Archivio del Tag ‘imperialismo’
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Moiso: via il Che da quelle magliette, metteteci Draghi
Che strana questa sedicente sinistra che critica coloro che parlano di sovranità, che pensa di dover organizzare le proprie iniziative politiche partendo dalla necessità assoluta e imprescindibile di tagliare il debito pubblico, e che crede che l’accoglienza indiscriminata di quelle povere persone che vengono dall’Africa e dal Medio Oriente possa essere una soluzione giusta e sostenibile. Che strana, questa sedicente sinistra che da giovane appendeva, vestiva e si tatuava “Che” Guevara, Marx e Sankara; avrebbe piuttosto dovuto vestire le maglie con la faccia di Mario Draghi, appendere i poster di Visco in cameretta affianco a quelli dei Guns’n’Roses e farsi i tatuaggi di Mattarella o Monti sulla spalla; questo sì che sarebbe stato coerente con le loro posizioni odierne! Viene da pensare, perché mi ricordo chiaramente Marx ed Engels scrivere di come l’immigrazione indiscriminata irlandese – in condizioni di scarsità di risorse – potesse danneggiare le condizioni dei lavoratori inglesi, nonché sottoporre i lavoratori irlandesi a condizioni disumane.Mi ricordo chiaramente come Sankara avesse smascherato platealmente, alle Nazioni Unite, come il debito pubblico fosse un’arma di controllo post-coloniale, rivendicando la necessità di aiutare il popolo africano in Africa; e mi ricordo ancora più chiaramente come Ernesto “Che” Guevara, sempre alle Nazioni Unite, rivendicò il principio della sovranità del popolo di fronte all’imperialismo del mondo finanziario. Ora… o mi ricordo male io, o gli elettori progressisti non sono progressisti (e in effetti tra i progressisti si nascondono molti conservatori e comunisti) o la classe politica sedicente progressista ha mantenuto la narrativa progressista ma si è completamente venduta al neoliberismo. Alcuni potrebbero guardare al nazionalismo e al comunismo con nostalgia, come reazione alle politiche neoliberiste dell’attuale sedicente sinistra… La verità è che nonostante “Che” Guevara e Sankara si dicessero comunisti, non è certo nel comunismo che troviamo l’esempio che hanno lasciato nella storia.Piuttosto, queste persone ci hanno insegnato che non c’è niente, nella vita, che valga più della lotta per il bene della collettività; della lotta per creare un mondo giusto ed equo. Oggi, ci sentiamo dire che dobbiamo fare i conti con l’economia e con la finanza, base imprescindibile di un sistema sociale che ha sostituito gli indicatori economici e finanziari ai diritti umani. Ma la storia insegna che nel XVII, XVIII e XIX secolo il popolo si sentiva dire che non si potesse lottare contro una monarchia reggente per volere di Dio. Ecco, personaggi come Sankara e “Che” Guevara non ci insegnano che il comunismo sia la filosofia economica sulla quale ricostruire la società, ma piuttosto ci insegnano che si può e si deve lottare anche oggi – e che la lotta vale una vita.(Marco Moiso, “Si sbiadiscono le magliette della sedicente sinistra”, dal blog del Movimento Roosevelt del 7 novembre 2018).Che strana questa sedicente sinistra che critica coloro che parlano di sovranità, che pensa di dover organizzare le proprie iniziative politiche partendo dalla necessità assoluta e imprescindibile di tagliare il debito pubblico, e che crede che l’accoglienza indiscriminata di quelle povere persone che vengono dall’Africa e dal Medio Oriente possa essere una soluzione giusta e sostenibile. Che strana, questa sedicente sinistra che da giovane appendeva, vestiva e si tatuava “Che” Guevara, Marx e Sankara; avrebbe piuttosto dovuto vestire le maglie con la faccia di Mario Draghi, appendere i poster di Visco in cameretta affianco a quelli dei Guns’n’Roses e farsi i tatuaggi di Mattarella o Monti sulla spalla; questo sì che sarebbe stato coerente con le loro posizioni odierne! Viene da pensare, perché mi ricordo chiaramente Marx ed Engels scrivere di come l’immigrazione indiscriminata irlandese – in condizioni di scarsità di risorse – potesse danneggiare le condizioni dei lavoratori inglesi, nonché sottoporre i lavoratori irlandesi a condizioni disumane.
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Abolire le lezioni di storia: i docenti non insegnano niente
Un po’ di giorni fa, le associazioni dei docenti di storia e l’Istituto Storico per la Storia della Resistenza hanno lanciato un grido di dolore contro la proposta di abolire la traccia di storia fra quelle degli esami di Stato, additando l’incultura di chi ha fatto l’infausta proposta ed hanno colto l’occasione per la solita geremiade sulle cattedre perse, della marginalizzazione delle ore di insegnamento della storia ridotte ad una sola negli istituti tecnici, eccetera. La commissione ministeriale che ha approvato questa riforma degli esami di Stato è certamente composta da allevatori di bestiame capitati non si sa come in quella posizione, non discuto. Ma bisogna riconoscere che qualche ragione ce l’hanno: è un fatto che nell’ultimo decennio (più o meno) la traccia è stata scelta solo dall’1% dei candidati. E la cosa, cari colleghi, non vi dà nessun sospetto? Se il 99% degli studenti scansa la traccia di storia, non dipenderà dal fatto che la storia gli è stata insegnata con i piedi? Non cominciamo con le solite scuse sulla vulgata corrente che marginalizza le materie umanistiche e disincentiva i giovani a studiare la storia, su quella trappola infernale che è Internet, eccetera eccetera; il punto è che i nostri docenti non riescono ad interessare i ragazzi alla materia in questione.E questo si inserisce nel problema più generale dei troppi insegnanti che, magari, conoscono la materia ma non la sanno insegnare, e questo vale per tutte le discipline. In estate lessi di una classe di un istituto livornese dove erano stati bocciati o rimandati 40 studenti su 41, e un imbecille di docente confessava come giustificazione: «Non riusciamo a farli studiare». Come dire che “non sappiamo fare il nostro mestiere”, visto che il compito del docente è proprio quello di motivare i ragazzi a studiare. Morale: licenziamo in blocco i docenti di quella classe e faremo una cosa santa. Ma, si dice, della storia ha bisogno non solo la cultura ma anche la democrazia, perché, si dice, la storia ha un alto valore formativo. Ecco: il punto è proprio questo: la storia, così come viene insegnata, ha ancora questo valore formativo? Direi proprio di no. Per il modo in cui è ora mal insegnata non ha alcun valore culturale e, meno che mai, professionale. La storia non serve a “far bella figura in società” o ad assecondare una qualche voglia individuale di intrattenimento. La storia ha una funzione precisa nella spiegazione e critica del presente e, solo a questa condizione, è elemento utile al dibattito politico e culturale.Frugare a caso nel passato non serve a niente, quello che serve è risalire lungo la catena dei nessi causa effetto-che spieghino l’attuale stato di cose e servano da lente di ingrandimento per individuare cosa va conservato e cosa mutato nell’attuale ordinamento. Ora, c’è qualcuno che ha il coraggio di sostenere che l’attuale insegnamento serva a questo? Quanti docenti sarebbero in grado di spiegare il passaggio dalla formula merce-denaro-merce a quella denaro1-merce-denaro2 e spiegarne la portata storica? Quale insegnante saprebbe spiegare le conseguenze della decisione di Nixon sulla non convertibilità del dollaro nel 1971? Quanti docenti hanno una pur vaga idea del pensiero politico di Gandhi, Sukarno, Kemal Ataturk o sanno chi sono stati Nasser, Al Qutb o Franz Fanon? E chi saprebbe presentare adeguatamente il processo di codificazione dello Stato moderno europeo o il passaggio dalla decretazione alla legge? Ne dubito fortemente, perché i nostri docenti in massima parte sono filosofi o letterati che non capiscono nulla di diritto o economia e poco di sociologia o politologia.D’altro canto, i libri di testo che hanno a disposizione non parlano di certe cose e ripropongono la solita sbobba identica a se stessa da almeno 60 anni. Sì, ci abbiamo appiccicato a forza qualche capitolo sulla storia delle donne, dei giovani o dell’ambiente (che nessun docente trova il tempo di spiegare e che sono posti senza alcun legame con tutto il resto) ma la struttura resta quella di sempre, nella quale è possibile distinguere con chiarezza i suoi vari strati alluvionali: alla base il catechismo della “religione della Patria” con i suoi martiri (Menotti, Speri, Bandiera) e il suo glorioso cammino verso l’unità; poi il capitolo sulla Prima Guerra Mondiale per lo più di derivazione fascista; quindi la grande cupola dell’insegnamento crociano con il suo culto per l’analogia e il suo insopportabile moralismo, per cui il fine della storia è il giudizio morale (insomma, il voto in condotta a chi ci ha preceduto) e la sua totale insensibilità ai dati istituzionali ed economici; infine un po’ di catechismo antifascista.Beninteso: sono antifascista da sempre, non ritengo affatto che l’antifascismo sia un valore superato, ma non sopporto alcun tipo di catechismo. Si può capire che nel primo trentennio della Repubblica fosse necessario radicare la condanna del fascismo, ma vogliamo capire che la storia del fascismo va studiata in riferimento al tipo di modernità che si è costruita in questo paese? E che dopo il fascismo ci sono stati 70 anni di storia che sono bellamente ignorati dai nostri manuali? E senza che questo attenui di un etto la condanna del fascismo. L’antifascismo va benissimo, ma facciamolo vivere nel quadro del presente e non trasformiamolo in un polveroso museo di memorie. Insomma, è accettabile che il nostro insegnamento ignori cose come la decolonizzazione, la strategia della tensione, il Sessantotto, i mutamenti dell’ordine monetario, il crollo dell’Urss e dell’ordinamento bipolare, la trasformazione imperiale della presidenza americana, le rivoluzioni di Cina, Indonesia, Algeria, Vietnam, le guerre mediorientali, eccetera eccetera? Caro colleghi, ma in che secolo vivete?E non si tratta solo di recuperare il passato più recente, ma di leggere con altri occhi anche tutto il resto della storia alla luce dell’attuale ordinamento del mondo. Ad esempio, siamo sicuri che la storia degli Assiri, dei Babilonesi, dei Fenici sia così importante, mentre si trascurano del tutto le ben più importanti civiltà di India e Cina? Certo che la storia romana dobbiamo studiarla, ma è necessario beccarsi tutta la solfa delle dinastie gallo-romane, l’elenco completo delle battaglie di Cesare, gli imperatori più insignificanti, e non tentare una comparazione con le parallele vicende dell’India? Il medioevo va studiato, ma è così fondamentale dare tanto spazio alla lotta per le investiture, piuttosto che dare uno sguardo all’evoluzione dell’economia cinese a metà del XIV secolo, con il passaggio all’economia del riso e con il parallelo affermarsi del dispotismo asiatico? E, nella storia moderna, si potrebbe restringere un po’ il solito elenco di guerre e battaglie, ma dare più spazio alla nascita del diritto commerciale o al colbertismo. Quanto alla storia contemporanea, va bene che si parli della Shoà, ma non sarebbe più urgente e importante parlare del colonialismo e del suo residuo permanente? Magari ci riuscirebbe di capire meglio un fenomeno come il terrorismo jhadista.Tutto questo, però, presupporrebbe un corpo docente ben altrimenti formato. Anche l’istituzione del corso di laurea in storia è stato un vero disastro: nessun insegnamento di economia, diritto, scienza della politica, una infarinatura appena di sociologia, psicologia e antropologia e, in cambio, una valanga delle storie più minute e meno utili. Solito schema per le storie generali all’interno del solito eurocentrismo. Un marziano che scendesse sulla Terra e leggesse i nostri manuali di storia per farsi unìidea, capirebbe che l’unico protagonista della storia è sempre stato l’uomo bianco, salvo qualche rapida comparsata di qualche altro; che la storia umana ha seguito un unico cammino rettilineo, e che gli umani si sono sempre preoccupati solo dell’aspetto ideologico, dedicando di tanto in tanto qualche cenno di attenzione ai processi materiali. Cari colleghi, diciamolo, voi non fate storia, fate una noiosissima antiquaria. E non parliamo dell’aspetto metodologico: quanti docenti hanno idea di cosa sia la scienza della complessità o sarebbero spiegare cosa è un modello di simulazione e come funziona (anche un semplice wargame)? Quanti se la sentirebbero di accennare un approccio comparatistico? E quanti potrebbero provare una spiegazione dei processi storici in termini di psicoanalisi di massa? Lasciamo perdere.Già sento la risposta: «Dobbiamo rispettare i programmi ministeriali». Già, l’annosa piaga dei programmi ministeriali che mi fanno pensare che sia arrivato il momento di sbarazzarci della scuola statale (non ho detto della scuola pubblica, ma di quella statale): un modello organizzativo che ha avuto i suoi meriti ma che oggi, forse, è il caso di superare. In ogni caso, non mi è capitato di leggere di nessuna protesta dei docenti, dei loro sindacati, delle loro associazioni disciplinari contro i famigerati programmi ministeriali, pecoronescamente applicati. Tutto ciò premesso, come si fa a sostenere che l’attuale insegnamento della storia abbia una qualche utilità e possa riscuotere più di qualche sbadiglio dei ragazzi? Capisco la difesa più che della storia, degli impiegati statali incaricati di spiegare la “storia” da cui cercano “di tirare quattro paghe per il lesso”, ma se l’insegnamento della storia deve essere questo, forse è meglio che lo aboliamo del tutto. E forse i ragazzi odieranno di meno la storia e qualcuno inizierà a studiarla per proprio conto.(Aldo Giannuli, “Una modesta proposta sull’insegnamento della storia: aboliamolo. Lettera aperta ai colleghi storici”, dal blog di Giannuli del 30 ottobre 2018).Un po’ di giorni fa, le associazioni dei docenti di storia e l’Istituto Storico per la Storia della Resistenza hanno lanciato un grido di dolore contro la proposta di abolire la traccia di storia fra quelle degli esami di Stato, additando l’incultura di chi ha fatto l’infausta proposta ed hanno colto l’occasione per la solita geremiade sulle cattedre perse, della marginalizzazione delle ore di insegnamento della storia ridotte ad una sola negli istituti tecnici, eccetera. La commissione ministeriale che ha approvato questa riforma degli esami di Stato è certamente composta da allevatori di bestiame capitati non si sa come in quella posizione, non discuto. Ma bisogna riconoscere che qualche ragione ce l’hanno: è un fatto che nell’ultimo decennio (più o meno) la traccia è stata scelta solo dall’1% dei candidati. E la cosa, cari colleghi, non vi dà nessun sospetto? Se il 99% degli studenti scansa la traccia di storia, non dipenderà dal fatto che la storia gli è stata insegnata con i piedi? Non cominciamo con le solite scuse sulla vulgata corrente che marginalizza le materie umanistiche e disincentiva i giovani a studiare la storia, su quella trappola infernale che è Internet, eccetera eccetera; il punto è che i nostri docenti non riescono ad interessare i ragazzi alla materia in questione.
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Magaldi: coraggio, e l’Italia non sarà più preda di stranieri
Vietato farsi intimorire dagli spaventapasseri a guardia del bunker europeo, ormai assediato da più parti: un po’ di fegato, e gli ometti del racket finanziario smetteranno di abbaiare. Juncker, Dombrovkis, Moscovici, Oettinger: «I frontman di queste istituzioni europee sono personaggi molto friabili e molto deboli: per fronteggiarli basta avere un po’ di forza, un po’ di dignità e un po’ di schiena diritta». Gioele Magaldi incoraggia il governo Conte: non si lasci intimidire dalle minacce di questi personaggi, peraltro «in scadenza», e per giunta di caratura modesta: «Non è che abbiano grande autorevolezza e prestigio per potersi imporre». Insiste, il presidente del Movimento Roosevelt: «Bisogna rompere il loro paradigma: occorre avere un po’ di coraggio, e poi si scopre, come nella vicenda del Mago di Oz, che la grande magia in realtà è fatta di cartapesta». Soltanto illusionismo, «giocato più sulla paura di chi è soggetto al timore di questa magia che non sulla forza reale di chi, questa magia, la costruisce». Forza e coraggio, dunque, di fronte ai ventilati sfracelli finanziari per il deficit al 2,4%, peraltro già smentiti da Standard & Poor’s, segno di «probabili ripensamenti in corso» nella cabina di regia del potere neoliberista, non più così granitico. «Si tratta di restare sereni e tranquilli», visto che in palio c’è l’Italia: finora, il nostro paese è stato regolarmente depredato, in modo programmatico. Ecco il punto: questo film deve finire.«Bisogna abbandonare lo stile consueto dell’Italia», sottolinea Magaldi nella diretta web-streaming “Magaldi Racconta”, su YouTube, con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «L’Italia – dichiara Magaldi – ha ricevuto un ruolo: quello di essere una preda, pur essendo un paese forte e importante sul piano politico ed economico». Una preda: bottino da saccheggiare. Temi e rivelazioni che lo stesso Magaldi, massone progressista, ha concentrato nel bestseller “Massoni” (Chiarelettere), che svela ad esempio il ruolo della P2 di Gelli come terminale locale della potente superloggia sovranazionale “Three Eyes”, espressione della supermassoneria neo-feudale più reazionaria, incubatrice della globalizzazione universale fondata sulle privatizzazioni, sulla confisca dei diritti democratici e sulla precarizzazione del lavoro. L’Italia? Azzoppata dalla strategia della tensione affidata a operatori come Gladio, poi assaltata con la tabula rasa di Tangentopoli che aprì la strada al superpotere eurocratico. Risultato: declino industriale e svendita dei gioielli di famiglia. «La verità è che è stato disegnato per l’Italia un ruolo subalterno. Nessun altro grande paese sarebbe mai stato trattato così, e questo – aggiunge Magaldi – è stato fatto con la complicità delle classi dirigenti, centrodestra e centrosinistra, di questi ultimi decenni».Adesso, ribadisce il presidente del Movimento Roosevelt, «si tratta di cambiare passo». E naturalmente, aggiunge, «i media e tutta la filiera di cortigiani politici e burocratici continuano a muoversi come se l’Italia fosse ancora un’espressione geografica, più che un’entità statuale democratica e repubblicana, dotata di una sua dignità». Ringhia, l’establishment spiazzato dal governo gialloverde: «Tutti quelli che sono abituati a fare i proconsoli di poteri apolidi e predatori masticano amaro, e tutti i giorni propinano a reti unificate questa canzone stonata sull’Italia, sul governo populista e cialtrone che non vuole rispettare i patti. Ma è una menzogna: i patti verso la democrazia e verso la dignità del popolo – scandisce Magaldi – li hanno violati quelli che hanno spacciato questa pessima costruzione europea per il grande sogno di Altiero Spinelli e di altri illustri europeisti, da Victor Hugo a Mazzini e Garibaldi». Loro, gli usurpatori dell’ipotesi-Europa (in realtà mai nata), oggi prendono nota: persino le grandi testate, ovvero «il mondo finanziario che conta», iniziano a fare dei distinguo, sull’Italia. Dicono: ma chi l’ha detto che questa manovra è inaccettabile? Chi l’ha detto che quelle del governo Conte sono le proposte di una “cicala” che vuole mettere in crisi il risparmio, la tenuta dei conti, il futuro delle nuove generazioni?«E’ un segnale importante – rileva Magaldi – il fatto che queste voci inizino a venire da mondi che si sono troppo spesso allineati al coro globale, intonato al contenimento e quindi anche alla devastazione dell’economia italiana». Wall Street non è unanime nel suo giudizio sull’Italia, il governo Usa si mostra indulgente verso Conte, lo stesso Steve Mnuchin (il ministro del Tesoro di Trump) dichiara che la strada del “deficit spending” è la via maestra, intrapresa anche dagli States. Cattive notizie, insomma, per gli euro-tecnocrati che vorrebbero spegnere sul nascere il timido tentativo dei gialloverdi, la loro piccola insubordinazione sul rigore di bilancio. Peccato, aggiunge Magaldi, che Lega e 5 Stelle si limitino al piccolo cabotaggio sul deficit, rinunciando a fare da battistrada – come Italia – nel chiedere una drastica riforma dell’Unione, basata sulla richiesta di una vera Costituzione Europea, finalmente democratica. Non mancano gli ultra-pessimisti, che ritengono irriformabile l’Ue: «Sono frange comunque minoritarie, a livello di consenso: la maggioranza dei cittadini è delusa dal modo in cui l’Unione è gestita, ma certo resta favorevole all’idea di una integrazione europea». E quelli che vorrebbero farla finita, con Bruxelles? «Secondo me sbagliano, magari in buona fede», dice Magaldi: «Senza accorgersene, fanno il gioco degli avversari: gli uni dicono che l’Ue non può cambiare, gli altri sostengono che non deve cambiare. Risultato: ragionando così, niente cambierà».Magaldi propone un altro approccio: «Andiamo oltre la moderazione del governo Conte, in questa fase». Lo dice «agli amici del governo, alla maggioranza gialloverde» che nel futuro prossimo, alle europee e poi in Italia, dovrà affrontare un quadro politico mutevole. «Io dico: facciamo partire dall’Italia una radicale trasformazione del progetto europeo. Cioè: andiamo verso una Costituzione politica, a fondamento dello stare insieme in Europa. E’ un dogma di fede, l’irriformabilità di un’Unione nata male? Sembra speculare al dogma del potere, che oggi ci ripete che non si può cambiare nulla». L’Europa, Magaldi la ritiene «riformabilissima», gettando a mare «lo spirito compromesso con cui è stata costruita questa Ue, economicistica e tecnocratica». Storia: «I padri di questa costruzione post-democratica sono Jean Monnet e Richard Coudenhove-Kalergi. Monnet era un ex massone progressista, Kalergi un uomo ambivalente che prima ancora della Seconda Guerra Mondiale aveva radunato attorno al progetto paneuropeo personalità anche progressiste, non chiarendo però quale fosse la sua idea di Europa». E poi invece, di concerto con Monnet, proprio Kalergi «ideò e diede avvio a un progetto neo-feudale, quasi una sorta di nuovo Sacro Romano Impero».Un dominio pre-democratico, «dove il potere imperiale fosse nelle mani di alcune oligarchie apolidi, coi loro terminali (come vassalli e valvassori) incarnati in burocrati chiamati a occupare posti non elettivi di gestione della governance». E tutto, a partire dalla costituzione della Ceca (la comunità dell’acciaio e del carbone) è stato svolto in modo unilaterare, economicistico. Spinelli e gli europeisti, invece, volevano «qualcosa di armonioso, da costruire insieme ai cittadini, non al di sopra dei cittadini». Una Costituzione da scrivere insieme, «coinvolgendo la popolazione in consultazioni e referendum su ciascuno degli articoli». Di Costituzione Europea si era parlato ma poi non si è fatto nulla: «Ci sono solo dei trattati, in quella che è una posticcia costruzione continentale dove, mai come adesso, le nazioni sono una contro l’altra armate. E’ veramente una gabbia, dis-utile per l’interesse popolare ma utile per gli oligarchi globali». Rinunciare all’Europa e distruggere tutto per tornare alle nazioni? Falso problema, secondo Magadi: «Che sia globale, europea, nazionale, regionale o locale, la governance non cambia se il paradigma che la ispira non è democratico». Un esempio? I nostri Comuni: «Sono strangolati dal Patto di Stabilità, voluto in sede europea ma discendente da una visione neoliberista che pervade tutte le istituzioni politiche e economiche internazionali più importanti».Proprio il Patto di Stabilità «strangola le possibilità di intervento dei Comuni su un livello che è quello locale». In un mondo «ormai globalizzato perché interconnesso», si può scegliere «che tipo di globalizzazione si vuole». Disconettersi? Impossibile: le economie sono collegate, ogni decisione ha ripercussioni ovunque. «Puoi scegliere però come governarle, queste dinamiche: in nome della finanza e dei mercati, dell’interesse dei pochi a scapito dei moltissimi, oppure con un metodo finalmente democratico». Perché preoccuparsi se la governance è europea, italiana, regionale o cittadina? «Preoccupiamoci che a tutti i livelli vi sia una metodologia democratica», ovvero «che vi sia la primazia della politica sull’economia e sulla finanza, e la primazia della sovranità del popolo su qualunque altra forma di sovranità o di potere privato». Quel che conta, chiosa Magaldi, è che comunque il governo gialloverde abbia almeno manifestato la volontà di invertire la rotta suicida e autolesionistica degli ultimi decenni. Un possibile inizio, si spera, per cominciare a imporre la percezione di un’altra Italia, non più terra di conquista e facile preda, grazie alla complicità del vecchio establishment “collaborazionista”, al servizio di potentati economici stranieri.Vietato farsi intimorire dagli spaventapasseri a guardia dell’euro-bunker, ormai assediato da più parti: un po’ di fegato, e gli ometti del racket finanziario smetteranno di abbaiare. Juncker, Dombrovkis, Moscovici, Oettinger: «I frontman di queste istituzioni europee sono personaggi molto friabili e molto deboli: per fronteggiarli basta avere un po’ di forza, un po’ di dignità e un po’ di schiena diritta». Gioele Magaldi incoraggia il governo Conte: non si lasci intimidire dalle minacce di questi personaggi, peraltro «in scadenza», e per giunta di caratura modesta: «Non è che abbiano grande autorevolezza e prestigio per potersi imporre». Insiste, il presidente del Movimento Roosevelt: «Bisogna rompere il loro paradigma: occorre avere un po’ di coraggio, e poi si scopre, come nella vicenda del Mago di Oz, che la grande magia in realtà è fatta di cartapesta». Soltanto illusionismo, «giocato più sulla paura di chi è soggetto al timore di questa magia che non sulla forza reale di chi, questa magia, la costruisce». Forza e coraggio, dunque, di fronte ai ventilati sfracelli finanziari per il deficit al 2,4%, peraltro già smentiti da Standard & Poor’s, segno di «probabili ripensamenti in corso» nella cabina di regia del potere neoliberista, non più così granitico. «Si tratta di restare sereni e tranquilli», visto che in palio c’è l’Italia: finora, il nostro paese è stato regolarmente depredato, in modo programmatico. Ecco il punto: questo film deve finire.
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L’Italia vera e quella (indecente) di Moody’s e Cottarelli
Ci sarebbe da ridere, non fosse per i brutti ceffi in circolazione e le loro cattive intenzioni verso il sistema-Italia, ancora solido nonostante l’impegno che gli eurocrati hanno profuso per azzopparlo. Prima comica: azzannano il timido governo gialloverde, che si è limitato al 2,4% di deficit (contro il 3% ammesso da Maastricht), neanche fosse un esecutivo rivoluzionario. Seconda comica: gli stregoni di Moody’s declassano l’Italia, regina del risparmio europeo, in combutta coi loro azionisti bancari, che speculeranno sul ribasso del rating. Terza comica: a strapparsi i capelli sono l’infimo Martina, candidato a guidare il Pd verso l’estinzione, e Antonio Tajani, «decadente e grottesco presidente del Parlamento Europeo, figura modestissima e nuovo frontman di Berlusconi per le prossime europee, anche lui impegnato a spiegarci che andiamo verso la rovina». A mettersi le mani nei capelli semmai, è Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt: costretto a vedere la televisione di Stato che strapaga l’oligarca Cottarelli perché ripeta, nel salotto di Fazio, che la visione economica del mondo è una sola: la sua. Il primo a denunciare «la presa per i fondelli a spese degli italiani» è stato Gianluigi Paragone: non è curioso che a spillare quattrini alla Rai sia proprio Cottarelli, cioè il massimo censore della spesa pubblica? «Quello sarebbe il primo spreco da tagliare», dice Magaldi, in web-streaming su YouTube.Stiamo vivendo agitazioni surreali, esordisce l’autore del bestseller “Massoni”, in collegamento con Fabio Frabetti di “Border Nights”. La storia delle “manine” che secondo Di Maio avrebbero manipolato il decreto fiscale? «Fa un po’ ridere i polli», così come il proditorio declassamento di Moody’s. «Siamo alla farsa finale: il sistema è talmente in crisi, e anche tremebondo, che mette in atto meccanismi spudorati, e quindi anche facilmente smascherabili». Le agenzie di rating? Non sono imparziali: «Sono aziende che perseguono profitto in pieno conflitto d’interessi, perché i loro azionisti hanno interessi di tipo speculativo e possono trarre vantaggio proprio dai declassamenti delle agenzie di cui detengono i pacchetti azionari. Possono cioè trarre profitto da quello che le agenzie di rating promettono o minacciano, e dal panico che il giudizio di queste agenzie può indurre». Questo, aggiunge Magaldi, è un sistema malato, al quale Moody’s dà un ulteriore colpo. «Da un lato la Bce non fa il suo mestiere di banca centrale e non garantisce il debito in titoli di Stato dell’Italia, come dovrebbe, per mantenere basso il famigerato spread. Dall’altro, le sedicenti istituzioni europee mandano i “pizzini” e disapprovano la manovra del governo, mostrando il loro cipiglio».Poi ci sono i pupazzi del teatrino italiano – i Martina, i Tajani – che suonano l’allarme. E quali sarebbero queste grandi e radicali manovre del governo Conte, che tanto preoccupano costoro? L’aver ipotizzato qualche spesa per lenire le condizioni di indigenza, senza neppure istituire un vero reddito di cittadinanza? Qualche spesa per migliorare la situazione fiscale? «Tutte cose che noi del Movimento Roosevelt salutiamo come un inizio, l’aurora di un possibile nuovo scenario, ma siamo sicuramente al di sotto delle proclamazioni solenni degli uni e degli altri», chiarisce Magaldi. «Dal punto di vista del governo c’è poco da strombazzare un New Deal, che non è ancora iniziato. Per contro, chi contesta il fatto che queste misure portino al 2,4% del rappoto deficit-Pil, ripete che, per questo motivo, il governo italiano andrebbe ricondotto alla ragione a forza di bastonate – attraverso le agenzie di rating, le dichiarazioni dei tecnocrati europei e le giaculatorie di questi personaggi decadenti del centrodestra e del centrosinistra. Mi sembra un teatro dell’assurdo, perché purtroppo non abbiamo ancora un governo che dichiari chiaramente di voler mettere in discussione, in quanto infondati scientificamente, i parametri di Maastricht, nei quali peraltro l’Italia rientra perfettamente».Perché non si ragiona mai sulla vera natura del debito pubblico, come ha fatto recentemente Guido Grossi anche su “ByoBlu”? Ci sono economisti, intellettuali e politici che offrono soluzioni concrete, già oggi, per gestire il debito pubblico così com’è. Ma poi, bisognerebbe inquadrare il debito per quello che è, ovvero «un elemento di economia spiegato male e utilizzato in modo improprio». Ma il governo gialloverde non ha messo seriamente in discussione i parametri di Maastricht, sul piano economico. E su quello politico, continua a giurare che non è vero, che vorrebbe “uscire dall’Europa”. «Ma il problema non è questo: bisognerebbe dire, invece, che in Europa non ci siamo mai entrati», sottolinea Magaldi. «Il governo dovrebbe dire: vogliamo una Costituzione Europea, politica». Di Maio, Salvini, Savona e gli altri insistono nel dire di voler restare nell’Eurozona, non mettendo in discussione neppure la valuta euro? «Bene, ma come vogliamo starci? Vogliamo restare in quest’Europa così com’è? In questa strana struttura sovranazionale senza Costituzione, senza meccanismi democratici e senza una vera partecipazione popolare alle decisioni più importanti?».Se finalmente il governo parlasse chiaro, pretendendo un’Europa democratica, allora sì che si potrebbe capire, «l’alzata di scudi da parte dei veri nemici del progetto dell’Europa unita, cioè quelli che oggi occupano indebitamente le maggiori poltrone delle istituzioni sedicenti europee». Se Lega e 5 Stelle dicessero che vogliono una Costituzione Europea, il loro «sarebbe un attacco al cuore del sistema, per renderlo più democratico». Vorrebbe dire «ridiscutere il concetto stesso di deficit, di debito pubblico, e “sforare” con percentuali ben più importanti, ma con spese in investimenti». Gli oppositori lo dicono in malafede, ma hanno ragione: nella manovra gialloverde non ci sono grandi spese in investimenti. «Ma lo si può capire: è solo l’inizio, al governo bisogna dare credito e fiducia, perché l’esecutivo Conte, quantomeno, sta cercando di fare qualcosina, laddove negli ultimi 25 anni non si è fatto nulla – o meglio, si è agito solo contro l’interesse del popolo italiano». Mancano investimenti adeguati, certo, come si è visto dopo il disastro di Genova. Ma il governo gialloverde è a metà strada fra il Paolo Savona che in Senato si appella al New Deal e il ministro Tria (scelta di ripiego, imposta dal Quirinale) che «non sa deve dar retta a Visco, a Draghi, a Mattarella, oppurre alla maggioranza che sostiene il governo di cui lui è parte».Per Magaldi «siamo, di nuovo, alla commedia dell’assurdo: si parla del nulla, il discorso politico è surreale». Quello economico, invece, è aggravato dal clamoroso declassamento di Moody’s, totalmente infondato: «L’Italia ha un grandissimo risparmio privato e ha dei “fondamentali” di economia eccellenti. L’Italia è un paese ricco, sotto molti aspetti: in Nord Europa ci sono paesi con i conti pubblici in apparenza migliori dei nostri, ma con un indebitamento privato molto più grave, quindi sono in una situazione più fragile». Perciò non si capisce (o meglio, si capisce anche troppo bene) perché Moody’s vada a declassare l’Italia. L’economista Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, suggerisce di creare un’agenzia di rating di respiro europeo, che – partendo dall’Italia – guardi le cose con occhi diversi, e valuti quindi la solidità di entità pubbliche e private con altri parametri. Mossa indispensabile, conferma Magaldi, «per evitare di essere ricattati da masnadieri in costante conflitto d’interessi». E dall’altro, aggiunge, bisogna creare un’agenzia che si preoccupi di valutare il sistema economico-sociale in base all’effettiva qualità della vita, oltre il semplice Pil.Lo disse Bob Kennedy già nel 1968, «pagando con la vita il suo tentativo di rappresentare la speranza di un’evoluzione diversa dell’Occidente e del mondo». Il Pil non può essere l’unico metro di misura delle nostre vite. Anche dal punto di vista meramente economico, aggiunge Magaldi, il solo Pil non funziona: «Questi numeri non raccontano davvero la prosperità e la ricchezza dell’Italia, pur con tutti i suoi limiti e tutta la decadenza che in questi anni è stata rovesciata sul nostro sistema. Si è tentato di deindustrializzarlo e impoverirlo, ma non ci si è riusciti: perché l’Italia è un grande paese, con capacità industriali e commerciali, grande attitudine al risparmio privato». L’Italia non può essere impunemente declassata, come giustamente rilevato dalla stessa magistratura di Trani, intervenuta in passato contro alcune agenzie di rating, in occasione del famigerato “golpe bianco” attuato con l’avvento del governo Monti: «Forse, oggi – ipotizza Magaldi – proprio la magistratura dovrebbe rimettersi in moto, analizzando le molte opacità di questo giudizio di Moody’s».Quanto al presunto sabotaggio del documento fiscale indicato da Di Maio, secondo Magaldi si può parlare anche di “manine” «ascrivibili a filiere massoniche neo-aristocratiche, e perciò contro-iniziatiche, come quelle che hanno demonizzato Rocco Casalino», scelto dai 5 Stelle come portavoce del premier. Volevano incastrarlo con il celebre fuori-onda nel quale prometteva sfracelli contro i sabotatori nascosti nei ministeri? «Intanto è riuscito nell’intento di denunciare i tecnici del ministero dell’economia che “remano contro”, e il fenomeno non riguarda certo solo quel dicastero». Se in Italia ci fossero ancora veri giornalisti, dice Magaldi, una bella inchiesta svelerebbe che nei ministeri e negli apparati burocratici circolano da decenni sempre le stesse persone: si ritiene abbiano competenze imprescindibili, galleggiano da un governo all’altro (centrodestra o centrosinistra non importa) e si sono riciclati anche con questo governo gialloverde. «Credo sia giunto il momento di un bel cambio: non è vero che questi siano professionisti insostituibili, credo occorra puntare su una rigenerazione della scuola della pubblica amministrazione, anche nell’individuazione di nuovi parametri».L’orizzonte è vasto: «Dobbiamo cambiare i termini di insegnamento dell’economia e della finanza, che in questi decenni hanno creato dei mostri», sostiene Magaldi. Spesso, «quelli che hanno studiato economia l’hanno fatto come asini, istruiti da altri asini, grazie a qualche “padrone degli asini” che, a monte, scientemente, ha voluto questa “asinità” diffusa». Seriamente: «L’economia dovrebbe essere un sapere critico, dialogico, scientifico e perciò aperto al confronto critico, e invece è stata insegnata come una sorta di catechismo, con dei principi di fede da seguire». Non mancano le ribellioni anche famose, contro il “lavaggio del cervello” subito in università anche prestigiose: lo conferma un caso come quello dell’economista Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta”, mostrando (dal di dentro) tutte le storture della narrazione economica neoliberista. «Discorso che vale anche per capi di gabinetto, dirigenti e consulenti: una casta di mandarini riciclati e inamovibili, che obbediscono a chi – come loro – abita stanze del potere non sottoposte al vaglio delle elezioni». Ha ragione Casalino: c’è da fare un bel repulisti. «E a proposito: non scordiamo quello che abbiamo appreso su Carlo Cottarelli, personaggio appartenente ai peggiori circuiti della contro-iniziazione massonica neo-aristocratica».Cottarelli viene dal Fmi, potente istituito che ha contribuito alla catastrofe della Grecia. Come giustamente fatto notare da Gianluigi Paragone, proprio Cottarelli incarna un madornale paradosso: «Un signore che da anni invoca “spending review”, revisione della spesa e grandi tagli, oggi per le sue comparsate televisive (dove sciorina le sue personalissime idee, intonate all’austerity montiana più becera) è strapagato con moltissimo denaro pubblico. Sono cose vergognose». Spreco di denaro pubblico, insiste Magaldi, è riempire di soldi il neoliberista Cottarelli per parlare per 40 minuti, senza un regolare contraddittorio con un economista post-keynesiano: giornalismo (e servizio pubblico) imporrebbero di ascoltare due voci distinte e contrapposte, peraltro non remunerate, ma presenti in televisione a titolo gratuito. «Ci sono personaggi italiani che avrebbero tante cose da dire, e che non vengono mai interpellati, dai media. E gli altri, che hanno tutto lo spazio per dire la loro, sono pure strapagati. Anche questo fa parte del teatro dell’assurdo che stiamo vivendo: il nostro è un paese che ha perso il senso del ridicolo. Ecco perché dobbiamo lavorare, tutti, per far ritrovare il senso della decenza».La realtà, aggiunge Magaldi, è che va ripensato l’intero sistema, partendo proprio dall’economia. «Forse è arrivato il momento storico in cui si può immaginare l’emissione di una moneta non “a debito”, cioè non ottenuta attraverso l’oferta di titoli di Stato. Forse dobbiamo pensare anche a monete complementari. Soprattutto: come di tutte le cose, in una società aperta, democratica e pluralistica, dobbiamo immaginare di poter parlare laicamente anche della moneta e dell’economia». Non è possibile, aggiunge Magaldi, che l’economia sia diventata una fede, «con sacerdoti che comminano scomuniche, lanciano anatemi e condannano al rogo». E’ inaccettabile l’impossibilità di essere eretici: anche perché «il mondo contemporaneo, scientifico e progressista, liberale, che tanti accigliati difensori vorrebbero difendere dalla “barbarie” dei populisti, è un mondo libero, democratico e pluralista fondato proprio sul libero confronto tra le diverse posizioni». E invece oggi «abbiamo questa surreale situazione, per cui da un lato si denunciano le pulsioni autoritarie, xenofobe, razziste e fascistoidi dei populisti, dei barbari che assaltano l’Olimpo della democrazia italiana, della convivenza pacifica tra le nazioni garantita dalle isitituzioni europee, e dall’altro questi signori sono fideisti, devoti a visioni monolitiche e indiscutibili».Non ammettono, gli oligarchi, che le loro convinzioni siano sottoposte alla discussione pubblica, «come non fu ammesso alla discussione il grande tema dell’introduzione del pareggio di bilancio nella Costituzione», che ha consentito a Mattarella di “difendere” una Carta costituzionale gravemente lesionata, rispetto al dettato democratico del 1948. Sul fronte opposto, intanto, il leghista Giancarlo Giorgetti sostiene che il futuro sia del sovranismo populista? «Sbaglia, Giorgetti, se l’ha detto davvero, perché questo – replica Magaldi – consente agli avversari di spacciare per reale il presunto assalto alla democrazia, alle istituzioni liberali, all’equilibrio faticosamente raggiunto da una società avanzata». Molto meglio «stanare gli autori di questa immensa ipocrisia: qui non è questione di sovranismo o di populismo, qui è questione di sovranità del popolo, di democrazia sostanziale». Per il presidente del Movimento Roosevelt «bisogna che sia chiaro c’è una incongruenza grande come una casa, nell’atteggiamento dell’Europa che guarda all’Italia in modo arcigno: da un lato si rivendica la difesa della tenuta democratica di fronte all’assalto populista xenofobo, e dall’altro al popolo bue (trattato in modo veramente demagogico e manipolatorio) si propinano delle fedi, cioè l’esatto contrario di ciò che ha costruito le democrazie».I moderni regimi democratici, aggiunge Magaldi, con l’occhio dello storico, sono stati edificati «con metodo massonico, dunque progressista», basandosi cioè «sul dubbio critico e sulla messa in discussione dei dogmi». Uno su tutti: il dogma per il quale «il potere venisse da Dio e fosse amministrato da monarchi, da aristocrazie laiche per diritto di sangue e da aristocrazie ecclesiastiche per diritto d’ispirazione divina». Questi dogmi, sottolinea Magadi, hanno regnato per secoli: «E con questi dogmi, per secoli, i molti hanno asservito i pochi». Quello massonico, continua Magaldi, è stato un metodo di liberazione, di democrazia e di parlamentarizzazione della vita politica: «Ha creato quelle Costituzioni di cui avremmo bisogno in Europa, dove invece è stato istituito un sistema neo-feudale, non c’è Costituzione: ci sono altrettanti vassalli, valvassori, valvassini e cavalieri, che difendono una sorta di impero collegiale, oggi in mano a oligarchie apolidi e sovranazionali, le quali trattano il popolo come una massa di neo-sudditi». Queste cose bisogna pur iniziale a discuterle: «Io andrei volentieri a spiegarle in televisione, ovviamente gratis, insieme a tanti altri: non ho verità in tasca – precisa Magaldi – ma vorrei che ci fosse un confronto critico tra diverse visioni del mondo». Invece paghiamo, profumatamente, Cottarelli e soci: «Sacerdoti, che ci vengono a fare le loro prediche». E hanno a disposizione tutti i pulpiti, «offerti dai pennivendoli di regime, davvero spregevoli alla vista e all’udito, che infestano i media mainstream di questo paese».Ci sarebbe da ridere, non fosse per i brutti ceffi in circolazione e le loro cattive intenzioni verso il sistema-Italia, ancora solido nonostante l’impegno che gli eurocrati hanno profuso per azzopparlo. Prima comica: azzannano il timido governo gialloverde, che si è limitato al 2,4% di deficit (contro il 3% ammesso da Maastricht), neanche fosse un esecutivo rivoluzionario. Seconda comica: gli stregoni di Moody’s declassano l’Italia, regina del risparmio europeo, in combutta coi loro azionisti bancari, che speculeranno sul ribasso del rating. Terza comica: a strapparsi i capelli sono l’infimo Martina, candidato a guidare il Pd verso l’estinzione, e Antonio Tajani, «decadente e grottesco presidente del Parlamento Europeo, figura modestissima e nuovo frontman di Berlusconi per le prossime europee, anche lui impegnato a spiegarci che andiamo verso la rovina». A mettersi le mani nei capelli, semmai, è Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt: costretto a vedere la televisione di Stato che strapaga l’oligarca Cottarelli perché ripeta, nel salotto di Fazio, che la visione economica del mondo è una sola: la sua. Il primo a denunciare «la presa per i fondelli a spese degli italiani» è stato Gianluigi Paragone: non è curioso che a spillare quattrini alla Rai sia proprio Cottarelli, cioè il massimo censore della spesa pubblica? «Quello sarebbe il primo spreco da tagliare», dice Magaldi, in web-streaming su YouTube.
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I periodi di unipolarità? Sono sempre durati solo un attimo
Ai dirigenti, ai politici, agli opinion leader e agli ‘esperti’ americani piace parlare del “momento di unipolarità” e della posizione di “iper-potenza” di cui, nella loro immaginazione, godrebbero nel mondo gli Stati Uniti. Da questa fantasia vengono completamente esclusi tutti i fatti storici ad essa poco convenienti. Il momento unipolare degli Stati Uniti (ammesso e concesso che sia mai esistito) è durato meno di un decennio, dal disfacimento dell’Unione Sovietica, alla fine del 1991, al 15 giugno 2001. Il “momento” degli Stati Uniti è riuscito a malapena ad arrivare alle soglie del 21° secolo. In quel fatidico 15 giugno 2001 si erano verificati due eventi di grande importanza. Primo, il presidente americano George W. Bush aveva tenuto un discorso a Varsavia in cui dichiarava che l’obbiettivo strategico più importante degli Stati Uniti era l’integrazione nella Nato dei tre staterelli baltici, Estonia, Lettonia e Lituania. Nello stesso giorno, Russia e Cina davano vita, insieme ad altre quattro nazioni dell’Asia Centrale, allo Sco, l’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai, la più popolosa e potente organizzazione per la sicurezza internazionale della storia. Quest’anno, lo Sco ha raddoppiato la sua popolazione grazie all’ingresso, in contemporanea, di India e Pakistan, due grandi potenze nucleari con una popolazione complessiva di 3 miliardi di persone, quasi il 40% della razza umana.Con la creazione dello Sco, destinato fin dalle origini a preservare e a proteggere un mondo multipolare dalla dominazione di un’unica potenza, il momento unipolare degli Stati Uniti si è ritrovato morto e sepolto. Questo dato di fatto era stato confermato tre mesi dopo, quando l’attacco terroristico di Al-Qaeda dell’11 settembre 2001 aveva causato la morte di circa 3000 persone. Quel giorno erano morti più americani che durante l’attacco giapponese a Pearl Harbor, nel 1941. George W. Bush avrebbe dovuto essere messo sotto impeachment per la sua grande incapacità. Invece la sua popolarità era salita alle stelle. Pensando che il momento (o l’era) unipolare fosse ancora nel suo pieno splendore, alla fine di quell’anno aveva invaso l’Afghanistan e, meno di due anni dopo, l’Iraq. Gli Stati Uniti sono ancora perennemente impantanati in quelle guerre di cui non si vede la fine. Gli schemi della storia, completamente ignorati dai media, dalla casta degli opinion leader e dal mondo politico americano, questa lezione, invece, ce la insegnano di continuo. Negli ultimi 1500 anni si sono verificati diversi momenti unipolari per quelle grandi potenze che cercavano di dominare il mondo, ma tutte sono collassate nel giro di pochi anni.Quando la Spagna degli Asburgo e i suoi alleati ebbero definitivamente sconfitto la grande flotta del potente Impero Ottomano nella Battaglia di Lepanto, nel 1571, il dominio imperiale della Spagna su tutta l’Europa sembrava assicurato. Ma la Spagna era già invischiata in una rivolta olandese che era iniziata nel 1588. Nei decenni successivi (questa ribellione) si sarebbe rivelata più massacrante degli attuali interventi americani in Afghanistan e in Iraq. Il sogno della dominazione spagnola di Re Filippo II sarebbe stato definitivamente seppellito solo 17 anni dopo Lepanto, nel 1588, con la distruzione dell’Invincibile Armada, la flotta che avrebbe dovuto conquistare l’Inghilterra. Poi era stato il turno della Francia. Il suo dominio sull’Europa sembrava essere stato sancito dalla Pace di Vestfalia, nel 1648. Ma, fra il 1660 e il 1670, Luigi XIV, il re pazzo per la gloria, soprannominato “Re Sole” aveva già ripetuto l’errore della Spagna e aveva impantanato la nazione in una serie di guerre che sarebbero durate quasi mezzo secolo in quelli che ora sono Belgio, Olanda e Germania meridionale. Il momento unipolare della Francia era durato meno di vent’anni.Dopo erano arrivati gli inglesi. Anche dopo aver vinto le guerre napoleoniche contro la Francia, si erano resi conto di non poter dominare il mondo da soli ed erano stati costreti a dividerlo con le assai più conservatrici grandi monarchie d’Europa: la Russia, l’Impero Austro-Ungarico e la Prussia. Nel 1848, i re di Francia, dell’Impero Austro-Ungarico e della Prussia avevano perso molti dei loro poteri o erano stati detronizzati da rivoluzioni popolari e liberali. A quel punto, gli inglesi avevano pensato, proprio come avevano fatto gli americani nel 1989-1991, che fosse finalmente arrivato il loro momento di unipolarità e che sarebbe durato per l’eternità. Il mondo intero avrebbe guardato a Londra per avere guida e saggezza. Non era andata così. Nel 1871, la Prussia, guidata dal suo Cancelliere di Ferro, Otto von Bismarck, aveva unificato la Germania, e sconfitto la Francia, alleata della Gran Bretagna, togliendo in modo umiliante all’Inghilterra ogni possibilità di potere e influenza sull’Europa continentale. Quando gli era stato chiesto che cosa avrebbe fatto se il minuscolo esercito inglese avesse per caso invaso la Germania del Nord, Bismarck aveva risposto che avrebbe mandato la polizia ad arrestarlo. Dopo la Sconfitta della Germania imperiale nella Prima Guerra Mondiale, alla Gran Bretagna era sembrato di poter godere di un altro momento di iper-potere.Gli Stati Uniti con il loro isolazionismo e l’Unione Sovietica [alle prese con i suoi problemi interni] si erano entrambi ritirati temporaneamente dalla scena mondiale. In ogni caso, questa fantasia britannica non era durata neanche fino all’ascesa di Hitler, nel 1933. Due anni prima, nel 1931, il Giappone imperiale aveva occupato la Manciuria, una grossa porzione dalla Cina nord-orientale: i capi militari inglesi erano stati costretti ad ammettere con il Primo Ministro, Ramsay MacDonald, che non c’era nulla che si potesse fare a riguardo. Il momento unipolare della Gran Bretagna era durato solo 12 anni, dal 1919 al 1931. Una volta capiti questi fatti storici, è facile rendersi conto del perché il momento unipolare degli Stati Uniti sia stato anche più breve di quello inglese del 20° secolo, meno di un decennio. Dal 2001 in poi, gli Stati Uniti si sono dissanguati e sfiniti, proprio come avevano fatto la Spagna degli Asburgo, la Francia borbonica e l’Inghilterra post-vittoriana in tentativi inutili, assurdi e ricoli per negare e cercare di opporsi agli inevitabili ricorsi della storia. Questo non dovrebbe sorprenderci, del resto Friedrich Hegel ci aveva avvertito: «L’unica cosa che impariamo dalla storia è che dalla storia non impariamo nulla».(Martin Sieff, “I periodi di unipolarità sono sempre durati solo un momento”, da “Strategic Culture” del 22 settembre 2018, tradotto da Markus per “Come Don Chisciotte”).Ai dirigenti, ai politici, agli opinion leader e agli ‘esperti’ americani piace parlare del “momento di unipolarità” e della posizione di “iper-potenza” di cui, nella loro immaginazione, godrebbero nel mondo gli Stati Uniti. Da questa fantasia vengono completamente esclusi tutti i fatti storici ad essa poco convenienti. Il momento unipolare degli Stati Uniti (ammesso e concesso che sia mai esistito) è durato meno di un decennio, dal disfacimento dell’Unione Sovietica, alla fine del 1991, al 15 giugno 2001. Il “momento” degli Stati Uniti è riuscito a malapena ad arrivare alle soglie del 21° secolo. In quel fatidico 15 giugno 2001 si erano verificati due eventi di grande importanza. Primo, il presidente americano George W. Bush aveva tenuto un discorso a Varsavia in cui dichiarava che l’obbiettivo strategico più importante degli Stati Uniti era l’integrazione nella Nato dei tre staterelli baltici, Estonia, Lettonia e Lituania. Nello stesso giorno, Russia e Cina davano vita, insieme ad altre quattro nazioni dell’Asia Centrale, allo Sco, l’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai, la più popolosa e potente organizzazione per la sicurezza internazionale della storia. Quest’anno, lo Sco ha raddoppiato la sua popolazione grazie all’ingresso, in contemporanea, di India e Pakistan, due grandi potenze nucleari con una popolazione complessiva di 3 miliardi di persone, quasi il 40% della razza umana.
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Io rossobruno come il Che, contro la sinistra delle banche
La premessa scontata è che il rossobrunismo è una bufala inventata dalla sinistra globalista e genuflessa al capitale finanziario, quella millantata sinistra che ha svenduto le ragioni dei lavoratori e dei ceti produttivi agli interessi dell’estremismo capitalista e della finanza speculativa, quella sinistra che ha colpevolmente confuso e incentivato a confondere l’inter-nazionalismo dei lavoratori con il cosmopolitismo del capitale, quella stessa sinistra incidentata e sinistrata che ha barattato i diritti reali delle persone con i diritti civili degli individui, la sinistra che oggi, con un pizzico di spudoratezza, manifesta contro un un governo certamente discutibile e contraddittorio anche se oggettivamente in discontinuità con i governi che lo hanno preceduto del corso della cosiddetta Seconda Repubblica. Ma codesta “sinistra” è dimentica di aver bollato come plebee e cialtrone le istanze legittime di ceti popolari che invocavano semplicemente lavoro e giustizia sociale, mentre i carrieristi a tinte rosse, pasdaran del pareggio di bilancio, accumulavano patrimoni e posizioni di privilegio, e, in ossequio agli ordini del capitale, condannavano alla miseria e alla nullità esistenziale intere generazioni.Ma andiamo al dunque, e al mio polemico riconoscermi nella definizione di revisionista rossobruno. Sono rossobruno perché lo fu Che Guevara, quando nel discorso all’Assemblea Generale dell’Onu dell’11 dicembre 1964 pronunciò il famoso motto “Patria o muerte!”. Pochi sinistroidi sono a conoscenza del fatto che la Rivoluzione Cubana (oggetto della mia tesi di laurea) fu innanzitutto una rivoluzione nazionale, patriottica e anti-imperialista, pur riconoscendo il contributo de Partito Comunista Cubano, e che Fidel Castro diventò comunista successivamente alla presa del potere. Sono rossobruno perché l’autodeterminazione dei popoli, ovvero il diritto di un popolo a decidere del proprio destino nella propria terra, è la premessa della sovranità popolare, a sua volta premessa per lo sviluppo di una prospettiva di una società socialista, di libertà ed uguaglianza sociale. Sono rossobruno perché sono un populista, e affermo il populismo come una opzione, alternativa ad altre populiste, unica per la costruzione del politico verso il socialismo. Populista fu Che Guevara quando scrisse: «La caduta di Peron mi tocca molto. Con lui l’Argentina svolgeva, per noi che localizziamo il nemico a nord, il ruolo di paladino del nostro pensiero». Populisti sono stati Chàvez, Evo Morales, Lula da Silva, e io mi dichiaro populista insieme a loro.Sono talmente rossobruno da considerare la Costituzione italiana del 1948 come il documento politico più evolutivo e ideologicamente pregnante di tutto il Novecento italiano, faro luminoso a indicare la rotta verso la democrazia e il socialismo, mentre i sinistri italiani agli ordini della finanza di Jp Morgan hanno provato a rottamarla. Sono rossobruno come lo fu Pier Paolo Pasolini, quando la sua geniale e profetica diffidenza gli fecero prendere le distanze dai sessantottini figli di papà schierandosi con i poliziotti proletari; anni dopo i ribelli dell’illimitatezza del desiderio diventarono classe dirigente nella sinistra e nel paese, contro il paese e gli interessi nazionali e popolari e a difesa del capitale globalizzato. Sono e resterò rossobruno fin quando gli imbecilli in pantofole, al riparo dei loro privilegi, non comprenderanno le ragioni di una richiesta di giustizia sociale e di riscossa nazionale che passa attraverso la definitiva sepoltura, nel nome del socialismo e della democrazia, della sinistra che ha tradito e della oligarchia finanziaria a cui essa è asservita.(Franz Altomare, “Sono un rossobruno”, dalla pagina Facebook di Altomare del 30 settembre 2018).La premessa scontata è che il rossobrunismo è una bufala inventata dalla sinistra globalista e genuflessa al capitale finanziario, quella millantata sinistra che ha svenduto le ragioni dei lavoratori e dei ceti produttivi agli interessi dell’estremismo capitalista e della finanza speculativa, quella sinistra che ha colpevolmente confuso e incentivato a confondere l’inter-nazionalismo dei lavoratori con il cosmopolitismo del capitale, quella stessa sinistra incidentata e sinistrata che ha barattato i diritti reali delle persone con i diritti civili degli individui, la sinistra che oggi, con un pizzico di spudoratezza, manifesta contro un governo certamente discutibile e contraddittorio anche se oggettivamente in discontinuità con i governi che lo hanno preceduto del corso della cosiddetta Seconda Repubblica. Ma codesta “sinistra” è dimentica di aver bollato come plebee e cialtrone le istanze legittime di ceti popolari che invocavano semplicemente lavoro e giustizia sociale, mentre i carrieristi a tinte rosse, pasdaran del pareggio di bilancio, accumulavano patrimoni e posizioni di privilegio, e, in ossequio agli ordini del capitale, condannavano alla miseria e alla nullità esistenziale intere generazioni.
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Foa in Rai: che succede quando un eretico sale al potere?
Che succede, quando il mondo si capovolge e un eretico sale al potere? In Italia, di solito, se un outsider assoluto conquista una poltrona significa che non è più un vero outsider, perché l’establishment se l’è già “comprato”: intende usarlo per drenare il dissenso, facendo sfogare in modo innocuo e illusorio il malcontento di cui era stato la voce. I posti di comando, in genere, sono pieni di ex rivoluzionari ben remunerati, arruolati per la peggiore delle missioni: rinnegare di fatto la propria storia, i propri ideali, e riallineare il pubblico alla “voce del padrone”, utilizzando il prestigio di quella che, un tempo, era stata una voce diversa, apprezzata proprio perché libera e indipendente, e quindi scomoda. Solo in casi rarissimi un vero eretico può raggiungere il ponte di comando rimanendo se stesso. Come accorgersene? Semplice: basta vedere che tipo di accoglienza gli viene riservata. Ed è il caso della nomina di Marcello Foa, nuovo presidente della Rai: i grandi media, in coro, lo accolgono nella migliore delle ipotesi con freddezza, come se si trattasse di un intruso molesto e sgradevole, un oscuro alieno anziché un illustre collega, mentre le macerie della vecchia politica – rottamata dagli italiani il 4 marzo 2018 – descrivono il neo-eletto come una specie di teppista, di impudente cialtrone. In questo, ricordano da vicino il sovrano disprezzo che i dittatori mostrano sempre per il loro popolo in rivolta, un minuto prima di essere defenestrati dalla storia.C’è qualcosa di meta-politico, di profondamente eversivo, nella sola idea di aver pensato a un cavaliere solitario e coltissimo come Foa, giornalista di razza e gentiluomo, per la presidenza della televisione di Stato, vera e propria fabbrica del consenso, per decenni affidata il più delle volte a mani servili e mediocri. È antropologicamente eversiva, la figura del liberale Foa al vertice della Rai: è il bambino che non può fare a meno di svelare l’imbarazzante nudità del sovrano, del monarca che si gloria nel celebrare una pace apparente, mentre intorno infuria la peggiore delle guerre. La guerriglia di oggi, nella quale Marcello Foa si trova coinvolto – dopo aver dato la sua avventurosa disponibilità a quell’ipotesi democratica chiamata “governo gialloverde” – non è un conflitto come quelli che l’hanno preceduto: è un sordido massacro quotidiano perpetrato ovunque, senza frontiere, senza più neppure le bandiere di un tempo. È una guerra orwelliana, affidata a mercenari. Navi corsare, che combattono (per lo più in incognito) per conto di padroni potentissimi, protetti dall’anonimato. Non c’è più neppure il triste onore della battaglia: si viene sopraffatti in modo subdolo, sistematicamente sommersi da menzogne spacciate per verità di fede, che il sistema mediatico non si cura più di verificare. Ed è proprio per questo che l’attuale sistema mediatico italiano detesta, e teme, Marcello Foa.Ascoltando solo e sempre un’unica campana, il sistema mainstream ci ha raccontato in questi anni che le poderose, ciclopiche Torri Gemelle di Manhattan sono crollate su se stesse, come se fossero state di cartone anziché di acciaio, solo perché colpite – con una manovra proibitiva persino per i migliori “top gun” – da normalissimi e leggerissimi jet di linea fatti di alluminio, dirottati da apprendisti piloti arabi, di cui tuttora non si sa nulla: non un’immagine, al fatale imbarco, di nessuno dei 19 presunti dirottatori (salvo poi rintracciare i loro passaporti, nientemeno, nell’inferno fumante di Ground Zero). Finge di credere sempre e soltanto alla versione ufficiale, il mainstream media, anche quando dimentica di ricordare che furono gli Usa a incoraggiare Saddam Hussein a invadere il Kuwait, dopo averlo spinto a combattere contro l’Iran. Dà retta unicamente al super-governo universale, il club dei telegiornali, anche quando assicura che Saddam disponeva di micidiali armi di distruzione di massa. E tace, invece, quando l’Onu dimostra che quelle armi erano pura fantasia, come i gas siriani di Assad, le fosse comuni di Gheddafi, le violenze della polizia di Yanukovich in Ucraina. E poi applaude a reti unificate, la consorteria mediatica, quando in Italia appaiono i cosiddetti salvatori della patria – i Monti, i Cottarelli – armati del bisturi che useranno per amputare carne viva, risparmi e pensioni, economia italiana di aziende e famiglie, oscurando il futuro dei giovani.All’epoca in cui Marcello Foa lavorava al “Giornale” di Indro Montanelli, il mondo probabilmente appariva infinitamente più semplice – più chiaro, più visibile nei suoi errori e orrori: la guerra fredda, il Medio Oriente e gli sconquassi africani della decolonizzazione, la strategia della tensione organizzata per gambizzare l’Italia e impedirle di prendere il volo come autonoma potenza euromediterranea fondata sulla forza formidabile dell’economia mista, pubblico-privata. In quella redazione milanese, dove Foa è cresciuto professionalmente, su una parete c’era appesa una carta geografica di Israele che indicava come capitale Gerusalemme, già allora, anziché Tel Aviv. Se Enrico Berlinguer impiegò anni per ammettere che si sentiva più al sicuro sotto l’ombrello della Nato piuttosto che tra i carri armati del Patto di Varsavia, Marcello Foa e il suo maestro Montanelli non avevano mai avuto dubbi sul fatto che niente di buono potesse venire, per l’Occidente, da un’oligarchia sedicente comunista che aveva soppresso sul nascere i primi vagiti democratici della Russia, cambiando semplicemente look all’antico dispotismo zarista. L’eroico sacrificio dell’Unione Sovietica, decisivo nell’abbattere il nazifascismo, non poteva cancellare né i Gulag di Stalin né l’esilio di Aleksandr Solženicyn. Era fatto di certezze, il mondo di Foa e Montanelli: la libertà (inclusa quella d’impresa) come fondamento irrinunciabile di qualsiasi comunità civile degna di chiamarsi democratica.Ed è questo che rende Foa insopportabile al potere economico di oggi, dove la libertà d’impresa cede il passo al dominio di immensi oligopoli finanziari globalizzati, privilegiati da legislazioni truccate come quelle dell’Unione Europea ordoliberista. È tanto più sgradevole e insidioso, Foa, perché non proviene – come invece molti anchorman televisivi – dalla contestazione giovanile del capitalismo: credeva, Foa, negli stessi valori professati dall’élite economica di un tempo, orientata pur sempre alla promozione della mobilità sociale, in sostanziale accordo con le forze sindacali dell’allora sinistra. Una dialettica anche aspra, ma vocata in ogni caso al miglioramento complessivo del sistema-paese. E mediata – sempre – dalla politica, letteralmente scomparsa dai radar italiani per 25 lunghissimi anni. Solo oggi, alla distanza, ci si mette le mani tra i capelli nel rivedere il film dell’euforia generale con la quale i cittadini avevano accolto il Trattato di Maastricht e, dieci anni dopo, l’ingresso nell’Eurozona disegnata dalle banche e governata dalla Bce con modalità feudali, imperiali, senza la supervisione di alcun controllo democratico. Succedeva negli anni cui, con la caduta del Muro di Berlino benedetta da Gorbaciov, l’umanità si era illusa che il fantasma della guerra sarebbe stato semplicemente cancellato dalla storia del pianeta.Magari fosse un comune complottista, Marcello Foa: sarebbe più comodo liquidarlo, come velleitario chiacchierone. Chi oggi gli promette guerra, invece, sa benissimo che l’ex caporedattore del “Giornale”, nonché docente universitario, nonché feroce critico del sub-giornalismo odierno, è un vero e proprio disertore. Non era un eretico: lo è diventato negli ultimi anni, disgustato dallo spettacolo al quale è stato costretto ad assistere. Per questo, al di là del reale potere che gli conferisce la carica di presidente Rai, Marcello Foa rappresenta un vero pericolo, per i malintenzionati che oggi gli danno del traditore. Nell’Italia corporativa delle caste, ha osato “sparare” contro la sua – quella dei giornalisti – definendoli “stregoni della notizia”, bugiardi e omertosi spacciatori di “fake news” di regime. E non c’è niente di peggio, per i servi, che l’ex schiavo che si libera delle catene: la sua rivolta personale, intellettuale, suona umiliante per chi si ostina a raccontare che la Terra è piatta, e che è il Sole a orbitarle attorno.Chi l’avrebbe detto? Oggi l’Italia riesce incredibilmente a piazzare una persona autorevole, onesta e competente, alla guida della televisione pubblica. Marcello Foa non è infallibile: ma quando ha sbagliato – anche di recente, prendendo per buona la notizia di presunte istruzioni che il governo tedesco avrebbe impartito alla polizia, per enfatizzare il terrorismo “casereccio” targato Isis – non ha esitato ad ammetterlo, tempestivamente. Quanti, al suo posto, avrebbero avuto lo stesso coraggio? E ora, questo volto pulito del nostro giornalismo è alle prese con una sfida estremamente impegnativa. È davvero impossibile fare molta strada, in politica, se non si è almeno in parte ricattabili, e quindi controllabili, in quanto complici dell’apparato da cui si è stati promossi? Così almeno ebbe a dire un protagonista della vita pubblica italiana come Giuliano Ferrara. Qualcuno – sincero o meno – obietterà che questa regola non vale necessariamente per tutti. Ma è sicuro che, una volta entrati in cabina di regia, le proprie virtù possono trasformarsi in problemi: in un ambiente non esattamente cristallino, le qualità naturali dell’eretico diventano un’enorme seccatura, se non un ostacolo da rimuovere prima che possa mettere in pericolo la sopravvivenza del sistema stesso.Questa è la sfida di Marcello Foa, nella quale è in gioco l’Italia intera: restare fedeli alla propria coscienza significa contribuire a riaccendere la luce sulle notizie. Senza un’informazione trasparente, lo sappiamo, non c’è neppure vera democrazia. Lo sostiene con vigore, Marcello Foa, che resta innanzitutto un uomo leale e garbato – anche quando si permette di dissentire in modo netto sull’operato del presidente della Repubblica: chi oggi lo accusa di aver addirittura insolentito Sergio Mattarella, dopo la bocciatura di Paolo Savona al ministero dell’economia, più che il prestigio del capo dello Stato sembra aver a cuore la disciplina sociale dell’ossequio, da imporre al popolo nei confronti di chiunque rivesta funzioni di potere. Non è questa la democrazia per la quale il giovane liberale Foa tifava, quando polemizzava con quel comunismo da cui provengono moltissimi dei suoi attuali, smemorati detrattori. Non sappiamo come si svilupperà, la sua avventura negli uffici della Rai. Ma sappiamo che – contro ogni previsione – è tornata sotto i riflettori, in Italia, un’antropologia che si credeva estinta. Quella delle persone per bene, a cui il governo in carica affida addirittura la guida della televisione.(Giorgio Cattaneo, “Marcello Foa alla guida della Rai: che succede quando un eretico sale al potere?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 27 settembre 201).Che succede, quando il mondo si capovolge e un eretico sale al potere? In Italia, di solito, se un outsider assoluto conquista una poltrona significa che non è più un vero outsider, perché l’establishment se l’è già “comprato”: intende usarlo per drenare il dissenso, facendo sfogare in modo innocuo e illusorio il malcontento di cui era stato la voce. I posti di comando, in genere, sono pieni di ex rivoluzionari ben remunerati, arruolati per la peggiore delle missioni: rinnegare di fatto la propria storia, i propri ideali, e riallineare il pubblico alla “voce del padrone”, utilizzando il prestigio di quella che, un tempo, era stata una voce diversa, apprezzata proprio perché libera e indipendente, e quindi scomoda. Solo in casi rarissimi un vero eretico può raggiungere il ponte di comando rimanendo se stesso. Come accorgersene? Semplice: basta vedere che tipo di accoglienza gli viene riservata. Ed è il caso della nomina di Marcello Foa, nuovo presidente della Rai: i grandi media, in coro, lo accolgono nella migliore delle ipotesi con freddezza, come se si trattasse di un intruso molesto e sgradevole, un oscuro alieno anziché un illustre collega, mentre le macerie della vecchia politica – rottamata dagli italiani il 4 marzo 2018 – descrivono il neo-eletto come una specie di teppista, di impudente cialtrone. In questo, ricordano da vicino il sovrano disprezzo che i dittatori mostrano sempre per il loro popolo in rivolta, un minuto prima di essere defenestrati dalla storia.
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Sapelli: Usa inerti, ma così l’Italia affonda nel Mediterraneo
Dove sono gli Usa? È un interrogativo che inizia a proporsi e a riproporsi, mano a mano che si dipana la lotta di potenza e di egemonia nel Mediterraneo, “lago atlantico” ormai contendibile all’egemonia nordamericana che aveva sostituito quella britannica nel 1956, quando gli Usa – con una mossa del cavallo – appoggiarono Nasser e la sua nazionalizzazione del canale di Suez. Schierandosi contro i paracadutisti sul Sinai lanciati da Regno Unito, Francia e Israele, gli Usa avevano finito per strappare ai sovietici il controllo dell’Egitto, per poi abbattere i partiti “baathisti” in Siria e in Iraq, e infine Gheddafi in Libia dopo l’11 Settembre. Un flashback che l’economista e storico Giulio Sapelli, sul “Sussidiario”, rievoca per richiamare l’attenzione sull’attuale disastro libico, specchio della debolezza mediterranea di un’Italia “abbandonata” dall’alleato americano. I contendenti degli Usa? Oggi non sono più solo i russi, scrive Sapelli, ma anche i francesi: hanno infatti saldato la loro influenza economica (con il Cfa, il franco francese-africano imposto a 14 paesi) a quella militare (dal genocidio dei Tutsi in Ruanda da parte degli Hutu pro-francesi, all’esercito schierato nel sub-Sahara).Proprio i francesi, aggiunge Sapelli, hanno sconvolto antichi equilibri di potenza post-coloniali (anche per contenere la crescente influenza cinese, da Gibuti a Suez, fino a Tripoli). Dal canto suo, Pechino si protende nel Mediterraneo, dove sembra propensa a negoziare con la Russia e con l’Egitto «per aver meglio a disposizione la via verso l’Alto Adriatico passando per Suez e continuare così sino all’Artico indebitando Stati e impiegando il lavoro forzato in infrastrutture mai finite e pericolose». E l’Italia? «E’ il vaso di coccio tra i vasi di ferro», scrive Sapelli. «La stella di Mattei brillò quando gli Usa si allearono con Nasser e scacciarono gli inglesi dal Mediterraneo, proteggendo di fatto gli italiani in Libia e in Algeria: provocarono l’odio e la vendetta francese, di cui l’eroico e mai compreso Enrico Mattei fu la vittima sacrificale». Ora, secondo Sapelli, la storia si ripete: Russia e Cina si riavvicinano con manovre militari, a cui gli Usa non oppongono alcuna strategia di contenimento. «L’unica via utile alla sicurezza mondiale sarebbe un’alleanza nordamericana con la Russia contro la nascente egemonia cinese, ma questo è assai difficile».Secondo Sapelli, «la Cina crolla egemonicamente in Asia perché disvela un volto imperialista, ma trionfa ancora in Europa grazie ai Quisling innumerevoli di cui dispone nell’eurocrazia e in molte nazioni europee, Francia e Italia in testa». Gli Usa? «Sono troppo divisi nel loro establishment per poter condurre una politica di potenza che comprenda l’importanza strategica del Mediterraneo». La prima nazione a patirne – va da sé – è proprio l’Italia, «stretta appunto tra la sua borghesia “vendidora” che vive sull’erosione della sovranità e del potenziale di ciò che dovrebbe essere la patria, e invece per costoro è un suk con clienti stranieri». Per questo, pesa ancora di più l’assenza strategica degli Stati Uniti: «Solo l’Italia può garantire gli Usa per un nuovo equilibrio di potenza in Africa del nord e nell’Africa sub-sahariana». Per Sapelli, è assolutamente necessaria una urgente discussione pubblica su questo tema, visto che «rischiamo la decadenza dell’Italia».Dove sono gli Usa? È un interrogativo che inizia a proporsi e a riproporsi, mano a mano che si dipana la lotta di potenza e di egemonia nel Mediterraneo, “lago atlantico” ormai contendibile all’egemonia nordamericana che aveva sostituito quella britannica nel 1956, quando gli Usa – con una mossa del cavallo – appoggiarono Nasser e la sua nazionalizzazione del canale di Suez. Schierandosi contro i paracadutisti sul Sinai lanciati da Regno Unito, Francia e Israele, gli Usa avevano finito per strappare ai sovietici il controllo dell’Egitto, per poi abbattere i partiti “baathisti” in Siria e in Iraq, e infine Gheddafi in Libia dopo l’11 Settembre. Un flashback che l’economista e storico Giulio Sapelli, sul “Sussidiario”, rievoca per richiamare l’attenzione sull’attuale disastro libico, specchio della debolezza mediterranea di un’Italia “abbandonata” dall’alleato americano. I contendenti degli Usa? Oggi non sono più solo i russi, scrive Sapelli, ma anche i francesi: hanno infatti saldato la loro influenza economica (con il Cfa, il franco francese-africano imposto a 14 paesi) a quella militare (dal genocidio dei Tutsi in Ruanda da parte degli Hutu pro-francesi, all’esercito schierato nel sub-Sahara).
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Ecco i nomi dei massoni golpisti che hanno creato la crisi
Puoi chiamarli neoliberisti. Monopolisti. Privatizzatori. C’è chi li ha definiti, anche, golpisti bianchi. Ma sono essenzialmente massoni. Attenzione: le obbedienze nazionali non c’entrano. Si tratta di supermassoni in quota alle Ur-Lodes, le oscure superlogge sovranazionali. Precisamente: quelle di segno neo-aristocratico, che detestano la democrazia e confiscano il potere dei cittadini, rimettendolo nelle mani di un’élite pre-moderna, pre-sindacale, ultra-padronale. E’ così che hanno costruito il nuovo medioevo in cui viviamo, il neo-feudalesimo regolato dall’Ue e dalla sua Commissione di non-eletti. Giochi di specchi: laddove si parla di finanza e geopolitica, citando banche centrali e governi, si omette sempre di scoprire chi c’è dietro. Sempre gli stessi, sempre loro: un club ristrettissimo di padreterni, di “contro-iniziati” che si credono onnipotenti e autorizzati, come per diritto divino, a manipolare in eterno il popolo bue, ridotto a bestiame umano. Lo ricorda Patrizia Scanu, segretaria del Movimento Roosevelt, sodalizio fondato dal massone progressista Gioele Magaldi proprio con l’intento di smascherare l’attuale governance europea finto-democratica, dopo la clamorosa denuncia contenuta nel saggio “Massoni”, edito nel 2014 da Chiarelettere. Una rivelazione: dietro ai principali tornanti della nostra storia recente ci sono sempre gli stessi personaggi, i medesimi circoli occulti: grazie a loro, in fondo, poi in Italia crollano anche i viadotti autostradali.
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Bergoglio: preti pedofili, vergogna. Dopo le parole, i fatti?
Di fronte all’irrefrenabile scandalo dei comportamenti amorali di tanti preti e suore, Bergoglio in Irlanda dichiara: «La Chiesa ha fallito, provo vergogna». Bene, era ora che, invece di “coprire” i misfatti per salvare la “santità” dell’istituzione – come hanno incredibilmente fatto Papi precedenti, anche “santi subito” – un Papa ammettesse come stanno le cose. Ma ora vediamo se trarrà conseguenze logiche e pratiche da queste dichiarazioni… Infatti, così dicendo, Bergoglio ha in pratica ammesso che Santa Madre Chiesa non è né Santa né tanto meno Madre, visto come si è comportata con i bambini. E quindi rimane solo una “fallibile”, ricca e potente istituzione “mondana” come un’altra. Priva di infallibile “guida divina”. Perché se questa guida divina ci fosse stata, certamente non avrebbe coperto i preti pedofili, non avrebbe compiuto le mille nefandezze della sua storia, e avrebbe formato meglio preti, suore e curie dal punto di vista etico.Ma allora ragioniamo: se “ha fallito” – come dice il Papa – vuole dire che “non è infallibile”, e quindi dovrebbe rinunciare alla sua pretesa di essere una autorità morale superiore, e scendere dal gradino che pretende ormai abusivamente di occupare. E magari darsi da fare per aiutare la gente dal basso (come alcuni dei suoi membri privi di potere già fanno), e non “dall’alto”, visto che questo “Alto” chiaramente non guida la Chiesa, ma solamente le coscienze individuali che si aprono al vero amore per gli altri. E quindi rinunciare finalmente all’imperiale, verticale “principio di autorità”, che non ha un suo fondamento. E rifondare finalmente se stessa su un “principio di fratellanza” orizzontale (troppo spesso la Chiesa ha amato più se stessa del prossimo). Lo farà? Qui si vedrà se le sue parole sono genuine, o solo un tentativo di frenare l’enorme emorragia di fedeli e di regolare qualche conto interno alle gerarchie vaticane. La “protesta delle scarpe” lasciate sul selciato di Dublino da un gruppo di vittime di preti pedofili era accompagnata dallo striscione “no words” (basta parole). Ci auguriamo che gli atti non si riducano a fare fuori qualche pezzo di Curia inviso ai gesuiti…(Fausto Carotenuto, “Bergoglio rinuncerà finalmente al Principio di Autorità?”, dal nesmagazine “Coscienze in Rete” del 26 agosto 2018. Già analista geopolitico dell’intellicence Nato, nel libro “Il mistero della situazione internazionale”, edito da UnoEditori, Carotenuto fornisce una sua personalissima “mappa” del potere mondiale in chiave spiritualistica. Nella sua ricostruzione, il mondo sarebbe dominato sostanzialmente da due “piramidi oscure”, al cui vertice si troverebbero poteri massonici e poteri gesuitici, in concorrenza tra loro ma, nei momenti decisivi, alleati – di fatto – nel disegno di dominio che accomunerebbe entrambi, da secoli. Sempre secondo Carotenuto, le cosiddette “piramidi oscure” – anche se i loro membri non ne sarebbero sempre consapevoli, lavorano in realtà per conto della “fratellanza bianca”: sono semplici “forze dell’ostacolo”, la cui funzione consiste nel costringere la coscienza dell’umanità a risvegliarsi progressivamente. Carotenuto è ottimista: sostiene che almeno il 30% della popolazione mondiale ha ormai imparato a non fidarsi più del potere, oggi essenzialmente economico-finanziario, che dirige la politica. L’analista insiste sul carattere eminentemente spirituale delle “forze dell’ostacolo”: le crisi e le guerre, dice, vengono spesso scatenate per sete di denaro, di risorse e di petrolio, ma in realtà – sottolinea – la vera missione, da parte delle “piramidi oscure”, consiste nel generare la maggiore sofferenza possibile, drammaticamente “necessaria” all’umanità per prendere coscienza del fatto che solo la fratellanza universale potrà spezzare le catene dell’odio).Di fronte all’irrefrenabile scandalo dei comportamenti amorali di tanti preti e suore, Bergoglio in Irlanda dichiara: «La Chiesa ha fallito, provo vergogna». Bene, era ora che, invece di “coprire” i misfatti per salvare la “santità” dell’istituzione – come hanno incredibilmente fatto Papi precedenti, anche “santi subito” – un Papa ammettesse come stanno le cose. Ma ora vediamo se trarrà conseguenze logiche e pratiche da queste dichiarazioni… Infatti, così dicendo, Bergoglio ha in pratica ammesso che Santa Madre Chiesa non è né Santa né tanto meno Madre, visto come si è comportata con i bambini. E quindi rimane solo una “fallibile”, ricca e potente istituzione “mondana” come un’altra. Priva di infallibile “guida divina”. Perché se questa guida divina ci fosse stata, certamente non avrebbe coperto i preti pedofili, non avrebbe compiuto le mille nefandezze della sua storia, e avrebbe formato meglio preti, suore e curie dal punto di vista etico.
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Genova e i complottisti che non vedono l’agguato all’Italia
E’ già stata programmata la prossima aggressione americana alla Siria? Se lo domanda “The Saker”, pensando all’imperialismo yankee oggi più che mai ostile all’Iran, mentre a Washington l’impeccabile Barack Obama e l’assai meno impeccabile George W. Bush piangono la dipartita del vecchio leone John McMcain, presentato come eroe di guerra – quella del Vietnam, però (non quella siriana, dove celebri fotografie immortalano lo stesso McCain, dalle parti di Damasco, a colloquio con un’illustre congrega di tagliagole, tra cui l’oscuro Abu Bakr Al-Baghdadi, nome d’arte del futuro capo-macelleria del sedicente Isis). Si fa presto a dire “l’America”, quando è palese che neppure un americano su cento ha idea di come siano andate davvero le cose, in Siria, cioè nel paese dei bombardamenti immaginari con gas nervino sulla popolazione inerme, disposti dal feroce regime di Assad sul quale proprio l’elegantissimo Obama stava per scatenare l’Armageddon missilistico. Lo schema è classico, ormai datato ma sempre formidabile: la fanfara mediatica suona la sua canzone, che poi a casa – davanti al televisore – fischiettano tutti. E quelli che si rifiutano (non più così pochi, ormai) spesso cadono nel tranello del festival opposto, che poi è l’altra faccia della stessa medaglia. Complottismo militante: caccia al Colpevole Unico, al reprobo di turno. Uno sport che, secondo Gianfranco Carpeoro, finisce sempre per assolvere il solo, vero responsabile: il sistema.Lo spiega benissimo anche uno specialista come Massimo Mazzucco, in diretta web-streaming con Fabio Frabetti di “Border Nights”, addentrandosi nel presunto giallo del viadotto Morandi a Genova, che si vocifera sia stato segretamente minato per scatenare la strage di ferragosto. L’ingegnere veneto che rilancia la testi del complotto, adombrando l’ipotesi dell’attentato, ordito magari per colpire Autostrade per l’Italia, che ormai è un gestore internazionale di infrastrutture viarie? Sfortunatamente, quel tecnico è stato ingaggiato proprio da Atlantia, la società dei Benetton: cioè i soggetti che più trarrebbero vantaggio dall’accreditare il sospetto dell’ipotetico attentato, visto che metterebbe in ombra le loro eventuali responsabilità sul mancato controllo della sicurezza del ponte genovese. Piuttosto, dice Mazzucco nella sua attenta ricostruzione, l’unica cosa che non torna è la decisione degli inquirenti di non rendere pubblici alcuni filmati-chiave sul crollo. Forse rivelano indizi sulla grave incuria che, alla fine, ha determinato il collasso del viadotto? Quelle immagini, si dice, restano riservate per non condizionare i testimoni oculari che gli inquirenti devono ancora ascoltare. Ma non ha senso, protesta Mazzucco: se già si dispone di immagini incontrovertibili, infatti, a cosa serve il racconto (fatalmente frammentario e impreciso) di semplici testimoni? Ovvero: qualcuno sta esercitando pressioni “mostruose”, sui magistrati di Genova, per tentare di nascondere le evidenze dell’omessa manutenzione dell’infrastruttura?Citando il saggio “Massoni” di Gioele Magaldi, e attingendo al proprio patrimonio personale di contatti e informazioni, l’avvocato e saggista Carpeoro, autore di scomode pagine sul terrorismo targato Isis ma in realtà “fatto in casa” da servizi segreti agli ordini dei peggiori network supermassonici, sul caso genovese è illuminante: non scordate, dice, che i Benetton fanno parte di una cerchia paramassonica internazionale vicina ai Clinton e a Obama. Un club più che esclusivo, dominato dalla celeberrima superloggia “Three Eyes”, a lungo ispirata dai massimi strateghi del potere politico statunitense, a cominciare da Kissinger. Non solo: nella composizione azionaria di Atlantia figura anche il maggiore “hedge fund” del pianeta, quel BlackRock a cui – a proposito di privatizzazioni “ad personam” – il giovane Matteo Renzi regalò una bella fetta di Poste Italiane, azienda in ottima salute che fruttava allo Stato, ogni anno, quasi mezzo miliardo di euro. Il patron di BlackRock, cioè la star della finanza americana Larry Fink, secondo Magaldi avrebbe gravitato nell’orbita di un’altra Ur-Lodge, quasi “sorella” della “Three Eyes” ma se possile molto peggiore, avendo reclutato tra i suoi affiliati un certo Osama Bin Laden (l’autore del film “11 Settembre”) e lo stesso Al-Baghdadi (aiuto-regista dell’ultimo kolossal horror, quello siglato Isis).Che crolli un ponte in Italia o franino grattacieli negli Usa – minati, quelli sì – il risultato è lo stesso: l’uomo della strada ci rimette la pelle, oltre che un sacco di soldi, mentre i responsabili non pagano mai, prevedibilmente protetti da tonnellate di menzogne, depistaggi e insabbiamenti. Colpa loro, si domanda Carpeoro, o piuttosto di un sistema incapace di giustizia? L’avvocato ricorre a un esempio: «E’ stata sgominata, la mafia, dopo l’arresto di Riina? Ma no, c’era Provenzano. Preso anche lui, ecco Matteo Messina Denaro. Il giorno che arrestassero pure quello, qualcuno dubita che, nel giro di una notte, i boss troverebbero un nuovo capo?». Beninteso: spesso i criminali poi finiscono, giustamente, in galera. Ma il potere giudiziario non è in grado di fare davvero giustizia: può solo limitare i danni. Infatti, per statuto, interviene soltanto a cose fatte, quando cioè il reato è già stato commesso. Perché il sistema cambi, nel senso della vera giustizia, è necessario che, a monte, certi reati non si commettano più. Solo così sarebbe possibile evitare disastri, stragi, truffe e rapine colossali. Migliorare il sistema, dunque. Già, ma come?Missione impossibile, se restiamo quasi sempre al buio: troppo spesso, infatti, non disponiamo delle informazioni-chiave. Nessuno sa, davvero, ciò che sta accadendo. A proposito: quanti italiani sapevano che le loro autostrade, pagate con provvidenziale debito pubblico strategico negli anni d’oro, erano state interamente privatizzate? Quanti sapevano che la famiglia Benetton è poco più che il paravento italiano di un mega-affare, essenzialmente internazionale, pensato lontano dall’Italia e dato in gestione, per la sua esecuzione formale, a Massimo D’Alema? E dov’erano, gli elettori italiani, mentre tutto questo accadeva? Tutti a fare il tifo: pro o contro il Cavaliere di Arcore, “domato” da Romano Prodi e poi, appunto, da D’Alema. Idem i giornalisti italiani: tutti presi anche loro dall’insignificante derby politico, anziché dall’anomalia – sostanziale – che consiste nel regalare a colossi privati un pezzo di paese come la rete autostradale, che oggi frutta profitti per 6 miliardi di euro all’anno, cioè 12.000 miliardi di lire. La scusa, storica? C’era il debito pubblico da “risanare”.Era la fiaba degli italiani spreconi e spendaccioni, che ha fatto la fortuna politica di personaggi come Antonio Di Pietro. Poi è arrivato il Risanatore, quello vero: Mario Monti, paracadutato a Palazzo Chigi da Mario Draghi e Giorgio Napolitano. E tutti hanno cominciato a capire cosa indendono, uomini come quelli, con la parola “risanamento”. In un attimo l’Italia ha visto crollare il Pil, ha perso il 25% del suo potenziale industriale e ha accusato la peggior crisi dal dopoguerra, con una disoccupazione record. Ora qualcuno ha imparato che il debito pubblico, per definizione, non è da “risanare” come quello di una famiglia o di un’azienda, perché lo Stato (se è sovrano nella moneta) non deve restituire a nessuno il denaro emesso direttamente dal governo, attraverso la banca centrale. In tanti, ormai, sanno che dal 1980 – prima ancora dell’euro – la banca centrale ha cessato di emettere denaro in modo illimitato, a disposizione del governo: è da allora, infatti, che il debito pubblico è diventato una tragedia nazionale (fino a trasformarsi, con l’euro, in un dramma internazionale).Chi ha messo il dito nella piaga, durante l’ultima campagna elettorale? Matteo Salvini. Chi ha candidato, al Senato? Alberto Bagnai, eminente economista di scuola sovranista. E dov’è, adesso, Salvini? Nel mirino: tutti i poteri forti (stampa, finanza, industria) gli sparano addosso, col pretesto della sua ruvida intransigenza sui migranti. Gli spara addosso Macron, a capo di un paese che ogni anno, in virtù dell’eredità coloniale, “rapina” 500 miliardi di euro a 14 paesi africani. E a Salvini spara a man salva persino l’ormai disperato Pd, cioè il partito che – fin che è vissuto – non ha fatto altro che eseguire gli ordini dei poteri forti, così come il decano D’Alema all’epoca dei maxi-regali, le autostrade poi lasciate crollare, fino al novello Renzi, il “regalatore” di Poste Italiane. Tutta colpa del Pd, dunque, come suggerisce il tifo odierno che vede nel governo gialloverde la prima, vera speranza, per un paese dominato per 25 anni da poteri stranieri? Stando al ragionamento di Carpeoro su Cosa Nostra, la risposta è scontata: puoi anche sanzionare un manovale del crimine, persino un boss, ma dai guai non esci fino a quando vivi in un sistema che prevede l’impunità sostanziale per certi reati.La parte dal cattivo travestito da buono – ormai si sa – è toccata, storicamente, al centrosinistra. Ovvio: mai l’elettorato di sinistra avrebbe tollerato le stesse leggi, se a promulgarle fosse stato Berlusconi. Non hanno fatto una piega, i sindacati, quando invece a contrarre i diritti del lavoro è stato il centrosinistra. Ma, tralasciando gli attori in commedia, sarebbe cambiato qualcosa che se questa storia fosse stata recitata da tutt’altro cast? Dov’è il problema, negli attori o piuttosto nel copione? E’ irrilevante che oggi gli zombie del Pd fingano ancora di esistere: e sanno che, se non fosse comparso il provvidenziale “mostro” Salvini, non saprebbero neppure cosa dire, di fronte alle telecamere. Intanto i ponti crollano, insieme al resto del paese. E c’è chi pensa agli immancabili, fantomatici bombaroli, come se non bastasse lo spettacolo dell’auto-sabotaggio realizzato da un intero paese, a cui i maghi dell’informazione hanno raccontato, indisturbati, che tutto va bene, e che il padrone ha sempre ragione. Quello, semmai, era il vero complotto. E sta venendo alla luce oggi, lentamente, attraverso l’inaudita violenza verbale che l’establishment riserva all’attuale governo: il primo, dopo 25 anni, non partorito direttamente dal potere “complottista”. L’unico governo, per ora, largamente sostenuto dagli elettori.E’ già stata programmata la prossima aggressione americana alla Siria? Se lo domanda “The Saker”, pensando all’imperialismo yankee oggi più che mai ostile all’Iran, mentre a Washington l’impeccabile Barack Obama e l’assai meno impeccabile George W. Bush piangono la dipartita del vecchio leone John McMcain, presentato come eroe di guerra – quella del Vietnam, però (non quella siriana, dove celebri fotografie immortalano lo stesso McCain, dalle parti di Damasco, a colloquio con un’illustre congrega di tagliagole, tra cui l’oscuro Abu Bakr Al-Baghdadi, nome d’arte del futuro capo della premiata macelleria mediorientale, il sedicente Isis). Si fa presto a dire “l’America”, quando è palese che neppure un americano su cento ha idea di come siano andate davvero le cose, in Siria, cioè nel paese dei bombardamenti immaginari con gas nervino sulla popolazione inerme, disposti dal feroce regime di Assad sul quale proprio l’elegantissimo Obama stava per scatenare l’Armageddon missilistico. Lo schema è classico, ormai datato ma sempre formidabile: la fanfara mediatica suona la sua canzone, che poi a casa – davanti al televisore – fischiettano tutti. E quelli che si rifiutano (non più così pochi, ormai) spesso cadono nel tranello del festival opposto, che poi è l’altra faccia della stessa medaglia. Complottismo militante: caccia al Colpevole Unico, al reprobo di turno. Uno sport che, secondo Gianfranco Carpeoro, finisce sempre per assolvere il solo, vero responsabile: il sistema.
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Pezzi di merda: fenomenologia dell’odio nell’Italia di Salvini
Succede questo: a proclamarsi paladini dell’uomo dalla pelle scura, oggi, sono i killer politici dell’uomo dalla pelle chiara – quelli che gli hanno tolto tutto, in Europa, dopo aver abbondantemente depredato anche l’Africa, trasformandola in una terra desolata da cui scappare. Così i naufraghi salvati in mare da una nave della Guardia Costiera diventano prigionieri, letteralmente torturati dal vero Uomo Nero, il Ministro della Paura che usurpa la poltrona del Viminale. Ha un problema, l’Uomo Nero, anzi due: non può fare quello che vorrebbe, e che ha promesso agli elettori – tagliare le tasse – e in più deve rispondere di un risarcimento colossale imposto al suo partito dal potere giudiziario. Un risarcimento così anomalo, e così enorme, da ridurre praticamente a zero la possibilità di sostenere qualsiasi attività politica, e quindi di continuare a esistere, come partito. Chi ha paura dell’Uomo Nero? La cosiddetta Europa: quella che impedisce che le tasse vengano abbattute, che le pensioni italiane siano dignitosamente rimpinguate, che giunga un reddito provvisorio ai senza-lavoro. Di questo sono ostaggi, i naufraghi della nave Diciotti: di un’ingiustizia infame, compiuta da Bruxelles.Negli ultimi tre anni, si apprende, l’Italia ha accolto la quasi totalità dei 700.000 migranti sbarcati sulle sue coste. Il resto d’Europa non li vuole. Deve tenerseli, per forza, l’Uomo Nero. Al quale però non si concede – in cambio – di abbassare le imposte, alzare le pensioni, distribuire un reddito di cittadinanza. “Pezzi di merda”, li qualifica senza giri di parole il filosofo televisivo Massimo Cacciari – ma attenzione: l’insulto non è affatto rivolto ai mostri dell’Unione Europea, i fanatici del rigore, gli affamatori della Grecia, i devastatori dell’Italia, i predoni delle autostrade che poi crollano. Su quelli, tuttalpiù, sono piovute fumose analisi, formulate in italiano forbito. L’espressione brutalmente gergale è invece indirizzata agli insensibili criminali che osano trattenere un centinaio di africani, giovani adulti, a bordo di un natante della Guardia Costiera ormeggiato in un porto siciliano. Tra i “pezzi di merda” più autorevoli, se non altro per il ruolo istituzionale che riveste, è il vicepremier Di Maio, il primo a esprimere – sotto forma di minaccia aperta, alla buon’ora – la possibilità di sospendere i finanziamenti miliardari che l’Italia è tenuta, dai trattati, a versare alla burocrazia Ue.Mentre i filosofi incendiano le strade, già lastricate di furore e di violenza, di odio squadristico e mediatico contro l’insolente governo che gli italiani – quei farabutti – hanno osato votare e ora sostanzialmente approvano, maledetti loro, uno dei due consoli che reggono l’esecutivo Conte arriva dunque ad avvertire i cosiddetti partner europei: attenzione, la corda potrebbe spezzarsi. Si comincia ventilando l’indicibile – la renitenza contributiva – e così ci si infila su un sentiero che potrebbe portare addirittura là dove fino a ieri sarebbe stato impensabile: lo spettro dell’uscita dell’Italia dall’Unione Europea, finalmente presentata per quello che è – una cricca di tecnocrati imbroglioni, al soldo della peggiore oligarchia speculativa. Questo è un paese in cui il presidente della Repubblica, parlando con l’allora premier incaricato, lo ha cortesemente (ma irritualmente) invitato a passare a salutare il governatore della Banca d’Italia, l’esimio Ignazio Visco, super-banchiere convinto – al pari del tedesco Günther Oettinger, o del connazionale Carlo Cottarelli – che saranno “i mercati”, in futuro, a “insegnare” agli italiani come votare, pena la scure dello spread, nel caso ripetessero l’errore imperdonabile di premiare gli sciamannati 5 Stelle o, peggio, l’Uomo Nero, cioè l’illuso che voleva il professor Paolo Savona al ministero dell’economia e un principe del giornalismo indipendente come Marcello Foa alla presidenza della Rai.Scherziamo? Siamo impazziti? L’ultima presidente della Rai, Monica Maggioni, è ora presidente della sezione italiana della Commissione Trilaterale, mentre la collega Gruber – quella che ospita frequentemente il noto filosofo, talora affetto da coprolalia – è saldamente ospite dei gagliardi passacarte messi assieme dal conte Étienne Davignon e dall’imperatore David Rockefeller, riuniti per la prima volta nel lontano 1954 all’hotel de Bilderberg a Oosterbeek, in Olanda. Lo stesso Visco, che governa Bankitalia (di proprietà di banche private) è il pupillo di Mario Draghi, che nel 1992 salì a bordo del panfilo Britannia e oggi governa la Bce (di proprietà di banche private). Draghi risulta essere un membro autorevolissimo dello stesso club che annovera tra i suoi eletti il presidente emerito Napolitano e il francese Jacques Attali, l’uomo-ombra di Macron: prontissimo, tramite l’obbediente Tajani, ad attivare il network sotterraneo dimostratosi capace di indurre Berlusconi a venir meno alla parola data a Salvini, sulla nomina di Foa. Tutto è partito dall’Eliseo, cioè dal vertice politico del paese che, oggi anno, depreda 14 Stati africani portandogli via l’equivalente di 500 miliardi di euro, costringendo i loro giovani a imbarcarsi verso le nostre coste.Qualcuno spieghi, ai migranti soccorsi dalla Diciotti, che non possono fidarsi dell’uomo bianco che si finge loro amico. “Timeo Danaos et dona ferentes”: i greci mi fanno paura anche quando portano doni, dice Laocoonte, nell’Eneide, di fronte al Cavallo di Troia appena giunto davanti alle mura della città assediata. Se solo i giornalisti avessero fatto il loro dovere, accusa il Premio Pulitzer americano Seymour Hersh, in questi anni avremmo avuto meno guerre, meno stragi, meno vittime, perché quasi tutte le guerre, così come l’opaco terrorismo stragista, sono state organizzate a tavolino, dalla stessa élite bugiarda, agitando false prove per demonizzare leader che riteneva scomodi. L’hanno potuto fare, sempre, grazie alla connivente reticenza dei giornali, delle televisioni. Lo stesso si può dire dell’intellighenzia nazionale “embedded”, quella che oggi – tra appelli rabbiosi (e schizzi di sterco) – si permette il lusso di criminalizzare l’Uomo Nero, ignorando deliberatamente i crimini mostruosi dell’oligarchia-fantasma che ha declassato il paese, condannandolo al declino dopo averlo svenduto, pezzo su pezzo, fino a farlo crollare come il ponte di Genova. Un’Italia alla frusta, amputata della sua sovranità e taglieggiata dai finti ragionieri di Bruxelles. Eppure, nel paese a cui la Francia impedisce di eleggere il presidente della televisione di Stato, ci si scaglia selvaggiamente contro il ministro che “sequestra” i migranti su una nave.Il crollo delle dittature è spesso preceduto da violenze inconsulte. In Romania, Nicolae Ceaucescu ordinò alla Securitate di sparare nel mucchio, al primo accenno di ribellione popolare. E il satrapo Siad Barre, a lungo padrone della Somalia grazie anche al provvido sostegno post-coloniale italiano, non esitò a ordinare alla polizia di mitragliare il pubblico dello stadio che aveva osato contestarlo. Si dirà che siamo in Italia, dove vige la legge semiseria della “bolla di componenda”, sintetizzata dal genio letterario di Camilleri: ogni conflitto si trasforma in una tempesta in un bicchier d’acqua, se alla fine tutti si portano a casa la loro fetta di torta. Si dirà che il cosiddetto governo gialloverde, quello dell’Uomo Nero, sta esasperando la crisi dei migranti solo per aprire un fronte alternativo da cui attaccare Bruxelles, cioè il super-potere che gli vieterà di mantenere le promesse fatte agli elettori il 4 marzo, pena il ricatto dell’incursione finanziaria sul costo del debito pubblico di un paese reso vulnerabilissimo, come gli altri dell’Eurozona, dall’assenza di una moneta sovrana con la quale difendersi dal racket della Borsa. Sia come sia, lo spettacolo cui si è costretti ad assistere rivela qualcosa di estremamente inedito: mentre giornali e intellettuali lanciano palle di letame, gli elettori osservano con attenzione le mosse del loro governo, il primo esecutivo – nella storia ingloriosa dell’Ue – completamente sgradito da Bruxelles.Succede questo: a proclamarsi paladini dell’uomo dalla pelle scura, oggi, sono i killer politici dell’uomo dalla pelle chiara – quelli che gli hanno tolto tutto, in Europa, dopo aver abbondantemente depredato anche l’Africa, trasformandola in una terra desolata da cui scappare. Così i naufraghi salvati in mare da una nave della Guardia Costiera italiana diventano prigionieri, letteralmente torturati dal vero Uomo Nero, il Ministro della Paura che usurpa la poltrona del Viminale. Ha un problema, l’Uomo Nero, anzi due: non può fare quello che vorrebbe, e che ha promesso agli elettori – tagliare le tasse – e in più deve rispondere di un risarcimento colossale imposto al suo partito dal potere giudiziario. Un risarcimento così anomalo, e così enorme, da ridurre praticamente a zero la possibilità di sostenere qualsiasi attività politica, e quindi di continuare a esistere, come partito. Chi ha paura dell’Uomo Nero? La cosiddetta Europa: quella che impedisce che le tasse vengano abbattute, che le pensioni italiane siano dignitosamente rimpinguate, che giunga un reddito provvisorio ai senza-lavoro. Di questo sono ostaggi, i naufraghi della nave Diciotti: di un’ingiustizia infame, compiuta da Bruxelles.