Grillo. «Le larghe intese sono la negazione della dimensione politica», continua Zagrebelsky. «Sono il regime della paralisi, della stasi». Sicché, oggi «sembra che si viva in un eterno presente, in cui una posta di natura politica non esiste. Se non ci sono scelte, non c’è politica, e se non c’è politica non c’è democrazia, ma solo conflitti personali, di gruppo o di clan per posti, favori e, nel caso peggiore, garanzie d’immunità». Quindi siamo senza futuro? Sì, «finché la palude non viene smossa». Sfiducia, astensionismo. «Perché i cittadini vanno sempre meno a votare? Una volta si diceva “son tutti uguali”, intendendo “sono tutti corrotti”. Ma oggi è peggio, si pensa: “tanto non cambia nulla”. È un effetto della stasi politica».Il Movimento 5 Stelle, riconosce Zagrebelky, è nato col dichiarato intento di “smuovere la palude”, addirittura di «investirla con una burrasca che rovesci tutto», anche se la politica «deve contenere anche un intento costruttivo», perché «la tabula rasa e la rete non sono programmi. Non lo è nemmeno la lotta alla corruzione che, di per sé, rischia d’essere solo una competizione per la sostituzione d’una oligarchia nuova a una vecchia». Contro la corruzione «devono valere le istituzioni di controllo e l’intransigenza dei cittadini», perché «in difetto di politica, alla corruzione non c’è limite». Di fronte a noi, c’è un’oligarchia che si arrocca, pronta a tutto – anche a rottamare democrazia e Costituzione. L’Italicum: «Mi colpisce che la legge elettorale sia decisa dagli accordi d’interesse di tre persone (Berlusconi, Renzi, Alfano) invece che dalle ragioni della democrazia, cioè dalle ragioni di tutti i cittadini elettori. Mi colpisce tanta arroganza, mentre con un Parlamento delegittimato come l’attuale, si tratterebbe di fare la legge più neutrale possibile. Mi colpisce che si sospenderà il diritto alle elezioni, perché la contraddizione tra le due Camere impedirà di scioglierle».Pessima trovata, abolire il Senato. Segno di una politica senza idee, che ha paura degli elettori. E tenta di rifarsi il trucco per nascondere la sua incapacità di affrontare i veri problemi che abbiamo di fronte: «La concentrazione del potere economico e gli andamenti della finanza mondiale, l’impoverimento e il degrado del pianeta, le migrazioni di popolazioni. Ne subiamo le conseguenze, senza poter agire sulle cause». E la classe dirigente? «Non dirige un bel niente», accusa Gustavo Zagrebelsky. «Non tenta di mettere la testa fuori. Per far questo, occorrerebbe avere idee politiche e almeno tentare di metterle in pratica». Così, resta solo «il formicolio della lotta per occupare i posti migliori nella rete dei piccoli poteri oligarchici», un formicolio «che allontana e disgusta la gran parte che ne è fuori». Pura «autoconservazione del sistema di potere e dei suoi equilibri». Dietro ai tweet di Matteo Renzi, il giurista torinese vede «il blocco d’una politica che gira a vuoto, funzionale al mantenimento dello status quo».
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Occhetto: rottamata la sinistra, nel Pd vince il potere
«Berlusconi è finito, il berlusconismo non ancora». Larghe intese? «Difficile trovare accordi con la componente filogovernativa del vecchio Pdl: è vero che non sono più berlusconiani, ma continuano a essere liberisti». Così la pensa Achille Occhetto, un quarto di secolo dopo la “svolta della Bolognina” che segnò la fine del vecchio Pci, caduto il Muro di Berlino. Riflettori italiani, allora, tutti puntati su Craxi e Mani Pulite, mentre a Bruxelles le tecnocrazie europee – compresi elementi dell’aristocrazia italiana del futuro centrosinistra – agli ordini dell’élite finanziaria mettevano a punto il dispositivo egemonico sintetizzato dal Trattato di Maastricht, quello che avrebbe ridotto mezza Europa in frantumi (e l’Italia in mutande) con l’adozione dell’euro e la conseguente dottrina del rigore. Dettaglio: il centrosinistra è l’unico, tuttora, a difendere l’euro-disciplina ultraliberista.Eppure, nonostante il granitico impianto ideologico di Letta, Renzi e Napolitano – tagli allo Stato, privatizzazioni necessarie, “sacrifici” sociali inevitabili (secondo i dettami del pensiero unico dell’élite) per Occhetto evidentemente il Pd non è affatto liberista, è ancora “di sinistra”. Intervistato da “Il Giorno” a fine novembre 2013, l’ex segretario rievoca la sua “svolta” che aprì la strada alla Seconda Repubblica del bipolarismo berlusconiano. «La mia era una scommessa storica: coniugare la libertà a una politica radicalmente alternativa al modello neoliberista», dice Occhetto. «La domanda è ancora oggi senza risposta: è possibile abbracciare la libertà senza andare a destra?». Grigio lo spettacolo offerto dai dirigenti Pd: «Sembrano zombie che si muovono nel vuoto senza sapere dove andare. Non si può costruire il nuovo unendo il peggio del Pci e il peggio della Dc». Tra loro, «ha vinto chi ha interpretato la svolta come l’ingresso nel salotto buono del potere per il potere, del governo per il governo».Manca un passaggio, fondamentale: il livello governativo nazionale – cui Occhetto fa riferimento – è ormai un dettaglio trascurabile. La politica di bilancio è subordinata alle indicazioni vincolanti dei decisori veri, quelli di Bruxelles, che rispondono a Draghi e alla Merkel, oltre che ai “mercati”, ormai padroni di quel che resta dello Stato. Occhetto preferisce limitarsi a denunciare le larghe intese, «una soluzione emergenziale che produce altra emergenza», e puntare il dito contro i difetti del Pd: «E’ afflitto dal male oscuro delle consorterie». Via d’uscita? «Raccogliere il meglio della tradizione della sinistra, a partire dal valore dell’uguaglianza declinato non più in chiave di giustizia sociale ma come tema di economia politica». A Renzi, Occhetto chiede «di andare avanti con la rottamazione, perché la politica smetta di essere il ripostiglio degli ex, ma di non limitarsi alla rottamazione dei nomi: serve anche una rottamazione delle idee, una nuova costituente delle idee, delle primarie sulle idee».«Berlusconi è finito, il berlusconismo non ancora». Larghe intese? «Difficile trovare accordi con la componente filogovernativa del vecchio Pdl: è vero che non sono più berlusconiani, ma continuano a essere liberisti». Così la pensa Achille Occhetto, un quarto di secolo dopo la “svolta della Bolognina” che segnò la fine del vecchio Pci, caduto il Muro di Berlino. Riflettori italiani, allora, tutti puntati su Craxi e Mani Pulite, mentre a Bruxelles le tecnocrazie europee – compresi elementi dell’aristocrazia italiana del futuro centrosinistra – agli ordini dell’élite finanziaria mettevano a punto il dispositivo egemonico sintetizzato dal Trattato di Maastricht, quello che avrebbe ridotto mezza Europa in frantumi (e l’Italia in mutande) con l’adozione dell’euro e la conseguente dottrina del rigore. Dettaglio: il centrosinistra è l’unico, tuttora, a difendere l’euro-disciplina ultraliberista.
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La fine dei libri: se Internet travolge la lettura lenta
Il problema è che ne parliamo da decenni, di un declino dei libri e della loro centralità, e quindi pochi prendono sul serio quello che invece sta succedendo in questi ultimi anni e mesi, e che succederà ancora di più. Malgrado le resistenze psicologiche di nostalgici e affezionati – che sono ancora molti e protestano, ma io credo che vedano solo un pezzetto della scena – il libro non è più l’elemento centrale della costruzione della cultura contemporanea. Non parlo, insomma, dell’annosa e noiosa questione del “si leggono pochi libri” eccetera: parlo di quelli che prima li leggevano, i libri; e parlo di quello che comunque ritenevamo “fossero”, i libri, letti o no. Le vendite dei libri sono in grande crisi, in Occidente e in Italia. Tutti i maggiori editori italiani hanno perdite più o meno cospicue e grafici in discesa: una cappa di desolazione rassegnata incombe su ogni loro riunione o incontro occasionale. Il dato insomma c’è: ma la questione è culturale, non commerciale. E sono due questioni, dicevo.Una è che leggiamo meno libri, per due grandi fattori legati entrambi a Internet. Il primo è che la Rete ha accelerato la nostra disabitudine alla lettura lunga, alla concentrazione su una lettura e un’occupazione sola, al regalare un tempo quieto a occupazioni come queste. È una considerazione ormai condivisa e assodata: la specie umana sta diventando inadatta alla lettura lunga. Il secondo fattore è che gli spazi e i tempi un tempo dedicati alla lettura di libri stanno venendo occupati in gran parte da altro, e subiscono la competizione di videogiochi, social network, video online, e mille altre opportunità a portata di mano sempre e ovunque. Quelli che leggevano libri sui tram o nelle sale d’aspetto o sui treni oggi stanno sui loro smartphone, e non a leggere ebooks. Ormai stanno sui loro smartphone anche prima di addormentarsi, molti. Tutto quel tempo, non è più a disposizione delle lentezze dei libri: è preso.La seconda questione centrale nella crisi dell’oggetto libro è che è diventato marginale come mezzo di costruzione e diffusione della cultura contemporanea, che invece sempre più trova luoghi di dibattito, espressione, sintesi, su Internet e in formati più brevi. Che non sono necessariamente più superficiali, anzi spesso sono molto più densi e ricchi di certi saggi di 300 pagine allungati intorno a una sola idea (vediamo anche di dire che il libro ha spesso costretto, “per scrivere un libro”, a stirare in lunghezze ridondanti buone riflessioni da cinquanta pagine, se non dieci): ma qui starei alla larga dai litigi inutili su cosa sia meglio e cosa sia peggio e se il mondo peggiori o migliori con il declino dei libri. Limitiamoci a registrarlo e capire cosa succede.Il “pubblicare un libro” come sintesi e sanzione di uno studio, una riflessione, un’idea, un tema da condividere o una storia da raccontare, è una pratica che non ha più il rilievo di un tempo. Da una parte perché quelli che leggono quella sanzione, e poi ne discutono e la fanno diventare un pezzo del dibattito e della cultura, diminuiscono ogni giorno. Dall’altra perché il mezzo è superato anche su questo. Mi capita qualche volta che qualcuno – editori o amici – mi suggerisca di scrivere un libro, per “dare un senso” e “concretizzare” le molte cose che scrivo online, e mostrarle a “un numero maggiore di lettori”, “perché restino”. Una volta rispondevo che sono pigro e non sono tanto capace di applicarmi su un lavoro di impegno e tempo così esteso e assiduo. Adesso spiego loro che le loro ragioni non valgono più e sono invertite: se c’è un posto dove quello che scrivo “resta” e “raggiunge più lettori”, è Internet.I libri spariscono dalla vendita e dall’attenzione – e dall’esistenza – dopo pochi mesi, o pochi anni al massimo (salvo rare eccezioni): ne escono a centinaia ogni mese, e se non vi passano sotto il radar subito, non esisteranno mai più. Vi ricordate il successo – molto pompato – che ebbe quel libretto “Indignatevi”? Cos’era, due anni fa? Oggi è quasi impossibile che un giovane che non ne abbia ricevuto notizie allora ci si imbatta di nuovo. Mentre grazie ai social network e ai link e a Google, cose pubblicate online anche dieci anni fa continuano a trovare nuove attenzioni e tornare a essere lette. Questo post, con buona approssimazione, sarà letto da circa diecimila persone: è un numero che sarebbe considerato un buon successo per un saggio di qualunque autore di non grandissima fama come me (il mio libro “Un grande paese” ha venduto poco di più), e che rende economicamente sempre meno. E questo post, sarà ancora ricircolato tra un anno, tra due, tre (se non altro per rinfacciarmi di quanto poco ci avessi preso di fronte al grande boom dei libri del 2017).Poi, ripeto, restano gli appassionati “romantici” dei libri: lo siamo un po’ tutti, e c’è il piacere e c’è la bellezza, eccetera (e Internet offre loro nuovi spazi di sopravvivenza, anche se sempre più riserve indiane). E ci sono libri bellissimi, se uno li legge. Come per il teatro, la cui importanza e meraviglia nessuno mette in discussione, ed è bello che esista ancora. Ma non “esiste” più, il teatro: è una nicchia laterale della cultura contemporanea che non interagisce più con la sua crescita e le sue evoluzioni. I libri non sono ancora arrivati a quel punto lì, e magari non ci arriveranno. Ma entrerei nell’ordine di idee che sia plausibile (Ps: ho ritrovato questo, in America se n’erano già accorti tre anni fa).(Luca Sofri, “La fine dei libri”, da “Wittengstein” dell’8 gennaio 2013).Il problema è che ne parliamo da decenni, di un declino dei libri e della loro centralità, e quindi pochi prendono sul serio quello che invece sta succedendo in questi ultimi anni e mesi, e che succederà ancora di più. Malgrado le resistenze psicologiche di nostalgici e affezionati – che sono ancora molti e protestano, ma io credo che vedano solo un pezzetto della scena – il libro non è più l’elemento centrale della costruzione della cultura contemporanea. Non parlo, insomma, dell’annosa e noiosa questione del “si leggono pochi libri” eccetera: parlo di quelli che prima li leggevano, i libri; e parlo di quello che comunque ritenevamo “fossero”, i libri, letti o no. Le vendite dei libri sono in grande crisi, in Occidente e in Italia. Tutti i maggiori editori italiani hanno perdite più o meno cospicue e grafici in discesa: una cappa di desolazione rassegnata incombe su ogni loro riunione o incontro occasionale. Il dato insomma c’è: ma la questione è culturale, non commerciale. E sono due questioni, dicevo.
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Hollande, un vero scandalo (ma le donne non c’entrano)
Non ho seguito più di tanto François Hollande, il presidente francese, da quando si è capito chiaramente che non avrebbe rotto con l’ortodossia della politica economica europea, una politica distruttiva e ancorata all’idea dell’ “austerità”. Ma adesso ha fatto una cosa veramente scandalosa. Non sto parlando, ovviamente, della sua presunta relazione con un’attrice, che, anche se fosse appurata, non è né sorprendente (dopotutto siamo in Francia) né preoccupante. No, ciò che è sconvolgente è la sua adesione alle più screditate dottrine economiche della destra. Si può convenire sul fatto che gli attuali problemi economici dell’Europa non siano dovuti solo alle cattive idee della destra. È vero che sono stati conservatori sordi e ostinati a indirizzare le politiche economiche, ma ciò è avvenuto con l’avallo e il consenso degli smidollati ed inetti politici della sinistra moderata.L’Europa sembra appena emergere da una recessione con ricaduta (double-dip recession) e comincia a crescere un po’. Ma questo timido accenno di ripresa fa seguito ad anni di risultati disastrosi. Quanto disastrosi? Prendiamo un esempio: nel 1936, sette anni dopo la grande depressione, la maggior parte dell’Europa cresceva rapidamente, con il Pil procapite stabilmente assestato su alti valori. In confronto, il Pil procapite reale di oggi è ancora largamente al di sotto del picco del 2007, e tutt’al più risale lentamente. Per fare peggio di quanto è avvenuto nella grande depressione, si potrebbe dire, ce n’è voluto. Come ne uscirono all’epoca gli europei? Semplice: negli anni ’30 la maggior parte dei paesi europei finirono per abbandonare, chi prima, chi poi, l’ortodossia economica. Abbandonarono la parità aurea; desistettero dal pareggio di bilancio; ed alcuni di essi lanciarono vasti programmi di spese militari, che ebbero come effetto collaterale una potente azione di stimolo all’economia. Il risultato fu una forte ripresa dal 1933 in poi.L’Europa contemporanea è molto migliore di allora: da un punto di vista morale, politico e anche umano. Un impegno condiviso in nome della democrazia ha portato pace per molti anni; le reti di protezione sociale hanno limitato i danni di una disoccupazione troppo elevata; un’azione coordinata ha contenuto il rischio di un tracollo finanziario. Purtroppo, se il continente è riuscito a evitare il disastro, ciò ha avuto come effetto collaterale lo schiacciamento dei governi su politiche economiche ortodosse. Nessuno è uscito dall’euro, anche se è una camicia di forza monetaria. Senza la spinta delle spese militari, nessuno ha allentato l’austerità fiscale. Tutti stanno facendo le scelte ritenute sicure e responsabili. E la crisi persiste. In questo paesaggio depresso e deprimente, la Francia non si comporta peggio di altri. Certo è rimasta indietro rispetto alla Germania, sostenuta dalle suo eccellente export. Ma i risultati della Francia sono stati molto migliori di quelli di tanti altri paesi europei. E non parlo solo dei paesi colpiti dalla crisi da debito. La crescita della Francia ha superato quella di due pilastri dell’ortodossia, come la Finlandia e l’Olanda.È vero che i dati più recenti indicano una Francia che male si allinea all’accenno di ripresa europeo. Molti osservatori, compreso il Fondo Monetario Internazionale, indicano proprio nelle politiche d’austerità la causa principale di questa debolezza recente. Ma adesso che Hollande ha illustrato i suoi piani per invertire la rotta… è difficile non farsi prendere dallo sconforto. Perché Hollande ha annunciato l’intenzione di ridurre il carico fiscale sulle imprese tagliando – per compensarne i costi – la spesa pubblica (senza dire quale), ed ha dichiarato: «È sull’offerta che dobbiamo agire», e ha poi aggiunto: «E’ l’offerta che crea la domanda». Benedetto ragazzo! Questa dichiarazione richiama quasi letteralmente la fandonia, più volte smascherata, nota come “legge di Say”, che pretende che cadute generali della domanda non possono verificarsi, perché chi guadagna deve comunque in qualche modo spendere. Quest’idea è semplicemente sbagliata; ancora più sbagliata alla luce dei fatti di questo inizio 2014.Tutti gli indicatori mostrano che la Francia è inondata di risorse produttive, sia il lavoro che il capitale, che restano sottoutilizzate perché la domanda è insufficiente. Per rendersene conto basta considerare l’inflazione, che diminuisce sempre più. In effetti la Francia e l’Europa si stanno pericolosamente avvicinando ad una deflazione in stile giapponese. Come spiegarsi allora che, proprio in questo momento, Hollande abbia adottato una dottrina economica così screditata? Come ho già detto, questo è un segno delle tristi sorti del centrosinistra europeo. Per quattro anni, l’Europa è stata preda della febbre da austerità, con risultati prevalentemente disastrosi; si cerca ora di presentare l’attuale debole ripresa come un trionfo di quelle politiche.Alla luce dei danni generati da quelle scelte, ci si sarebbe potuto aspettare che i politici della ‘sinistra del centro’ si battessero strenuamente per un cambio di passo. Eppure, ovunque in Europa, il centro-sinistra ha, nella migliore delle ipotesi (per esempio, in Gran Bretagna) esposto critiche deboli e svogliate; spesso ha semplicemente arretrato in totale sottomissione. Quando Hollande è diventato il leader della seconda economia europea, alcuni di noi avevano sperato che riuscisse a esprimere una posizione critica. Invece ha cominciato, come al solito, ad arretrare. Un arretramento che diventa oggi un vero e proprio crollo intellettuale. Mentre la seconda depressione europea continua.(Paul Krugman, “Scandalo in Francia”, intervento apparso sul “New York Times” il 23 gennaio 2014 e ripreso da “Micromega”).Non ho seguito più di tanto François Hollande, il presidente francese, da quando si è capito chiaramente che non avrebbe rotto con l’ortodossia della politica economica europea, una politica distruttiva e ancorata all’idea dell’ “austerità”. Ma adesso ha fatto una cosa veramente scandalosa. Non sto parlando, ovviamente, della sua presunta relazione con un’attrice, che, anche se fosse appurata, non è né sorprendente (dopotutto siamo in Francia) né preoccupante. No, ciò che è sconvolgente è la sua adesione alle più screditate dottrine economiche della destra. Si può convenire sul fatto che gli attuali problemi economici dell’Europa non siano dovuti solo alle cattive idee della destra. È vero che sono stati conservatori sordi e ostinati a indirizzare le politiche economiche, ma ciò è avvenuto con l’avallo e il consenso degli smidollati ed inetti politici della sinistra moderata.
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Graziani, il maestro che previde la catastrofe dell’euro
Con Augusto Graziani è scomparso «il maestro di una intera generazione di economisti italiani, raffinato innovatore delle idee di Marx e Keynes e acutissimo critico dei luoghi comuni su cui regge il consenso verso la politica economica dominante». Graziani, lo ricorda l’economista Emiliano Brancaccio, ha incarnato una miscela unica di rigore intellettuale, potenza dialettica e delicatezza espressiva. «Una figura minuta, quasi a simboleggiare la fragilità della condizione umana, che manifestava una sincera empatia verso chiunque fosse soggiogato dalla durezza della vita materiale, ma che al contempo racchiudeva lo spirito di un temuto combattente, capace con pochi affondi di rivelare l’insipienza dei protervi strilloni della vulgata economica che avevano la sventura di incrociare le sue affilate armi critiche». Un uomo d’altri tempi, «nell’epoca della mediocrità alla ribalta», con le antenne accese sul futuro: «In più occasioni, infatti, Graziani ha saputo anticipare il corso degli eventi storici».Attualissimi, in questo senso, i suoi studi sulle contraddizioni tra sviluppo economico italiano e ristrutturazione del capitalismo continentale, che oggi dominano la scena politica e sollevano dubbi crescenti sulla sopravvivenza dell’Unione monetaria europea. Nel 2002, a Napoli, nell’aula Vanvitelliana della facoltà di scienze politiche, Graziani tenne una lezione sull’euro appena entrato in circolazione. I colleghi ad ascoltarlo vennero numerosi, ricorda Brancaccio. «La sensazione era che i più lo onorassero senza esser minimamente persuasi dal suo scetticismo sulla sostenibilità futura dell’Eurozona», vittime già allora della «grancassa dell’ideologia» che in quei giorni «operava a pieno ritmo, seducendo persino le menti più brillanti e avvezze alla critica». Quanto a Graziani, «i suoi dubbi sulla moneta unica, ben saldati sul terreno dei fatti, non si limitavano a trarre spunto dalla nota lezione keynesiana sulla insostenibilità di quelle unioni valutarie che pretendono di scaricare l’intero peso dei riequilibri commerciali sui soli paesi debitori. Vi era pure, nella sua analisi, una lettura implicita del concetto marxiano di centralizzazione dei capitali, e dei tremendi conflitti politici che possono derivare da essa».Il pessimismo di Graziani, continua Brancaccio in un post ripreso da “Megachip”, era dunque fondato su una consapevolezza profonda dell’equilibrio precario su cui verteva il processo di unificazione europea, e del rischio che prima o poi la situazione potesse precipitare sotto il giogo di meccanismi favorevoli all’economia più forte del continente. Veniva così a crearsi uno scenario propizio per la riscoperta del sinistro monito di Thomas Mann sull’essenza dello spirito prevalente in Germania: «Dove l’orgoglio dell’intelletto si accoppia all’arcaismo dell’anima e alla costrizione, interviene il demonio». Nel clima di entusiasmo suscitato dalla nascita dell’euro, tuttavia, le preoccupazioni di Graziani non attecchirono. Nel nostro paese, piuttosto, trovò largo seguito l’improbabile ideologia del “vincolo esterno”. I suoi propugnatori sostenevano che i vincoli imposti dall’Europa sul governo della moneta, del tasso di cambio, dei bilanci pubblici, non costituivano la dimostrazione che l’Unione andava costituendosi a immagine e somiglianza degli interessi del più forte, ossia del capitalismo tedesco. Piuttosto, si diceva, quei vincoli avrebbero miracolosamente trasformato i piccoli ranocchi dello stagnante e frammentato capitalismo italiano in algidi principi della modernità globale, in vere e proprie avanguardie della produzione planetaria.Insomma, modernizzare il capitalismo italiano, renderlo più centralizzato e quindi più forte: alcuni padri della patria, continua Brancaccio, «hanno incredibilmente sostenuto che il vincolo esterno imposto dall’Europa potesse spontaneamente fare tutto questo, sia pure in un deserto di progettualità e di investimenti». In tanti furono abbagliati da simili illusioni. Di contro, in un articolo pubblicato sempre nel 2002 sulla “International Review of Applied Economics”, Graziani fu tra i pochi a segnalare che il vincolo esterno avrebbe potuto determinare un effetto esattamente opposto a quello annunciato. Previde cioè che i capitalisti italiani «avrebbero tentato di rimediare alla perdita delle ultime leve della politica economica tramite una ulteriore frammentazione dei processi produttivi, finalizzata a reiterare il lassismo in campo fiscale e contributivo e ad accelerare la precarizzazione del lavoro. Fino a scoprire, nella crisi, che questi rozzi tentativi di contrazione dei costi non potevano reggere a lungo».Oggi, conclude Brancaccio, sappiamo che le cose sono andate come Graziani aveva previsto. E sappiamo pure che, proseguendo di questo passo, «l’inasprirsi dei conflitti tra capitalismi europei potrà condurre a un tracollo dell’Unione che porrà i decisori politici di fronte a una scelta cruciale tra modalità alternative di uscita dall’euro, ognuna delle quali avrà diverse implicazioni sui diversi gruppi sociali coinvolti». I contributi di Graziani, fondati su una visione moderna delle contrapposizioni “tra e dentro” le classi sociali, potranno aiutarci anche ad afferrare i termini di quello snodo decisivo che pian piano affiora all’orizzonte. «Purtroppo, specialmente tra gli eredi più o meno diretti del movimento dei lavoratori, vi è oggi ancora chi preferisce distogliere lo sguardo da questa realistica prospettiva, e continua ad affidarsi alle sempre più flebili speranze di rilancio dei nobili ideali europeisti». Eppure, in tempi più illuminati del nostro, «è stato detto acutamente che l’invito a sperare è in fondo un invito a ignorare: chi conosce non spera ma prevede, e se le condizioni oggettive e la metodica organizzazione delle forze lo permettono, si dispone ad agire per il cambiamento», proprio come fece Augusto Graziani.Con Augusto Graziani è scomparso «il maestro di una intera generazione di economisti italiani, raffinato innovatore delle idee di Marx e Keynes e acutissimo critico dei luoghi comuni su cui regge il consenso verso la politica economica dominante». Graziani, lo ricorda l’economista Emiliano Brancaccio, ha incarnato una miscela unica di rigore intellettuale, potenza dialettica e delicatezza espressiva. «Una figura minuta, quasi a simboleggiare la fragilità della condizione umana, che manifestava una sincera empatia verso chiunque fosse soggiogato dalla durezza della vita materiale, ma che al contempo racchiudeva lo spirito di un temuto combattente, capace con pochi affondi di rivelare l’insipienza dei protervi strilloni della vulgata economica che avevano la sventura di incrociare le sue affilate armi critiche». Un uomo d’altri tempi, «nell’epoca della mediocrità alla ribalta», con le antenne accese sul futuro: «In più occasioni, infatti, Graziani ha saputo anticipare il corso degli eventi storici».
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Illusi dal consumismo, sperano solo che tutto ricominci
Ho percorso duecento chilometri in auto negli ultimi due giorni ed ho trovato due blocchi del cosiddetto movimento dei forconi. Qualcuno ci vede il baluginare della rivolta che verrà, io ho visto la ripetizione di una tradizione italiana vecchia di un migliaio d’anni: la rivolta per il pane, l’assalto ai forni. Ho visto gente che ha perso tutti i contenitori politici nei quali era transitata. Ho visto gente smarrita, non l’avanguardia rivoluzionaria. Ma so che alcuni ci hanno ricamato sopra una teoria e la teoria dice che questi 30.000 (ma facciamo anche 50.000 o 100.000) sarebbero l’avanguardia della massa che verrà. La teoria dice che questi protestanti – presto o tardi – diventeranno anticapitalisti perché capiranno che il capitalismo li sta massacrando. E così diventeranno anticapitaliste le masse che se ne stanno a casa oggi non appena la crisi morderà le loro “sicurezze”.Questo dice la teoria. Solo che la teoria non funzionerà. Perché non funzionano così le cose. A quei blocchi nessuno pensava minimamente al capitalismo o all’anticapitalismo. C’era gente che aveva perso qualcosa e la rivoleva indietro. E rivolevano indietro quel che avevano vissuto: un posto non troppo freddo ai margini del capitalismo. Un posto che – sono convinti – gli è stato tolto dalle iniquità dei governi, dalla mancanza di politiche protezioniste, dall’Europa, dalle tasse. E mi è venuto da pensare al fenomeno del cambiamento dei consumi di stupefacenti negli ultimi quarant’anni. Che centra? C’entra. Negli anni ’70 ci si faceva di eroina e di acidi lisergici. Ci si faceva di droghe che ti sparavano fuori da un mondo che si sentiva profondamente ingiusto e nel quale non si voleva rimanere. Dietro c’era tutto un movimento tra il culturale e il politico che postulava il rifiuto radicale dei modi di essere e di consumare. Dagli anni ’80 ha preso piede la cocaina e tutta la larga famiglia delle anfetamine. La droga che aiuta non a fuggire dal mondo ma a restarci e ad essere “performante”. Una droga sintonizzata sulla necessità di dimostrare di essere sempre sveglio, attivo, concorrenziale.Guardavo la gente ai blocchi e pensavo che quella gente che mi dava i loro volantini volevano una sola cosa: essere di nuovo parte di un capitalismo che funziona. Non sanno come fare, non hanno le idee chiarissime ma due o tre concetti più o meno interiorizzati: sovranità popolare, lotta ai burocrati europei, lotta alla classe politica. Guardavo i carabinieri alla curva della rotatoria. Immobili, passivi, lasciavano che il blocco ci fosse ma fosse “ragionevole”. Fermali sì ma poi falli passare dopo una decina di minuti. Ci ho parlato per un po’. La maggioranza faceva fatica ad articolarmi un discorso omogeneo. Quello che usciva fuori era un “prima” (quando si stava bene) e un “adesso” nel quale si sta male. Ridateci quello che avevamo, ridateci il capitalismo ben temperato. Segni di anticapitalismo? Nessuno. Neppure una briciola sparsa di luddismo. Le facce smarrite e incazzate raccontavano soltanto la sorpresa e la paura di essere tagliati fuori definitivamente dalla fonte di ogni delizia.Non erano persone che si stavano riappropriando del loro essere cittadini ma, piuttosto, gente che rivoleva essere consumatori. Uno mi ha detto che voleva la meritocrazia e voleva che i migranti (non usava questo termine però) se me tornassero a casa loro. Un altro voleva uscire dall’Europa perché così saremmo stati di nuovo “padroni in casa nostra”. Padroni per fare che? Per tornare a consumare. Era gente che non sa che una economia anticapitalista non prevede la Audi ma semmai una versione moderna della Trabant. Perché se “da ognuno secondo le proprie capacità, ad ognuno secondo i propri bisogni”. Si tratta di ridistribuire equamente le risorse e la fettina di torta per ciascuno sarà uguale ma non sarà grande. Ma non volevano una cosa del genere, volevano esattamente la fetta che avevano prima. Volevano – appunto – un capitalismo come quello nel quale avevano nuotato sino a ieri. Volevano ricominciare a vendere per poi consumare, per poi vendere ancora e consumare di nuovo.Io ho visto gente che rivoleva la gabbia perché neppure sa di essere in gabbia. Non c’era l’idea di un modello alternativo, c’era solo un urlo sottinteso: “Rimettete in moto la macchina”. E la macchina si chiama capitale. Non pretendo coscienze sociali che non si possono chiedere. Ma se questa che ho visto era l’avanguardia posso agevolmente immaginarmi la massa alla cui testa si muove. Non c’è nessuna parentela con l’iconografia di Pellizza da Volpedo. Mi si dirà che non si può dividere la lotta anticapitalista cosciente dalla protesta per l’impoverimento. Non si può se si pensa che la massa passerà dallo stadio della lotta protestataria alla scoperta della lotta contro il capitale. E chi dice e su quali basi lo afferma che questa gente che ho visto, incazzata per ciò che ha perso, maturerà anche la più pallida idea di un modello differente? Certo magari in qualche testo teorico avviene anche questo miracolo. Ma siamo nel mondo. E il mondo ha visto i tedeschi dell’Est nel 1989 passare il muro e correre a rotta di collo verso il più vicino supermercato di Berlino Ovest.Ed è lo stesso mondo che a Kiev vede un bel po’ di dimostranti scendere in piazza per poter entrare in Europa e non rimanere nell’orbita dei satrapi russi. Naturalmente giusto per far capire che vogliono il capitalismo tirano giù l’ultima statua di Lenin ancora in piedi. Un’altra lotta sacrosanta contro il totalitarismo, o una lotta per entrare nel mondo del capitalismo ben temperato? Ho visto gente accomunata dal comune scivolamento all’indietro della propria possibilità di essere dentro alla macchina del consumo. E a proposito di macchine, uno mi ha detto che ha dovuto vendersi la Golf Gti che con tanti sacrifici s’era comprato. Una per farmi riflettere sul suo scivolamento all’indietro mi ha detto che tutti gli anni riusciva ad andare a farsi una settimana a Sharm-el-Sheik (abbreviato “Sciarm” con la stessa pronuncia di “sciampista”) e che ora non aveva i soldi per pagarsi il mutuo. E allora ho capito che per dissolvere questo prodromo di “rivoluzione” basterebbe un cambiamento di congiuntura, un po’ più di Pil.Qualcuno mi ha detto che se non cambierà qualcosa, l’Italia diventerà come la Grecia. Ossia, voleva dire, ci ribelleremo come i greci. Lui crede che ci sia una rivoluzione, in Grecia. Esattamente come quelli che credono che quanto è accaduto sia il primo raggio della rivoluzione anticapitalista. Sarebbe anche bello, ma non è così. Non è così perché nessuno aveva in mente un modello alternativo. E nessuna delle persone che ho visto a quei blocchi metteva in dubbio il modello cui si aggrappava. Non ci sarà nessuna rivoluzione. Non ci sarà tra un mese, tra un anno o tra dieci. La scorciatoia non arriverà. Perché una rivoluzione, quella vera, è il frutto di un lungo lavoro di penetrazione di idee differenti lungo l’arco di decenni. Voltaire iniziò a scrivere nel 1716 e morì senza aver visto la Rivoluzione che aveva contribuito a rendere cosciente. Qualcuno mi dirà che il rivoltoso che assaliva la Bastiglia nulla sapeva magari di Voltaire. È probabile, anzi, quasi certo. Ma ciononostante quel rivoluzionario aveva chiaro in mente che non voleva più essere parte del regime che assaliva. Ne voleva uno che fosse diverso, non voleva star meglio in quello che c’era. Perché se è vero che la rivoluzione non è un pranzo di gala, è anche vero che non si improvvisa. Quando si improvvisa è una italica rivolta per il pane: quando cala il prezzo tutti se ne tornano a casa.Ho percorso duecento chilometri in auto negli ultimi due giorni ed ho trovato due blocchi del cosiddetto movimento dei forconi. Qualcuno ci vede il baluginare della rivolta che verrà, io ho visto la ripetizione di una tradizione italiana vecchia di un migliaio d’anni: la rivolta per il pane, l’assalto ai forni. Ho visto gente che ha perso tutti i contenitori politici nei quali era transitata. Ho visto gente smarrita, non l’avanguardia rivoluzionaria. Ma so che alcuni ci hanno ricamato sopra una teoria e la teoria dice che questi 30.000 (ma facciamo anche 50.000 o 100.000) sarebbero l’avanguardia della massa che verrà. La teoria dice che questi protestanti – presto o tardi – diventeranno anticapitalisti perché capiranno che il capitalismo li sta massacrando. E così diventeranno anticapitaliste le masse che se ne stanno a casa oggi non appena la crisi morderà le loro “sicurezze”.
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Barnard a Grillo: non sei all’altezza dei tuoi parlamentari
Ieri io e Warren Mosler, il capo economista della ME-MMT, cioè l’economia salva vite e salva nazione di cui l’Italia ha disperato bisogno per non schiantarsi definitivamente, per non condannare i nostri giovani a 60 anni di nuova povertà, siamo stati ascoltati dalla Commissione Finanze della Camera a Roma. L’incontro è stato positivo anche se fortemente penalizzato dalle difficoltà di traduzione che hanno in qualche modo stemperato i contenuti dirompenti della ME-MMT che Warren portava in aula. Inaspettato l’interesse del Pd… il cui maggior rappresentante in Commissione ha voluto contatti stretti con Mosler per capire meglio. Il Pd! E’ proprio vero che esistono fenomeni che la scienza non saprà mai spiegare. Ma ok. A margine del suddetto evento, io e Warren Mosler siamo incappati in un gruppo di deputati del M5S, i quali hanno improvvisato una sorta di happening con noi al termine dei lavori parlamentari di quel giorno.Una quindicina di legislatori, giovani, in parte esperti di bilancio e finanza, si sono intrattenuti con i cervelli incollati a Mosler e a me fino alle nove di sera e oltre. Tralascio i contenuti tecnici della discussione perché non sono, qui, il punto. Io li ho guardati, ne ho fatto le risonanze magnetiche, quindi ben più che radiografati, e poi ho ripassato il tutto dal mio filtro di inflessibile cinismo e realismo. Parliamo, dopotutto, dei figli di Casaleggio e di Beppe Grillo, cioè di deputati di un partito azienda zeppo di seguaci acritici fino al fanatismo e che perde pezzi da tutte le parti, a tratti persino grottesco. Ma questi uomini di ieri erano un’altra cosa. Erano competenti, agguerriti, e vorrei, Dio mi sia testimone di quanto lo vorrei, dire che erano e sono una speranza per il Paese. Tutti gli assembramenti umani sono fatti di percentuali più o meno valide, questo è normale, ma se il M5S fosse fatto anche solo al 40% da legislatori come quelli che ho conosciuto ieri, avremmo un partito capace di cambiare la storia dell’Italia e dell’Europa. E qui parlo a te, Beppe Grillo.Non so quanti tuoi figli politici siano al livello di quelli con cui ho dialogato poco fa. Non lo sai neppure tu. Ma essi sono il tuo capitale. Gli altri sono numeri, che per carità servono, perché la manovalanza serve sempre in tutto, non potremmo fare senza, non costruiremmo neppure una casa senza la manovalanza, ma alla fine la Storia ci insegna che è sempre un gruppo ristretto che la cambia. E tu l’hai. Bene. Ma loro non hanno te. Beppe, tu non sei all’altezza dei tuoi deputati che io e Warren Mosler abbiamo incontrato ieri. Io ti ricordo da molti anni addietro, quando ci incrociavamo da Milena Gabanelli, o con Vermigli e Gherardo Colombo. Allora tu eri come i tuoi migliori di cui sopra. Poi cosa ti è successo? Il tuo è stato un declino impressionante, e tutto d’un colpo. Cosa sia passato fra te e Gian Roberto Casaleggio è un mistero, che forse sarà conosciuto un giorno, ma qui non importa. Di fatto Casaleggio ti ha rimpicciolito, scoordinato, deprezzato, e proprio sequestrato. Tu oggi non ci sei più, e i tuoi migliori in Parlamento sono soli.Io, la Me-Mmt, Warren e altri ci offriamo di aiutarli, se lo meritano, si meritano, questi tuoi migliori, di ergersi a Roma con l’autorevolezza di chi ha gli strumenti per cambiare l’Italia per la prima volta dopo la sua morte civica di quasi 40 anni fa. Ma tu non ci sei, non hai idee alla loro altezza, e anzi, ora tu e Casaleggio gli state mettendo imbarazzanti sciocchezze politiche e deliranti progetti internettiani fra le gambe, fra le ruote. Ma che fai, Grillo? Ma dove sei con la testa? I tuoi migliori sono soli, mi stai ascoltando? Sono soli. E ora mi rivolgo a voi che leggete queste parole, voi lettori. Come sarebbe se fra qualche ora Grillo rispondesse a questo post sul suo blog? Se magari stanotte mentre si corica pensasse a come tornare Beppe Grillo e a come tornare a essere un pari fra i suoi migliori? A come ritornare al loro fianco con la statura politica che loro si meritano. A come congedarsi da Gian Roberto Casleggio con un “grazie per tutto, ma non credo che tu e le tue idee aziendali siate ciò che i miei ragazzi necessitano per diventare statisti.” Statisti. Perché i giovani deputati di ieri ne avrebbero la stoffa. Ma sono soli.(Paolo Barnard, “Il grande capitale abbandonato da Beppe Grillo”, dal blog di Barnard del 14 novembre 2013).Ieri io e Warren Mosler, il capo economista della Me-Mmt, cioè l’economia salva vite e salva nazione di cui l’Italia ha disperato bisogno per non schiantarsi definitivamente, per non condannare i nostri giovani a 60 anni di nuova povertà, siamo stati ascoltati dalla Commissione Finanze della Camera a Roma. L’incontro è stato positivo anche se fortemente penalizzato dalle difficoltà di traduzione che hanno in qualche modo stemperato i contenuti dirompenti della Me-Mmt che Warren portava in aula. Inaspettato l’interesse del Pd… il cui maggior rappresentante in Commissione ha voluto contatti stretti con Mosler per capire meglio. Il Pd! E’ proprio vero che esistono fenomeni che la scienza non saprà mai spiegare. Ma ok. A margine del suddetto evento, io e Warren Mosler siamo incappati in un gruppo di deputati del M5S, i quali hanno improvvisato una sorta di happening con noi al termine dei lavori parlamentari di quel giorno.