Archivio del Tag ‘identità’
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Il volo del pellicano, i Rosacroce sono ancora tra noi?
Tutto comincia con un certo Melchisedek, il biblico “re di giustizia” che ha la facoltà di autorizzare Abramo ad esercitare il potere terreno sul suo popolo. Figura estramamente misteriosa, Melchisedek: secondo la recentissima decrittazione di Mauro Biglino, nientemeno che un Elohim, come lo stesso Yahwè; per l’interpretazione esoterico-simbolica, invece, era una personalità “a diretto contatto col divino”, emblema vivente della perduta regalità, fondata su una speciale conoscenza gelosamente custodita, nei millenni, dalla cosiddetta Radix Davidis, la Stirpe di Giuda il cui destino è prefigurato nella pagina della Genesi su cui, ancora oggi, giurano i presidenti degli Stati Uniti. Dall’evangelico Giuseppe d’Arimatea fino al genio visionario di Salvador Dalì, passando per Alarico il re dei Goti, Dante Alighieri e Giordano Bruno, Bach e Cartesio, Leonardo e Giorgione. Una “confraternita del sapere”, che si sarebbe poi chiamata – anche – Rosacroce, nome col quale, all’inizio del ‘600, firmò un manifesto che chiedeva l’abolizione della proprietà privata e dei confini tra le nazioni.Melchisedek è anche il nome dell’editore che oggi ripubblica l’originalissimo romanzo che Gianfranco Carpeoro, ex avvocato e giornalista, già “sovrano gran maestro” della massoneria indipendente di rito scozzese, nonché appassionato studioso di linguaggi simbolici, ha dedicato al mistero dei Rosacroce, “Il volo del pellicano”. Molti simboli rappresentano la porta di un mondo che ci sfugge, al quale abbiamo accesso soltanto nella dimensione del sogno, che però – ha sostenuto l’autore in una recente presentazione milanese – al nostro risveglio non possiamo ricordare, perché ci manca il linguaggio adatto, dal momento che il sogno è il reame degli archetipi. L’archetipo rivive proprio nel simbolo, un’astrazione concepita per veicolare un messaggio attraverso i secoli. E noi, frastornati dal pensiero magico-manipolatorio del potere (religione, economia, politica), in realtà siamo circondati da simboli che ci “parlano”, se solo li sapessimo “leggere”. E’ quello che scopre Giulio Cortesi, il protagonista de “Il volo del pellicano”, uccello-simbolo della militanza rosacrociana, richiamato anche in una delle ultime apparizioni pubbliche di una rockstar come Freddy Mercury, leader dei Queen.Il libro di Carpeoro è un avvincente thriller alchemico-esoterico che si svolge su due livelli, due binari separati che corrono parallelamente alla verità di un mondo che è davanti ai nostri occhi, a patto che ci decidiamo ad accorgercene. Vi inciampa il grafico quarantenne Cortesi, disoccupato e con la passione per la cucina: sospettato di omicidio, si trova per caso coinvolto in un’insolita ricerca, un’avventura intellettuale tra antichi simboli e opere d’arte, che lo porterà a scoprire i segreti dei Rosacroce, gli iniziati alla fratellanza, attraverso i personaggi storici che, nei secoli, hanno costruito il destino della Stirpe di David, scrive lo stesso Carpeoro sul suo sito. Punto di partenza, l’opera di Giorgione: quale segreto si nasconde dietro la vera identità del grande pittore, la sua breve esistenza e le sue opere misteriose? E poi Giordano Bruno: cosa lo spinge a Wittenberg qualche anno prima della sua morte? E quale incontro, ad Ulm, cambierà la vita del filosofo e matematico Cartesio? E ancora: perché il protestante Silesio andò a Padova, prima di convertirsi al cattolicesimo, e cosa lo collega alle terzine del Pellegrino Cherubico e ai quadri di Giorgione?Lo stesso pittore è stranamente collegato anche al principe Sangro di Sansevero; a proposito: chi fu veramente Cagliostro? E che mistero si cela dietro la storia della famiglia Bach? E ancora: dove finirono le spoglie di Mozart? Gli enigmi si prolungano fino al ‘900, intrecciando indizi che coinvolgono il musicista Eric Satie, il “vate” Gabriele D’Annunzio, il francese Jean Coucteau e lo stesso Dalì, ultimo “Ormùs” (gran maestro) della segretissima confraternita, che prima di morire pare abbia trasmesso un fondamentale segreto: a chi? Tessere di un mosaico, verso il quale Cortesi viene guidato da svariate figure, tra cui un paio di professori torinesi, che lo spingono alla scoperta delle opere di Giordano Bruno e fra’ Luca Pacioli, il precettore di Leonardo, e poi Ruggero Bacone, Raimondo Lullo, lo stesso Cagliostro. Giulio Cortesi fa amicizia con altri due personaggi singolari: l’anziano architetto Quinto Ammonio Solfo, membro di una loggia massonica e raffinato intellettuale, e fra’ Tommasino di Chiaravalle, al secolo Tommaso Sale, un anziano mistico. «Entrambi – racconta Carpeoro – daranno a Giulio utilissime indicazioni sulla pista da seguire per addentrarsi nei misteri dei Rosa+Croce».Altri indizi gli vengono forniti in sogno da Cecilia, la fanciulla amata dal Giorgione, morta di peste a Venezia nel 1511. «A questo punto il protagonista ha varcato la soglia di un mondo che non conosceva, è proiettato in una dimensione spirituale che lo porta a una comprensione diversa e più profonda della realtà». Chiarito l’arcano dell’omicidio, Giulio proseguirà nelle sue ricerche e arriverà alla conclusione che anche Giorgione aveva appartenuto alla fratellanza dei Rosacroce. Studiando le opere di iniziati e maestri, «emergerà la verità sulla stirpe di David e sulla discendenza della famiglia in cui nacque Cristo». Giulio Cortesi scoprirà che la confraternita fondata dall’apostolo Giacomo (e da Giuseppe d’Arimatea) ha lo scopo di «conservare e diffondere il Sang Real, la stirpe di David, dalla tribù di Giuda, e accogliere anche tutti gli eletti, uomini e donne d’ogni censo e razza, che pur non avendo legami di sangue con la stirpe reale, sono stati e saranno iniziati per tramandare di maestro in maestro l’antica conoscenza».«Tutti gli interrogativi posti potrebbero trovare una risposta tra le righe del romanzo», scrive Carpeoro. «Ricomponendo le tesserine del mosaico si potrebbe trovare l’origine biblica dei Rosa+Croce della nostra bandiera tricolore o, analogamente, degli Stati Uniti d’America». Alcune risposte, però, «sono scritte con l’inchiostro simpatico», e quindi «solo il calore della grande passione per il simbolismo le farà magicamente apparire». E il finale è a sorpresa: sarà la persona più insospettabile a portare Giulio a conoscere una nobildonna austriaca, astrologa e seguace di Rudolf Steiner, che passerà le consegne della confraternita. «L’incontro con l’anziana astrologa condurrà Giulio a conoscere il nome degli ultimi due maestri Rosa+Croce ancora in vita, e lo lascerà con un interrogativo: ci sarà in futuro ancora qualcuno che possa divenire un maestro?». Ovvero, a tramandare la “segreta conoscenza” custodita nei millenni, le cui prime tracce risalgono al racconto biblico di Melchisedek?(Il libro: Giovanni Francesco Carpeoro, “Il volo del pellicano”, Melchisedek editore, 512 pagine, 26 euro – 22,10 su Macrolibrarsi).Vuoi vedere che gli antichi la sapevano molto più lunga di noi, riguardo ai misteri dell’universo? «Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante non ne sogni la tua filosofia», fa dire Shakespeare in “Amleto”. Già, Shakespeare: un inglese ben strano, così addentro alle cose italiane da ambientare alla perfezione, nel Belpaese, i suoi maggiori capolavori, da “Romeo e Giulietta” al “Mercante di Venezia”. Ci sfugge qualcosa, sull’identità del “vero” Shakespeare? Proprio l’Italia del Rinascimento, infatti, fu la culla di grandi artisti che utilizzarono letteratura e pittura per veicolare messaggi segreti attraverso codici cifrati. Un antico sapere, risalente alla notte dei tempi. Tutto comincia migliaia di anni prima con un certo Melchisedek, il biblico “re di giustizia” che ha la facoltà di autorizzare Abramo ad esercitare il potere terreno sul suo popolo. Secondo Mauro Biglino, Melchisedek era un Elohim, come lo stesso Yahwè; per l’interpretazione esoterico-simbolica, invece, era una personalità “a diretto contatto col divino”, emblema vivente della perduta regalità, fondata su una speciale conoscenza gelosamente custodita, nei millenni, dalla cosiddetta Radix Davidis, la Stirpe di Giuda il cui destino è prefigurato nella pagina della Genesi su cui, ancora oggi, giurano i presidenti degli Stati Uniti.
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Democratizzare l’Ue? Idea morta col tradimento di Tsipras
In Austria il “Partito della libertà” (Fpo) ha ottenuto uno strepitoso risultato elettorale. Il suo candidato per la carica di Presidente Norbert Hofer ha raccolto il 35,1% dei suffragi, staccando di gran lunga gli sciapi candidati proposti dai partiti etero-diretti dal politburo di Bruxelles, popolari e socialisti in testa. Al ballottaggio il candidato del partito che fu di Jorg Haider dovrà vedersela con il verde Alexander Van der Bellen, fermo al 21,3% dei consensi. E’ molto probabile che il prossimo presidente austriaco sia quindi un acceso nemico dei nazisti tecnocratici che ora devastano il Vecchio Continente secondo le linee dettate dal duo Obama-Merkel. L’Austria è l’ennesima nazione nella quale i cittadini esprimono democraticamente e nelle urne sdegno e indignazione per le pietose condizioni nelle quali versa l’Europa, tenuta in ostaggio da una masnada di impuniti e terrificanti personaggi sprovvisti di qualsivoglia legittimazione dal basso. Ogni volta i pifferai al servizio del sistema ricorrono alle stesse logore immagini per demonizzare l’avanzata dei partiti non funzionali al rafforzamento della dittatura in atto, sempre diffamati e attaccati in automatico poiché presuntivamente “xenofobi e populisti”.Da Farage in Inghilterra a Marine Le Pen in Francia, da Iglesias in Spagna a Kaczinski in Polonia, da Tsipras in Grecia alla coppia Salvini/Grillo in Italia, dovunque si voti la musica non cambia: o vincono i servi di Mario Draghi (orwellianamente “moderati” e “responsabili”), o i giornali di regime cominciano a lanciare in tutte le lingue del mondo strali contro “l’avanzare del populismo”. Si tratta di un disco che, oggettivamente, ha stancato alquanto. Come avevamo previsto con un certo anticipo, la piroetta con la quale Tsipras si è infine piegato agli ordini piovuti dall’alto ha ucciso nella culla la possibilità di salvare l’Europa “da sinistra”. Alla prova dei fatti le “sinistre alternative”, incapaci di mettere in discussione la moneta unica, finiscono con il legittimare la prosecuzione della status quo. Cosa è cambiato con “Syriza” al potere? Nulla. Rigore, austerità e privatizzazioni continuano a farla da padroni, mentre le condizioni di vita della povera gente diventano di giorno in giorno più drammatiche.Di fronte ad una evidenza tanto tragica, tutti quelli che non intendono rassegnarsi a vivere per sempre sotto il tallone di un manipolo di burocrati autoreferenziali al servizio del binomio Alta Loggia/Alta Finanza, non possono far altro che guardare a quelle forze che offrono il grimaldello della “difesa dell’identità” per smontare il mostro luciferino e mondialista ora dominante. L’avanzare di partiti di “estrema destra”, così bollati da un mainstream servile e senza fantasia, sono diretta conseguenza di due certezze oramai metabolizzate da una fetta rilevante di opinione pubblica continentale: 1) la Ue attuale è una dittatura feroce di stampo tecnonazista; 2) le forze di sinistra “alternativa” non sono in grado di liberare i popoli dalla schiavitù dell’euro. Cosa faranno “gli occulti manovratori” per contenere questa nuova marea montante? Proveranno a metterci il cappello sopra. Fino a quando sarà possibile gestire i diversi parlamenti nazionali architettando da nord a sud governi di “grande coalizione”, le forze cosiddette “antisistema” continueranno ad essere mediaticamente demonizzate e bastonate; quando i “padroni del vapore” si accorgeranno però di avere finito le cartucce di carta, ovvero quando capiranno che la propaganda, per quanto incessante, produce infine risultati perfino controproducenti, avrà allora inizio il piano B.E cosa prevede il piano B? Prevede la “normalizzazione” di quelle stesse realtà prima violentemente colpite, da dipingere ora come “finalmente incanalate sulla via della maturità politica e della responsabilità, qualità indispensabili per aspirare al governo del Paese”. Che tradotto significa: obbedite pure voi come obbedivano i burattini di prima, divenuti inservibili e perciò scaricati, e così vedrete che tutti ne trarremo gli opportuni vantaggi. Questo tipo di tattica, in Italia, è già partita. Avete notato come i media controllati dai “soliti noti” comincino a veicolare una immagine rassicurante di Luigi Di Maio, già incoronato a reti unificate come sicuro candidato premier del Movimento 5 Stelle? E avete notato come il “Corriere della Sera” di oggi, a pagina 4, definisca “pacato” Norbert Hofer, probabile presidente dell’Austria che verrà? “Pacato” somiglia molto a “moderato”, termiche che nella neolingua usata dai “maghi neri” nascosti nella cabina di comando rappresenta il non plus ultra dell’affidabilità. “Se non puoi batterli, fatteli amici”, recita un vecchio adagio. Questo schema, se applicato con successo, contempla un solo sconfitto: il popolo, da ingannare sempre e comunque senza soluzione di continuità.Se la memoria avesse un valore, i nuovi politici rampanti scanserebbero come veleno le lusinghe di quelli che prima li calunniavano; così come gli stagionati politicanti, mollati poi come vecchie calzette per fare spazio a più verdi maggiordomi, coltiverebbero un sano senso di rivalsa da indirizzare contro gli inamovibili burattinai anziché puntare il dito nei confronti dei nuovi burattini. Semmai dovesse accadere una cosa del genere – semmai cioè si saldassero le ragioni di vecchie e nuove classi dirigenti allo scopo di respingere gli assalti dei soliti perfidi manipolatori – la politica tornerebbe ad esercitare quel primato che le spetta, lasciando per una volta con le pive nel sacco i plutocrati che, gestendo “gli opposti” con metodo e costanza, restano sempre a galla.(Francesco Maria Toscano, “L’idea di democratizzare l’Europa è morta con il tradimento di Tsipras, passa per la riscoperta delle singole identità nazionali la sconfitta dei tecno-nazisti di Bruxelles?”, dal blog “Il Moralista” del 26 aprile 2016).In Austria il “Partito della libertà” (Fpo) ha ottenuto uno strepitoso risultato elettorale. Il suo candidato per la carica di presidente Norbert Hofer ha raccolto il 35,1% dei suffragi, staccando di gran lunga gli sciapi candidati proposti dai partiti etero-diretti dal politburo di Bruxelles, popolari e socialisti in testa. Al ballottaggio il candidato del partito che fu di Jorg Haider dovrà vedersela con il verde Alexander Van der Bellen, fermo al 21,3% dei consensi. E’ molto probabile che il prossimo presidente austriaco sia quindi un acceso nemico dei nazisti tecnocratici che ora devastano il Vecchio Continente secondo le linee dettate dal duo Obama-Merkel. L’Austria è l’ennesima nazione nella quale i cittadini esprimono democraticamente e nelle urne sdegno e indignazione per le pietose condizioni nelle quali versa l’Europa, tenuta in ostaggio da una masnada di impuniti e terrificanti personaggi sprovvisti di qualsivoglia legittimazione dal basso. Ogni volta i pifferai al servizio del sistema ricorrono alle stesse logore immagini per demonizzare l’avanzata dei partiti non funzionali al rafforzamento della dittatura in atto, sempre diffamati e attaccati in automatico poiché presuntivamente “xenofobi e populisti”.
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Shakespeare, un semi-analfabeta. Chi era il vero autore?
Nel corso della storia, moltissime persone sono morte senza che i loro meriti gli venissero riconosciuti dalle generazioni che le hanno seguite. Ma c’è anche una persona che rischia di aver fatto l’esatto contrario: ovvero, di avere ricevuto grandiosi onori nel corso della storia, senza esserseli minimamente meritati. Questa persona è William Shakespeare. Secondo molti storici, non fu affatto William Shakespeare a scrivere le monumentali opere che gli vengono attribuite, ma fu qualcun altro che utilizzò il suo nome, perché non voleva apparire pubblicamente come il reale autore di quelle opere. La questione shakespeariana esplose sul finire dell’ottocento, e tenne occupati diversi studiosi a livello mondiale per i primi due decenni del secolo scorso. Le motivazioni che portano a dubitare che sia stato Shakespeare a scrivere le opere che portano il suo nome sono diverse, ma si basano tutte su un assunto fondamentale: essendo nato, cresciuto e vissuto nel piccolo paesino di Stratford-upon-Avon – una cittadina dedita al commercio e alla pastorizia, ad un centinaio di chilometri da Londra – Shakespeare non poteva possedere la cultura letteraria e la conoscenza necessarie per scrivere le opere immortali che portano il suo nome.Anzi, detto in termini più brutali, Shakespeare era un vero e proprio ignorante: non possedeva un solo libro, e sapeva a malapena scribacchiare la propria firma. Non esiste un solo documento storico che lo descriva come uno “scrittore”, mentre esistono documenti da cui risulta che egli fosse un uomo d’affari, dedito alla compravendita di terreni e all’usura (difficile pensare che un usuraio possa avere lo stesso animo nobile di chi ha scritto “Romeo e Giulietta”). I testi shakespeariani inoltre rivelano una approfondita conoscenza della vita di corte, della nobiltà e dell’aristocrazia – tutte cose fuori dalla portata di un “commoner” come Shakespeare – mentre utilizzano spesso dei termini altezzosi e derisori proprio nel descrivere la classe sociale a cui Shakespeare apparteneva. Ma è dalla lettura stessa delle sue opere che si rivela la probabile falsità del suo presunto autore: il vocabolario dei testi shakespeariani utilizza oltre 20.000 parole, mentre nel linguaggio parlato dai commoners in quell’epoca il vocabolario era limitato ad un decimo circa di quella cifra.E’ come se di colpo il famoso “pastore lucano” si mettesse a dissertare di “fenomenologia della coscienza fra logica e trascendenza”. Lo stesso testamento autografo di Shakespeare rivela la piccolezza del mondo in cui viveva quest’uomo: si preoccupa di chiarire in modo dettagliato a chi vadano in eredità i suoi terreni, le sue proprietà e le sue cose private, ma si dimentica completamente di menzionare i suoi libri, i suoi scritti, ed almeno una ventina di opere mai pubbicate. Dubitare quindi della vera identità di questo autore è più che legittimo. Ma a questo punto si pone la domanda: chi mai si sarà nascosto dietro al su nome, e perchè mai avrà scelto di restare anonimo? Ed è qui che inizia il vero divertimento.(Massimo Mazzucco, “L’ignorante più famoso del mondo”, dal blog “Luogo Comune” del 23 aprile 2016).Nel corso della storia, moltissime persone sono morte senza che i loro meriti gli venissero riconosciuti dalle generazioni che le hanno seguite. Ma c’è anche una persona che rischia di aver fatto l’esatto contrario: ovvero, di avere ricevuto grandiosi onori nel corso della storia, senza esserseli minimamente meritati. Questa persona è William Shakespeare. Secondo molti storici, non fu affatto William Shakespeare a scrivere le monumentali opere che gli vengono attribuite, ma fu qualcun altro che utilizzò il suo nome, perché non voleva apparire pubblicamente come il reale autore di quelle opere. La questione shakespeariana esplose sul finire dell’ottocento, e tenne occupati diversi studiosi a livello mondiale per i primi due decenni del secolo scorso. Le motivazioni che portano a dubitare che sia stato Shakespeare a scrivere le opere che portano il suo nome sono diverse, ma si basano tutte su un assunto fondamentale: essendo nato, cresciuto e vissuto nel piccolo paesino di Stratford-upon-Avon – una cittadina dedita al commercio e alla pastorizia, ad un centinaio di chilometri da Londra – Shakespeare non poteva possedere la cultura letteraria e la conoscenza necessarie per scrivere le opere immortali che portano il suo nome.
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Città deserte e nuove cattedrali, l’architettura della paura
Nel giorno di Pasqua ho fatto due passi ed ho attraversato il nuovo Portello, fermandomi a guardare bene la piazza dove sorge “Casa Milan” che ho attraversato di corsa molte altre volte: un quadro del De Chirico metafisico di “Piazze d’Italia”. Un deserto in cui non si vedeva un passante. Ed anche le vie intorno (comprese quelle dell’altra parte del Portello) ripetono lo stesso copione: niente figure umane, panchine vuote, non esiste passeggio se non per poche persone nel parco che porta alla montagnola. C’è una netta separazione fra la zona commerciale (una quarantina di negozi ed un paio di bar che “girano” intorno all’ipermercato, in uno spiazzo che è l’unico dove si affollano i passanti) e la zona “residenziale”, nei cui viali non ci sono assolutamente negozi ma solo palazzi di 10-15 piani, recintati da robuste cancellate, con portinerie presidiate da vigilantes ed ai cui garage si accede direttamente dall’esterno, con saracinesche telecomandate).Non si tratta solo di questa zona: quartierini del genere li ho visti in altre zone di Milano ed in altre città italiane e, navigando in internet, se ne vedono in molte altre città europee ed americane: è una tendenza precisa dell’architettura che intende garantire la “sicurezza” dei cittadini (ovviamente di quelli che hanno il denaro per permettersi una casa in questi complessi abitativi). L’abitante accede direttamente in auto nel garage videosorvegliato e, con l’ascensore, raggiunge direttamente il suo appartamento senza rischiare alcun incontro sgradito o pericoloso. Se vuol fare due passi ha il piccolo parco recintato e sorvegliato intorno al suo palazzo ed, ovviamente, non è incoraggiato a fare due passi per i viali che dividono i vari complessi abitativi, perché non c’è nulla oltre loro, non un negozio, non una vetrina, non un essere umano che passeggi. Quando, poi, vuol fare la spesa, non ha che da uscire in auto, accedere dalla strada al parcheggio del centro commerciale, ugualmente videosorvegliato e con vigilantes, salire con le scale mobili o il tapis roulant sino alla zona commerciale dove troverà i negozi ed un po’ di gente, nello spazio rigorosamente privato dove ci sono i tavolini di un paio di caffè.Anche qui il rischio di fare incontri pericolosi è risotto al minimo, quando anche tutti i posti di lavoro, gli asili nido e le scuole saranno muniti di parcheggio sotterraneo videosorvegliato e con vigilantes, con ascensore. La vita del nostro amico sarà solo un passaggio in auto da un luogo protetto all’altro. Evviva: è il trionfo della sicurezza! Unica cosa: peccato che descriva un modello di vita tanto simile ad una autoreclusione. D’altro canto, i grattacieli sempre più alti, con decine di piani e migliaia di appartamenti, si ispirano allo stesso principio securitario, con in più la funzione di “stupire”: i grattacieli sono le cattedrali del presente, le opere destinate a celebrare la potenza e lo sfarzo delle nuove signorie. Queste nuove cattedrali celebrano la diseguaglianza sociale, sono isole assediate di ricchezza nel mare della povertà , basti pensare al Brasile con i suo “ninos de la rua” che assediano i grandi complessi residenziali presidiati da guardie armate. Tutto questo esige la fine dell’auto-percezione del popolo ridotto a mero insieme di consumatori, nella migliore delle ipotesi, o a turba miserabile e brigantesca nella peggiore.Qui nella ancora opulenta (ma per quanto?) società europea quel che residua della socialità extradomestica è la piazza commerciale o (quel che fa lo stesso) quella del grande evento (concerto, partita o altro evento sportivo). Quello che muore è la piazza sociale, quella del mercatino rionale (destinato ad essere soppiantato dalla grande distribuzione, quella del parco libero, della strada, ma soprattutto scompare la “piazza politica”, quella dove il popolo si riconosce come tale, nelle sezioni di partito, nei cortei, nelle manifestazioni, ed anche nei disordini di piazza che ne esprimano la protesta. Alla perdita del luogo identitario del popolo-soggetto politico, viene offerto il surrogato della piazza virtuale, che, però, talvolta può funzionare come innesco di quella reale (vedi le primavere arabe). A scongiurare il rischio di nuove rivolte è diretta questa martellante campagna contro le idee di classe e di nazione, cioè le principali identità collettive e per l’atomizzazione individualistica del corpo sociale. Un progetto ben servito da queste tendenze dell’architettura.(Aldo Giannuli, “Architettura, la scomparsa della piazza e le nuove cattedrali”, dal blog di Giannuli del 6 aprile 2016).Nel giorno di Pasqua ho fatto due passi ed ho attraversato il nuovo Portello, fermandomi a guardare bene la piazza dove sorge “Casa Milan” che ho attraversato di corsa molte altre volte: un quadro del De Chirico metafisico di “Piazze d’Italia”. Un deserto in cui non si vedeva un passante. Ed anche le vie intorno (comprese quelle dell’altra parte del Portello) ripetono lo stesso copione: niente figure umane, panchine vuote, non esiste passeggio se non per poche persone nel parco che porta alla montagnola. C’è una netta separazione fra la zona commerciale (una quarantina di negozi ed un paio di bar che “girano” intorno all’ipermercato, in uno spiazzo che è l’unico dove si affollano i passanti) e la zona “residenziale”, nei cui viali non ci sono assolutamente negozi ma solo palazzi di 10-15 piani, recintati da robuste cancellate, con portinerie presidiate da vigilantes ed ai cui garage si accede direttamente dall’esterno, con saracinesche telecomandate).
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E noi dovremmo combattere per quest’Europa da incubo?
Se il terrorismo islamico colpisce l’Europa al cuore, occorre rispondere rilanciando il sogno europeo, esprimendo maggiore unità e determinazione nella difesa dei valori che esprime: è questo, in sintesi, e al netto delle solite sparate xenofobe, il motivo dominante nel discorso pubblico degli ultimi giorni. C’è la consapevolezza che ci vorrà molto tempo, ma anche la convinzione che la barbarie sarà sconfitta, come è successo con il nazifascismo. Manca però il senso della realtà: il sogno europeo si è da tempo trasformato in un incubo, incapace di suscitare passioni neppure lontanamente accostabili a quelle che furono alla base della lotta di Liberazione. Proprio in quegli anni venne scritto il celeberrimo Manifesto di Ventotene, nato dalla convinzione che la democrazia comporta l’affermazione dell’«uguaglianza di fatto», e quindi del principio per cui «le forze economiche non debbono dominare gli uomini». A questo, secondo Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, si sarebbe dovuta ispirare la costruzione europea, anche e soprattutto per costituire un argine contro le dittature fasciste, che avevano invece affossato la democrazia per salvare il capitalismo.Se si fosse realizzata, l’Europa sognata a Ventotene avrebbe certamente emozionato per le tensioni ideali che l’avevano generata, e appassionato per il progetto politico cha avrebbe a sua volta alimentato. Sarebbe stata un’Europa capace di costruire relazioni internazionali fondate sulla pace e il dialogo, di gettare ponti tra culture, di offrire esempi circa lo stare insieme come società. Un’Europa nella quale credere, per la quale combattere con la forza e la determinazione di chi è mosso da valori alti. Purtroppo l’Europa di Bruxelles non ha nulla a che spartire con l’Europa di Ventotene. È un Superstato di polizia economica, che con ottusità e fanatismo impone l’osservanza delle leggi del mercato, pianificando nel loro nome il dominio sulle persone. Non solo: è un Leviatano che sull’altare del principio di concorrenza sacrifica la democrazia, denigrata come feticcio di chi ancora coltiva l’illusione di poter resistere agli imperativi categorici formulati dal mercato. Altrimenti detto, l’Europa di Bruxelles è la prosecuzione dell’incubo che il sogno di Ventotene voleva definitivamente archiviare.Non solo è l’Europa del pareggio di bilancio, dell’austerità, del lavoro precarizzato e svalutato, delle privatizzazioni e liberalizzazioni, della distruzione del welfare, dei debiti pubblici e privati. Ma è anche l’Europa che per realizzare tutto questo deve necessariamente comprimere la democrazia. Le misure appena richiamate producono livelli impressionanti di disoccupazione, sacche di povertà sempre più vaste a fronte di una crescente concentrazione della ricchezza, disagio sociale e scempio ambientale: per imporle occorre disattivare o almeno forzare il circuito democratico. Insomma, il sistema di dominio economico sulle persone presidiato dalla costruzione europea non potrebbe mai essere avallato da un sistema fondato sulla sovranità popolare. Per questo i Trattati europei si sono premurati di spoliticizzare il mercato, di renderlo un luogo messo al riparo dal conflitto democratico, affidato a una tecnocrazia selezionata in quanto depositaria di un sapere scientifico indiscutibile, in virtù del quale provvedere all’efficiente amministrazione dell’esistente. Con ciò mostrando di ritenere, come in epoca fascista, che la democrazia è solamente aritmetica elettoralistica, fiducia mal riposta nella mera consistenza numerica di mutevoli maggioranze che «per loro natura non possono partecipare all’esercizio del potere e all’emanazione di leggi».Si usa dire che le crisi possono avviare circoli virtuosi e dunque rappresentare occasioni di riscatto o rinascita tanto insperate quanto robuste. Nel caso dell’Europa di Bruxelles sono invece il momento in cui il Re si appalesa in tutta la sua imbarazzante nudità, l’opportunità per mostrare al mondo l’esaurimento della propria ragion d’essere. La crisi economica e finanziaria ha mostrato tutti i limiti del dogmatismo tecnocratico, incapace di modificare politiche fiscali pensate per un ciclo economico espansivo: di impedire che divenissero il catalizzatore di un declino di cui non si vede la fine. Con il risultato che la Banca centrale europea sta oramai da tempo tentando di supplire attraverso politiche monetarie che per ora si mostrano semplicemente inefficaci, mentre in futuro potrebbero rivelarsi all’origine di nuove bolle finanziarie e dunque di nuovi disastri. La crisi dei profughi ha sbattuto in faccia a masse di disperati tutta la pochezza e l’isteria di un ceto politico rappresentativo di mezzo miliardo di persone e un terzo circa del prodotto interno lordo mondiale, disposto però ad accogliere solo qualche decina di migliaia di migranti. E per il resto pronto a tutto pur di non vedere la tragedia umanitaria che questo sta provocando e provocherà: occhio non vede e cuore non duole.I profughi che giungeranno dalla Turchia verranno infatti restituiti alle autorità di Ankara, a parole nel rispetto del diritto internazionale, ma nei fatti in violazione dei più elementari diritti di chi fugge dalle guerre. In cambio la Turchia potrà perseverare nella sua politica di annientamento del popolo curdo, oltre che di scempio dei diritti del suo popolo, ottenere ingenti aiuti finanziari di cui non si potrà verificare la destinazione, e tornare a sperare in un ingresso nell’Unione europea. E che dire delle reazioni al terrorismo islamico. Nella migliore delle ipotesi hanno condotto a misure eccezionali rivelatesi efficaci solo nell’intaccare il sistema delle libertà fondamentali: con danni all’ordine democratico ora violato, oltre che dalle politiche austeritarie, anche da quelle securitarie. Ma sono altri e forse più gravi i danni provocati dal terrorismo: se lo stato di eccezione ha una scadenza temporale, lo stesso non può dirsi per il dilagare di discorsi identitari incentrati su valori premoderni.Assistiamo alla riaffermazione di una sorta di orgoglio cattolico, essenza delle mitiche radici cristiane europee, da agitare contro l’islamizzazione del Vecchio continente. Il tutto articolato secondo il consueto rosario fatto di dio, patria e famiglia, invocati con fervore crociato da un crescente stuolo di invasati che propongono cure sempre meno distinguibili dal male contro cui sono dirette. E ovviamente si tratta degli stessi invasati che, al netto delle generiche invettive contro i complotti orditi dalle banche, sono tra i più rigidi sacerdoti del neoliberalismo: l’altra religione che sta soffocando la politica e l’economia e europee. Insomma, è davvero difficile difendere questa Europa, che più è sotto attacco e più si mostra indifendibile. Forse è questa la vera arma dei terroristi, decisamente più micidiale dei loro ordigni, perché niente e nessuno appare al momento capace di disinnescarla.(Alessandro Somma, “Combattere per questa Europa?”, da “Micromega” del 26 marzo 2016).Se il terrorismo islamico colpisce l’Europa al cuore, occorre rispondere rilanciando il sogno europeo, esprimendo maggiore unità e determinazione nella difesa dei valori che esprime: è questo, in sintesi, e al netto delle solite sparate xenofobe, il motivo dominante nel discorso pubblico degli ultimi giorni. C’è la consapevolezza che ci vorrà molto tempo, ma anche la convinzione che la barbarie sarà sconfitta, come è successo con il nazifascismo. Manca però il senso della realtà: il sogno europeo si è da tempo trasformato in un incubo, incapace di suscitare passioni neppure lontanamente accostabili a quelle che furono alla base della lotta di Liberazione. Proprio in quegli anni venne scritto il celeberrimo Manifesto di Ventotene, nato dalla convinzione che la democrazia comporta l’affermazione dell’«uguaglianza di fatto», e quindi del principio per cui «le forze economiche non debbono dominare gli uomini». A questo, secondo Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, si sarebbe dovuta ispirare la costruzione europea, anche e soprattutto per costituire un argine contro le dittature fasciste, che avevano invece affossato la democrazia per salvare il capitalismo.
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Pilger: Terza Guerra Mondiale, solo Trump non la vuole
Ho filmato nelle Isole Marshall, a nord dell’Australia, nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico. Ogni volta che dico alla gente dove sono stato, mi chiedono: «Dove si trovano?». Se come indizio faccio riferimento a “Bikini”, dicono: «Vuoi dire il costume da bagno». Pochi si rendono conto del fatto che il costume da bagno bikini è stato chiamato così per celebrare le esplosioni nucleari che hanno distrutto l’isola di Bikini. Sessantasei dispositivi nucleari furono fatti brillare dagli Stati Uniti nelle Isole Marshall tra il 1946 e il 1958 – l’equivalente di 1,6 bombe [della potenza di quella che colpì] Hiroshima – ogni giorno, per dodici anni. Oggi Bikini tace, trasformata e contaminata. Le palme crescono in una strana disposizione a griglia. Nulla si muove. Non ci sono uccelli. Le lapidi nel vecchio cimitero sono tuttora radioattive. Le mie scarpe registrano un “pericoloso” sul contatore Geiger. Sulla spiaggia, ho visto il verde smeraldo del Pacifico sprofondare in un grande buco nero. È il cratere causato dalla bomba all’idrogeno che chiamavano “Bravo”. L’esplosione avvelenò la gente e l’ecosistema per centinaia di chilometri, forse per sempre.Al mio ritorno, fermandomi all’aeroporto di Honolulu notai una rivista americana chiamata “Women’s Health”. Sulla copertina c’era una donna sorridente in bikini, e il titolo: “Anche voi, potete avere un corpo da bikini”. Pochi giorni prima, nelle Isole Marshall, avevo intervistato donne che hanno avuto “corpi da bikini” molto diversi; ognuna di loro soffriva di cancro alla tiroide e di altri tumori mortali. A differenza della donna sorridente sulla rivista, tutte erano povere: vittime e cavie umane di una superpotenza rapace che oggi è più pericolosa che mai. Racconto questa mia esperienza come avvertimento e per interrompere una confusione che ha stremato tanti di noi. Il fondatore della propaganda moderna, Edward Bernays, descrisse questo fenomeno come «la manipolazione consapevole e intelligente di abitudini e opinioni» delle società democratiche. Lo chiamò un «governo invisibile». Quante sono le persone consapevoli del fatto che una guerra mondiale è cominciata? Per il momento si tratta di una guerra di propaganda, di menzogne, di distrazione, ma tutto ciò può cambiare istantaneamente con il primo ordine sbagliato, con il primo missile.Nel 2009, il presidente Obama si trovava davanti ad una folla adorante nel centro di Praga, nel cuore dell’Europa. Lì si impegnò a rendere il mondo «libero da armi nucleari». La gente lo applaudì e alcuni piansero. Un torrente di banalità fluì da parte dei media. Successivamente, ad Obama fu assegnato il premio Nobel per la Pace. Era tutto falso. Stava mentendo. L’amministrazione Obama ha costruito più armi nucleari, più testate nucleari, più sistemi di distribuzione nucleari, più fabbriche nucleari. La sola spesa per le testate nucleari è cresciuta di più sotto Obama che sotto ogni altro presidente americano. Spalmato su trent’anni, il costo supera il trilione di dollari. Si sta pianificando la fabbricazione di una mini-bomba nucleare. È conosciuta come la B61 Modello 12. Non c’è mai stato nulla di simile. Il generale James Cartwright, un ex vice presidente del Joint Chiefs of Staff, ha detto: «Facendolo più piccolo [rende l'utilizzo di questo ordigno nucleare] un’arma più plausibile».Negli ultimi diciotto mesi, il più grande accumulo di forze militari dalla Seconda Guerra Mondiale – pianificato dagli Stati Uniti – si sta attuando lungo la frontiera occidentale della Russia. È dai tempi dell’invasione di Hitler all’Unione Sovietica che la Russia non subisce una minaccia tanto evidente da parte di truppe straniere. L’Ucraina – un tempo parte dell’Unione Sovietica – è diventata un parco a tema della Cia. Dopo aver orchestrato un colpo di stato a Kiev, Washington controlla effettivamente un regime che è vicino e ostile alla Russia: un regime letteralmente infestato da nazisti. Parlamentari ucraini di spicco sono i diretti discendenti politici dei famigerati fascisti dell’Oun e dell’Upa. Inneggiano apertamente a Hitler e chiedono l’oppressione e l’espulsione della minoranza di lingua russa. Raramente questo fa notizia in Occidente, o la si inverte per sopprimere la verità. In Lettonia, Lituania ed Estonia – alle porte della Russia – l’esercito americano sta schierando truppe da combattimento, carri armati, armi pesanti. Di questa estrema provocazione alla seconda potenza nucleare del mondo non si parla in Occidente.Quello che rende la prospettiva di una guerra nucleare ancora più pericolosa è una campagna parallela contro la Cina. Sono rari i giorni in cui la Cina non raggiunge il rango di “minaccia”. Secondo l’ammiraglio Harry Harris, comandante della flotta statunitense nel Pacifico, la Cina sta «costruendo un grande muro di sabbia nel Mar Cinese Meridionale». Ciò a cui fa riferimento è che la Cina sta approntando piste di atterraggio nelle Isole Spratly, che sono oggetto di un contenzioso con le Filippine – una controversia senza priorità fino a quando Washington non fece pressioni corrompendo il governo di Manila, mentre il Pentagono ha lanciato una campagna di propaganda chiamata “libertà di navigazione”. Cosa significa tutto ciò, in realtà? Significa che le navi da guerra americane hanno la libertà di pattugliare e dominare le acque costiere della Cina. Provate ad immaginare la reazione americana se navi da guerra cinesi facessero la stessa cosa al largo della costa della California.Ho girato un film intitolato “La Guerra che non vedete”, in cui ho intervistato illustri giornalisti in America e in Gran Bretagna: reporter del calibro di Dan Rather della “Cbs”, Rageh Omaar della “Bbc”, David Rose dell’“Observer”. Tutti hanno detto che se i giornalisti e le emittenti mediatiche avessero fatto il loro dovere e messo in discussione la propaganda che asseriva che Saddam Hussein possedeva armi di distruzione di massa, e se le bugie di George W. Bush e Tony Blair non fossero state amplificate e riportate dai giornalisti, l’invasione dell’Iraq nel 2003 non sarebbe avvenuta, e centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini sarebbero ancora vivi, oggi. In linea di principio la propaganda che sta preparando il terreno per una guerra contro la Russia e/o la Cina non è diversa. Per quanto ne so io, nessun giornalista occidentale tra i più quotati – uno come Dan Rather, per dire – chiede perché la Cina sta costruendo piste di atterraggio nel Mar Cinese Meridionale.La risposta dovrebbe essere palesamente ovvia. Gli Stati Uniti stanno circondando la Cina con una rete di basi con missili balistici, gruppi d’assalto, bombardieri armati di testate nucleari. Questo arco letale si estende dall’Australia alle isole del Pacifico, le Marianne e le Marshall e Guam nelle Filippine, quindi in Thailandia, a Okinawa, in Corea e in tutta l’Eurasia, in Afghanistan e in India. L’America ha appeso un cappio intorno al collo della Cina. Ma questo non fa notizia. Il silenzio dei media è guerra tramite i media. In tutta segretezza, nel 2015, gli Stati Uniti e l’Australia hanno inscenato la più grande esercitazione militare “aria-mare” della storia recente, chiamata “Talisman Sabre”. Lo scopo era quello di collaudare un piano di battaglia “aria-mare”, bloccando arterie marittime, come lo Stretto di Malacca e lo Stretto di Lombok, che tagliano l’accesso della Cina al petrolio, gas e altre materie prime vitali che arrivano dal Medio Oriente e dall’Africa.Nel circo noto come la campagna presidenziale americana, Donald Trump è stato presentato come un pazzo, un fascista. Certamente odioso lo è; ma è anche una figura di odio mediatico. Questo da solo dovrebbe suscitare il nostro scetticismo. Il punto di vista di Trump sulla migrazione è grottesco, ma non più grottesco di quello di David Cameron. Non è Trump il “grande deportatore” dagli Stati Uniti, ma il vincitore del Premio Nobel per la Pace, Barack Obama. Secondo un geniale commentatore liberale, Trump sta «scatenando le forze oscure della violenza» negli Stati Uniti. Sta scatenando? Questo è il paese dove i poco più che lattanti sparano alle loro madri e dove la polizia ha dichiarato una guerra assassina contro i neri americani. Questo è il paese che ha attaccato e cercato di rovesciare più di 50 governi, molti dei quali democrazie, e bombardato dall’Asia al Medio Oriente, causando morte e privazioni a milioni di persone. Nessun paese può uguagliare questo sistematico record di violenza. La maggior parte delle guerre americane (quasi tutte contro paesi indifesi) sono stati lanciate non da presidenti repubblicani, ma da democratici liberali: Truman, Kennedy, Johnson, Carter, Clinton, Obama.Una serie di direttive del Consiglio di Sicurezza Nazionale, nel 1947, determinava che l’obiettivo primario della politica estera americana fosse “un mondo sostanzialmente fatto a propria [dell'America] immagine”. L’ideologia era l’americanismo messianico. Eravamo tutti americani. Altrimenti…. gli eretici sarebbero stati convertiti, sovvertiti, corrotti, macchiati o schiacciati. Donald Trump è un sintomo di tutto ciò, ma è anche un anticonformista. Dice che è stato un crimine invadere l’Iraq; lui non vuole andare in guerra contro la Russia e la Cina. Il pericolo per il resto di noi non è Trump, ma Hillary Clinton. Lei non è anticonformista. Lei incarna la resilienza e la violenza di un sistema il cui decantato “eccezionalismo” è totalitario, con un occasionale volto liberale. Mentre il giorno delle elezioni presidenziali si avvicina, la Clinton sarà salutata come il primo presidente donna, a prescindere dai suoi crimini e menzogne – proprio come Barack Obama è stato osannato come il primo presidente nero e i liberali si bevvero le sue sciocchezze sulla “speranza”. E lo sbavare continua.Descritto dal giornalista del “Guardian” Owen Jones come «divertente, affascinante, con un’impassibilità che sfugge praticamente ad ogni altro politico», l’altro giorno Obama ha inviato droni a macellare 150 persone in Somalia. Di solito lui uccide la gente il martedì, secondo quanto scrive il “New York Times”, quando gli viene consegnato un elenco di candidati per la morte da drone. Molto cool. Nella campagna presidenziale del 2008, Hillary Clinton minacciò di «annientare totalmente» l’Iran con armi nucleari. Come segretario di Stato sotto Obama, ha partecipato al rovesciamento del governo democratico dell’Honduras. Il suo contributo alla distruzione della Libia nel 2011 è stato quasi allegro. Quando il leader libico, il colonnello Gheddafi, fu pubblicamente sodomizzato con un coltello – un omicidio reso possibile dalla logistica americana – la Clinton gongolava per la sua morte: «Siamo venuti, abbiamo visto, lui è morto».Uno dei più stretti alleati della Clinton è Madeleine Albright, l’ex segretario di Stato, che ha attaccato le giovani donne che non sostengono “Hillary”. Questa è la stessa Madeleine Albright, tristemente ricordata per aver detto in tv che la morte di mezzo milione di bambini iracheni era «valsa la pena». Tra i più grandi sostenitori della Clinton troviamo la lobby israeliana e le società di armi che alimentano la violenza in Medio Oriente. Lei e suo marito hanno ricevuto una fortuna da Wall Street, e lei sta per essere nominata come candidato delle donne, per sbarazzarsi del malvagio Trump, il demone ufficiale. I suoi sostenitori includono femministe illustri: gente del calibro di Gloria Steinem negli Stati Uniti e Anne Summers in Australia. Una generazione fa, un culto post-moderno ora conosciuto come “politica dell’identità” ha fatto sì che molte persone intelligenti e dalla mentalità liberale smettessero di esaminare le cause e gli individui che sostenevano – come le falsità di Obama e della Clinton, o come i fasulli movimenti progressisti tipo “Syriza” in Grecia, che hanno tradito il popolo di quel paese e si sono alleati con i loro nemici. L’essere assorbiti da se stessi, una sorta di “me-ismo”, è diventato il nuovo spirito del tempo nelle società occidentali privilegiate ed ha siglato la fine dei grandi movimenti collettivi contro la guerra, l’ingiustizia sociale, la disuguaglianza, il razzismo e il sessismo.Oggi, il lungo sonno potrebbe essere terminato. I giovani si stanno scuotendo di nuovo, gradualmente. Le migliaia in Gran Bretagna che hanno sostenuto Jeremy Corbyn come leader laburista fanno parte di questo risveglio – come lo sono quelli che si sono radunati per sostenere il senatore Bernie Sanders. La settimana scorsa in Gran Bretagna, il più stretto alleato di Jeremy Corbyn, John McDonnell, ha impegnato un prossimo governo laburista a pagare i debiti delle banche piratesche, cioè a continuare di conseguenza, la cosiddetta austerità. Negli Stati Uniti, Bernie Sanders ha promesso di sostenere la Clinton se e quando sarà nominata come candidato presidenziale. Anche lui ha votato perché l’America usi la violenza contro altri paesi quando pensa che sia «giusto». Dice che Obama ha fatto «un ottimo lavoro».In Australia, c’è una sorta di politica mortuaria, in cui i noiosi giochi parlamentari vengono riproposti nei media, mentre i rifugiati e gli indigeni sono perseguitati e la disuguaglianza cresce, insieme al pericolo di guerra. Il governo di Malcolm Turnbull ha appena annunciato un cosiddetto bilancio per la difesa di 195 miliardi di dollari che avvicina alla guerra. Non c’è stato alcun dibattito. Silenzio. Dov’è andata a finire la grande tradizione di azione diretta popolare, slegata dai partiti? Dove sono il coraggio, la fantasia e l’impegno necessari per iniziare il lungo viaggio verso un migliore, giusto e pacifico mondo? Dove sono i dissidenti dell’arte, del cinema, del teatro, della letteratura? Dove sono quelli che romperanno il silenzio? O aspettiamo che venga sparato il primo missile nucleare?(John Pilger, riassunto di una recente lezione tenuta all’Università di Sydney, dal titolo “Una Guerra Mondiale è cominciata”; post ripreso dal sito “Counterpunch” del 23 marzo 2016 e tradotto da Gianni Ellena per “Come Don Chisciotte”. Di origine australiana, tra i più noti e prestigiosi giornalisti internazionali, Pilger ha ricevuto numerosi premi e dottorati per le sue battaglie per i diritti umani ed è stato nominato per ben due volte “Giornalista dell’anno” in Inghilterra).Ho filmato nelle Isole Marshall, a nord dell’Australia, nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico. Ogni volta che dico alla gente dove sono stato, mi chiedono: «Dove si trovano?». Se come indizio faccio riferimento a “Bikini”, dicono: «Vuoi dire il costume da bagno». Pochi si rendono conto del fatto che il costume da bagno bikini è stato chiamato così per celebrare le esplosioni nucleari che hanno distrutto l’isola di Bikini. Sessantasei dispositivi nucleari furono fatti brillare dagli Stati Uniti nelle Isole Marshall tra il 1946 e il 1958 – l’equivalente di 1,6 bombe [della potenza di quella che colpì] Hiroshima – ogni giorno, per dodici anni. Oggi Bikini tace, trasformata e contaminata. Le palme crescono in una strana disposizione a griglia. Nulla si muove. Non ci sono uccelli. Le lapidi nel vecchio cimitero sono tuttora radioattive. Le mie scarpe registrano un “pericoloso” sul contatore Geiger. Sulla spiaggia, ho visto il verde smeraldo del Pacifico sprofondare in un grande buco nero. È il cratere causato dalla bomba all’idrogeno che chiamavano “Bravo”. L’esplosione avvelenò la gente e l’ecosistema per centinaia di chilometri, forse per sempre.
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Riparare il sistema: noi, prigionieri di illusioni (magiche)
Ci troviamo in una crisi del sistema, che potrebbe farlo cadere, o semplicemente in una ordinaria crisi nel sistema, oppure (peggio ancora) in una crisi progettata e prodotta dal sistema per perfezionarsi e perpetuarsi? E poi: il genere umano può essere portato ad accettare condizioni di vita tali da farlo regredire a livelli subumani, o da farlo estinguere, in modo che si scongiuri il disastro ecologico? Il capitalismo finanziario digitalizzato e globalizzato tende a smaterializzare ogni bene, merce, servizio, anche gli esseri umani, traducendoli in valori finanziari, ciè in simboli, in numeri, e a metterli online per moltiplicare il profitto contabile che esso per sua natura persegue, ignorando tutto il resto. Il cambiamento consisterà nell’essere tradotti in bits, bites e figures? Che altre trasformazioni ci saranno imposte per renderci idonei a questa traduzione? E che ragion d’essere resterà alla nostra vita biologica, dopo che questa smaterializzazione sarà state eseguita?La logica impellente della massimizzazione del profitto, sostiene Marco Della Luna, non ammette limiti nemmeno morali alla mercificazione di ogni cosa esistente o “esistibile” (futures), né ammette diritti inalienabili, quindi una natura umana (giuridica, genomica) intangibile, un uomo portatore di diritti incondizionati, «perché di ciò che è incondizionato non si può fare trading, e ciò di cui non si può far trading non può generare profitto». Convertire il capitalismo per renderlo solidale con l’umanità e l’ambiente? Pura utopia. Nel libro “Neuroschiavi”, scritto con Della Luna, lo psichiatra Paolo Coni scrive: «Sono un grave paranoico e sto da anni pensando di mettere su un piano per assoggettare tutta la popolazione mondiale ai miei voleri». Un decalogo agghiacciante. Primo, «drogare la popolazione con sostanze d’abuso e farmaci». Poi, «diminuire il Qi generale favorendo programmi d’intrattenimento di massa demenziali, “divertendo” attraverso la solleticazione di impulsi primordiali». Bisogna «distruggere ogni riferimento a tradizioni, cultura e religione, sbandierando, per prevenire obiezioni, che mi sto occupando di favorire la “cultura” della popolazione».E bisogna «distruggere la scuola, riempiendola di contenuti “alternativi” che confondono sugli obiettivi da raggiungere e fare screening psicologico-psichiatrici nelle scuole per individuare bambini disturbati da “normalizzare». Poi occorre «rendere insicura la popolazione facendola invadere da masse informi e incontrollate, non integrabili», e al tempo stesso «fare proclami di integrazione e di accoglienza impossibili da gestire e, mentre la popolazione si sente invasa e impaurita, farla sentire ancora più insicura sbandierando l’apertura dei confini indiscriminata». Economia: «Dopo aver fatto assaporare un periodo di benessere economico teso alla spesa incontrollata, con il denaro che ha sostituito i precedenti valori, provocare una “crisi” economica senza fine dove la popolazione fa fatica a tirare avanti e non ha più valori sostitutivi al denaro, che viene a mancare». Tutto questo, mentre si mostra «gente viziata e ricchissima che guadagna stipendi da mille e una notte per tirare due pedate o cantare una canzoncina, o occuparsi del nostro bene pubblico».Bisogna anche «distruggere quel che resta della famiglia, logorata da anni di leggi contrarie ad incentivarla e da un’ideologia del godimento che l’ha minata culturalmente, rendendola un optional arcobalenato». Infine, conviene «introdurre norme sempre più restrittive della libertà di pensiero, in nome della “democrazia”», e naturalmente «distruggere l’identità di genere fino dalle scuole, confondendo le idee su quelle che sono le basi della personalità individuale». Bisogna anche essere rassicuranti, ricorda Della Luna: «Se c’è un problema di cui manca una soluzione, o non parli del problema, o inventi una soluzione bella, desiderabile, confortante e almeno astrattamente possibile, per quanto irrealistica, o non “falsificabile” – ad esempio, una soluzione “spirituale”». La tua ostentata sicurezza sarà manna, per i clienti: «Avranno un bisogno permanente delle tue prestazioni per stare bene, per vincere, temporaneamente, la paura e la frustrazione». Oggi, infatti, «di fronte a problemi molto grandi, gravi e minacciosi, da cui ci si sente sovrastati, si tende ad accettare soluzioni e speranze irrazionali, inverificabili, o anche magico-religiose». Così, ci abbandoniamo a pericolose illusioni, scrive Della Luna in un post che riprende una recente conferenza.«Quando l’uomo si sente insoddisfatto, in pericolo e sfiduciato, anche delle proprie capacità di analisi razionale, tende a rivolgersi all’irrazionale, al pensiero consolatorio, per un aiuto o una speranza o una profezia, per poter pensare e progettare il proprio domani. E tende ad assumere un atteggiamento psicologicamente regressivo, infantile». E quindi, si sogna a occhi aperti: «La prima illusione è che vi siano sistemi stabili, per loro natura durevoli se non permanenti, simili alle macchine, la cui condizione normale è funzionare uniformemente». In realtà non esistono sistemi stabilili, tutto è sempre dinamico: «Lo Stato repubblicano italiano oggi si chiama ancora Stato italiano e ha la medesima bandiera anche se, rispetto a quando fu fondato, è divenuto una cosa qualitativamente diversa, avendo ceduto a enti non nazionali la sovranità monetaria, di bilancio, legislativa, e avendo così perduto quella sovranità e indipendenza senza cui uno Stato non è più tale, quindi avendo addirittura cessato, giuridicamente e politicamente, di essere uno Stato».La seconda illusione, prosegue Della Luna, è che “noi” facciamo le trasformazioni, il cambiamento. «Le trasformazioni, i cambiamenti, avvengono sì per effetto dell’interazione di azioni umane e di processi naturali (ad esempio, i cambiamenti climatici che desertificarono il prima lussureggiante Nordafrica seimila anni fa), ma gli effetti, gli esiti dell’interazione delle azioni dei vari soggetti, generalmente, nel medio e lungo termine, non corrispondono affatto alle intenzioni né alle previsioni degli autori delle azioni. La storia non è una successione di decisioni o azioni di maggioranze». Il discorso “noi siamo il 999 per mille, voi siete l’l”, fatto da “Occupy Wall Street”, non ha funzionato, naturalmente. «La storia ultimamente mostra sempre più il carattere aperto e non predeterminabile della vicenda del mondo. Ciò si deve al fallimento, avvenuto alla prova dei fatti, dei due grandi paradigmi organici di interpretazione della storia, ossia di quello marxista (con la sua previsione di fine del capitalismo e di rivoluzione) e di quello liberal-capitalista (con la sua previsione di crescita costante del benessere e della libertà)».Il terzo grande paradigma, quello cristiano, e in generale quello religioso, non viene mai smentito perché può sempre rinviare il momento della verifica finale. «Pertanto le interpretazioni e le rassicurazioni religiose e magico-religiose tendono ad occupare lo spazio perduto dalle altre interpretazioni e rassicurazioni, quelle empirico-razionali». Poi c’è un nuovo modello previsionale, che Della Luna ha esplorato in libri come “Oligarchia per popoli superflui”, “Neuroschiavi” e “Cimiteuro”, ossia «il modello definibile come tecno-gestionale che chiamo “demotecnia” in analogia a “zootecnia”: un’élite sovranazionale dominante, detenendo il potere politico ed economico, e disponendo di una tecnologia idonea, ha assunto e conduce la gestione dall’alto e dal di fuori della popolazione terrestre in forme e con rapporti analoghi a quelli della zootecnica, grazie appunto al divario incommensurabile di conoscenze e di mezzi tecnologici a disposizione, simile a quello che divide l’allevatore dagli animali allevati, e alla sua capacità di pianificare e agire sottotraccia per raggiungere obiettivi di lungo termini, soprattutto in fatto di modificazione della società e della cultura». La presente crisi economica «è indotta volontariamente, allo scopo di implementare questo sistema di gestione». Per Della Luna, «è un’operazione di ingegneria sociale che mira non tanto al profitto quanto al controllo». Un sistema di dominazione molto forte, «ma non per questo assolutamente stabile o permanente».La terza illusione è quella della giustizia, sostiene Della Luna (che è un avvocato). Un potere giudiziario che abbia la forza e l’interesse per far valere o ristabilire la legalità e i diritti? «Non c’è. Penso gli ingenui benintenzionati che studiano complesse e coraggiose denunce contro le illegalità del sistema e le presentano a qualche Procura della Repubblica, con alte aspettative. Regolarmente, queste iniziative finiscono nel nulla, ossia nelle sabbie giudiziarie». A prescindere dal fatto che i magistrati hanno poteri di intervenire solo su responsabilità singole e non sistemiche, e che non hanno un potere materiale «nemmeno lontanamente paragonabile a quello degli interessi costituiti in potere statuale», sono essi stessi «in amplissima maggioranza fidelizzati al sistema degli interessi, che percepiamo come ingiusto, mediante la concessione di privilegi e prerogative». La loro funzione «è piuttosto quella di mediare tra l’ordinamento reale del potere e dei suoi interessi, da una parte, e la legalità di facciata dall’altro, cercando di tener nascosto il primo e di preservare l’apparenza di legalità agli occhi della popolazione generale».La quarta illusione, prosegue Della Luna, «è quella della magia delle parole, delle formule magico-giuridico che, nella mente di chi ci crede, sarebbero capaci di alterare la realtà delle forze in campo, della potenza materiale, mentre è vero l’inverso, ossia che il diritto viene creato e plasmato dagli interessi e dai loro rapporti di forza materiale». Il diritto inizia dal rispetto del fatto, e non viceversa. «In questa illusione si trovano coloro che pensano di poter ottenere trasformazioni pratiche del mondo (cioè rinunce ai soprusi che i potenti compiono per il loro tornaconto) usando formule, più o meno elaborate, altisonanti o astruse, invocanti la sovranità o l’indipendenza o la rivendicazione di particolari grafie dei nomi». Della Luna considera tutto questo «una forma di pensiero magico, ossia di un pensiero convinto che certe parole e concetti abbiano in sé il potere di modificare direttamente la realtà». Volendo, si tratta di un’illusione «didatticamente benefica, perché avvia alla consapevolezza del problema fondamentale della teoria del diritto e della filosofia politica», e cioè: se e come il diritto si differenzia dalla potenza di fatto, materiale.A quali condizioni lo Stato può avere pretese di sovranità sugli uomini diverse da quelle basate sulla sua forza materiale di minaccia e coercizione? E quali sono i limiti della legittima azione del potere politico sugli esseri umani e sui loro diritti? «Questa è una importantissima tematica, oggetto di studi e di elaborazione da quasi 25 secoli. Mi auguro che chi si interessa alla sovranità cerchi di informarsi su questa materia, onde non trovarsi a prendere lucciole per lanterne e altri facili abbagli, rendendosi ridicolo, quando può dire, invece, cose sensate». Ed eccoci alla quinta illusione, quella ingegneristica, ossia quella dei tecnici e degli studiosi, soprattutto economisti, che hanno analizzato bene la situazione e hanno capito che cosa non va, che cosa non si deve fare, che cosa si deve invece fare, e si aspettano che sia i potenti che la parte pensante del popolo capisca le loro ragioni, quindi metta in atto i loro consigli. «E insistono a propalarli in scritti, convegni, interventi pubblici, tentativi di entrare in qualche partito. Ma ciò che si aspettano non avviene – e la recente storia economica è piena di ottimi moniti e consigli (circa l’euro o la banca universale o la globalizzazione) rimasti puntualmente disattesi».Non cambia, la situazione di fondo, per tre motivi: i migliori consigli «mirano al bene comune e non a quello di chi ha il potere di decidere». Inoltre «il popolo ha la testa altrove, non si interessa, non capisce, se capisce poi dimentica, e in ogni caso non si organizza e non agisce e si appaga di contentini non strutturali che il potere elargisce al momento opportuno». Infine, «i grandi sistemi super-complessi non possono essere riparati ingegneristicamente come le macchine, non solo perché troppo complessi per essere capiti organicamente, ma anche perché contengono chi li vuole riparare e reagiscono alla sua azione». Poi ci sono «illusioni a base economica, soprattutto quella dei mercati liberi ed efficienti (ossia che prevengono o guariscono rapidamente le crisi economiche)», illusione «smascherata dai fatti oggi sotto gli occhi di tutti». E c’è anche «l’illusione opposta, quella statalista, ossia che l’intervento pubblico possa correggere il mercato agendo su di esso; questa illusione è dissolta dall’osservazione che anche lo Stato, persino lo Stato comunista, viene privatizzato, ossia che organizzazioni private si impadroniscono di esso (il Partito, la mafia, il cartello bancario)».Ci troviamo in una crisi del sistema, che potrebbe farlo cadere, o semplicemente in una ordinaria crisi nel sistema, oppure (peggio ancora) in una crisi progettata e prodotta dal sistema per perfezionarsi e perpetuarsi? E poi: il genere umano può essere portato ad accettare condizioni di vita tali da farlo regredire a livelli subumani, o da farlo estinguere, in modo che si scongiuri il disastro ecologico? Il capitalismo finanziario digitalizzato e globalizzato tende a smaterializzare ogni bene, merce, servizio, anche gli esseri umani, traducendoli in valori finanziari, ciè in simboli, in numeri, e a metterli online per moltiplicare il profitto contabile che esso per sua natura persegue, ignorando tutto il resto. Il cambiamento consisterà nell’essere tradotti in bits, bites e figures? Che altre trasformazioni ci saranno imposte per renderci idonei a questa traduzione? E che ragion d’essere resterà alla nostra vita biologica, dopo che questa smaterializzazione sarà state eseguita?
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Sciiti e sunniti, colpa loro. Noi occidentali? Innocenti, ovvio
“Se Allah avesse voluto una sola religione, al mondo, quella soltanto ci sarebbe”. Nel suo saggio sulle principali confessioni del pianeta, Paolo Franceschetti ricorda lo straordinario ecumenismo presente nel Corano, secondo cui “tutte le religioni sono mezzi che conducono alla stessa meta”. «Lo stesso Maometto, pur “prescelto da Dio”, aggiungeva: non compio miracoli, non servirebbe. Nonostante i suoi miracoli, nemmeno Cristo, il più grande dei profeti, è stato riconosciuto per ciò che era, ed è stato crocifisso». Ora torna in voga il refrain sullo “scontro di civiltà”, inaugurato nel 1996 da un esponente dell’élite come Samuel Huntington (“Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale”) e reso tristemente celebre da Oriana Fallaci dopo l’11 Settembre. E oggi, nella narrazione mainstream frastornata da attentati e guerre a catena (Libia e Siria, Charlie Hebdo, Yemen, strage di Parigi del 13 novembre), lentamente affiora anche nei talkshow un nuovo capitolo, quello della guerra inter-islamica tra sciiti e sunniti. «Lo scontro di civiltà dominerà la politica mondiale», scriveva Huntington. «Le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro», anche perché «le grandi divisioni dell’umanità e la fonte di conflitto principale saranno legate alla cultura».Superiorità occidentale? Sì, ma a mano armata: «L’Occidente – ammette ancora Huntington – non ha conquistato il mondo con la superiorità delle sue idee, dei suoi valori o della sua religione, ma attraverso la sua superiorità nell’uso della violenza organizzata, il potere militare». E attenzione: «Gli occidentali lo dimenticano spesso, i non occidentali mai». Lo sottolinea Paolo Barnard nel suo saggio “Perché ci odiano”, in cui intervista anche l’allora “numero tre” di Al-Qaeda: il mondo islamico ha ormai incorporato un rancore smisurato e più che giustificato verso l’Occidente, dopo aver subito – senza interruzione – un genocidio dopo l’altro, lo stupro di interi paesi e la razzia delle risorse (petrolifere, e non solo) grazie alla complicità di élite locali, i “raìs” che rinnegarono le istanze della decolonizzazione, restando al potere – dittature e monarchie – col granitico supporto occidentale. Una stagione di piombo, dopo la fine delle speranze accese dai leader terzomondisti arabi e africani sistematicamente uccisi o fatti uccidere dagli occidentali, perché scomodi: da Patrice Lumumba in Congo, liquidato dal Belgio per insediare Mobutu, fino a Thomas Sankara, in Burkina Faso (l’uomo che voleva azzerare il debito per i paesi poveri), assassinato col solito sistema, sicari locali armati da mandanti occidentali, francesi e americani.Il maggiore leader della storia egiziana moderna, Nasser, trascinò il mondo sull’orlo della guerra nel fatidico 1956: nazionalizzò il Canale di Suez per protesta contro la Banca Mondiale che rifiutava di finanziare una grande diga sul Nilo; per rovesciarlo manu militari, inglesi e francesi sbarcarono in forze a Port Said, ma furono fermati dall’Urss che intimò loro il ritiro immediato, pena l’impiego delle armi atomiche. Proprio il crollo dell’Unione Sovietica ruppe equilibri decennali, congelando al potere i vecchi autocrati, ancora sul trono o travolti solo ora dalle “primavere arabe”. Sempre in Egitto, il “faraone” Mubarak era stato il vicepresidente di Anwar Sadat, l’uomo della storica pace separata con Israele. Pagò con la vita, Sadat, e la sua fine mise sotto i riflettori, per la prima volta, la “jihad islamica”: Sadat fu ucciso nel 1981 da un killer jihadista. Meno di dieci anni dopo, l’Algeria schierò i carri armati nelle strade per annullare i risultati delle elezioni, che avevano clamorosamente incoronato il Fis, Fronte Islamico di Salvezza. Ma l’unico grande paese in cui l’Islam andò letteralmente al potere fu l’Iran, con la travolgente rivoluzione di Khomeini del 1979, guidata dal carismatico ayatollah (sciita) esiliato dal feroce regime dello “scià” Reza Pahlavi, a cui l’Occidente aveva imposto di eliminare il premier Mohammad Mossadeq, che aveva osato nazionalizzare il petrolio iraniano, saldamente in mano agli inglesi dal lontano 1908.Con Khomeini, l’identità religiosa si è trasformata anche in arma politica di autodifesa, da parte di paesi storicamente brutalizzati e rapinati dall’Occidente, che non ha mai neppure provato a sanare la devastante piaga della Palestina, martoriata fino al genocidio delle bombe al fosforo bianco sganciate anche sui bambini, dopo che a Gaza si è imposta (democraticamente, per via elettorale) la fazione sciita di Hamas. Appena più a nord, altri sciiti, quelli del partito armato di Hezbollah insediato in Libano, sono ora impegnati accanto ai russi nel sostegno militare del regime di Assad, esponente della componente sciita (alawyta) della Siria. Mentre nell’altro paese raso al suolo dalle bombe, l’Iraq, a maggioranza sciita, sono stati gli americani a emarginare, con la fine di Saddam, la componente sunnita, da cui si racconta sia partita l’ultima ondata jihadista che sta insanguinando il Medio Oriente e terrorizzando la Francia. Religione o potere? Secondo un eminente studioso come Francesco Saba Sardi, biografo di Picasso e traduttore di Simenon, Pessoa, Borges e Garcia Marquez, religione e potere compaiono insieme, nella storia della civiltà, insieme al terzo elemento: la guerra. Accade nel passaggio cruciale tra il paleolitico, abitato da cacciatori e raccoglitori, al neolitico, in cui l’uomo scopre l’agricoltura e quindi il bisogno di conquistare e difendere la terra. Nel saggio “Dominio”, Saba Sardi sostiene che proprio la religione nacque per conferire autorità al primo capo politico e militare della storia dell’umanità, il re-sacerdote.Se la “guida suprema” dell’Iran, l’ayatollah Alì Khamenei, potrebbe essere classificato (come il Papa-re) nella categoria dei re-sacerdoti, è pur vero però che i “nemici” dei paesi islamici non professano, di fatto, alcuna religione: il biglietto da visita dell’Occidente “cristiano” non è il crocifisso, ma una valigia di dollari e una flotta di droni che sganciano missili. Tre milioni di vittime, fra i musulmani, solo negli ultimi anni. E’ sempre l’Occidente – l’ha ricordato un comico, Maurizio Crozza, citando Hillary Clinton – ad aver “fabbricato”, in Afghanistan, il fondamentalismo islamico da cui poi nacquero i Talebani e il loro profeta, l’ex uomo Cia più famoso del mondo, Osama Bin Laden. Eppure, di fronte ai fallimenti catastrofici in Medio Oriente e alla recente paura quotidiana per gli attentati, un’Europa smemorata e incerta, guidata dall’evanescente Obama, resta tra le nebbie di una politica reticente e disonesta: preferisce tacere sul ruolo di Usa, Francia e Turchia nella progettazione a tavolino della “guerra civile” in Siria, per parlare piuttosto di scontro inter-islamico tra sciiti e sunniti, come se si trattasse di una lite di famiglia tra parenti lontani, stravaganti e fanatici, fingendo di non sapere come mai, molti di loro, ce l’hanno tanto con noi.Posto che nessuno potrebbe mai farsi saltare in aria senza essere imbottito di anfetamine o debitamente manipolato con tecniche psicologiche potentissime, come quelle messe a punto nel programma Mk-Ultra della Cia, non occorre un Premio Nobel per riconoscere le ragioni di un risentimento vastissimo, motivato da decenni di mostruose sofferenze inflitte. «La differenza tra noi e voi è semplice: noi non abbiamo paura di morire», dice un jihadista. Può succedere, sostiene Marco Travaglio, se scopri di non avere più niente da perdere, perché qualcuno ti ha condotto alla disperazione, privandoti di tutto. «Aiutiamoli a casa loro», dicono – senza ridere – leader come Salvini, come se non sapessero in che modo li stiamo già “aiutando”, a casa loro, da decenni. Enrico Mattei, che alla parola “aiuto” dava un significato diverso (non rapina, ma scambio equo) fu fatto esplodere in aria, sul suo aereo. Ma era tanto tempo fa. Troppo, per ricordare. Meglio allora i pettegolezzi sulla lite di famiglia tra i sunniti, cioè gli eredi di Abu Bakr, amico e suocero di Maometto, e gli sciiti, seguaci dell’imam Alì, cugino e genero del Profeta. La divisione religiosa risale al VII secolo dopo Cristo, ma è “esplosa” soltanto adesso, da quando i paesi islamici del Vicino Oriente si sono accorti, definitivamente, della natura dell’“aiuto a casa loro” fornito dal potere occidentale.Il nostro è un potere non certo religioso, ma finanziario e militare, come ricorda Huntington, peraltro co-autore dello storico saggio “La crisi della democrazia”, commissionato dalla Trilaterale e utilizzato come Vangelo dall’oligarchia mondialista, quella che ha messo fine alla sovranità nazionale anche archiviando la sinistra dei diritti, quella che – per inciso – sosteneva le cause del terzo mondo, inclusa quella palestinese, che sta a cuore tanto ai sunniti quanto agli sciiti. Ma attenzione: buttarla in politica non risolve sempre tutto. Lo sostiene un osservatore speciale come Fausto Carotenuto, già analista di primo piano dei servizi segreti, ora animatore del network “Coscienze in rete”: conta anche, e moltissimo, la dimensione “invisibile”, quella dei pensieri. Angoscia, paura e rabbia, oppure speranza e fiducia: il “potere” della preghiera. I musulmani sono un miliardo e mezzo, nel mondo, e pregano Allah cinque volte al giorno, tutti i giorni, a ore fisse. «Ogni fedele – dice Paolo Franceschetti – sa che, mentre sta pregando, lo sta facendo insieme a tutti gli altri, in ogni parte del mondo. Questo dona una grande forza interiore, demolisce la solitudine».Per il massone Gianfranco Carpeoro, l’errore fatale dei cattolici fu quello di attaccare gli arabi con le Crociate. San Francesco d’Assisi viaggiò fino a Damietta, sul Nilo, per fare la pace coi musulmani. Che, all’imperatore esoterista Federico II, regalarono una scorta d’onore: la guarda armata del capo del Sacro Romano Impero era composta da guerrieri musulmani. Emblematico, sotto questo aspetto, il ruolo-ponte dei Sufi, confraternita iniziatica di origini antichissime, pre-islamiche, capace di sviluppare una particolarissima forma di sincretismo, oltre che una sorta di diplomazia di pace. «Sapendo che tutto è Dio, cerco Dio per trovare il tutto», sintetizzava Gabriele Mandel, eminente studioso e leader dei “dervisci” italiani, per tutta la vita impegnato nel dialogo interreligioso. Dagli islamici abbiamo molto da imparare, aggiunge Franceschetti: «Per loro la carità è un obbligo, vivono una straordinaria solidarietà quotidiana. Da sempre, nei paesi islamici, il fisco è progressivo: i ricchi pagano più tasse. E la finanzia islamica non è speculativa come la nostra, l’etica la impone il Corano: se non riesci più a a pagare il muto, la banca si riprende la casa ma si ferma lì, non ti perseguita con gli interessi. Non a caso, da noi non si vedono banche islamiche». Discorsi che portano lontano, certo. Molto più lontano dei missili sulla Siria, e di quelli sparati ogni giorno dal circo mediatico con le sue mediocri comparse senza memoria.“Se Allah avesse voluto una sola religione, al mondo, quella soltanto ci sarebbe”. Nel suo saggio sulle principali confessioni del pianeta, Paolo Franceschetti ricorda lo straordinario ecumenismo presente nel Corano, secondo cui “tutte le religioni sono mezzi che conducono alla stessa meta”. «Lo stesso Maometto, pur “prescelto da Dio”, aggiungeva: non compio miracoli, non servirebbe. Nonostante i suoi miracoli, nemmeno Cristo, il più grande dei profeti, è stato riconosciuto per ciò che era, ed è stato crocifisso». Ora torna in voga il refrain sullo “scontro di civiltà”, inaugurato nel 1996 da un esponente dell’élite come Samuel Huntington (“Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale”) e reso tristemente celebre da Oriana Fallaci dopo l’11 Settembre. E oggi, nella narrazione mainstream frastornata da attentati e guerre a catena (Libia e Siria, Charlie Hebdo, Yemen, strage di Parigi del 13 novembre), lentamente affiora anche nei talkshow un nuovo capitolo, quello della guerra inter-islamica tra sciiti e sunniti. «Lo scontro di civiltà dominerà la politica mondiale», scriveva Huntington. «Le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro», anche perché «le grandi divisioni dell’umanità e la fonte di conflitto principale saranno legate alla cultura».
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Crisi senza fine? La previde vent’anni fa il “profeta” Craxi
Col suo libro esplosivo sulle 36 super-logge segrete del massimo potere mondiale (“Massoni, società a responsabilità illimitata”, edito da Chiarelettere), il massone Gioele Magaldi, fondatore del Grande Oriente Democratico in aperta polemica con la massoneria ufficiale italiana, «ha completamente riscritto la storia degli ultimi non so quanti anni», scrive Vincenzo Bellisario sul sito del “Movimento Roosevelt”, nato su impulso dello stesso Magaldi per squarciare il velo sulla politica italiana dominata dall’élite internazionale e contribuire a democratizzare il sistema, in un percorso di ripristino della perduta sovranità. Ma a fare un’anologa denuncia, ricorda Bellisario, fu il vituperato Bettino Craxi, dal suo esilio di Hammamet, nella seconda metà degli anni ‘90. Memoriale uscito nel 2014, col titolo “Io parlo, e continuerò a parlare” (Mondadori). Altro libro utilissimo, dice Bellisario, «per comprendere in “altri termini” cos’è accaduto e accade in Italia, in Europa e nel mondo», ovvero: nomi e cognomi di chi ci ha inguaiato davvero, precipitandoci in questa crisi infinita.Rivelazioni che «spiegano con parole mirate e incisive i fatti degli ultimi anni ed odierni, ancora oggi tristemente e quotidianamente sotto gli occhi del tutto ignari della quasi totalità» del pubblico, che magari vota Renzi e ha di Craxi un pessimo ricordo. Un libro, quello dell’ex leader del Psi, definito (oggi) da diversi giornalisti “profetico”, “sorprendente”, “agghiacciante”, “al limite della preveggenza”. Lo Stato è a pezzi, così come l’idea di nazione? «La pace si organizza con la cooperazione, la collaborazione, il negoziato, e non con la spericolata globalizzazione forzata», scrive Craxi. «Ogni nazione ha una sua identità, una sua storia, un ruolo geopolitico cui non può rinunciare. Più nazioni possono associarsi, mediante trattati per perseguire fini comuni, economici, sociali, culturali, politici, ambientali». Al contrario, «cancellare il ruolo delle nazioni significa offendere un diritto dei popoli e creare le basi per lo svuotamento, la disintegrazione, secondo processi imprevedibili, delle più ampie unità che si vogliono costruire». E attenti: «Dietro la longa manus della cosiddetta globalizzazione si avverte il respiro di nuovi imperialismi, sofisticati e violenti, di natura essenzialmente finanziaria e militare».Da Mani Pulite, Craxi fu liquidato come “capo di una banda di ladri” per via del finanziamento illecito ai partiti, compreso il suo? «I partiti dipinti come congreghe parassitarie divoratrici del danaro pubblico – scrive l’ex leader socialista – sono una caricatura falsa e spregevole di chi ha della democrazia un’idea tutta sua, fatta di sé, del suo clan, dei suoi interessi e della sua ideologia illiberale. Fa meraviglia, invece, come negli anni più recenti ci siano state grandi ruberie sulle quali nessuno ha indagato. Basti pensare che solo in occasione di una svalutazione della lira, dopo una dissennata difesa del livello di cambio compiuta con uno sperpero di risorse enorme ed assurdo dalle autorità competenti, gruppi finanziari collegati alla finanza internazionale, diversi gruppi, speculando sulla lira, evidentemente sulla base di informazioni certe, che un’indagine tempestiva e penetrante avrebbe potuto facilmente individuare, hanno guadagnato in pochi giorni un numero di miliardi pari alle entrate straordinarie della politica di alcuni anni. Per non dire di tante inchieste finite letteralmente nel nulla».Possibile che sul finanziamento illecito non avesse niente da dichiarare il Pci? «D’Alema ha detto che con la caduta del Muro di Berlino si aprirono le porte ad un nuovo sistema politico», scriveva Craxi. «Noi non abbiamo la memoria corta. Nell’anno della caduta del Muro, nel 1989, venne varata dal Parlamento italiano una amnistia con la quale si cancellavano i reati di finanziamento illegale commessi sino ad allora. La legge venne approvata in tutta fretta e alla chetichella. Non fu neppure richiesta la discussione in aula. Le commissioni, in sede legislativa, evidentemente senza opposizioni o comunque senza opposizioni rumorose, diedero vita, maggioranza e comunisti d’amore e d’accordo, a un vero e proprio colpo di spugna. La caduta del Muro di Berlino aveva posto l’esigenza di un urgente “colpo di spugna”». E’ storia, ormai: «Sul sistema di finanziamento illegale dei partiti e delle attività politiche, in funzione dal dopoguerra e adottato da tutti, anche in violazione della legge sul finanziamento dei partiti entrata in vigore nel 1974, veniva posto un coperchio».“Serviva”, quel coperchio, per legittimare una “nuova” classe dirigente europeista, usa obbedir tacendo. «Il regime avanza inesorabilmente: lo fa passo dopo passo, facendosi precedere dalle spedizioni militari del braccio armato», scriveva Craxi quasi vent’anni or sono. «La giustizia politica è sopra ogni altra l’arma preferita. Il resto è affidato all’informazione, in gran parte controllata e condizionata, alla tattica ed alla conquista di aree di influenza». Il regime, continua Craxi, «avanza con la conquista sistematica di cariche, sottocariche, minicariche, e con una invasione nel mondo della informazione, dello spettacolo, della cultura e della sottocultura che è ormai straripante». A proposito di “sottocultura”, Bellisario ricorda il recentissimo attacco «violento, squallido e di bassissimo profilo» sferrato da Luciana Littizzetto contro il Movimento 5 Stelle nientemeno che dalla tribuna televisiva di Fabio Fazio, sulla Rai (in compenso, all’epoca, dalla televisione di Stato fu cacciato Beppe Grillo, colpevole di mettere alla berlina di socialisti “ladri”: anche di quello si occupava, Craxi, anziché esternare sui pericoli della globalizzazione privatizzatrice in arrivo).«Sono oggi evidentissime le influenze determinanti di alcune lobbies economiche e finanziarie e di gruppi di potere oligarchici», scrisse più tardi, da Hammamet, il segretario del Psi. «A ciò si aggiunga la presenza sempre più pressante della finanza internazionale, il pericolo della svendita del patrimonio pubblico, mentre peraltro continua la quotidiana, demagogica esaltazione della privatizzazione», che è sempre «presentata come una sorta di liberazione dal male, come un passaggio da una sfera infernale ad una sfera paradisiaca: una falsità che i fatti si sono già incaricati di illustrare, mettendo in luce il contrasto che talvolta si apre non solo con gli interessi del mondo del lavoro ma anche con i più generali interessi della collettività nazionale». Parole sante, col senno del poi? Non si direbbe: la Grande Privatizzazione continua anche ora e più che mai, con Renzi, che mette all’asta persino un modello di impresa pubblica in super-attivo, Poste Italiane.Facile dire che vedeva lungo, Craxi: «La “globalizzazione” non viene affrontata dall’Italia con la forza, la consapevolezza, l’autorità di una vera e grande nazione, ma piuttosto viene subìta in forma subalterna in un contesto di cui è sempre più difficile intravedere un avvenire, che non sia quello di un degrado continuo, di un impoverimento della società, di una sostanziale perdita di indipendenza». Chissà cos’avrebbe detto, oggi, di fronte agli ultimi orrori, a comiciare dal Ttip, il Trattato Transatlantico Usa-Ue che rade al suolo ogni residua sovranità economica. Per non parlare del Fiscal Compact e del pareggio di bilancio inserito addirittura in Costituzione, a certificare la morte clinica dello Stato come garante della comunità nazionale. Ai tempi, quando i Prodi e i Ciampi magnificavano il dorato avvenire promesso da Bruxelles, Craxi scriveva: «I parametri di Maastricht non si compongono di regole divine. Non stanno scritti nella Bibbia. Non sono un’appendice ai dieci comandamenti». E l’andamento di questi anni «non ha corrisposto alle previsioni dei sottoscrittori: la situazione odierna è diversa da quella sperata».Ogni trattato, aggiungeva Craxi, può e deve essere rinegoziato, aggiornato, adattato alle condizioni reali e alle nuove esigenze: «Questa è la regola del buon senso, dell’equilibrio politico, della gestione concreta e pratica della realtà», lontano cioè dall’autismo dogmatico dei tecnocrati e dei loro cantori più o meno prezzolati, distribuiti in ogni paese. «Su di un altro piano stanno i declamatori retorici dell’Europa, il delirio europeistico che non tiene contro della realtà, la scelta della crisi, della stagnazione e della conseguente disoccupazione». La “scelta della crisi”, dunque, da cui la “conseguente disoccupazione”. L’euro? No, grazie: «Affidare effetti taumaturgici e miracolose resurrezioni alla moneta unica europea, dopo aver provveduto a isterilire, rinunciare, accrescere i conflitti sociali, è una fantastica illusione che i fatti e le realtà economiche e finanziarie del mondo non tarderanno a mettere in chiaro». Ed era solo la fine degli anni ‘90. L’Italia non era ancora finita nel girone infernale della Bce: recessione e crollo del Pil, super-tassazione, licenziamenti e fallimenti, erosione dei risparmi, disperazione sociale, rassegnazione al declassamento dell’Italia Così parlava il “profeta” Craxi. Rileggerlo oggi? Scomodo, per troppi personaggi in pista già allora. Uomini che però, anziché ad Hammamet, sono fini alla Bce, al Fondo Monetario e all’Ocse, a Bankitalia, alla Goldman Sachs. E naturalmente a Palazzo Chigi, e al Quirinale.Col suo libro esplosivo sulle 36 super-logge segrete del massimo potere mondiale (“Massoni, società a responsabilità illimitata”, edito da Chiarelettere), il massone Gioele Magaldi, fondatore del Grande Oriente Democratico in aperta polemica con la massoneria ufficiale italiana, «ha completamente riscritto la storia degli ultimi non so quanti anni», scrive Vincenzo Bellisario sul sito del “Movimento Roosevelt”, nato su impulso dello stesso Magaldi per squarciare il velo sulla politica italiana dominata dall’élite internazionale e contribuire a democratizzare il sistema, in un percorso di ripristino della perduta sovranità. Ma a fare un’anologa denuncia, ricorda Bellisario, fu il vituperato Bettino Craxi, dal suo esilio di Hammamet, nella seconda metà degli anni ‘90. Memoriale uscito nel 2014, col titolo “Io parlo, e continuerò a parlare” (Mondadori). Altro libro utilissimo, dice Bellisario, «per comprendere in “altri termini” cos’è accaduto e accade in Italia, in Europa e nel mondo», ovvero: nomi e cognomi di chi ci ha inguaiato davvero, precipitandoci in questa crisi infinita.
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Volevano suicidare la Russia, odiano Putin che l’ha salvata
Quando la Russia era amica degli Stati Uniti, Pavel Grachev era ministro della difesa, dal 1992 al 1996. Erano gli anni della transizione post sovietica. Il presidente Yeltsin e i suoi giovani riformatori traghettavano un paese lacero e miserabile verso un futuro di libertà stracciona, di occidentalismo predatorio, di privatizzazione da Far West. Una Russia società aperta, che danzava ubriaca sulla fune sopra il baratro. E senza rete di salvataggio. Era, quella, la Russia degli americani. In nessun periodo storico fu Mosca più vezzeggiata, lusingata e accarezzata dall’affabile alleato transatlantico. Nel momento in cui rinunciò a qualunque politica estera, a qualunque sfera di influenza, all’interesse nazionale e alla geopolitica, i sorrisi della politica americana si sprecarono per anni, promettendo ai russi integrazione, sviluppo, benessere. E consegnando invece, tutt’al più, una copia vintage e involgarita delle luci di New York sulle cupole zariste e i condomini khruscioviani lungo la Moscova. Pochi russi ammassavano fortune d’altri tempi sulle ceneri di una superpotenza in saldo. Una generazione di giovani vedeva scomparire l’istruzione, la sanità, la sicurezza di uno stipendio povero ma in grado di assicurare la spesa quotidiana e un tetto.Milioni di ragazze scoprivano che i loro corpi avevano un mercato, per le strade di Mosca invase dai turisti o nelle città d’Europa finalmente accessibili per una schiavitù diversa dalla solita, e più brutale. Gli orfanotrofi traboccavano di creature malnutrite rifiutate da famiglie scomparse e abbandonate da uno Stato in bancarotta. La droga, il collasso dei servizi pubblici e l’anomia sociale mietevano un numero incalcolabile di giovani vittime ai quattro angoli di un impero arrugginito, venduto pezzo per pezzo come metallo di scarto sui mercati mondiali della corruzione e del malaffare. Mosca e San Pietroburgo, di notte, facevano paura. Crimine fuori controllo, omicidi spiccioli ed esecuzioni mafiose in grande stile terrorizzavano città senza più legge, dove la polizia sopravviveva grazie alle mazzette e all’estorsione e i malviventi regnavano come mai i Corleone e i Riina avrebbero potuto sognare nella loro terra. La Russia di Yeltsin non era più orso. Era semmai un elefante mutilato e sanguinante, cui bracconieri indigeni e stranieri somministravano stupefacenti per tenerlo in vita, mentre gli rubavano avorio, organi, e anima.E poi c’era l’esercito. L’istituzione che aveva, sin dalla rivoluzione d’ottobre, rappresentato la gloria e la potenza, il vanto e l’orgoglio, il blasone e il sigillo della leadership mondiale della Russia dei Soviet. Non più Armata Rossa ma Russa, l’esercito era allora sotto la guida di Grachev. Una figura dimenticata ma preziosa, per capire la storia. Non la storia dei summit e delle dichiarazioni diplomatiche, no. La storia di uomini e donne, di carne e di sangue, di vita e di morte. La storia dei russi, contro la storia dei think tank e delle accademie e dei fondi monetari. Era il dicembre 1994 e Grachev aveva dichiarato con boria mediatica che l’esercito russo avrebbe potuto conquistare Grozny in 24 ore con un solo reggimento di paracadutisti. Perché oltre che dissanguata, derelitta e derubata, la Russia di Yeltsin era anche a un passo dalla disintegrazione. Regioni ribelli guidate da delinquenti e corrotti premevano per la secessione da un potere centrale che non aveva più potere, né centralità. E se il corpo rischiava la metastasi, il cancro da cui questo minacciava di diffondersi era la Cecenia.Dicono i pettegolezzi, che sono un po’ anche cronaca, che Grachev avesse dato l’ordine di invadere Grozny di notte, ubriaco. E così la mattina di capodanno del 1995 la capitale caucasica fu svegliata dalle bombe e dai carri armati. Era la prima volta che l’Armata Russa combatteva. E fu un disastro che nemmeno gli analisti più cinici avrebbero previsto. Lungi dall’impiegare un solo battaglione di paracadutisti, Grachev riversò su Grozny tutto quello che aveva. Tank, artiglieria, aviazione. E lungi dall’ottenere la rapida vittoria che aveva promesso, si risvegliò dalla supposta sbronza con le notizie di una catastrofe nazionale. L’Armata Rossa non solo aveva cambiato nome. Non esisteva neanche più. C’era, al suo posto, l’esercito di Yeltsin. Della nuova Russia occidentale, prediletta discepola degli amici d’America. Un’armata brancaleone di ragazzini adolescenti strappati alle famiglie e scaraventati al fronte. Mezzi antiquati e colonne sbandate. Strategie militari da prima guerra mondiale. Se un simbolo della rovina materiale, morale e umana in cui la transizione benedetta dall’America aveva gettato la Russia esiste, questo e’ senz’altro la campagna cecena di Pavel Grachev. D’altronde, l’Armata Russa era la stessa di cui filtravano notizie di soldati ridotti alla fame nelle basi dell’estremo Oriente, o venduti a San Pietroburgo come prostituti a ora per clienti facoltosi, o massacrati nei riti d’iniziazione sfuggiti a qualunque regola e disciplina, o suicidi in massa per sfuggire a violenze e soprusi impuniti.E così in Cecenia, dopo un bilancio di migliaia di soldati uccisi e fatti prigionieri, di una città rasa al suolo e di civili sterminati, il cancro non era stato nemmeno estirpato. E un anno dopo, i ribelli l’avrebbero riconquistata. Grachev perse la faccia. E la Russia con lui. Mentre le madri dei piccoli soldati usati come carne da cannone iniziarono le loro coraggiose manifestazioni pubbliche davanti ai lugubri ministeri moscoviti, che tanto le facevano assomigliare alle danze solitarie delle madri dei desaparecidos sudamericani. E sarebbe stata una ricerca disperata, straziante e inutile, perché dei figli soldati della Russia non v’erano notizie, né sepoltura, né nomi. Scomparsi nel nulla, saltati in aria nei carri sgangherati di Grachev, torturati nelle prigioni improvvisate dei mujaheddin ceceni. Inghiottiti dal drago di un paese allo sfacelo. Che però, allora, era il darling della Casa Bianca. Per questo, oggi, non capiamo Putin. Perché ci rifiutiamo di vedere la storia degli uomini e ci soffermiamo invece sui paper delle accademie. Quelli che ci dicono che Putin è un fascista che sta distruggendo la Russia. Quelli che ci parlano di un paese prigioniero di una nuova tirannia. Quelli che dipingono la Crimea come una nuova Cecoslovacchia e l’Ucraina come la Polonia di Hitler. Quelli che sono, oggi, la copia speculare di ciò che condannano: propaganda.Perché la Russia non è più stracciona, e Putin lentamente l’ha cambiata. Ha ricostruito lo Stato. Non è un modello di democrazia di Westminster, no di certo. Ma esiste, e fa qualcosa. Ha recuperato, legalmente e illegalmente, parte di quell’eredità che l’oligarchia mafiosa aveva comprato alla fiera dell’est, per due soldi. Ha curato i focolai tumorali che minacciavano la sopravvivenza della Federazione. Ha riparato i carri armati, e li ha svuotati degli adolescenti di leva, riempiendoli di soldati professionisti. Ha licenziato la leadership alcolista, e investito in ricerca e sviluppo. Ha riaperto le fabbriche del complesso militare industriale che non è certo la chiave del futuro, ma che è tutto ciò che la Russia aveva e da cui poteva ripartire. E quando il paese ha smesso di presentarsi ai summit internazionali scalzo e rattoppato per supplicare l’America e le sue istituzioni finanziarie di elargire un altro prestito ipotecando in cambio l’interesse nazionale, la Russia di Putin ne ha ripreso in mano il dossier. E ne ha rilette, una dopo l’altra, le pagine dimenticate.La sorpresa della Crimea, per questo motivo, è tale solo per gli ipocriti, gli smemorati, e gli ingenui. La Crimea fu uno degli scogli più insidiosi su cui la transizione post sovietica rischio’ di naufragare, già negli anni ‘90, quando per poco non scatenò una guerra. In Crimea c’erano Sebastopoli e la flotta del Mar Nero. L’intera geopolitica zarista e poi sovietica aveva da sempre cercato lo sbocco verso il Mediterraneo, lo sanno anche i bambini delle medie. Non è certo un’invenzione di Putin. La Crimea è stata sempre la colonna portante dell’interesse nazionale russo. Non è Putin che ha stravolto la storia rivendicandola e riconquistandola. Era stata la debolezza e la disperazione degli anni di Yeltsin a far accettare obtorto collo a Mosca la rinuncia a una penisola che è insieme strategia e letteratura e icona e identità. La perdita della Crimea fu per i russi una dolorosa circostanza storica, mai una scelta coraggiosa.L’aspro confronto tra Obama e Putin è tutto qui. L’elefante tramortito è ritornato orso. E rifiuta le sbarre della gabbia che la Nato nell’ultimo decennio gli ha costruito addosso, a dispetto delle dichiarazioni di amicizia e di rispetto. Il livore di Obama ha così dipinto la Crimea come la prova della cattiveria di Putin, e l’Europa sbadata gli ha creduto. E ora che la Russia interviene su uno scacchiere mediorientale da cui mancava da vent’anni, la Casa Bianca si agita scomposta. Ma vent’anni di egemonia statunitense in Medio Oriente e Nord Africa cosa hanno prodotto? La farsa dell’Iraq e la sua tragedia umana. Lo Stato Islamico e il suo regno di barbarie. Il collasso della Siria e i milioni di profughi e la sua guerra senza sbocco. La fine della Libia. Ed è solo l’inizio di un terremoto che l’America stessa ha scatenato, ma che le è ormai sfuggito di mano. Persino i paesi della regione lo sanno. E oggi iniziano a guardare a Putin più che a Obama, cui rimane la retorica da guerra fredda, l’uso spregiudicato delle sanzioni con la scusa dei diritti umani, e la scelta sconsiderata di perdere la Russia.Putin è un personaggio complesso, ma non è il diavolo. Ha il merito di avere mantenuto la Russia nella storia, in un momento in cui era tutt’altro che scontato. Il giovane ignoto che si insediò sullo scranno degli Zar quando Yeltsin barcollò via con un ultimo brindisi, non verrà giudicato dalla storia per i pettegolezzi su come abbia passato il compleanno e sul costo dell’orologio che porta al polso, temi oggi prediletti da riviste un tempo autorevoli come “Foreign Policy”. Il verdetto è già scritto. E’ nelle immagini che lo mostrano assieme al ministro della difesa Shoigu nelle stanze dei bottoni del suo esercito, da cui la campagna siriana viene coordinata. Sono passati solo due decenni, ma sembrano anni luce dalle gaffe di Yeltsin, e dalla disfatta cecena di Grachev. Se Obama non gradisce, non è per i diritti umani dei russi. Washington ha approfittato della penosa transizione russa per arraffare quanto più spazio geopolitico ha potuto, in Europa, in Medio Oriente, nel Pacifico. E adesso che al Cremlino non siede più un ubriacone cardiopatico, e l’esercito non è più il soldatino di latta di Grachev, l’America, di colpo, ha deposto le lusinghe. E ha perso il sorriso. E minaccia di trascinarci, tutti, in uno scontro frontale con la Russia. Per i suoi interessi, e contro i nostri. Che sono quelli di un’Europa che non si fermi di colpo alla frontiera bielorussa.(Mario Rimini, “Perché l’Occidente non capisce più la Russia. Una lettura critica”, da “Il Foglio” del 9 ottobre 2015).Quando la Russia era amica degli Stati Uniti, Pavel Grachev era ministro della difesa, dal 1992 al 1996. Erano gli anni della transizione post sovietica. Il presidente Yeltsin e i suoi giovani riformatori traghettavano un paese lacero e miserabile verso un futuro di libertà stracciona, di occidentalismo predatorio, di privatizzazione da Far West. Una Russia società aperta, che danzava ubriaca sulla fune sopra il baratro. E senza rete di salvataggio. Era, quella, la Russia degli americani. In nessun periodo storico fu Mosca più vezzeggiata, lusingata e accarezzata dall’affabile alleato transatlantico. Nel momento in cui rinunciò a qualunque politica estera, a qualunque sfera di influenza, all’interesse nazionale e alla geopolitica, i sorrisi della politica americana si sprecarono per anni, promettendo ai russi integrazione, sviluppo, benessere. E consegnando invece, tutt’al più, una copia vintage e involgarita delle luci di New York sulle cupole zariste e i condomini khruscioviani lungo la Moscova. Pochi russi ammassavano fortune d’altri tempi sulle ceneri di una superpotenza in saldo. Una generazione di giovani vedeva scomparire l’istruzione, la sanità, la sicurezza di uno stipendio povero ma in grado di assicurare la spesa quotidiana e un tetto.
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Gender: facile da controllare, l’uomo senza identità sessuale
Verso il cosiddetto “nuovo ordine mondiale”, le élites starebbero tentando di “rielaborare” l’umanità a proprio piacimento, anche grazie la creazione dell’“uomo senza identità” che sarebbe fabbricato dall’ideologia gender, le cui strategie (e obiettivi) vengono messi a fuoco dal libro “Unisex” di Enrica Perucchietti, scritto a quattro mani con Gianluca Marletta. «Un libro che ancor prima di essere pubblicato ha scatenato forti polemiche da parte dei movimenti femministi e Lgbt, secondo i quali la cosiddetta “teoria gender” nemmeno esiste», scrive Riccardo Allione su “Vvox”. L’autrice però non ci sta: «L’ideologia di genere esiste e ha la sua storia: l’espressione è stata coniata da John Money, padre degli studi di genere insieme ad Alfred Kinsey. Dopo gli anni ’80 si arenò in seguito ai fallimenti degli esperimenti di Money e oggi è stata riesumata. È vero che esistono gli studi di genere, ma d’altra parte c’è il tentativo politico-mediatico di recuperare velleità dei padri del gender». Niente complottismi, dice la Perucchietti. Ma è evidente il «processo di globalizzazione spinto dalle lobby mondialiste che mira a spersonalizzare l’individuo, e questo processo si sta focalizzando sulla questione dell’identità sessuale, per rendere le nuove generazioni più facilmente manipolabili e omologate».Nel concreto, da un lato le multinazionali finanziano le campagne elettorali chiedendo in cambio di promuovere quelle politiche, e dall’altro c’è l’industria culturale: «Sempre più spesso, film e serie tv fanno passare l’idea di una sessualità fluida». Nel libro, la Perucchietti cita un serial di Mtv, “Faking it”, dove le protagoniste e i loro amici cambiano più volte orientamento sessuale nel corso della stagione. «C’è anche la musica: basta pensare a Miley Cyrus o Lady Gaga, che pur non essendo gay si fanno portavoce delle cause omosessuali, strumentalizzando il messaggio come strategia di marketing costruita a tavolino». Questo progetto avrebbe un duplice scopo: «I padri dell’ideologia gender sognavano una “democrazia sessuale” globale dove tutti gli orientamenti fossero leciti e legali, compresa la pedofilia. La seconda finalità è il controllo sociale: individui sempre più spersonalizzati e disorientati, senza un’identità definita, sono più facili da manipolare».Dietro l’intenzione di distruggere la famiglia tradizionale sostituendola con altri modelli c’è anche una questione economica: «Nel momento in cui vengono sdoganate le famiglie omogenitoriali, che per forza di cose non possono avere figli, si favorisce il business delle maternità surrogate e degli uteri in affitto». Tuttavia, spiega la Perucchietti, la questione non riguarda l’omosessualità in sé. «Nel libro contestiamo il fatto che si sta spingendo verso un’idea di sessualità culturale: non si nasce maschio o femmina per natura, ma lo si diventa per cultura. Un’idea contestata anche da Vladimir Luxuria durante una diretta radiofonica a cui ho partecipato. Eppure è questo ciò che insegnavano i fondatori dell’ideologia di genere. Il rischio è di sfociare nel trans-umanesimo, nel post-umano, e quello che preoccupa è che tale manipolazione avviene in maniera sempre più capillare e perfino violenta».Per contro, osserva Allione, si potrebbe controbattere che la difesa dei “valori tradizionali” è a sua volta propaganda dei poteri forti più conservatori, ad esempio la Chiesa. «Qualsiasi tesi portata avanti con il vessillo di un dogma rischia di diventare fanatismo o di essere strumentalizzata», taglia corto l’autrice. «Le difese a oltranza sono sbagliate, si finisce sempre in fazioni pro o contro, ma così non si dialoga. Non si può combattere un’ideologia con un’altra ideologia. Noi abbiamo cercato di curare un’inchiesta giornalistica storico-sociologica nel modo più obbiettivo possibile». Venendo all’attualità e al polverone alzato dal disegno di legge Fedeli sull’educazione di genere a scuola, «si è fatta molta disinformazione, però il ministro Giannini che dichiara che l’ideologia di genere è una bufala minacciando le vie legali, ricorda molto la “psico-polizia” di Orwell». Per quanto riguarda invece i libri per l’infanzia censurati a Venezia, per la giornalista torinese «l’idea dell’insegnamento gender all’asilo o alle elementari è assolutamente folle».A scuola, aggiunge la Perucchietti, non bisognerebbe parlare di certe tematiche a bambini così piccoli: «Non conosco tutti i libri, ma ne ho letti alcuni, come quello sulla maternità surrogata (“Perché hai due mamme?”, edito da “Lo Stampatello”), che mi è sembrato pazzesco. Perché bisogna spiegare queste cose a un bambino di quattro anni? Non si capisce, a me pare una strumentalizzazione per sdoganare la fecondazione eterologa». Per contrastare questa “mutazione antropologica” messa in atto dall’ideologia gender, l’unica strada passa dall’informazione. «Sia chi è contro il gender, sia i sostenitori, si sono formati un’idea sulla base di chiacchiere, per sentito dire. Molte delle critiche al nostro libro sono state fatte prima della sua pubblicazione. Come si fa a stroncare un libro non ancora uscito, sulla base della copertina? Ci vuole senso critico, dopodiché uno si forma un’idea, ma non sulla base di posizioni acritiche e fanatiche».(Il libro: Enrica Perucchietti e Gianluca Marletta, “Unisex – Cancellare l’identità sessuale, la nuova arma della manipolazione globale”, Arianna Editrice, 224 pagine, euro 11,80).Verso il cosiddetto “nuovo ordine mondiale”, le élites starebbero tentando di “rielaborare” l’umanità a proprio piacimento, anche grazie la creazione dell’“uomo senza identità” che sarebbe fabbricato dall’ideologia gender, le cui strategie (e obiettivi) vengono messi a fuoco dal libro “Unisex” di Enrica Perucchietti, scritto a quattro mani con Gianluca Marletta. «Un libro che ancor prima di essere pubblicato ha scatenato forti polemiche da parte dei movimenti femministi e Lgbt, secondo i quali la cosiddetta “teoria gender” nemmeno esiste», scrive Riccardo Allione su “Vvox”. L’autrice però non ci sta: «L’ideologia di genere esiste e ha la sua storia: l’espressione è stata coniata da John Money, padre degli studi di genere insieme ad Alfred Kinsey. Dopo gli anni ’80 si arenò in seguito ai fallimenti degli esperimenti di Money e oggi è stata riesumata. È vero che esistono gli studi di genere, ma d’altra parte c’è il tentativo politico-mediatico di recuperare velleità dei padri del gender». Niente complottismi, dice la Perucchietti. Ma è evidente il «processo di globalizzazione spinto dalle lobby mondialiste che mira a spersonalizzare l’individuo, e questo processo si sta focalizzando sulla questione dell’identità sessuale, per rendere le nuove generazioni più facilmente manipolabili e omologate».
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Nuovo disordine mondiale, nei Brics torna lo Stato-azienda
La crisi non è solo finanziaria e coinvolge anche aspetti politici, sociali e militari in un gioco di rimandi continuo. Dunque, la sua soluzione non può prescindere dall’esame anche degli aspetti non strettamente finanziari, per capire cosa stiamo rischiando. La globalizzazione, in atto da un trentennio, associa strettamente gli sviluppi tecnologici ai progetti politici di un nuovo ordine mondiale. Tutto ciò è caratterizzato da una straordinaria velocità che modifica lo sviluppo delle dinamiche sociali, politiche, economiche, producendo interdipendenze molto più complesse del passato, al punto che c’è chi si spinge a parlare di “ipercomplessità”. La globalizzazione è stata proposta come l’estensione a tutto il mondo della modernizzazione. Una benefico tsunami che aumenta la ricchezza, produce convergenza economica, elimina l’arretratezza, spazza via dittature e diffonde democrazia e benessere. Il mondo occidentale ha costruito la sua identità recente intorno alla categoria di “modernizzazione” ed ha giustificato la sua proiezione espansionista con il compito di espandere la civiltà moderna in tutto il mondo.Questa stessa radice troviamo nel “progetto globalizzazione”, naturale sviluppo della modernizzazione, discorso esplicitato in particolare da Francis Fukuyama, la cui opera è il manifesto ideologico di quel progetto. Per Fukuyama, il modello sociale occidentale era il punto di arrivo non migliorabile cui la storia tende. Ne deriva, quindi, una visione del resto del mondo come “Occidente imperfetto” in via di rapida assimilazione al suo modello. Se quello di Fukuyama era il manifesto ideologico, Samuel Huntington ha scritto il manifesto politico di quel progetto. Con maggiore realismo, egli sostiene che modernizzazione non significa occidentalizzazione e che gli equilibri di potenza stanno mutando. Pertanto, sta emergendo un ordine mondiale fondato sul concetto di civiltà e la pretesa occidentale di rappresentare valori universali è destinata a scontrarsi con l’Islam e la Cina. La sopravvivenza dell’egemonia occidentale dipende dalla capacità degli occidentali di accettare la propria civiltà come qualcosa di peculiare ma non universale e di unirsi per rinnovarla e proteggerla dalle sfide degli altri.Dove Fukuyama sognava un mondo uniformato in un’unica grande democrazia liberal-capitalistica, Huntington pensa ad un mondo ancora diviso in modelli culturali diversi ed antagonistici, ma sotto la salda direzione imperiale americana. C’è un terzo manifesto, di natura economica, che riassume il progetto della globalizzazione: il cosiddetto Washington Consensus. L’espressione, formulata nel 1989 da John Williamson, definisce 10 direttive di politica economica destinate ai paesi in stato di crisi, e che costituiscono un pacchetto di riforme “standard” indicate dal Fmi e dalla Banca Mondiale (entrambi hanno sede a Washington): politica fiscale finalizzata al pareggio di bilancio, riaggiustamento della spesa pubblica, riforma del sistema tributario, adozione di tassi di interesse reali (cioè al netto dell’inflazione) positivi, tassi di cambio della moneta locale determinati dal mercato, liberalizzazione del commercio e delle importazioni, liberalizzazione degli investimenti esteri, privatizzazione delle aziende statali, deregulation e tutela del diritto di proprietà privata.Questa piattaforma neoliberista venne poi in gran parte assorbita dagli accordi di Marrakech (1994) che dettero vita all’organizzazione mondiale per il commercio (Wto). La globalizzazione economica prometteva il riequilibrio delle disuguaglianze mondiali ed, attraverso questa dinamica convergente, lo sviluppo economico avrebbe assicurato l’espansione della democrazia e l’abbattimento dei regimi autocratici. Naturalmente, tutto questo avrebbe comportato un “urto” culturale, ma lo shock da globalizzazione sarebbe stato ampiamente compensato dai vantaggi. In parte le promesse della globalizzazione si sono avverate: Cina e India, ad esempio, da economie rurali ed arretrate sono diventate potenze emergenti a forte vocazione manifatturiera. Ma le cose stanno andando in modo molto diverso da quello previsto e lo skock da globalizzazione si sta rivelando molto più duro e contraddittorio. Se è vero che si sono prodotte delle convergenze, è altrettanto vero che si sono prodotte nuove asimmetrie, se è vero che i flussi finanziari, migrativi, culturali, commerciali attraversano in continuazione le frontiere in un mondo sempre più integrato, è anche vero che si sono prodotte nuove linee di faglia più profonde del passato.Inoltre, la globalizzazione non ha affatto prodotto la “fine della povertà”. Emblematico, in questo senso, il caso indiano, dove l’enorme crescita economica convive con le sacche di estrema miseria di sempre. Il capitalismo post coloniale non produce alcuna convergenza sociale fra i diversi paesi perchè, più che mai, è “capitale senza nazione”: estrae da ogni parte plusvalore che accumula in quell’U-topos che è “Riccolandia”. Soprattutto, contrariamente alle aspettative, la globalizzazione neoliberista non ha prodotto quel “nuovo ordine mondiale” cui aspirava; semmai siamo di fronte ad un “nuovo disordine mondiale”. Il mondo è più integrato dal punto di vista economico e delle comunicazioni, ma lo è di meno dal punto di vista politico. Le culture tradizionali, che si era pensato destinate a scomparire presto, hanno resistito (Huntington aveva visto più lontano di Fukuyama) e, pur subendo l’urto della penetrazione culturale dell’Occidente, hanno prodotto sintesi impreviste.Uno dei bersagli del progetto neo liberista è stato l’ordinamento westfalico basato sulla sovranità degli Stati nazione: il governo del mondo sarebbe spettato ad una fitta rete di organismi sovranazionali (dall’Onu al Wto, dal Fmi alla Bm ed alla serie di intese continentali come la Ue, il Nafta, il Mercosur ecc.), dunque, lo Stato nazionale aveva sempre meno ragion d’essere. La ritirata dello Stato dall’economia era la sanzione di questa detronizzazione. Parve che lo Stato nazionale sarebbe stato ridotto ai minimi termini per sottrazione di poteri sia verso l’alto che verso il basso e ci fu chi vide il suo completo annullamento in un nuovo “Impero”, non identificabile con nessuno degli Stati nazione esistenti. In realtà, il deperimento della sovranità nazionale non era affatto omogeneo ed universale, perchè aveva una sua rilevantissima eccezione negli Usa, monopolisti della forza a livello internazionale. Almeno sulla carta, nemmeno una alleanza di tutti gli altri Stati del mondo avrebbe avuto possibilità di vittoria contro gli Usa.Diversamente da quello che teorizzavano Negri ed Hardt, gli Usa non erano subordinati ad alcuna altra istituzione: erano superiorem non recognoscens e, pertanto, pienamente sovrani. Anzi, unico vero sovrano nel nuovo ordine imperiale. Ma nel giro di una quindicina di anni le cose sono rapidamente mutate: le sostanziali sconfitte in Iraq e Afghanistan hanno dimostrato le fragilità di un esercito che, imbattibile in campo aperto, è inadeguato in uno scontro asimmetrico; nello stesso tempo, la crisi ha obbligato prima a contenere e dopo a ridurre la spesa militare americana, mentre cresce quella asiatica (soprattutto di Cina, India, Giappone, Viet Nam, Corea ecc.). Nello stesso tempo, il deperimento degli stati nazionali non è affatto proceduto omogeneamente in tutto il mondo ed, anzi, in paesi come la Cina, la Russia, l’India, il Brasile, l’Indonesia, il Sud Africa si è registrato un rafforzamento dei rispettivi Stati. E tutto questo sta aprendo un dibattito molto fitto: se Prem Shankar Jha ritiene che gli Stati nazione stiano effettivamente deperendo, ma solo per esse sostituiti dal “caos prossimo venturo”, Robert Cooper distingue fra paesi premoderni (al limite della disintegrazione, come la Somalia), paesi moderni (i paesi emergenti che perseguono i propri interessi nazionali attraverso lo strumento statuale) e paesi “post moderni” (Ue e Giappone che rinunciano a parti della sovranità statale per adeguarsi alle dinamiche della globalizzazione neoliberista), con gli Usa in posizione critica fra la seconda e la terza opzione.Soprattutto, la grande sorpresa è stato il protagonismo economico degli stati emergenti. India, Cina e paesi arabi hanno costituito fondi sovrani assai cospicui per centinaia di miliardi di dollari, inoltre fra le dieci maggiori compagnie mondiali per ricavi, quattro sono controllate dal relativo Stato: tre cinesi (Sinopec Group, China National Petroleum Corporation, State Grid) ed una giapponese (Japan Post Holding). In Brasile le società controllate dallo Stato sono il 38%, in Russia il 62% in Cina addirittura l’80%, e “The Economist” (da cui traiamo questi dati) è giunto a chiedersi se il modello emergente non sia un nuovo “capitalismo di Stato”. Lasciamo impregiudicata la questione se quella di capitalismo di stato sia la definizione migliore o se dovremmo parlare di “neopatrimonialismo” o cercare altre definizioni più aderenti alla tradizione cinese, quel che rileva è che sta emergendo un ordine economico opposto di quello voluto da Whashington Consensus.(Aldo Giannuli, “Il nuovo disordine mondiale”, dal blog di Giannuli del 18 agosto 2015).La crisi non è solo finanziaria e coinvolge anche aspetti politici, sociali e militari in un gioco di rimandi continuo. Dunque, la sua soluzione non può prescindere dall’esame anche degli aspetti non strettamente finanziari, per capire cosa stiamo rischiando. La globalizzazione, in atto da un trentennio, associa strettamente gli sviluppi tecnologici ai progetti politici di un nuovo ordine mondiale. Tutto ciò è caratterizzato da una straordinaria velocità che modifica lo sviluppo delle dinamiche sociali, politiche, economiche, producendo interdipendenze molto più complesse del passato, al punto che c’è chi si spinge a parlare di “ipercomplessità”. La globalizzazione è stata proposta come l’estensione a tutto il mondo della modernizzazione. Una benefico tsunami che aumenta la ricchezza, produce convergenza economica, elimina l’arretratezza, spazza via dittature e diffonde democrazia e benessere. Il mondo occidentale ha costruito la sua identità recente intorno alla categoria di “modernizzazione” ed ha giustificato la sua proiezione espansionista con il compito di espandere la civiltà moderna in tutto il mondo.