Archivio del Tag ‘identità’
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L’Italia nell’Ue finirà all’inferno: così parlò Craxi, 20 anni fa
Unione Europea uguale: declino, per l’Italia, la prima vittima dell’euro, grazie a un certo Romano Prodi. E il contesto è chiaro: si scrive globalizzazione, ma si legge impoverimento della società e perdita di sovranità e indipendenza. Sono alcune delle “perle profetiche” di quello che Vincenzo Bellisario definisce «l’ultimo statista italiano», ovvero il vutuperato Bettino Craxi, spentosi 17 anni fa nel suo esilio di Hammamet. Un uomo che «bisognava eliminare a tutti i costi», scrive Bellisario, sul blog del “Movimento Roosevelt”, ricordando alcuni punti-chiave del vero lascito politico del leader socialista, eliminato da Mani Pulite alla vigilia dell’ingresso italiano nella sciagurata “camicia di forza” di Bruxelles, i cui esiti si possono misurare ogni giorno: disoccupazione dilagante e crollo delle aziende, con il governo costretto a elemosinare deroghe di spesa per poter far fronte a emergenze catastrofiche come il terremoto. «C’è da chiedersi perché si continua a magnificare l’entrata in Europa come una sorta di miraggio, dietro il quale si delineano le delizie del paradiso terrestre», scriveva Craxi oltre vent’anni fa. Con questi vincoli Ue, «l’Italia nella migliore delle ipotesi finirà in un limbo, ma nella peggiore andrà all’inferno».«Ciò che si profila, ormai – profetizzava Craxi – è un’Europa in preda alla disoccupazione e alla conflittualità sociale, mentre le riserve, le preoccupazioni, le prese d’atto realistiche, si stanno levando in diversi paesi che si apprestano a prendere le distanze da un progetto congeniato in modo non corrispondente alla concreta realtà delle economie e agli equilibri sociali che non possono essere facilmente calpestati». Il governo italiano, visto l’andazzo, «avrebbe dovuto, per primo, essendo l’Italia, tra i maggiori paesi, la più interessata, porre con forza nel concerto europeo il problema della rinegoziazione di un Trattato che nei suoi termini è divenuto obsoleto e financo pericoloso». Rinegoziare Maastricht? Nemmeno per idea: «Non lo ha fatto il governo italiano. Non lo fa l’opposizione, che rotola anch’essa nella demagogia europeistica. Lo faranno altri, e lo determineranno soprattutto gli scontri sociali che si annunciano e che saranno duri come le pietre». A tener banco, ancora, saranno «i declamatori retorici dell’Europa», ovvero «il delirio europeistico che non tiene conto della realtà». Sbatteremo contro «la scelta della crisi, della stagnazione e della conseguente disoccupazione», un disastro che – secondo il “profeta” Craxi – è stato quindi accuratamente programmato.L’euro? No, grazie: «Affidare effetti taumaturgici e miracolose resurrezioni alla moneta unica europea, dopo aver provveduto a isterilire, rinunciare, accrescere i conflitti sociali, è una fantastica illusione che i fatti e le realtà economiche e finanziarie del mondo non tarderanno a mettere in chiaro». Già, il mondo globalizzato: «La globalizzazione non viene affrontata dall’Italia con la forza, la consapevolezza, l’autorità di una vera e grande nazione, ma piuttosto viene subita in forma subalterna in un contesto di cui è sempre più difficile intravedere un avvenire, che non sia quello di un degrado continuo, di un impoverimento della società, di una sostanziale perdita di indipendenza». Questo mortificante mutamento, aggiunge Craxi, si colloca «in un quadro internazionale, europeo, mediterraneo, mondiale, che ha visto l’Italia perdere, una dopo l’altra, note altamente significative che erano espressione di prestigio, di autorevolezza, di forza politica e morale». Non è certo amica della pace questa «spericolata globalizzazione forzata», in cui ogni nazione perde la sua identità, la consapevolezza della sua storia, il proprio ruolo geopolitico.«Cancellare il ruolo delle nazioni significa offendere un diritto dei popoli e creare le basi per lo svuotamento, la disintegrazione, secondo processi imprevedibili, delle più ampie unità che si vogliono costruire». Dietro la longa manus della cosiddetta globalizzazione, aggiunge Craxi, si avverte «il respiro di nuovi imperialismi, sofisticati e violenti, di natura essenzialmente finanziaria e militare», opportunamente “accolti” da politici perfettamente adatti a questo nuovo ruolo di maggiordomi. Un nome? Romano Prodi. «Nel vecchio sistema – scrive Craxi – il signor Prodi era il classico sughero che galleggiava tra i gruppi pubblici e i gruppi privati con una certa preferenza per quest’ultimi ed una annoiata ma non disinteressata partecipazione ai palazzi dei primi». Come presidente dell’Iri non era nient’altro che «una costola staccata dal sistema correntizio democristiano» e, lungo il cammino, si era dimostrato «poco più di un fiumiciattolo che rispondeva sempre, sulle cose essenziali, alla sua sorgente originaria». Il “signor Prodi”, come leader politico? «Nient’altro che il classico bidone». Infatti se ne sono accorti tutti. Vent’anni dopo.Unione Europea uguale: declino, per l’Italia, la prima vittima dell’euro, grazie a un certo Romano Prodi. E il contesto è chiaro: si scrive globalizzazione, ma si legge impoverimento della società e perdita di sovranità e indipendenza. Sono alcune delle “perle profetiche” di quello che Vincenzo Bellisario definisce «l’ultimo statista italiano», ovvero il vutuperato Bettino Craxi, spentosi 17 anni fa nel suo esilio di Hammamet. Un uomo che «bisognava eliminare a tutti i costi», scrive Bellisario, sul blog del “Movimento Roosevelt”, ricordando alcuni punti-chiave del vero lascito politico del leader socialista, eliminato da Mani Pulite alla vigilia dell’ingresso italiano nella sciagurata “camicia di forza” di Bruxelles, i cui esiti si possono misurare ogni giorno: disoccupazione dilagante e crollo delle aziende, con il governo costretto a elemosinare deroghe di spesa per poter far fronte a emergenze catastrofiche come il terremoto. «C’è da chiedersi perché si continua a magnificare l’entrata in Europa come una sorta di miraggio, dietro il quale si delineano le delizie del paradiso terrestre», scriveva Craxi oltre vent’anni fa. Con questi vincoli Ue, «l’Italia nella migliore delle ipotesi finirà in un limbo, ma nella peggiore andrà all’inferno».
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Magaldi: gli Occhionero bruciati per imporre 007 infedeli?
Lo scandalo della cyber-security con l’arresto dei fratelli Occhionero? Fatto scoppiare ad arte, per imporre un nuovo super-controllore gradito a Renzi (e all’ultra-destra massonica cui il leader Pd guarderebbe) ma sgradito agli ambienti della massoneria internazionale progressista. E’ la tesi, dirompente, enunciata dal massone Gioele Magaldi, gran maestro del Grande Oriente Democratico e autore del saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata”, pubblicato da Chiarelettere a fine 2014 ma completamente oscurato dai grandi media, nonostante rivelasse – in modo del tutto inedito – i più segreti retroscena del “back office” del potere, consentendo una clamorosa rilettura dell’intera storia del ‘900, inclusa quella italiana, mettendo in luce il ruolo del “convitato di pietra”, la massoneria, nella sua versione apolide, quella delle 36 Ur-Lodges che reggerebbero i grandi giochi mondiali. «Ho più volte offerto di esibire prove concrete, un dossier di 6.000 pagine – protesta Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio” – ma nessuno si è finora azzardato a smentirmi». Contro la “congiura del silenzio”, Magaldi ora interviene anche sull’ultimo caso di cronaca, quello dei fratelli Occhionero, indicando una regia interamente massonica dietro alla vicenda. Nomi eccellenti? Mario Draghi, Marco Carrai, Anna Maria Tarantola, Mario Monti. E l’onnipresente, ma invisibile, Michael Ledeen.«Giulio e Francesca Romana Occhionero hanno agito in piena sintonia e reciproca consapevolezza di quello che ciascuno faceva», dichiara Magaldi ad “Affari Italiani”. I due «sono stati coperti e protetti, per anni, accumulando molti dati sensibili a favore di chi li proteggeva e ispirava». Avrebbero accumulato, per conto terzi, «una mole infinitamente più grande di dati rispetto a quella sinora scoperta dagli investigatori». Per Magaldi, Giulio Occhionero «ambiva a far parte di una specifica Ur-Lodge», una superloggia sovranazionale, la “White Eagle”, «operante principalmente tra Usa, Regno Unito, Malta e il Medio Oriente». Della “White Eagle”, dice ancora Magaldi, fa parte Ledeen, il politologo statunitense la cui storia si è intrecciata più volte con quella italiana, anche sul caso Moro. Un altro studioso di formazione massonica, Gianfranco Carpeoro, nel libro “Dalla massoneria al terrorismo” (Revoluzione-UnoEditori) collega Ledeen anche a Licio Gelli e all’omicidio del leader socialista svedese Olof Palme, attribuendo a Ledeen anche la militanza nel B’nai B’rith, la super-massoneria israeliana controllata dal Mossad. Ma che c’entra, tutto questo, con il caso dei due italiani accusati di cyber-spionaggio?«Al fratello Occhionero – spiega Magaldi, sempre intervistato da “Affari Italiani” – stava stretta l’appartenenza ad una loggia, la “Paolo Ungari-Nicola Ricciotti Pensiero e Azione” all’Oriente di Roma, che fa parte di una obbedienza ordinaria e nazionale come il Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani». Per Magaldi, il Goi sarebbe «una di quelle entità massoniche ormai in stato di declino e di relativa marginalità, rispetto a quei circuiti delle superlogge che ho iniziato a descrivere nel libro “Massoni”», di cui sta per uscire il sequel, intitolato “Globalizzazione e Massoneria”. In realtà, aggiunge Magaldi, Giulio Occhionero e la sorella Francesca Romana «coltivavano l’ambizione di essere ammessi a una specifica superloggia sovranazionale, la “White Eagle”». Per questo, «hanno agito su commissione di personaggi collegati come affiliati o come ‘compagni di strada/aspiranti affiliati’ di questa Ur-Lodge». Chiarisce Magaldi: «La massoneria sempre meno rilevante del Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani c’entra poco, con questa intricata vicenda». Lo “spionaggio” ai danni di alcuni dignitari del Goi «era soprattutto un’esigenza personalistica di Giulio Occhionero, qualcosa di irrilevante per i suoi mandanti in ‘super-grembiulino’».Diverso invece il caso della “sorveglianza” del gran maestro del Goi, Stefano Bisi, che per Magaldi «va ricondotta allo spionaggio sul fratello Mario Draghi (mi dicono avvenuta anche su altre utenze rispetto a quelle sin qui individuate dagli investigatori), di cui Bisi è in qualche modo un servizievole esecutore per questioni massoniche di natura locale». Servizievole esecutore? Magaldi afferma che il ruolo di Bisi risale «ai tempi del ‘groviglio armonioso’ legato al Monte dei Paschi di Siena, allorché Draghi, come governatore di Bankitalia, non vigilò adeguatamente su alcune condotte del management della banca senese». E Bisi, come massone e giornalista (caporedattore e poi vicedirettore del “Corriere di Siena”, testata influente nella città toscana, «aveva le mani in pasta in diverse questioni Mps, ispirando la sua azione di concerto con il fratello Draghi e con la sorella libera muratrice Anna Maria Tarantola, capo della Vigilanza di Bankitalia, la quale, in virtù della sua clamorosa ‘mancata vigilanza’ sulle questioni più scabrose in capo a Mps, fu premiata dal massone Mario Monti con la nomina a presidente Rai nel 2012».Ma se questi sono piccoli risvolti italiani, continua Magaldi, «la massoneria che invece c’entra molto, con tutto questo affaire del cyber-spionaggio imputato ai fratelli Occhionero, è quella della Ur-Lodge sovranazionale neoaristocratica “White Eagle”». Chi potrebbe essere il committente del cyberspionaggio? «Se dal nome della superloggia sovranazionale coinvolta andiamo nel particolare dei personaggi che hanno fatto da tramite con Giulio e Francesca Romana Occhionero, la questione si fa clamorosa», sostiene Magaldi. Che aggiunge: «Uno dei personaggi che consiglio agli inquirenti di ascoltare con attenzione su questa vicenda è il massone conservatore e reazionario Micheal Ledeen, appunto affiliato di peso alla “White Eagle”». Un altro personaggio che secondo Magaldi «varrebbe la pena sentire come ‘persona informata dei fatti’ è Marco Carrai, wannabe supermassone, con specifica propensione proprio verso la “White Eagle”, come il suo caro amico Matteo Renzi». Nel lessico libero-muratorio, il “wannabe” è colui che chiede di essere accolto, in questo caso in una superloggia internazionale.Quale potrebbe essere l’obiettivo di questa attività di spionaggio? «Qualcuno, per anni, ha raccolto e utilizzato le informazioni sensibili che i fratelli Occhionero gli hanno passato, coprendone e proteggendone in vario modo le attività», sostiene Magaldi, che svela l’identità delle sue fonti riservate: si tratta di «cari e fraterni amici in capo a importanti strutture di intelligence militare e civile di area euro-atlantica». Queste fonti, continua Magaldi, gli hanno rivelato che «da qualche tempo, Giulio e Francesca Romana Occhionero erano diventati ‘sacrificabili’ per ottenere, cinicamente, attraverso uno scandalo fatto scoppiare ad arte sulla loro vicenda, una ristrutturazione della cybersecurity italiana a livello nazionale». Una ristrutturazione che, «sin qui, non si era potuta realizzare», e che «avrebbe potuto portare al suo vertice una persona gradita a Matteo Renzi, ma sgradita a diversi ambienti massonico-progressisti dell’intelligence italiana e statunitense, con cui quella italiana tradizionalmente collabora in modo privilegiato».Lo stesso Magaldi ha più volte fatto riferimento alla “speciale protezione” di cui avrebbe goduto il nostro paese, specie negli ultimi anni, in cui l’opinione pubblica europea è stata scossa dai devastanti attentati che hanno colpito la Francia. E nel suo libro, Magaldi sottolinea il ruolo decisivo di un super-massone di altissimo rango, come il sociologo Arthur Schlesinger Jr., collaboratore strategico della Casa Bianca, cui l’autore attribuisce un ruolo-chiave, negli anni ‘60 e ‘70, nel tentativo (riuscito) di sventare i tre diversi colpi di Stato che avrebbero posto fine alla democrazia italiana. Anche per questo, probabilmente, Magaldi invita a non sottovalutare i possibili retroscena del cyber-spionaggio, settore delicatissimo da cui dipende, davvero, la sicurezza nazionale, specie in tempi come questi, gremiti di sanguinosi attentati palesemente “inquinati” da settori deviati dell’intelligence. Attraverso i suoi contatti con i «circuiti liberomuratori progressisti sovranazionali», Gioele Magaldi dichiara di impegnarsi a vigilare «affinché nessuno strumentalizzi questo scandalo per far conferire ad ‘amici degli amici’ incarichi tali da mettere in pericolo proprio quella sicurezza nazionale informatica italiana che si pretenderebbe di voler tutelare».Lo scandalo della cyber-security con l’arresto dei fratelli Occhionero? Fatto scoppiare ad arte, per imporre un nuovo super-controllore gradito a Renzi (e all’ultra-destra massonica cui il leader Pd guarderebbe) ma sgradito agli ambienti della massoneria internazionale progressista. E’ la tesi, dirompente, enunciata dal massone Gioele Magaldi, gran maestro del Grande Oriente Democratico e autore del saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata”, pubblicato da Chiarelettere a fine 2014 ma completamente oscurato dai grandi media, nonostante rivelasse – in modo del tutto inedito – i più segreti retroscena del “back office” del potere, consentendo una clamorosa rilettura dell’intera storia del ‘900, inclusa quella italiana, mettendo in luce il ruolo del “convitato di pietra”, la massoneria, nella sua versione apolide, quella delle 36 Ur-Lodges che reggerebbero i grandi giochi mondiali. «Ho più volte offerto di esibire prove concrete, un dossier di 6.000 pagine – protesta Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio” – ma nessuno si è finora azzardato a smentirmi». Contro la “congiura del silenzio”, Magaldi ora interviene anche sull’ultimo caso di cronaca, quello dei fratelli Occhionero, indicando una regia interamente massonica dietro alla vicenda. Nomi eccellenti? Mario Draghi, Marco Carrai, Anna Maria Tarantola, Mario Monti. E l’onnipresente, ma invisibile, Michael Ledeen.
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Moro ucciso da Gladio, per sabotare il socialismo in Europa
Cossiga è stato colui che ha lavorato per i registi di 40 anni di storia italiana. Ha sempre lavorato con copertura della massoneria inglese, però si è messo al servizio dell’operazione più vergognosa (non tanto nello scopo, ma ma nel modo) che sia stata fatta nell’ambito dell’intelligence sul territorio italiano: l’operazione Stay Behind, altrimenti detta Gladio. E poi è rimasto prigioniero, di questa cosa. Tenete presente che la vera responsabile della morte di Moro è la Stay Behind, cioè Gladio. Questa è una cosa che non ha detto nessuno, finora, e che è vera. E’ la cricca costituita da Cossiga, Gelli, Santovito. Non scordiamoci che Gelli partecipava alle riunioni, quand’è stato rapito Moro. La cricca – Gelli, Santovito, Michael Ledeen – che è la regia dell’operazione Stay Behind, è quella che ha deciso le cose più raccapriccianti della strategia della tensione. E’ una pagina vergognosa della storia italiana, della quale Cossiga – che ho conosciuto ed era una persona amabile, per certi aspetti – è rimasto prigioniero, tutta la vita. Ha avuto il rimorso di Moro, e lo ha manifestato in tutti i modi, ma nello stesso tempo sapeva di esser stato parte di quella regia, e di tutta una serie di regie.Purtroppo, la Stay Behind ha tanti morti sulla coscienza, tanti attentati. Ed è una cosa in cui la massoneria razionaria ha avuto parte, non solo tramite la figura di Gelli, ma anche tramite una serie di figure di raccordo, compreso Michael Ledeen, che è massone ma anche Ur-massone, perché fa parte di una Ur-Lodge; è massone del B’nai B’rith, la massoneria ebraica, e faceva anche parte di una Ur-Lodge. Perché, a un certo punto, della strategia della tensione non c’è stato più bisogno? Perché hanno praticamente smantellato la possibilità, per l’Europa, di essere socialista, progressista. Hanno ammazzato Olof Palme, hanno fatto fuori Craxi, hanno segato le gambe a Mitterrand: è stata una strategia complessa, che ha portato a determinare l’attuale quadro politico – molto stabile, peraltro. Hanno sabotato il socialismo. I socialisti di adesso sono solo fantocci, come Hollande. Il socialismo era una sorta di tutela di ogni individuo. Qual è stata la risposta del potere, al socialismo? Creare al suo interno il comunismo: perché il comunismo non tutela l’individuo, ma le masse. E le masse fanno sempre comodo, al potere: quando l’invididuo viene ridotto a massa, il potere festeggia. Che ce lo riduca il capitalismo o ce lo riduca il comunismo, è uguale.L’unica ideologia tanto laica da evitare questo esito era il socialismo, però ormai l’hanno disgregato dappertutto, riducendolo a simulacro. Il socialismo è la possibilità di ogni individuo di far valere i suoi diritti, e di avere dei diritti. Oggi il potere fa due cose: molti diritti te li toglie, e quelli che ti lascia ti invita a non esercitarli, li esercita lui per te. Il socialismo era fondato sulla tutela individuale. Quando poi muore il socialismo utopistico di Produhon, Leblanc, e nasce il socialismo materialista che si allinea con il capitalismo nel considerare gli individui “massa”, già lì si perde l’identità originaria. Il socialismo è un sistema per il quale ogni uomo ha diritto a lottare per la sua felicità, per la sua realizzazione. Non è un mettere tutti alla pari obbligatoriamente, è far partire tutti alla pari. Certo che poi non si arriva, alla pari: c’è chi arriva più avanti, chi resta più indietro; però la partenza dev’essere alla pari. E in questa società la partenza non è alla pari.(Gianfranco Carpeoro, dichirazioni rilasciate durante la diretta web-streaming “Carpeoro Racconta”, in collegamento con Fabio Frabetti di “Border Nights” il 15 gennaio 2017, su YouTube).Cossiga è stato colui che ha lavorato per i registi di 40 anni di storia italiana. Ha sempre lavorato con copertura della massoneria inglese, però si è messo al servizio dell’operazione più vergognosa (non tanto nello scopo, ma nel modo) che sia stata fatta nell’ambito dell’intelligence sul territorio italiano: l’operazione Stay Behind, altrimenti detta Gladio. E poi è rimasto prigioniero, di questa cosa. Tenete presente che la vera responsabile della morte di Moro è la Stay Behind, cioè Gladio. Questa è una cosa che non ha detto nessuno, finora, e che è vera. E’ la cricca costituita da Cossiga, Gelli, Santovito. Non scordiamoci che Gelli partecipava alle riunioni, quand’è stato rapito Moro. La cricca – Gelli, Santovito, Michael Ledeen – che è la regia dell’operazione Stay Behind, è quella che ha deciso le cose più raccapriccianti della strategia della tensione. E’ una pagina vergognosa della storia italiana, della quale Cossiga – che ho conosciuto ed era una persona amabile, per certi aspetti – è rimasto prigioniero, tutta la vita. Ha avuto il rimorso di Moro, e lo ha manifestato in tutti i modi, ma nello stesso tempo sapeva di esser stato parte di quella regia, e di tutta una serie di regie.
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Grillo sta suicidando i 5 Stelle. Chiedetevi: a chi conviene?
Eh già, c’è chi decide di suicidarsi buttandosi giù da un ponte. E chi prendendo le decisioni sbagliate nel momento più sbagliato, dimostrando una miopia politica così clamorosa da chiedersi se sia davvero solo il frutto di un errore di valutazione o se invece non sia voluta, con estrema e raffinata perfidia, per distruggere il Movimento 5 Stelle. Mettiamo in fila gli elementi. Il M5S ha combattutto una battaglia durissima contro il sistema; il suo fondatore e vera mente politica, Gian Roberto Casaleggio, è stato oggetto di attacchi durissimi e personali, che lo hanno sfiancato nella salute, con un epilogo drammatico. Dopo la scomparsa di Casaleggio, il mondo ha iniziato a cambiare. Da tempo il Movimento 5 Stelle si era schierato all’Europarlamento con lo “scandaloso” Farage, considerato per anni poco più che un velleitario buffone. Ma Farage ha guidato la Gran Bretagna alla Brexit. Nel frattempo i pentastellati conquistano due grandi città italiane, Roma e Torino. Negli Stati Uniti vince contro ogni pronostico Trump, spostando il baricentro degli interessi degli Usa su posizioni molto più vicine a quelli di movimenti alternativi di protesta (sì, i cosiddetti “populisti”) come il M5S e la Lega di Salvini. Il 4 dicembre questi stessi partiti guidano la campagna referendaria che si risolve con un Ko clamoroso di Renzi.Il mondo sembra volgere dalla loro parte. E infatti da Washington arrivano segnali incoraggianti. Notate bene: Nigel Farage, pur essendo britannico, è uno dei pochi politici di cui Trump si fida; è l’uomo che, sulle vicende europee, può sussurrare all’orecchio del presidente eletto. Un’occasione propizia per chi è sempre stato amico di Farage. Lo capiscono tutti. Proprio sabato 7 gennaio sul quotidiano “La Stampa” esce un retroscena molto interessante, intitolato “Dai migranti al terrorismo, Trump cerca un alleato in Italia per rilanciare l’alleanza con gli Usa”, in cui vengono riportate le indiscrezioni di due collaboratori presidenziali. I quali spiegano che «è chiaro che Trump sia contento del risultato referendario alla luce dei discorsi e delle dichiarazioni fatte in passato non solo sull’Italia ma anche in merito alla Brexit. Tutti i suoi consiglieri, a partire da Steve Bannon che è molto vicino alla politica europea, consideravano il “no” come un primo passo verso un processo di ricollocazione dell’Italia, una sorta di distacco, non nel senso di uscita dall’Unione Europea, ma di presa di distanza dagli schemi conformisti di un certa politica e di una certa Europa».«Un passaggio verso la strada del popolarismo che privilegia l’economia reale, il lavoro, la realpolitik e l’allontanamento dall’ideologia conformista che sta decretando il fallimento del progetto europeo così com’è». Quei consulenti assicurano che Trump vuole «individuare il giusto interlocutore con cui l’amministrazione americana dovrà interloquire per rilanciare i rapporti con lo storico alleato». In un’Unione europea di cui non hanno fiducia, perlomeno non di quella che ha governato finora: «Alcune settimane fa ho incontrato Farage e abbiamo discusso della situazione in atto: quello che sta avvenendo in Europa è un processo storico, il baricentro si sta spostando dalla parte della gente, in Italia, in Francia e in Germania», afferma il generale Paul Vallely, secondo cui «il popolo sta prendendo coscienza della propria sovranità, di essere la spina dorsale di nazioni indipendenti che non devono per forza essere parte di un movimento globalista e globalizzante. E questa è un ottima cosa, per l’Italia ad esempio si è compiuto un passo nella direzione che favorisce la gente. Siamo contenti».Secondo il veterano, allo stato attuale le nazioni europe non hanno l’obbligo di essere parte di una entità sovranazionale come la Ue che ha dimostrato – specie in alcuni specifici casi come l’Italia – di «esigere più di quanto offra». «Non mi sembra che Bruxelles abbia fatto molto per i popoli europei fuorché creare una burocrazia pesante comandata dai soliti noti. Sta emergendo una nuova visione dell’Europa e con questo passo ci saranno interessanti scenari di cooperazione con l’America di Trump». Musica per le orecchie innanzitutto di Salvini e della Meloni, che sono sempre stati su queste posizioni. Ma anche di Grillo, che in passato non ha esitato a sparare sulla Ue e sulla globalizzazione e ad allearsi con Farage. La strada sembra spalancata per un atteso e fino alla scora primavera insperato sdoganamento internazionale. E il Movimento 5 Stelle cosa fa? Anziché mettersi in scia e godersi il momento, cambia improvvisamente rotta proprio a Bruxelles. Abbandona lo Ukip per allearsi con l’Alleanza liberale del belga Verhofstadt, le cui idee sono antitetiche a quelle di Grillo e di Farage: pro Ue, pro globalizzazione; insomma un gruppo che affianca l’establishment che ha governato finora. Grillo, incredibilmente, scende dal carro del vincitore. E contraddice se stesso, la propria storia, la propria identità.Lo fa anche nei modi peggiori: lanciando senza preavviso e senza dibattito una consultazione interna nel week-end dell’epifania. E ottenendo il risultato più ovvio: quello di spaccare il Movimento, di disamorare la base e molti sostenitori, di incrinare i rapporti con Farage e con Trump per abbracciare quell’establishment e quei poteri forti che ha sempre dichiarato di voler combattere. Harakiri. Un’ottima notizia per Salvini e la Meloni, che immagino, non mancheranno di ringraziare Grillo. Ma anche e forse soprattutto, per quell’establishment che da un decennio cerca il modo di spaccare il Movimento, senza mai riuscirci, almeno finchè era in vita Casaleggio. Sono passati pochi mesi ed è bastata una trattativa segreta a Bruxelles per raggiungere quell’obiettivo. Chissà se chi l’ha voluta e l’ha ideata ne è consapevole.(Marcello Foa, “Grillo ha deciso di suicidarsi. Chiedetevi: a chi conviene?”, dal blog di Foa sul “Giornale” del 9 gennaio 2017).Eh già, c’è chi decide di suicidarsi buttandosi giù da un ponte. E chi prendendo le decisioni sbagliate nel momento più sbagliato, dimostrando una miopia politica così clamorosa da chiedersi se sia davvero solo il frutto di un errore di valutazione o se invece non sia voluta, con estrema e raffinata perfidia, per distruggere il Movimento 5 Stelle. Mettiamo in fila gli elementi. Il M5S ha combattutto una battaglia durissima contro il sistema; il suo fondatore e vera mente politica, Gian Roberto Casaleggio, è stato oggetto di attacchi durissimi e personali, che lo hanno sfiancato nella salute, con un epilogo drammatico. Dopo la scomparsa di Casaleggio, il mondo ha iniziato a cambiare. Da tempo il Movimento 5 Stelle si era schierato all’Europarlamento con lo “scandaloso” Farage, considerato per anni poco più che un velleitario buffone. Ma Farage ha guidato la Gran Bretagna alla Brexit. Nel frattempo i pentastellati conquistano due grandi città italiane, Roma e Torino. Negli Stati Uniti vince contro ogni pronostico Trump, spostando il baricentro degli interessi degli Usa su posizioni molto più vicine a quelli di movimenti alternativi di protesta (sì, i cosiddetti “populisti”) come il M5S e la Lega di Salvini. Il 4 dicembre questi stessi partiti guidano la campagna referendaria che si risolve con un Ko clamoroso di Renzi.
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Poliziotti ora in pericolo, il potere stragista investe sull’odio
Quei due poliziotti di Milano ora sono in pericolo, ma a questo Stato «servono eroi da esibire», anche a rischio della loro incolumità: lo afferma l’avvocato Gianfranco Carpeoro, autore del libro “Dalla massoneria al terrorismo” che denuncia la “sovragestione” degli attentati, progettati da “menti massoniche” e coordinati da settori dei servizi segreti che utilizzano manovalanza di pretesa matrice islamista. «L’Isis è sostanzialmente una marionetta, a disposizione di Ur-Lodges reazionarie americane, prime fra tutte la “Hathor Pentalpha” e la “Three Eyes”», la cui esistenza è stata rivelata da Gioele Magaldi nel saggio “Massoni”, a fine 2014. La strage di Berlino? «Sembra attuata per colpire Angela Merkel in vista delle prossime elezioni politiche in Germania, per forzare il governo tedesco spingendolo ad assumere un atteggiamento intransigente verso l’immigrazione: come sempre – aggiunge Carpeoro – chi utilizza il terrorismo colpisce gli elementi moderati e dialoganti: in Italia fu colpito Moro perché dialogava col Pci, in Israele a cadere fu Rabin perché dialogava coi palestinesi. Gli estremisti invece non vengono mai toccati, perché seminano odio, e l’odio fa sempre comodo al potere».Riflessioni a caldo, che Carpeoro ha consegnato alla diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di Border Nights la mattina di Natale. Durissimo il giudizio dello studioso sulla decisione di esporre al pubblico l’identità dei due agenti di polizia che, a Sesto San Giovanni, hanno fermato e poi abbattuto il tunisino Anis Amri, sospettato di essere l’autore della strage di Berlino dopo il ritrovamento dei suoi documenti sotto il sedile del camion-killer. «Un terrorista “normale” non va a compiere un attentato portando con sé il passaporto: il far ritrovare prontamente il documento è la prova della “sovragestione” che ha diretto l’attentato», sostiene Carpeoro, che spiega: «Risalire immediatamente al presunto killer, in modo da neutralizzarlo subito, è estremamente utile agli strateghi del terrorismo: una prolungata caccia all’uomo manterrebbe in tensione per molto tempo le forze di polizia, e questo disturberebbe i piani dei manovratori occulti». A Milano, inoltre, l’identità dei poliziotti è stata esibita: «Il problema è questo potere ha bisogno di eroi», insiste Carpeoro, «e questa sua esigenza è superiore al tutelare la vita delle persone che lavorano per noi». Finì sotto i riflettori anche il “Capitano Ultimo”, l’ufficiale dei carabinieri coinvolto nella cattura di Riina: «Fu gettato in pasto ai porci in maniera evidente, esposto al rischio della vita in modo ancora più efferato».Carpeoro sta analizzando le clamorose analogie tra l’attentato di Nizza del 14 luglio e quello di Berlino al mercatino natalizio. Identiche modalità: «Un camion lanciato contro la folla è uno strumento probabilmente più facile da utilizzare, non richiede requisiti tecnici come invece gli esplosivi, e infine un mezzo di trasporto non suscita di per sé allarme, può sfuggire al controllo delle forze di sicurezza». Di regola, questi attentati stragicisti sono “firmati” con un corredo simbolico, «segnali in codice rivolti a chi li può intendere», nei circoli del massimo potere. In attesa di decifrare quali segni (anche nascosti) possano legare la strage di Nizza e quella di Berlino, Carpeoro avverte: «Temo che siamo di fronte a un’escalation», uno “sciame” di stragi «destinate a preparare il terreno per un evento ancora più grave e sanguinoso». La “filosofia” che muoverebbe questa regia occulta? Sempre la stessa: alimentare l’odio, attraverso il falso “scontro di civiltà”. «La paura e l’odio sono strumenti adottati dall’attuale élite di potere, il cui obiettivo è impedire qualsiasi cambiamento dello status quo, dopo che la finanza ha neutralizzato la democrazia. Non serve nemmeno una Terza Guerra Mondiale: basta e avanza quello che è già in atto, cioè un insieme di tante guerre locali». Paura, tensione, odio: funzione che, in Europa, è svolta dal terrorismo “sovragestito”, comodamente targato Isis.Quei due poliziotti di Milano ora sono in pericolo, ma a questo Stato «servono eroi da esibire», anche a rischio della loro incolumità: lo afferma l’avvocato Gianfranco Carpeoro, autore del libro “Dalla massoneria al terrorismo” che denuncia la “sovragestione” degli attentati, progettati da “menti massoniche” e coordinati da settori dei servizi segreti che utilizzano manovalanza di pretesa matrice islamista. «L’Isis è sostanzialmente una marionetta, a disposizione di Ur-Lodges reazionarie americane, prime fra tutte la “Hathor Pentalpha” e la “Three Eyes”», la cui esistenza è stata rivelata da Gioele Magaldi nel saggio “Massoni”, a fine 2014. La strage di Berlino? «Sembra attuata per colpire Angela Merkel in vista delle prossime elezioni politiche in Germania, per forzare il governo tedesco spingendolo ad assumere un atteggiamento intransigente verso l’immigrazione: come sempre – aggiunge Carpeoro – chi utilizza il terrorismo colpisce gli elementi moderati e dialoganti: in Italia fu colpito Moro perché dialogava col Pci, in Israele a cadere fu Rabin perché dialogava coi palestinesi. Gli estremisti invece non vengono mai toccati, perché seminano odio, e l’odio fa sempre comodo al potere».
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La profezia di Blondet: trovato il passaporto, lo uccideranno
Due poliziotti in mondovisione (nomi e cognomi, persiono le foto), uno di loro è ferito. E a terra, nella notte, a Sesto San Giovanni, un giovane tunisino: Anis Amri. «Era lui il killer di Berlino?», si domanda Massimo Mazzucco su “Luogo Comune”. «Vedete? Anche la polizia e i servizi tedeschi imparano presto», scriveva giorni fa Maurizio Blondet. «Prima si lasciano scappare il terrorista della strage di Natale; ma il giorno dopo, guardando meglio, scoprono che – come tutti i terroristi islamici – ha lasciato nel vano porta-oggetti il suo documento di prolungamento della permanenza in Germania, che è praticamente la prova della sua identità». Lo ha fatto uno dei fratelli Kouachi dopo aver sparato a quelli di Charlie Hebdo. E lo stragista di Nizza, Lahouaiej-Bouhlel? «Anche lui, prima di lanciarsi nella folle corsa omicida e suicida, pone in bella vista patente di guida, carta d’identità, telefonino, persino carte di credito». Ricorda la storia, semre uguale, dei documenti dei “terroristi” emersi tra le macerie dell’11 Settembre, in mezzo all’apocalisse. «Da allora, è una certezza per gli investigatori: cercate bene sui sedili, sotto la cenere, nella guantiera, e smetterete di brancolare nel buio». Un copione: diffondere ai media l’identità del “mostro” da braccare. Se intercettato, «invariabilmente risponde al fuoco gridando “Allah Akhbar!”. Sicchè non ne vien preso vivo uno. Succederà, possiamo profetizzarlo, anche al “tunisino “ identificato dalla polizia tedesca».Queste righe, Blondet le scriveva il 21 dicembre, cioè quasi due giorni prima l’evento sanguinoso di Milano, che ha fatto il giro del mondo. «Ma com’è che ora si pubblica, oltre al nome e cognome, anche la fotografia del poliziotto che ha appena ucciso un terrorista?», si domanda Francesco Santoianni. «Una ipotesi: Marco Minniti – da tempo immemorabile tutor dei servizi segreti e ora anche ministro dell’interno – si era reso conto che la morte di Anis Amri – identificato come il responsabile della strage con il Tir a Berlino grazie ad un ennesimo documento di identità, miracolosamente ritrovato dopo 24 ore – per mano di un ignoto avrebbe legittimato in tutta l’opinione pubblica i sospetti che Anis Amri non fosse altro che un Patsy», cioè un capro espiatorio, paragonabile a Lee Harvey Oswald, l’apparente killer di John Kennedy. «Poliziotto – continua Santoianni, in un post ripreso da “Come Don Chisciotte” – al quale auguriamo che – dopo il nome, la fotografia, l’account Facebook – non venga pubblicato anche il suo indirizzo di casa». Se le “stranezze” abbondano, irrompe l’inevitabile corredo di dietrologie: Federico Dezzani si spinge a ipotizzare «un assist anglomericano all’Italia, ai danni della Germania», contraria alla nazionalizzazione di Mps, “punita” ora con la dimostrazione di efficienza della polizia italiana, che dimostrerebbe l’inadeguatezza di quella tedesca.«Poca gloria, ma in compenso molte domande», sintetizza “Piotr” su “Megachip”: «Come sapevano che era proprio questo tizio alla guida del camion che ha fatto strage a Berlino? Semplice. Come al solito, hanno trovato – toh, guarda – un suo documento nella cabina del camion, sotto il sedile. Come mai allora l’efficientissima polizia tedesca aveva arrestato un pakistano che non c’entrava nulla? Ci hanno messo veramente un giorno a trovare un documento sotto il sedile dell’arma del crimine? Ma va là». La sequenza, sottolinea “Megachip”, si ripete con un cliché incredibilmente monotono: prima un attentato “imprevisto”, poi il ritrovamento dei documenti degli attentatori sul luogo del crimine, quindi la dichiarazione che l’attentatore era già sospettato, magari sotto sorveglianza (però l’attentato lo riesce a fare lo stesso, invariabilmente). Quindi scatta la caccia all’uomo. Finale: «Conflitto a fuoco e uccisione del sospetto. Niente cattura e interrogatorio. Nemmeno per Osama bin Laden». Identica sceneggiatura: «Qualcuno sta usando sempre lo stesso canovaccio. Non chiedetemi chi. Non ho le prove», ammette “Piotr”. L’importante, conclude, è vedere che la narrazione ufficiale «non sta in piedi, ed è diventata mortalmente noiosa». Intanto, «gli innocenti continuano ad essere ammazzati, per la gloria di poche élite, pronte a scatenare tutte le loro speculazioni politiche e gli stati di emergenza sull’onda di una campagna di terrore e tensione».Due poliziotti in mondovisione (nomi e cognomi, persiono le foto), uno di loro è ferito. E a terra, nella notte, a Sesto San Giovanni, un giovane tunisino: Anis Amri. «Era lui il killer di Berlino?», si domanda Massimo Mazzucco su “Luogo Comune”. «Vedete? Anche la polizia e i servizi tedeschi imparano presto», scriveva giorni fa Maurizio Blondet. «Prima si lasciano scappare il terrorista della strage di Natale; ma il giorno dopo, guardando meglio, scoprono che – come tutti i terroristi islamici – ha lasciato nel vano porta-oggetti il suo documento di prolungamento della permanenza in Germania, che è praticamente la prova della sua identità». Lo ha fatto uno dei fratelli Kouachi dopo aver sparato a quelli di Charlie Hebdo. E lo stragista di Nizza, Lahouaiej-Bouhlel? «Anche lui, prima di lanciarsi nella folle corsa omicida e suicida, pone in bella vista patente di guida, carta d’identità, telefonino, persino carte di credito». Ricorda la storia, sempre uguale, dei documenti dei “terroristi” emersi tra le macerie dell’11 Settembre, in mezzo all’apocalisse. «Da allora, è una certezza per gli investigatori: cercate bene sui sedili, sotto la cenere, nella guantiera, e smetterete di brancolare nel buio». Un copione: diffondere ai media l’identità del “mostro” da braccare. Se intercettato, «invariabilmente risponde al fuoco gridando “Allah Akhbar!”. Sicchè non ne vien preso vivo uno. Succederà, possiamo profetizzarlo, anche al “tunisino “ identificato dalla polizia tedesca».
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Il Gufo: Renzi bollito da Grasso, e il referendum in freezer
Dopo Renzi, Grasso: toccherà a lui “salvare” le banche chiedendo 10-15 miliardi all’Ue, preparando poi gli italiani a subire nuovi “sacrifici necessari” per restituire il prestito al Mes, il famigerato Fondo Salva-Stati. E’ la profezia di “Gufo Boschi” all’indomani della caduta di Renzi. A parlare, su “Megachip”, è lo stesso “profeta” che già il 15 gennaio aveva azzeccato al millimetro l’esito numerico del referendum, con quasi un anno di anticipo: «Nel momento di massima espansione di consensi (elezioni europee 2014), l’area governativa ha raggiunto il 47%; l’area di opposizione, sommata trasversalmente, il 53%. Ora, i sondaggi e il senso comune dicono che l’area governativa fatica a raggiungere il 40% e l’area di opposizione è almeno al 60%. Dunque, in caso di referendum Sì/No, questa polarizzazione indica chiaramente che l’area governativa è già in netto svantaggio, sostanzialmente irrecuperabile». Lo stesso osservatore, sotto pseudonimo, oggi scommette sul presidente dell’organo che Renzi avrebbe rottamato: il Senato. E spiega: «Grasso è forte dell’asse con il Capo dello Stato Sergio Mattarella, a cui è legato da una lunga e consolidata familiarità ed amicizia, addirittura temprata sul sangue del fratello di Sergio, Piersanti, ucciso a Palermo dalla mafia quando Grasso era sostituto procuratore, il primo ad occuparsi del caso».«Non ci saranno elezioni a breve termine, non prima dell’estate del 2017», si sbilancia “Gufo Boschi” su “Megachip”. «Più probabilmente questa legislatura giungerà alla sua normale conclusione nel 2018, al massimo con qualche mese di anticipo». La legge elettorale che sarà predisposta? «Sarà un proporzionale con sbarramento e premio di governabilità (non di maggioranza) per la lista più votata, o, in ogni caso, una formula elettorale simile a questa». Dal punto di vista politico, significa che «l’unica vera governabilità possibile, nel futuro Parlamento eletto, sarà determinata da una maggioranza relativa del Pd unita all’alleanza con una componente liberal-conservatrice, come l’attuale Forza Italia». Se la maggioranza relativa e il premio fossero ad appannaggio del M5S, «questa forza politica non sarebbe comunque in grado di raggiungere la maggioranza assoluta», né di esprimere un “governo di minoranza”, «che non sarebbe appoggiato da nessuna altra forza politica». Il centro-destra poi «si dividerà tra la sua componente liberal-conservatrice (Fi) e la componente populista-identitaria (Lega e Fratelli d’Italia) ed elettoralmente non potrà in ogni caso esprimere una maggioranza relativa».L’attuale crisi di governo «sarà risolta con la nomina di un esecutivo di tipo “istituzionale” o formula simile», e a Palazzo Chigi finirà «ragionevolmente» proprio Pietro Grasso, cioè «la personalità più adatta per ricompattare l’attuale maggioranza, sia dentro al Pd (non dimentichiamo che Grasso fu candidato da Bersani) rimasto lacerato dalle divisioni sul referendum e dalle rottamazioni, sia al suo esterno, essendo comunque figura rassicurante, uomo prudentissimo, navigato e buono per ogni stagione». Scelta che «potrebbe non dispiacere affatto a Forza Italia, a cui l’attuale maggioranza potrebbe addirittura allargarsi in caso di necessità». Grasso, poi, «non sarebbe disprezzato a sinistra del Pd». In più, «sarebbe ben accolto dal variegato fronte centrista al Senato», raccogliendo anche «la simpatia di diversi fuoriusciti grillini». Primo scoglio dell’ipotetico governo Grasso: «Affrontare, nel breve periodo, una dura crisi determinata dallo sconquasso nel mondo bancario che verrà innescato dal Monte dei Paschi di Siena e aggravato dalla presenza di ulteriori bubboni: le quattro banche territoriali risolte dal “salva-banche” ma non ancora in sicurezza, e le due banche venete che sono ancora zombie. Il rischio-contagio potrebbe minacciare anche ulteriori istituti come Unicredit o Carige o altri».Secondo “Gufo Bischi”, si renderà necessario un intervento statale «forte e risoluto» sulle banche: «Serviranno cioè almeno 10-15 miliardi di euro (meglio ancora se 20-25) per tappare tutti i buchi più urgenti». E con una legge di stabilità già giudicata insufficiente da Bruxelles, è chiaro che mancheranno i fondi per salvare le banche. «L’unica soluzione sarà il ricorso al Mes (Meccanismo Europeo di Stabilità), il cosiddetto Salva-Stati (che piuttosto gli Stati li affonda)». Ipotesi che in effetti «comincia già a circolare in questi giorni sui giornali mainstream, con la tempestiva smentita dal Mef», il ministero economia e finanze. «In questi casi, come sosteneva Giulio Andreotti, la smentita equivale a dare la notizia due volte». Domanda chiave: quali garanzie chiederà l’Ue per il suo prestito? «Saranno pesanti, fatte di lacrime e sangue, ma verranno accettate come un “sacrificio necessario”, tanto più che la loro durezza sarà spalmata sul futuro, reiterando l’effetto “rana bollita”», sottoposta cioè e morte lenta, in dosi omeopatiche per attutire la percezione del dolore.E quale sarà, infine, il destino di Renzi? «Il fanfarone fiorentino resterà segretario del suo partito e assumerà per alcuni mesi un profilo più basso», profetizza “Gufo Boschi”. «Dalla primavera-estate comincerà una azione di logoramento verso il governo che lui stesso sostiene per tentare una manovra audace quanto spericolata: vincere il congresso del Pd l’anno venturo e, sfruttando una situazione socio-economica critica, rifarsi una fulminea verginità per ripresentarsi alle elezioni come la fenice del rinnovamento». Ma attenzione: se toccasse a Grasso, l’attuale presidente del Senato (sostenuto dalla maggioranza dei parlamentari, ben decisi a evitare il voto anticipatp) potrebbe giocarsela davvero. Se la situazione socio-economica fosse «almeno accettabile» (ovvero: se il governo in carica «riuscisse a far passare la “narrazione” di aver salvato l’Italia dalla bancarotta causata da altri»), allora «potrebbero essere le baronie interne al suo stesso partito a giubilare il segretario in carica decretandone la fine politica», e riducendo dunque solo a questo – la rottamazione di Renzi – il risultato del referendum che ha così intesamente mobilitato gli italiani.Dopo Renzi, Grasso: toccherà a lui “salvare” le banche chiedendo 10-15 miliardi all’Ue, preparando poi gli italiani a subire nuovi “sacrifici necessari” per restituire il prestito al Mes, il famigerato Fondo Salva-Stati. E’ la profezia di “Gufo Boschi” all’indomani della caduta di Renzi. A parlare, su “Megachip”, è lo stesso “profeta” che già il 15 gennaio aveva azzeccato al millimetro l’esito numerico del referendum, con quasi un anno di anticipo: «Nel momento di massima espansione di consensi (elezioni europee 2014), l’area governativa ha raggiunto il 47%; l’area di opposizione, sommata trasversalmente, il 53%. Ora, i sondaggi e il senso comune dicono che l’area governativa fatica a raggiungere il 40% e l’area di opposizione è almeno al 60%. Dunque, in caso di referendum Sì/No, questa polarizzazione indica chiaramente che l’area governativa è già in netto svantaggio, sostanzialmente irrecuperabile». Lo stesso osservatore, sotto pseudonimo, oggi scommette sul presidente dell’organo che Renzi avrebbe rottamato: il Senato. E spiega: «Grasso è forte dell’asse con il Capo dello Stato Sergio Mattarella, a cui è legato da una lunga e consolidata familiarità ed amicizia, addirittura temprata sul sangue del fratello di Sergio, Piersanti, ucciso a Palermo dalla mafia quando Grasso era sostituto procuratore, il primo ad occuparsi del caso».
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Dezzani: Bergoglio scelto dal superclan Usa oggi perdente
Ratzinger “deposto” da un complotto gestito dai servizi segreti anglosassoni, con anche la collaborazione di Gianroberto Casaleggio. Obiettivo: insediare in Vaticano l’attuale pontefice “modernista”. Un piano del massimo potere, gestito da personaggi come George Soros e ora messo in pericolo dalla vittoria di Trump. Lo sostiene Federico Dezzani, che evoca “padrini occulti” dietro al pontificato di Bergoglio, di cui profetizza l’imminente fine. Nonostante il flop del Giubileo e «il sostanziale fallimento dell’Anno Santo», Papa Francesco oggi accelera la svolta modernista: crea nuovi cardinali a lui fedeli e concede a tutti i sacerdoti la facoltà di assolvere l’aborto. «Forse Bergoglio ha fretta, perché sa che il contesto internazionale che lo ha portato sul Soglio Petrino si è dissolto con l’elezione di Donald Trump», scrive Dezzani, secondo cui furono «l’amministrazione Obama e George Soros» a introdurre il gesuita argentino, «in forte odore di massoneria», dentro le Mura Leonine. Bergoglio? Sarebbe «la versione petrina di Barack Hussein Obama», in coerenza col “cesaropapismo”, grazie al quale il potere civile estende la propria competenza al campo religioso, così da plasmare la dottrina «secondo le esigenze del potere temporale».Una pratica bizantina, ancora viva nell’Occidente moderno? Senz’altro: «La Chiesa di Roma subisce, dalla notte dei tempi, gli influssi del mondo esterno: re francesi, imperatori tedeschi, generali corsi e dittatori italiani hanno sempre cercato di ritagliarsi una Chiesa su misura». Dopo il 1945, il Vaticano è stato «inglobato come il resto dell’Europa Occidentale nell’impero angloamericano», subendone l’influenza politica, economica e ideologica: «Quanto avviene alla Casa Bianca, presto o tardi, si ripercuote dentro le Mura Leonine». Se poi il potere temporale si sente particolarmente forte e ha fretta di imporre la propria agenda alla Chiesa cattolica, «indebolita da decenni di secolarizzazione della società e in preda ad una profonda crisi d’identità», a quel punto – sostiene Dezzani – spinge più a fondo la “modernizzazione” dello Stato pontificio «cosicché il Papa “si dimetta”, come un amministratore delegato qualsiasi, e gli azionisti di maggioranza possano nominare un nuovo “chief executive officer” della Chiesa cattolica apostolica romana, sensibile ai loro interessi».Ratzinger “licenziato” dalla Casa Bianca? «Durante la folle amministrazione di Barack Hussein Obama, periodo durante cui l’oligarchia euro-atlantica si è manifestata in tutte le sue forme, dal terrorismo islamico all’immigrazione selvaggia, dagli assalti finanziari alle guerre per procura alla Russia – continua Dezzani nel suo blog – abbiamo assistito a tutto: comprese le dimissioni di Benedetto XVI, le prime da oltre 600 anni (l’ultimo pontefice ad abdicare fu Gregorio XII nel 1415), e alla nascita di un ruolo, quello di “pontefix emeritus”, sinora mai attribuito ad un Vicario di Cristo vivente». L’interruzione del pontificato di Joseph Ratzinger, seguita dal conclave del marzo 2013 che elegge l’argentino Jorge Mario Bergoglio, è una vera e propria “rivoluzione”: «Ad un pontefice “conservatore” come Benedetto XVI ne succede uno “progressista” come Francesco, a un difensore dell’ortodossia cattolica succede un modernista che vuole “rinnovare” la dottrina millenaria della Chiesa». Non solo: «Ad un Papa che aveva ribadito l’inconciliabilità tra Chiesa Cattolica e massoneria ne subentra uno che è in fortissimo odore di libera muratoria».E ad un pontefice «sicuro che solo nella Chiesa di Cristo c’è la salvezza» segue «un paladino dell’ecumenismo», talmente ardito da dichiarare ad Eugenio Scalfari nel 2013: «Non esiste un Dio cattolico, esiste Dio». Per Dezzani, il fondatore della “Repubblica”, «ben introdotto negli ambienti “illuminati” nostrani ed internazionali», in effetti «è un’ottima cartina di tornasole per afferrare il mutamento in seno alla Chiesa», strettamente sorvegliato dall’élite di potere. Si passa dall’editoriale “Da Pacelli a Ratzinger, la lunga crisi della Chiesa” del maggio 2012, dove Scalfari ragiona a distanza sul pontificato “lezioso” di Ratzinger, rinfacciandogli una scarsa apertura alla modernità, a Lutero ed all’ecumenismo, al dialogo tête-à-tête del novembre 2016, dove Scalfari discetta amabilmente con Bergoglio di “meticciato universale”, «tema tanto caro alla massoneria», interprete del sincretismo culturale che è alla base della modernità stessa, alla cui creazione proprio il network libero-muratorio contribuì, a partire dal ‘700.Federico Dezzani si concentra su Bergoglio, che considera «la versione petrina di Barack Obama», al punto che «si potrebbe sostenere che sia stato il presidente americano ad installare il gesuita ai vertici della Chiesa»? Sarebbe un’affermazione «soltanto verosimile», precisa, visto che «sono gli stessi ambienti che hanno appoggiato Barack Obama (e che avevano investito tutto su Hillary Clinton nelle ultime elezioni) ad aver preparato il terreno su cui è germogliato il pontificato di Bergoglio». In altre parole, è il milieu «della finanza angloamericana, di George Soros e dell’establishment anglofono liberal». Se si riflette sugli ultimi tre anni di pontificato, continua Dezzani, l’azione del Papa sembra infatti ricalcata sull’amministrazione democratica. Obama si fa il paladino della lotta al surriscaldamento globale, culminata col Trattato di Parigi del dicembre 2015? Bergoglio risponde con l’enciclica ambientalista “Laudato si”. Obama «ed i suoi ascari europei, Merkel e Renzi in testa», incentivano l’immigrazione di massa? Bergoglio «ne fornisce la copertura religiosa, finendo col dedicare la maggior parte del pontificato al tema». Ancora: Obama legalizza i matrimoni omosessuali? «Bergoglio si spende al massimo affinché il Sinodo sulla famiglia del 2014 si spinga in questa direzione».Gli “automatismi” continuano, estendendosi anche al welfare. La Casa Bianca vara una discussa riforma sanitaria che incentiva l’uso di farmaci abortivi? «Bergoglio allarga all’intera platea di sacerdoti, anziché ai soli vescovi, la facoltà di assolvere dall’aborto». Ma è possibile «insediare in Vaticano» un pontefice «in perfetta sintonia con l’amministrazione democratica di Obama» e, sopratutto, «espressione degli interessi retrostanti», che Dezzani definisce «massonici-finanziari»? E’ il tema della ricostruzione di Dezzani, che parte dalla “resa” di Ratzinger. Se si vuole attuare un “regime change”, il primo passo è «sbarazzarsi della vecchia gerarchia». Dinamica classica, «già vista in Italia con Tangentopoli, che spazzò via la vecchia classe dirigente italiana spianando la strada ai governi “europeisti” di Amato e Prodi». In Germania, la Tangentopoli tedesca «decapitò la Cdu e favorì l’emergere della semi-sconosciuta Angela Merkel». A Firenze, lo scandalo urbanistico sull’area Castello «eliminò l’assessore-sceriffo Graziano Cioni e avviò la scalata al potere di Matteo Renzi». O ancora, in Brasile, dove «lo scandalo Petrobas ha causato la caduta di Dilma Rousseff e la nomina a presidente del massone Michel Temer».Stesso schema, sempre: «Accuse di corruzione (fondate o non), illazioni infamanti, minacce, sinistre allusioni, carcerazioni preventive, battage della stampa, false testimonianze, omicidi: qualsiasi mezzo è impiegato per “scalzare” i vecchi vertici indesiderati». In Vaticano, nel mirino finirono «Ratzinger e il suo seguito di cardinali conservatori, da defenestrare a qualsiasi costo per l’avvento di un pontefice modernista». Ed ecco, puntale, lo scandalo “Vatileaks”, cioè lo smottamento – lungamente incubato – che ha condotto al ritiro di Ratzinger. L’analisi di Dezzani parte dagli Usa. Aprile 2009: Obama è insediato alla Casa Bianca da appena tre mesi «e con lui quell’oligarchia liberal decisa a sbarazzarsi di Benedetto XVI». In Italia esce “Vaticano SpA”, il libro di Gianluigi Nuzzi che “grazie all’accesso, quasi casuale, a un archivio sterminato di documenti ufficiali, spiega per la prima volta il ruolo dello Ior nella Prima e nella Seconda Repubblica”. Ovvero: «Mafia, massoneria, Vaticano e parti deviate dello Stato sono il mix di questo bestseller che apre la campagna di fango e intimidazione contro Ratzinger».L’autore, secondo Dezzani, «è uno dei pochi giornalisti italiani ad essere in stretti rapporti con il solitamente schivo Gianroberto Casaleggio: Nuzzi ottiene nel 2013 dal guru del M5S una lunga intervista e, tre anni dopo, partecipa alle sue esequie a Milano». Nuzzi è una prestigiosa “penna” del “Giornale”, di “Libero” e del “Corriere della Sera”: è lecito supporre che «confezioni “Vaticano SpA” e il successivo bestseller “Vatileaks”, avvalendosi delle fonti passategli dagli stessi ambienti che si nascondo dietro Gianroberto Casaleggio ed il M5S»? Ipotetici, veri manovratori: «I servizi atlantici e, in particolare, quelli britannici che storicamente vivono in simbiosi con la massoneria». Il biennio 2010-2011 vede Ratzinger «assalito da ogni lato dalle inchieste sulla pedofilia, il tallone d’Achille della Chiesa cattolica su cui l’oligarchia atlantica può colpire con facilità», infliggendo ingenti danni. “Scandalo pedofilia, il 2010 è stato l’annus horribilis della Chiesa cattolica” scrive nel gennaio 2011 il “Fatto Quotidiano”.È lo stesso periodo in cui l’argentino Luis Moreno Ocampo, primo procuratore capo della Corte Penale Internazionale ed ex-consulente della Banca Mondiale, valuta se accusare il pontefice Ratzinger di crimini contro l’umanità, imputandogli i “delitti commessi contro milioni di bambini nelle mani di preti e suore ed orchestrati dal Papa”. Poi arriva il 2012, ancora con gli americani in prima linea. Lo rivela Wikileaks, svelando l’esistenza di un documento «indispensabile per capire le trame che portano alla caduta di Ratzinger». È il febbraio 2012 quando John Podesta, futuro capo della campagna di Hillary, scrive a Sandy Newman un’email intitolata: “Opening for a Catholic Spring? just musing…” ossia: “Preparare una Primavera cattolica? Qualche riflessione…”. Già allora, Podesta era «un papavero dell’establishment liberal», capo di gabinetto della Casa Bianca ai tempi di Bill Clinton, nonché fondatore del think-tank “Center for American Progress”, «di cui uno dei principali donatori è lo speculatore George Soros». E Sandy Newman? Creatore di potenti think-tanks progressisti (“Voices for Progress”, “Project Vote!”, “Fight Crime: Invest in Kids”) in cui si fece le ossa, fresco di dottorato, il giovane Obama.Scrive Newman: «Ci deve essere una Primavera cattolica, in cui i cattolici stessi chiedano la fine di una “dittatura dell’età media” e l’inizio di un po’ di democrazia e di rispetto per la parità di genere». E Podesta: «Abbiamo creato “Cattolici in Alleanza per il Bene Comune” per organizzare per un momento come questo, ma non ha ancora la leadership per farlo. Come la maggior parte dei movimenti di “primavera”, penso che questo dovrà avvenire dal basso verso l’alto». Lo scambio di email hacketrato ora da Wikileaks, aggiunge Dezzani, si inserisce perfettamente nel contesto degli ambienti anglosassoni liberal, «gli stessi dove si discute da anni della necessità di un Concilio Vaticano III che apra a omosessuali, aborto e contraccezione». Il mondo ha bisogno di un nuovo Concilio Vaticano, scrive nel 2010 un membro del “Center for American Progress”, che parla apertamente di una “primavera cattolica” «che ponga fine alla dittatura medioevale della Chiesa, sulla falsariga della “primavera araba” che ha appena sconquassato il Medio Oriente».Di lì a poche settimane, continua Dezzani, «parte infatti la manovra a tenaglia che nell’arco di una decina di mesi porterà alla clamorose dimissioni di Benedetto XVI: è il cosiddetto “Vatileaks”, una furiosa campagna mediatica che attaccando su più fronti (Ior, abusi sessuali, lotte di palazzo, la controversa gestione della Segreteria di Stato da parte del cardinale Bertone) infligge il colpo di grazia al già traballante pontificato del conservatore Ratzinger, dipinto come “troppo debole per guidare la Chiesa”». L’intero scandalo, insiste Dezzani, poggia sulla fuga di notizie, «un’attività che dalla notte dei tempi è svolta dai servizi segreti». Notizie «trafugate» sono quelle che consentono a Nuzzi di confezionare il secondo bestseller, il libro-terremoto che esce nel maggio 2012: “Sua Santità. Le carte segrete di Benedetto XVI”, poi tradotto in inglese dalla Casaleggio Associati con l’emblematico titolo “Ratzinger was afraid: The secret documents, the money and the scandals that overwhelmed the pope”.Chi è la fonte di Nuzzi, il cosiddetto “corvo”? «Come nel più banale dei racconti gialli, è il maggiordomo, quel Paolo Gabriele che funge da capro espiatorio per una macchinazione ben più complessa», sostiene Dezzani. Notizie “trafugate” sarebbero anche quelle che compaiono sul “Fatto Quotidiano”, utili a dimostrare che lo Ior, gestito da Ettore Gotti Tedeschi, per il giornale di Travaglio «non ha alcuna intenzione di attuare gli impegni assunti in sede europea per aderire agli standard del Comitato per la valutazione di misure contro il riciclaggio di capitali», né di «permettere alle autorità antiriciclaggio vaticane e italiane di guardare cosa è accaduto nei conti dello Ior prima dell’aprile 2011». Gotti Tedeschi, ricorda Dezzani, verrà brutalmente licenziato dallo Ior il 25 maggio, lo stesso giorno dell’arresto del maggiordomo Gabriele, «così da alimentare il sospetto che i “corvi” siano ovunque, anche ai vertici dello Ior, Gotti Tedeschi compreso».Notizie “trafugate”, infine, sarebbero anche gli stralci pubblicati da Concita De Gregorio su “La Repubblica” e da Ignazio Ingrao su “Panorama” nel febbraio 2013, «estrapolati da un presunto dossier segreto e concernenti una fantomatica “lobby omosessuale in Vaticano”: sarebbe la gravità di questo documento, secondo le ricostruzione della stampa, ad aver convinto Ratzinger alle dimissioni». Si arriva così all’11 febbraio 2013: durante un concistoro per la canonizzazione di alcuni santi, Benedetto XVI, visibilmente affaticato, comunica in latino la clamorosa rinuncia al Soglio Pontificio. «Fu costretto alle dimissioni sotto ricatto? Era effettivamente spaventato?». Ratzinger smentisce nel modo più netto. Di recente ha ribadito che «non si è trattato di una ritirata sotto la pressione degli eventi o di una fuga per l’incapacità di farvi fronte». E ha aggiunto: «Nessuno ha cercato di ricattarmi».L’11 febbraio 2013, Ratzinger aveva affermato di «non essere più sicuro delle sue forze nell’esercizio del ministero petrino». Lo si può capire: era «fiaccato da tre anni di attacchi mediatici, piegato dallo scandalo “Vatileaks”». Così, l’anziano teologo – 86 anni – ha scelto le dimissioni. Tutto calcolato? «Le disgrazie del “conservatore” Ratzinger ed il massiccio cannoneggiamento che ha indebolito i settori della Chiesa a lui fedeli, spianano così la strada ad un Papa modernista, che attui quella “Primavera cattolica” tanto agognata dall’establishment angloamericano», scrive Dezzani. «Il Conclave del marzo 2013 (durante cui, secondo il giornalista Antonio Socci, si verificano gravi irregolarità che avrebbero potuto e dovuto invalidarne l’esito), sceglie così come vescovo di Roma l’argentino Jorge Mario Bergoglio: primo gesuita a varcare il soglio pontificio, dai trascorsi un po’ ambigui ai tempi della dittatura argentina». Duro il giudizio di Dezzani: «La ricattabilità è un tratto saliente dei burattini atlantici, da Angela Merkel a Matteo Renzi». Inoltre, il nuovo vescovo di Roma «è salutato con gioia dalla massoneria argentina, da quella italiana e dalla potente loggia ebraica del B’nai B’rith, che presenzia al suo insediamento».Lo stesso Bergoglio è un libero muratore? «Più di un elemento di carattere dottrinario, dal diniego che “Dio sia cattolico” all’ossessivo accento sull’ecumenismo, fanno supporre di sì», sostiene Dezzani. «Ma è soprattutto l’amministrazione democratica di Barack Obama e quella cricca di banchieri liberal ed anglofoni che la sostengono, a rallegrarsi per il nuovo papa». Bergoglio è il pontefice che «attua nel limite del possibile quella “Primavera Cattolica” tanto agognata (matrimoni omosessuali, aborto e contraccezione)». E’ il Papa che «sposa la causa ambientalista», che «fornisce una base ideologica all’immigrazione indiscriminata», che «sdogana Lutero e la riforma protestante». Ancora: è il pontefice che «sostanzialmente tace sulla pulizia etnica in Medio Oriente ai danni dei cristiani per mano di quell’Isis, dietro cui si nascondono quegli stessi poteri (Usa, Gb e Israele) che lo hanno introdotto dentro le Mura Leonine». È anche il primo Papa ad avere l’onore di parlare al Congresso degli Stati Uniti durante la visita del settembre 2015, prodigandosi per «sedare i malumori nel mondo cattolico americano contro la riforma sanitaria Obamacare».L’ultimo clamoroso intervento di Bergoglio a favore dell’establishment atlantico, continua Dezzani, risale al febbraio 2016, quando il pontefice etichettò come “non cristiana” la politica anti-immigrazione di Donald Trump. Un «incauto intervento», che per Dezzani rivela «il desiderio di sdebitarsi con quel mondo cui il pontefice argentino deve tutto», ma c’era anche «la volontà di mettere al riparo la sua opera di “modernizzazione” della Chiesa». La vittoria di Hillary Clinton, cioè della candidata di George Soros e dell’oligarchia euro-atlantica, «era infatti la conditio sine qua non perché la “Primavera Cattolica” di Bergoglio potesse continuare». Al contrario, «la sua sconfitta ha smantellato quel contesto geopolitico su cui Bergoglio ha edificato la traballante riforma progressista della Chiesa», sostiene sempre Dezzani. «Come François Hollande, come Angela Merkel e come Matteo Renzi, Jorge Mario Bergoglio, benché vescovo di Roma, oggi non è altro che il residuato di un’epoca archiviata». Dezzani lo considera «un figurante senza più copione, fermo sul palco, ammutolito ed estraniato, in attesa che cali il sipario».«Ultimo sussulto», da parte di Bergoglio, per «blindare la sua opera», il conferimento a tutti i sacerdoti della facoltà di assolvere dal peccato dell’aborto. A ciò si aggiunge «una terza infornata di cardinali (più di un terzo del collegio cardinalizio è ora formato da prelati a lui fedeli), così da imprimere un connotato “liberal” anche al futuro della Chiesa di Roma». Ma, per Dezzani, «è ormai troppo tardi», perché «la ribellione dentro la Chiesa alla sua “Primavera Cattolica” è iniziata». Quattro cardinali hanno di recente sollevato gravi contestazioni al documento “Amoris Laetitiae”, con cui Bergoglio ha chiuso i lavori del Sinodo sulla Famiglia, «contestazioni cui il pontefice non ha ancora risposto». E soprattutto: «Alla Casa Bianca non c’è più nessuno a proteggerlo. Anzi, c’è un presidente in pectore che, forte del voto della maggioranza dei cattolici americani, ne gradirebbe forse le dimissioni sulla falsariga di Benedetto XVI». Un’analisi buia, estrema e sconcertante. In premessa, Dezzani la definisce “verosimile”. Poi però la sottoscrive senza più incertezze: per Bergoglio, dice, «la fine si avvicina».Ratzinger “deposto” da un complotto gestito dai servizi segreti anglosassoni, con anche la collaborazione di Gianroberto Casaleggio. Obiettivo: insediare in Vaticano l’attuale pontefice “modernista”. Un piano del massimo potere, gestito da personaggi come George Soros e ora messo in pericolo dalla vittoria di Trump. Lo sostiene Federico Dezzani, che evoca “padrini occulti” dietro al pontificato di Bergoglio, di cui profetizza l’imminente declino. Nonostante il flop del Giubileo e «il sostanziale fallimento dell’Anno Santo», Papa Francesco oggi accelera la svolta modernista: crea nuovi cardinali a lui fedeli e concede a tutti i sacerdoti la facoltà di assolvere l’aborto. «Forse Bergoglio ha fretta, perché sa che il contesto internazionale che lo ha portato sul Soglio Petrino si è dissolto con l’elezione di Donald Trump», scrive Dezzani, secondo cui furono «l’amministrazione Obama e George Soros» a introdurre il gesuita argentino, «in forte odore di massoneria», dentro le Mura Leonine. Bergoglio? Sarebbe «la versione petrina di Barack Hussein Obama», in coerenza col “cesaropapismo”, grazie al quale il potere civile estende la propria competenza al campo religioso, così da plasmare la dottrina «secondo le esigenze del potere temporale».
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Sorvegliati via smartphone: Singapore, governa Big Data
«Il nostro smartphone ci rende trasparenti e molto vulnerabili: certamente sarebbe meno pericoloso girare completamente nudi in un parco», anche perché il microfono «funziona anche quando la nostra conversazione è terminata (penso a Siri per l’iPhone)». Sicché, «ogni nostra parola, i suoni intorno a noi, i nostri movimenti, sono registrati». Un sistema di controllo perfetto. Perché allora non farne anche un sistema di governo? E’ esattamente la scelta di Singapore, che «sta progettando un nuovo modello d’ingegneria sociale che potrebbe presto essere applicato altrove, in particolare nelle grandi metropoli come Parigi», scrive il sociologo belga-canadese Derrick de Kerckhove, direttore scientifico della rivista italiana “Media2000” e dell’Osservatorio TuttiMedia all’Internet Forum di Pechino, dopo aver guidato il McLuhan Program di Toronto fino al 2008. Ora siamo alla “datacrazia” definitiva, il “potere dei dati”: i leader li crea direttamente un algoritmo, i cittadini si adeguano ai comportamenti sociali imposti dalla tecnologia, di cui il governo si serve per mantenere il controllo. Una “tirannia morbida”, verso il “governo delle macchine”.L’analisi di Derrick de Kerckhove, presentata su “Avvenire”, parte dall’esempio di una città-Stato, Singapore, dove il modello di gestione è fondato sulla tecno-etica. «Ho definito quest’organizzazione “datacracy”, perché è una civiltà che si fonda sui dati e apparentemente permette di vivere in un luogo ideale senza rapine né furti». Tutto è regolato secondo un nuovo ordine che parte dalla raccolta e dall’analisi dei dati. «Il protagonista di questo nuovo modello è lo smartphone, perché ci identifica molto più del nostro passaporto, della nostra carta di credito o del nostro certificato di nascita». Il telefono palmare, infatti, «contiene tutto ciò che riguarda ciascuno di noi ed è sempre pronto a condividere contenuti con chiunque abbia le giuste capacità tecniche, anche se non possiede requisiti giuridici o diritti legali». Di noi, lo smarthone registra tutto, cosa che «ormai è di dominio pubblico». Follia? No, è solo l’ultimo gradino della scala che stiamo scendendo, da anni: «Dall’arrivo di Internet – scrive il sociologo – abbiamo iniziato a perdere privacy e anche il controllo delle nostre idee, scritte o discusse. E presto, forse, perderemo anche l’esclusiva sui nostri pensieri».Le tracce che ciascuno di noi lascia, continua de Kerckhove, sono raccolte da banche dati e poi riutilizzati per tanti scopi. Scandaloso? Ma anche ineluttabile: «Quello che sta accadendo dopo l’adozione globale di Internet è una graduale diminuzione delle libertà civili e delle garanzie che associamo con l’idea di democrazia occidentale», ammette lo studioso. «La privacy svanisce più velocemente nelle società dove le garanzie per l’individuo sono meno sacre o addirittura inesistenti; ne è prova l’evoluzione di Singapore, dove Lee Hsien Loong, figlio di Lee Kuan Yew, continuando l’opera del genitore ha abilmente usato la tecnologia per mettere sotto sorveglianza permanente i suoi cittadini». E guarda caso, «Singapore è la città-Stato con il più alto tasso di penetrazione al mondo di smartphone». Fino a che punto il fine può giustificare i mezzi? «Singapore si pone come Stato precursore del controllo urbano attraverso la sorveglianza fondata su Big Data e smartphone». Un modello di vita basato sulla tecno-etica: «I cittadini di Singapore, come la maggior parte di noi, trascorrono molta della loro vita attiva di fronte a uno schermo, lasciano tracce: sono geolocalizzati, si sa cosa scrivono e dicono. Le istituzioni di Singapore hanno deciso senza pudore di fare pieno uso di tali informazioni al fine di garantire ordine sociale e comportamenti corretti. Nessuno sporca la città, nessuno trasgredisce la legge».Nella metropoli asiatica, rilva il sociologo, la tendenza alla sorveglianza occhiuta si manifesta tra il 1965 e il 1990, quando Lee Kuan Yew (premier e padre dell’attuale capo di governo), istituisce regole draconiane per ripulire la città e per gestire le tensioni tra i quattro gruppi etnici che popolano Singapore. Tante le imposizioni: vietato masticare chewingum fuori casa, sputare per terra; non azionare lo scarico nei bagni pubblici. Bacchettate sulle mani per gli autori di graffiti, fustigazione per gli atti vandalici. Idem per l’ambito privato: zero pornografia, illegale il sesso gay (due anni di carcere). E’ illegale persino camminare nudi, in casa, fuori del bagno. Questo regime ha un nome, si chiama “democratura”. E oggi sta diventando anche “datacracy” o “governo di algoritmi”. «L’imposizione di una trasparenza completa permette di sapere il più possibile su tutto e tutti». Salito al potere nel 2004, Lee Hsien Loong ha imposto nuovi divieti e onnipresenti telecamere di sorveglianza: «Siamo alla ricreazione di Argus, il gigante della mitologia greca che tutto vede con i suoi 100 occhi. L’attuale capo del governo ha sostituito la democratura del padre con la datacrazia: siamo al “governo dell’ algoritmo”. E questo significa che dai dati raccolti e analizzati viene automaticamente il responso e, nel caso, la pena».Nuovi sensori e telecamere poste su tutto il territorio di Singapore raccolgono dati e informazioni per consentire al governo di monitorare ogni azione o evento, controllare pulizia degli spazi pubblici, tassi d’inquinamento, densità di folla e movimento di tutti i veicoli. «La sorveglianza è completa grazie ai dati raccolti da smartphone, social media, sensori e telecamere pubbliche». Il sistema «assicura l’immediato giudizio, il verdetto e l’esecuzione della pena (multe o peggio)». E le persone? «Sembrano soddisfatte della situazione, che assicura pace e ordine, pulizia, e attrae investitori», senza contare «salute e tutto il benessere possibile». A Singapore, scrive Derrick de Kerckhove, «si respira un senso di armonia sociale di cui i cittadini sembrano essere orgogliosi». Tutti d’accordo? No, ovviamente: esiste «una frangia di dissenso», peraltro «già sotto stretta sorveglianza». I critici sostengono che l’uso di Internet non è sicuro e quindi le persone tendono all’auto-censura, preferiscono tenere la bocca chiusa. Anche perché i blogger dissidenti sono perseguitati: Amos Yee, 16 anni, è in carcere dal maggio 2015 per commenti offensivi. Ong e informazione libera sono scoraggiati, la tv è monopolio statale, la stampa è fortemente controllata.«La narrazione politica sulla supposta armonia interculturale impera», sottoinea de Kerckhove, «ma il razzismo continua, soprattutto nelle assunzioni». Intanto, «i simboli del passato vengono soffocati da opere moderne, senza rispetto per la storia della città», che viene «riscritta, nei testi scolastici, per soddisfare la propaganda di Stato». A maggior ragione, «l’accesso agli archivi governativi pubblici è limitata». Secondo il sociologo, «ci avviamo al punto di non ritorno di un cambiamento radicale, paragonabile solo al Rinascimento europeo. Questa volta, però, mondiale». De Kerckhove cita Marshall McLuhan, secondo cui l’elettricità è l’infrastruttura della rivoluzione: «Dispositivi d’informazione elettrici sono gli strumenti per la tirannia e la sorveglianza universale, dal grembo materno alla tomba. Nasce così un grave dilemma tra il nostro diritto alla privacy e la necessità della comunità di sapere. Le idee tradizionali legate ai pensieri e alle azioni private sono minacciate dai modelli di tecnologia meccanica che grazie all’elettricità permette il recupero istantaneo delle informazioni». Fascicoli zeppi di notizie e pettegolezzi che non perdonano: «Non c’è redenzione, nessuna cancellazione di “errori” di gioventù». Alla fine, conclude Derrick de Kerckhove, dovremo «trovare un equilibrio tra le esigenze di vita privata e quelle sociali». Cos’è peggio, la vecchia “democratura” o la nuova, inquietante “datacrazia”, ovvero il «potenziale tirannico di un governo dei Big Data»? E soprattutto: «Abbiamo ancora una scelta, in materia», o si tratta di un destino inesorabile?«Il nostro smartphone ci rende trasparenti e molto vulnerabili: certamente sarebbe meno pericoloso girare completamente nudi in un parco», anche perché il microfono «funziona anche quando la nostra conversazione è terminata (penso a Siri per l’iPhone)». Sicché, «ogni nostra parola, i suoni intorno a noi, i nostri movimenti, sono registrati». Un sistema di controllo perfetto. Perché allora non farne anche un sistema di governo? E’ esattamente la scelta di Singapore, che «sta progettando un nuovo modello d’ingegneria sociale che potrebbe presto essere applicato altrove, in particolare nelle grandi metropoli come Parigi», scrive il sociologo belga-canadese Derrick de Kerckhove, direttore scientifico della rivista italiana “Media2000” e dell’Osservatorio TuttiMedia all’Internet Forum di Pechino, dopo aver guidato il McLuhan Program di Toronto fino al 2008. Ora siamo alla “datacrazia” definitiva, il “potere dei dati”: i leader li crea direttamente un algoritmo, i cittadini si adeguano ai comportamenti sociali imposti dalla tecnologia, di cui il governo si serve per mantenere il controllo. Una “tirannia morbida”, verso il “governo delle macchine”.
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Globalisti privatizzatori, questa catastrofe è il loro piano
Cos’è il globalismo, e perché esiste? E’ ormai noto da decenni che la spinta alla globalizzazione è un preciso piano coltivato da un’élite di finanzieri internazionali, banchieri centrali, leader politici e think-tanks esclusivi. «Spesso nelle loro pubblicazioni ammettono apertamente il loro obiettivo di globalizzazione totale, forse nella convinzione che le persone semplici e non istruite in ogni caso non le leggeranno mai», scrive Brandon Smith su “Zero Hedge”. Carroll Quigley, mentore di Bill Clinton, viene spesso citato per le sue ammissioni: «I poteri del capitalismo finanziario avevano un obiettivo di ampia portata, niente di meno che creare un sistema mondiale di controllo finanziario in mani private, in grado di dominare il sistema politico di ciascun paese e l’economia del mondo intero». Un sistema che «doveva essere controllato in maniera feudale dalle banche centrali del mondo, che avrebbero agito di concerto, con accordi segreti». Il vertice del sistema «doveva essere la Banca dei Regolamenti Internazionali a Basilea, in Svizzera, una banca privata posseduta e controllata dalle banche centrali mondiali che sono esse stesse imprese private».Ciascuna banca centrale, continua Quigley, cerca di dominare il governo del proprio paese «grazie alla capacità di controllare i prestiti del Tesoro, di manipolare gli scambi con l’estero, di influire sull’attività economica del paese e influenzare i politici disposti a collaborare, ricompensandoli poi economicamente nel mondo degli affari». Si pensi alle classiche “porte girevoli” tra politica e grandi banche d’affari. «Le persone che stanno dietro all’obiettivo di imporre la globalizzazione – scrive Smith in un post ripreso da “Voci dall’Estero” – sono legate da una particolare ideologia, quasi un culto religioso, in cui immaginano un ordine mondiale come viene descritto nella “Repubblica” di Platone. Credono di essere stati “prescelti” – dal fato, dal destino o dalla genetica – per dominarci tutti come dei re-filosofi. Pensano di essere quanto di più intelligente e capace l’umanità abbia da offrire e di poter creare dal nulla, con poteri semi-divini, il caos e l’ordine, e così poter plasmare la società a loro piacimento».Questa mentalità appare evidente nel sistema globale: «La gestione delle banche centrali non è altro che un meccanismo per intrappolare le nazioni in debiti, svalutazioni valutarie e, in ultima analisi, schiavitù, attraverso l’estorsione economica diffusa». Obiettivo ultimo delle banche centrali, «scatenare delle crisi finanziarie di portata storica, che possono poi essere usate dalle élite come leva per promuovere la completa centralizzazione globale come unica soluzione possibile». Questo processo di destabilizzazione delle economie e delle società, continua Smith, non viene neppure controllato dai presidenti delle varie banche centrali: in realtà è pilotato da istituzioni globali ancor più centralizzate come il Fondo Monetario Internazionale e la stessa Bank of International Settlements, come spiegato in interessanti articoli come “Ruling The World Of Money”, pubblicato da “Harpers Magazine”. Se ne deduce che la campagna per un “nuovo ordine mondiale” non è esattamente un progetto umanitario: «Innumerevoli persone odieranno il nuovo ordine mondiale, e moriranno protestando contro di esso».L’élite mette in conto «almeno una generazione di malcontenti, molti dei quali saranno persone buone e di valore», stando alle parole dello scrittore britannico Herbert George Welles, laburista e profeta del “Nuovo ordine mondiale” (il primo a coniare l’espressione, che titola una sua opera del 1940). «In breve, la “casa dell’ordine mondiale” dovrà essere costruita dal basso verso l’alto anziché dall’alto verso il basso. Sembrerà una grande “rumorosa, esplosiva confusione”, per usare la famosa descrizione della realtà di William James, ma alla fine un lento assedio della sovranità nazionale, che la eroda pezzo per pezzo, risulterà più efficace del vecchio sistema dell’assalto frontale», scrive nel 1974 Richard Gardner, membro della Commissione Trilaterale, su “Issue of Foreign Affairs”. Precisa un altro campione dell’élite globalista, Henry Kissinger, al “World Action Council” del 1994: «Il Nuovo Ordine Mondiale non può realizzarsi senza la partecipazione degli Stati Uniti, visto che siamo il suo membro più importante. Certo, ci sarà un Nuovo Ordine Mondiale, e imporrà agli Stati Uniti di cambiare le proprie percezioni».Mentre alcuni considerano la globalizzazione una “evoluzione naturale” del libero mercato o l’inevitabile sbocco del progresso economico, «la verità è che la spiegazione più semplice (alla luce delle evidenze disponibili) è che la globalizzazione è una guerra aperta condotta contro l’ideale dei popoli sovrani e delle nazioni», scrive Brandon Smith. «E’ una guerriglia, o una guerra di quarta generazione, intrapresa da un piccolo gruppo di élite contro tutti gli altri». Un elemento significativo di questa guerra, aggiunge, riguarda la demolizione dei confini delle nazioni, degli Stati e persino di città e villaggi, come delimitazioni di comunità solidali e identitarie: «Non ci piace essere costretti ad associarci a persone o a gruppi che non hanno i nostri stessi valori». Le culture «innalzano i confini perché, francamente, i popoli hanno il diritto di controllare coloro che desiderano aderire alla comunità e condividerne gli intenti», rifiutando «altri gruppi di persone e di ideologie che per noi risultano distruttive». Curiosamente, invece, i globalisti «sosterranno che, rifiutandoci di associarci con coloro che potrebbero distruggere i nostri valori, siamo noi che violiamo i loro diritti. Vedete come funziona?».I globalisti «sfruttano la parola “isolazionismo” per infangare i sostenitori della sovranità agli occhi della pubblica opinione», e invece «non bisogna vergognarsi dell’isolamento quando principi quali la libertà di parola e di espressione o il diritto all’autodifesa vengono messi in discussione». Inoltre, «non c’è nulla di sbagliato nell’isolare un modello economico prospero da altri modelli insoddisfacenti», anche perché, al contrario, «imporre a un’economia di mercato libero decentralizzato di adottare un’amministrazione feudale attraverso un governo e una banca centralizzati finirà per distruggere il modello». Così come «importare milioni di persone con differenti valori per rinvigorire una nazione» non è altro che «una ricetta per il disastro». In un mondo senza barriere, continua Smith, si potrà solo eliminare una cultura per sostituirla con un’altra: «Questo è quello che vogliono ottenere i globalisti. E’ lo scopo vero dietro le politiche delle “frontiere aperte” e della globalizzazione – annichilire il confronto delle idee, così che l’umanità finisca col pensare di non avere altra opzione all’infuori della religione delle élite». Lo scopo ultimo dei globalisti «non è di controllare i governi», che sono solo uno strumento, bensì «ottenere un’influenza psicologica totale», onde conquistare definitivamente «il consenso delle masse».Le élite sostengono che la loro idea di una singola cultura mondiale è il pilastro fondamentale dell’umanità, e che non c’è più alcun bisogno di confini perché nessun principio è più importante di questo. «Fino a quando i confini, come concetto, continuano a esistere, ci può sempre essere la possibilità di separare ideali diversi che competono con la filosofia globalizzatrice: questo non è accettabile per le élite». Oggi, con l’affermarsi dei movimenti anti-globalisti, la tesi portata avanti dal mainstream è che i “populisti” (conservatori) rappresentano una classe spregevole e ignorante, sono elementi pericolosi che minacciano “la pace e la prosperità” provenienti dalle sapienti mani globaliste. Ancora una volta, Carrol Quigley predice questa propaganda con decenni di anticipo, quando discute la necessità di “rimanere all’interno del sistema” per cambiarlo, anziché combattere contro di esso, e parla della «classe medio-bassa» definendola «spina dorsale del fascismo del futuro». E spiega: «I membri del partito nazista in Germania venivano per lo più da questa classe», alla quale associa «i movimenti di centro-destra» degli Stati Uniti.I globalisti, continua Smith, hanno avuto mano libera sulla maggior parte dei governi mondiali per almeno un secolo, se non di più. «A seguito della loro influenza, abbiamo avuto due guerre mondiali, la Grande Depressione, la Grande Recessione che non è ancora finita, troppi conflitti regionali e genocidi perché possano essere contati, e la sistematica oppressione dei liberi imprenditori, degli inventori e delle idee, al punto che soffriamo ormai di stagnazione sociale e finanziaria». Curioso: «I globalisti sono rimasti al potere a lungo, ma la colpa delle numerose crisi avvenute negli ultimi 100 anni viene data all’esistenza dei confini». I campioni della libertà «vengono definiti inqualificabili populisti e fascisti», mentre i globalisti si sottraggono a ogni accusa. «Non esiste uno straccio di prova che confermi l’idea che la globalizzazione, l’interdipendenza e la centralizzazione funzionino davvero», insiste Smith. Per capirlo, «basta esaminare l’incubo economico e migratorio presente nell’Ue». Quindi, i globalisti «sosterranno che il mondo non è abbastanza centralizzato», cioè diranno che «ci vuole più globalizzazione, non meno, per risolvere i problemi del mondo».Nel frattempo, «i principi della sovranità devono essere demonizzati storicamente». Intollerabile, infatti, la stessa esistenza di diverse culture: «Per le generazioni future deve essere psicologicamente associata al male». Vogliono un mondo in cui «il principio di sovranità sia considerato così aberrante, così razzista, così violento e insidioso che chiunque si vergognerebbe di averlo sostenuto». E’ una vera «prigione mentale», ed è «il luogo dove i globalisti vogliono portarci». Ribellarsi? Per Smith, è possibile solo col volontariato, costruendo «una spinta verso la decentralizzazione, la localizzazione, l’indipendenza e la vera produzione». Meglio i confini, se lasciano l’individuo «libero di partecipare a qualsiasi gruppo sociale che desidera o che crede migliore per lui», nell’ambito di una società «non costretta ad associazioni forzate». Ma Smith non è ottimista: «Questo sforzo richiederebbe enormi sacrifici e una battaglia che probabilmente durerebbe per una generazione». L’unica sicurezza è nera: «Posso solo mostrare che il mondo dominato dai globalisti in cui viviamo oggi è chiaramente destinato alla catastrofe. Potremo discutere su cosa fare dopo solo quando avremo tolto la testa dalla ghigliottina».Cos’è il globalismo, e perché esiste? E’ ormai noto da decenni che la spinta alla globalizzazione è un preciso piano coltivato da un’élite di finanzieri internazionali, banchieri centrali, leader politici e think-tanks esclusivi. «Spesso nelle loro pubblicazioni ammettono apertamente il loro obiettivo di globalizzazione totale, forse nella convinzione che le persone semplici e non istruite in ogni caso non le leggeranno mai», scrive Brandon Smith su “Zero Hedge”. Carroll Quigley, mentore di Bill Clinton, viene spesso citato per le sue ammissioni: «I poteri del capitalismo finanziario avevano un obiettivo di ampia portata, niente di meno che creare un sistema mondiale di controllo finanziario in mani private, in grado di dominare il sistema politico di ciascun paese e l’economia del mondo intero». Un sistema che «doveva essere controllato in maniera feudale dalle banche centrali del mondo, che avrebbero agito di concerto, con accordi segreti». Il vertice del sistema «doveva essere la Banca dei Regolamenti Internazionali a Basilea, in Svizzera, una banca privata posseduta e controllata dalle banche centrali mondiali che sono esse stesse imprese private».
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Paragone: Trump, una dura lezione per Merkel e Juncker
Oddio, già non li sopporto. Quelli che ora sono diventati trumpiani. Quelli che l’avevano detto. Quelli che “bisogna capire cosa c’è dietro questo voto americano”. Non li sopporto. Perché quasi peggio della Clinton ci sono i trumpiani convertiti. I quali ci vogliono spiegare. Non c’è niente da spiegare. Trump con noi non c’entra nulla. La sua vittoria è stata salutare perché ha rotto un percorso perverso, al pari della Brexit; ma per nulla al mondo avrei voglia di avere Trump comandante in capo. Gli americani sono divertenti se li guardi da fuori, per il resto… no grazie. La mia posizione resta quella splendidamente sintetizzata da Vasco: non siamo mica gli americani. La dico tutta: chi s’illude che Trump diventi un supereroe della Marvel, un nuovo Capitan America, secondo me si sbaglia. Trump è un imprenditore americano, è roba loro, ha una testa da americano. Quindi, per quel che mi riguarda, ‘ sti americani se ne restino pure a casa propria. Che poi è l’unico motivo per cui alla fine ho considerato il repubblicano meno peggio della Clinton: perché ha detto che non andrà a rompere le scatole in giro per il mondo. Ecco, sarebbe già qualcosa.Stiamo facendo di tutto per scrollarci di dosso le catene tedesche e vogliamo già indossare di nuovo la giubba americana? E perché? La crisi europea si sta producendo perché i cittadini non hanno più voglia di essere qualcosa d’altro rispetto a quello che sono. L’elemento centrale della disgregazione eurocratica è il senso di identità, il senso di appartenenza. La nostra cultura è ancora pregna di civiltà mediterranea, cioè di un luogo stupendo dove il tempo si è evoluto in storia e la storia è diventata adulta. Quel Mediterraneo è il nostro orgoglio, il nostro punto d’appoggio dove ripartire, è il nostro fulcro dove piazzare la leva e scardinare quanto di stupido questa eurofollia ha materializzato con l’aiuto di imbroglioni travestiti da analisti, esperti o, peggio, da sognatori. L’Europa non sarà mai la nostra casa fintanto che non torna a Canossa, cioè nel suo mar Mediterraneo, crocevia di imbroglioni e geni.Lo scrivo da troppo tempo per poter adesso crogiolarmi nella vittoria di uno che resta lontano anni luce da me. Spero per gli americani che faccia quel bene che ha promesso loro (ho dei dubbi…) ma Trump non è un modello che posso permettermi per ricostruire. Avevamo bisogno del superbowl elettorale per intuire che il ceto medio è in profonda difficoltà? Avevamo bisogno del successo del candidato repubblicano per certificare l’arroganza dell’establishment? O che la gente si è rotta dei politici? Stiamo freschi se così fosse. La crisi del ceto medio è colpa del modello di sviluppo esportato dagli americani, un modello a debito. Noi non siamo gli americani; meno male, aggiungo. Noi siamo qua, in un’altra parte del globo che è un mondo a parte. Un mondo che resta centrale. Che guarda alla sponda americana ma non può fare a meno di escludere il Nordafrica o quel Medio Oriente i cui codici fanno parte della nostra storia (Palermo, Venezia, Ravenna…). E non può fare a meno di intrecciare alleanze con la Russia, più vicina di quanto pensiamo.Noi insomma dovremmo imparare a ributtare lo sguardo su noi stessi. La vittoria di Trump è una occasione d’oro perché indebolisce i burocrati di Bruxelles, la Merkel, toglie alla Francia gauchista quell’alleato stupido che ha incasinato il Maghreb, Libia in testa. Trump rafforza l’asse naturale con la Gran Bretagna così che i britannici post Brexit avranno un mercato privilegiato da opporre ai ricattini di Juncker. Insomma, Trump è il perfetto inciampo che può rimettere in ordine le caselle. E’ quell’impazzimento della politica che rende possibile persino l’impossibile rovesciamento della prima legge dell’entropia.Ma da qui a definirci trumpiani no.(Gianluigi Paragone, “Trump presidente Usa, con il cavolo che mi sento trumpiano!”, dal “Fatto Quotidiano” del 14 novembre 2016).Oddio, già non li sopporto. Quelli che ora sono diventati trumpiani. Quelli che l’avevano detto. Quelli che “bisogna capire cosa c’è dietro questo voto americano”. Non li sopporto. Perché quasi peggio della Clinton ci sono i trumpiani convertiti. I quali ci vogliono spiegare. Non c’è niente da spiegare. Trump con noi non c’entra nulla. La sua vittoria è stata salutare perché ha rotto un percorso perverso, al pari della Brexit; ma per nulla al mondo avrei voglia di avere Trump comandante in capo. Gli americani sono divertenti se li guardi da fuori, per il resto… no grazie. La mia posizione resta quella splendidamente sintetizzata da Vasco: non siamo mica gli americani. La dico tutta: chi s’illude che Trump diventi un supereroe della Marvel, un nuovo Capitan America, secondo me si sbaglia. Trump è un imprenditore americano, è roba loro, ha una testa da americano. Quindi, per quel che mi riguarda, ‘ sti americani se ne restino pure a casa propria. Che poi è l’unico motivo per cui alla fine ho considerato il repubblicano meno peggio della Clinton: perché ha detto che non andrà a rompere le scatole in giro per il mondo. Ecco, sarebbe già qualcosa.
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Biometria facciale, già foto-schedato un americano su due
Oggi, Facebook vanta oltre un miliardo e mezzo di utenti. Le loro facce sono pubbliche. Una colossale auto-schedatura planetaria. Non è uno scherzo: c’è chi sta lavorando per “classificare” ogni inviduo, magari utilizzando telecamere di sorveglianza nelle strade. Oggi, un americano adulto su due – cioè 117 milioni di persone – ha già avuto le sue foto sottoposte a questo genere di ricerche. In pratica, scrive la “Stampa”, si impiegano «algoritmi utilizzati dalle polizie di una trentina di Stati come fossero un semplice motore di ricerca». All’occorrenza, «si immette l’immagine del presunto criminale e si cerca un possibile collegamento con una foto tratta dalle banche dati delle patenti di guida o delle carte d’identità». O magari da Facebook, che è così comodo – ora, scrive Gianfranco Carpeoro proprio nella sua pagina Fb, meglio si capisce il nome, “faccia-libro”, del mega-network creato da Mark Zuckerberg all’indomani dell’11 Settembre, quando la Cia scoprì la necessità di dover controllare l’identità, l’orientamento e i movimenti di milioni di individui.A svelare che il 50% della popolazione statunitense è già stata sottoposta a schedatura digitale, con l’impiego di sofisticate tecnologie per il riconoscimento facciale, è un autorevole istituto, il “Center on Privacy & Technology” della Georgetown University. La tesi della ricerca, scrive Carola Frediani sul quotidiano torinese, è che l’adozione del riconoscimento facciale sia inevitabile, anche ai fini di sicurezza, e non possa o debba essere fermato, benché attualmente non sia ancora regolamentato. «Tra le criticità, dice lo studio, c’è il modo in cui sono usati questi sistemi: un conto è fare una ricerca per identificare qualcuno che è stato fermato o arrestato, un altro paio di maniche è avere l’immagine di un sospetto presa da una videocamera e cercarla in un database composto dalle patenti di comuni cittadini o da immagini riprese da videocamere mentre sono per strada». Nel primo caso si tratta di una ricerca mirata e al contempo pubblica, palese; nel secondo è invece tanto generica quanto invisibile. «Oggi, ogni dipartimento o agenzia locale americana fa quello che vuole».Andando a pescare dagli archivi delle patenti, però, l’Fbi sta costruendo una risorsa di dati biometrici che include cittadini rispettosi della legge, continua la “Stampa”. Storicamente, invece, le impronte digitali e il Dna erano sempre stati raccolti solo in relazione ad arresti o indagini criminali. Tutto ciò, dice lo studio, non ha precedenti ed è problematico. Così come lo è l’impiego di video in tempo reale, registrati dalle telecamere di sorveglianza: sono almeno cinque i dipartimenti di polizia che utilizzano funzioni di riconoscimento facciale di questo tipo su videocamere in strada. Inoltre, continua la Frediani, su 52 agenzie che adottano questa tecnologia, solo una proibisce espressamente il suo utilizzo per monitorare individui coinvolti in attività politiche o religiose. «Il rischio di utilizzi impropri, discriminatori ad esempio verso afroamericani o minoranze, è alto». Senza contare l’affidabilità (relativa) del sistema: solo due agenzie hanno subordinato l’acquisto a test di efficacia. E una delle maggiori aziende del settore, FaceFirst, che sostiene di avere un tasso di accuratezza del 95%, declina ogni responsabilità nel caso in cui non raggiunga la soglia prevista. «A ciò, va aggiunta l’assenza di controlli e meccanismi per rilevare eventuali abusi: solo nove agenzie su 52 registrano le ricerche effettuate nei database dai loro agenti».E l’Italia? Per ora lancia un bando: “Strumento utile per l’antiterrorismo”. L’industria del riconoscimento facciale, aggiunge Carola Frediani, è spinta anche dalle richieste di sicurezza degli Stati. Tra gli utilizzi più diffusi finora – ad esempio in Turchia – c’è la ricerca del volto di qualcuno fermato a una frontiera, dopo averlo fotografato con lo smartphone, e avendone poi collocata l’immagine su un database di sospettati o criminali. «Più complessa, ma molto ambita dalle forze di sicurezza, la ricerca fatta su immagini registrate da telecamere a circuito chiuso o riprese in tempo reale da videocamere di sorveglianza». Ambizione espressa anche del governo italiano, che con il ministro dell’interno Angelino Alfano aveva annunciato un potenziamento del sistema di sicurezza del nostro paese, che includeva anche questo genere di tecnologia. «Lo scorso novembre è stata indetta una gara pubblica da 56 milioni di euro per la fornitura di sistemi di videosorveglianza (per edifici pubblici e per il territorio) con funzioni di analisi video in tempo reale e riconoscimento facciale».In mano a uno stalker, però, questo dispositivo può diventare un’arma pericolosa, avverte la “Stampa”: «Una delle applicazioni commerciali più inquietanti del riconoscimento facciale è quella già adottata da alcune piattaforme di appuntamenti, come la russa FindFace», che utilizza una tecnologia avanzata «per abbinare foto scattate a sconosciuti per strada, per esempio attraverso lo smartphone, con i volti dei profili di iscritti a Vkontakte, una sorta di Facebook russo». Secondo i suoi creatori avrebbe un tasso di successo del 70%. Alcuni utenti che lo hanno testato sono riusciti a identificare donne fotografate in altri contesti. «È chiaro che il potenziale per stalking e abusi di ogni tipo è altissimo», ammette Frediani. Tutt’altro utilizzo è invece quello pensato dalla app di dating Heystax, che lavora sullo studio delle espressioni facciali dei suoi utenti mentre sono impegnati in una videochiamata con un potenziale partner. La pretesa qui è solo di «valutare la compatibilità emozionale della coppia».Infine, il sistema può permettere l’ingresso in alcuni edifici solo a determinate persone. «L’efficacia maggiore delle tecnologie di riconoscimento facciale avviene nei cosiddetti contesti cooperativi, laddove cioè le persone si fermano e si fanno volutamente inquadrare da videocamere», spiega la giornalista. «Un utilizzo che funziona per dare l’accesso a luoghi riservati: per esempio edifici o cantieri con esigenze particolari di sicurezza». L’azienda israeliana Fst Biometrics pubblicizza da qualche anno un sistema che dovrebbe funzionare da pass di ingresso negli edifici, al posto di chiavi, badge e password. Basta dare inizialmente una propria foto al sistema e poi, al momento dell’accesso, farsi inquadrare dalla videocamera. Tra le aziende in Italia c’è Eurotech a lavorare proprio su questo genere di applicazioni, promettendo un tasso medio di identificazione del 95%. Può monitorare il transito di un visitatore in un edificio o abbinare il suo volto a un documento precedentemente registrato per identificarlo.Oggi, Facebook vanta oltre un miliardo e mezzo di utenti. Le loro facce sono pubbliche. Una colossale auto-schedatura planetaria. Non è uno scherzo: c’è chi sta lavorando per “classificare” ogni inviduo, magari utilizzando telecamere di sorveglianza nelle strade. Oggi, un americano adulto su due – cioè 117 milioni di persone – ha già avuto le sue foto sottoposte a questo genere di ricerche. In pratica, scrive la “Stampa”, si impiegano «algoritmi utilizzati dalle polizie di una trentina di Stati come fossero un semplice motore di ricerca». All’occorrenza, «si immette l’immagine del presunto criminale e si cerca un possibile collegamento con una foto tratta dalle banche dati delle patenti di guida o delle carte d’identità». O magari da Facebook, che è così comodo – ora, scrive Gianfranco Carpeoro proprio nella sua pagina Fb, meglio si capisce il nome, “faccia-libro”, del mega-network creato da Mark Zuckerberg all’indomani dell’11 Settembre, quando la Cia scoprì la necessità di dover controllare l’identità, l’orientamento e i movimenti di milioni di individui.