Archivio del Tag ‘importazioni’
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Sos dai vignaioli: i dazi di Trump condannano il vino italiano
Siamo vignaioli italiani, piccoli e grandi, proveniamo da tutte le Regioni italiane e abbiamo un unico, comune obiettivo: produrre vini di grande qualità che contribuiscano all’economia del nostro paese e al consolidamento della sua reputazione nel mondo. Gli Stati Uniti sono un mercato estremamente importante per i nostri vini, un mercato che insieme alle nostre famiglie abbiamo costruito con fatica, impegno quotidiano ed enorme investimento di tempo e risorse, con quelle che fino a pochi giorni fa consideravamo come prospettive di sviluppo per gli anni a venire che avrebbero garantito lavoro e reddito per noi e per i nostri collaboratori. In questi giorni assistiamo sconcertati agli sviluppi della disputa DS316 presso la Wto, riguardante “European Communities and Certain member States — Measures Affecting Trade in Large Civil Aircraft”. Una disputa in cui il vino, insieme ad altri prodotti agroalimentari di origine europea, è solo una vittima collaterale. Il valore dell’export agroalimentare dall’Europa verso gli Stati Uniti si aggira sui 22 miliardi di euro; di questi, il valore del vino europeo è pari a 4 miliardi, e pesa per il 75% sulle complessive importazioni statunitensi di vino. L’Italia, con oltre 1,7 miliardi di euro, è il secondo esportatore di vino dopo la Francia.Sono numeri impressionanti, che rappresentano il lavoro di migliaia di aziende con decine di migliaia di addetti; piccole aziende, per la maggior parte, che costituiscono il tessuto fondamentale dell’agricoltura italiana. Sono piccole aziende che non soltanto generano reddito per i produttori e i loro collaboratori: esse sono custodi dei territori nei quali operano, difendono il nostro paese dal dissesto idrogeologico, presidiano lecampagne impegnandosi nella difesa dei suoli e contribuiscono a moderare gli effetti del cambiamento climatico. Inoltre, esportando i loro prodotti, concorrono a consolidare la reputazione dell’Italia nel mondo, promuovono la nostra cultura e mantengono solidi rapporti con i nostri connazionali all’estero, si fanno ambasciatori di uno stile alimentare (la dieta mediterranea) e di vita che genera, in cambio, consistenti flussi turistici, un altro settore fondamentale per il nostro paese. Tutto questo oggi è a rischio. L’incremento del 100% dei dazi statunitensi sull’importazione di vini ed altri prodotti agroalimentari europei rischia di distruggere in breve tempo quanto abbiamo costruito in decine d’anni di lavoro e impegno costante. Dazi che non sono legati a dinamiche interne al settore agroalimentare, ma che vengono trasferire ad esso come misura di rappresaglia commerciale per i sussidi che alcuni paesi europei hanno erogato all’industria aeronautica.Tutto questo è profondamente sbagliato. La viticoltura italiana non può diventare la merce di scambio sul tavolo dell’industria aeronautica o di quella delle digital companies, e i vignaioli italiani non devono diventare le vittime di una guerra iniziata su altri fronti, e che dovrebbe essere risolta attraverso mediazioni condotte su ampia scala. Noi diciamo no a questa guerra commerciale, e ci schieriamo al fianco dei nostri importatori e distributoriamericani, che in queste settimane hanno avviato numerose campagne di informazione e sensibilizzazione nei confronti dell’amministrazione Usa e della Ustr, alle quali sono state indirizzate migliaia di commenti e di appelli affinché i nuovi dazi non entrino mai in vigore, e affinché vengano sospesi i dazi del 25% già in essere per alcuni vini europei. Chiediamo ai nostri rappresentanti al governo nazionale e in Europa di farsi immediatamente carico di una questione capace di devastare tutto il comparto vinicolo continentale, e che non lascerà indenni nemmeno i mercati più lontani dagli Usa per via della necessità di ricollocare rapidamente e improvvisamente i prodotti destinati oltre Atlantico, con intuibili e irreversibili ripercussioni sui prezzi e sulle nostre quote di mercato.(”Aiutaci a difendere il vino e chi ci lavora!”, petizione lanciata su Change.org da 100 viticoltori italiani, in poche ore sottoscritta da migliaia di produttori e consumatori italiani).Siamo vignaioli italiani, piccoli e grandi, proveniamo da tutte le Regioni italiane e abbiamo un unico, comune obiettivo: produrre vini di grande qualità che contribuiscano all’economia del nostro paese e al consolidamento della sua reputazione nel mondo. Gli Stati Uniti sono un mercato estremamente importante per i nostri vini, un mercato che insieme alle nostre famiglie abbiamo costruito con fatica, impegno quotidiano ed enorme investimento di tempo e risorse, con quelle che fino a pochi giorni fa consideravamo come prospettive di sviluppo per gli anni a venire che avrebbero garantito lavoro e reddito per noi e per i nostri collaboratori. In questi giorni assistiamo sconcertati agli sviluppi della disputa DS316 presso la Wto, riguardante “European Communities and Certain member States — Measures Affecting Trade in Large Civil Aircraft”. Una disputa in cui il vino, insieme ad altri prodotti agroalimentari di origine europea, è solo una vittima collaterale. Il valore dell’export agroalimentare dall’Europa verso gli Stati Uniti si aggira sui 22 miliardi di euro; di questi, il valore del vino europeo è pari a 4 miliardi, e pesa per il 75% sulle complessive importazioni statunitensi di vino. L’Italia, con oltre 1,7 miliardi di euro, è il secondo esportatore di vino dopo la Francia.
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Sapelli: patto segreto Vaticano-Cina, e Conte si è allineato
Via della Seta? Attenti alla Cina: l’asse Roma-Pechino indebolisce l’Italia, facendo perdere al Belpaese la protezione di Washington di fronte all’Ue a trazione franco-tedesca. Quello che pochi conoscono è il ruolo del Vaticano nella svolta filo-cinese del governo italiano. Lo afferma il professor Giulio Sapelli, economista e storico, acuto analista degli scenari geopolitici. Il 22 settembre 2018, scrive Sapelli sul “Sussidiario”, è stato firmato un accordo tra Santa Sede e Repubblica Popolare Cinese, «ancor oggi secretato e sconosciuto all’opinione pubblica». Altrettanto in ombra è la storia, travagliata, dei rapporti diplomatici tra l’Oltretevere e Pechino, interrottisi nel 1951 e riapertisi di fatto solo nel 2014, «giungendo a influenzare più profondamente di quanto non si pensi la stessa vicenda italico-governativa». L’accordo stipulato un anno fa, spiega Sapelli, si fonda sulla libertà del governo cinese di proporre i vescovi cattolici. In cambio, la Santa Sede potrà scegliere quelli che ritiene più idonei al ruolo pastorale. «L’autorità immensa di cui ancor oggi la Santa Sede e il Romano Pontefice godono nel mondo – osserva Sapelli – sono in tal modo sottoposti al rischio di porsi di fatto al servizio delle ambizioni egemoniche e quindi anche culturali cinesi». Oggi, peraltro, «la gerarchia pastorale di Hong Kong ha levato la sua voce contro l’accordo».Le implicazioni con il Conte-bis? Il cuore dell’intesa che ha dato vita all’attuale accordo “pastorale”, scrive Sapelli, non risiede solo nella Segreteria di Stato vaticana, ma anche nella struttura diretta per decenni dal cardinale Achille Silvestrini, prefetto delle Chiese Orientali e grande protettore di Giuseppe Conte. L’attuale premier «è stato una figura importante nell’azione di Villa Nazareth», annota Sapelli. E la sua presenza a Palazzo Chigi, prima alleato con la Lega e ora col Pd, «illumina di una luce molto interessante il profilo culturale sia del governo, sia della nuova politica “pastorale” vaticana». Alcuni hanno parlato di “nuovo cesaropapismo”. In realtà, sintetizza Sapelli, «il governo ha intrapreso una strada parallela in merito ai rapporti economici e geostrategici con la Cina». Questo è appunto l’oggetto del contendere con gli Usa, come ben dimostra la visita riservata del Segretario di Stato americano Mike Pompeo in Vaticano, «che ha avuto come oggetto proprio la questione cinese». Secondo Sapelli, anche in merito alla collocazione internazionale dell’Italia, «gli Usa non possono non essere preoccupati dello straordinario azzardo geostrategico compiuto prima dal governo Conte-1 e poi dalla sua replica», che ha lasciato invariati «i termini di un accordo che segna un pericoloso cambiamento della politica estera italiana».La stessa polemica in corso sui dazi, continua Sapelli, non è stata affrontata in modo serio e veritiero: è stato infatti sottaciuto che il conflitto sul commercio non è tra Italia e Usa, ma tra Stati Uniti e Ue. Una guerra iniziata nel 2004 con il ricorso degli Usa alla Wto per gli aiuti di Stato europei al progetto Airbus, che avrebbe danneggiando la Boeing e l’industria nordamericana (avionica e difesa, telecomunicazioni, elettronica). «Senza dimenticare il ruolo cruciale del “dieselgate” e delle pulsioni anti-industrialiste insite nel progetto della cosiddetta auto elettrica». Non a caso, aggiunge Sapelli, «il peso degli interessi francesi e del Regno Unito in Italia sta crescendo con una velocità imprevista, che non potrà non riflettersi sull’azione del governo». Dal Conte-bis, nessuno spiraglio per una ripresa economica: «L’Iva è certo un tema importante, ma se non è collegato a una politica di investimenti e di creazione di nuove imprese e di sostegno delle esistenti non può provocare né l’innovazione competitiva, né l’aumento del mercato interno», letteralmente indispensabile «per riavviare la crescita e sconfiggere la povertà in Italia». Rimediare con le privatizzazioni? Sarebbe un tragico suicidio. Sapelli cita Luigi Campiglio, economista in forza alla Pirelli: «Privatizzare le migliori imprese italiane, come raccomanda il Fondo Monetario Internazionale, non produrrebbe affatto conseguenze positive per la nostra economia».Il nostro principale problema, infatti, resta l’incremento della domanda interna: se crolla, vincono i prodotti d’importazione. Privatizzando, aggiunge Campiglio, «si darà qualche soldo allo Stato, ma le aziende che producono per la domanda interna diventano straniere», e quindi «l’Italia ne beneficerà soltanto in minima parte». Per Sapelli, la questione è molto chiara: «Senza tutte le politiche economiche ancora importanti per la creazione di occupazione sostenendo le imprese esistenti, in primo luogo le piccole, le artigiane e le medie, non si potrà uscire da questa depressione, che si profila molto pesante». Facili previsioni: «La deflazione secolare rischia di tramutarsi da stagnazione in recessione». Opporsi è possibile, secondo il professore, «solo facendo comprendere che la resilienza italiana è la sola via che oggi deve intraprendere tutta l’Europa, Germania e Francia in primis». Ovvero: se si pone al centro l’ampliamento del mercato interno, l’occupazione, la lotta alla povertà e alla disgregazione sociale, «l’interesse nazionale è l’interesse di tutta l’Europa, al di là delle differenze di produttività del lavoro, di innovazione e di collocazione nelle catene del valore».Al Conte-bis si richiede dunque «un cambiamento di rotta profondo, a cominciare dalla politica estera, riaffermando l’alleanza con gli Usa e respingendo l’idea che sia possibile una crescita europea riproponendo continuamente la divisione geostrategica e geoeconomica iniziata nel 2003 anche per difetto della politica unipolarista degli Usa, che condusse alla divisione tra Francia e Germania da un lato, e Stati Uniti dall’altro». Il guaio è che, per Sapelli, le prospettive del governo, soprattutto in politica estera, «non sono solo insufficienti, ma preoccupanti». Roma dovrebbe «sciogliere i legami dipendenti con la Cina, riaffermare l’interesse prevalente del Mediterraneo per difendere le nostre industrie energetiche e infine uscire dalla confusione sulla cosiddetta economia verde, che mortifica gli interessi industriali italiani (mentre l’industria italiana è la più sostenibile al mondo, non solo nel tessuto energetico e chimico)». Dalla politica estera si giunge alla politica industriale, «che non è solo nazionale, ma sempre continentale e mondiale per l’inserzione italiana nelle filiere industriali e dei servizi alle imprese nel mondo». Quello che molti italiani non sanno, però, è che a Palazzo Chigi siede un premier attentissimo alle indicazioni del Vaticano, che oggi ha stretto un patto strategico con la Cina, vero antagonista storico del nostro tradizionale riferimento, cioè gli Usa.Via della Seta? Attenti alla Cina: l’asse Roma-Pechino indebolisce l’Italia, facendo perdere al Belpaese la protezione di Washington di fronte all’Ue a trazione franco-tedesca. Quello che pochi conoscono è il ruolo del Vaticano nella svolta filo-cinese del governo italiano. Lo afferma il professor Giulio Sapelli, economista e storico, acuto analista degli scenari geopolitici. Il 22 settembre 2018, scrive Sapelli sul “Sussidiario”, è stato firmato un accordo tra Santa Sede e Repubblica Popolare Cinese, «ancor oggi secretato e sconosciuto all’opinione pubblica». Altrettanto in ombra è la storia, travagliata, dei rapporti diplomatici tra l’Oltretevere e Pechino, interrottisi nel 1951 e riapertisi di fatto solo nel 2014, «giungendo a influenzare più profondamente di quanto non si pensi la stessa vicenda italico-governativa». L’accordo stipulato un anno fa, spiega Sapelli, si fonda sulla libertà del governo cinese di proporre i vescovi cattolici. In cambio, la Santa Sede potrà scegliere quelli che ritiene più idonei al ruolo pastorale. «L’autorità immensa di cui ancor oggi la Santa Sede e il Romano Pontefice godono nel mondo – osserva Sapelli – sono in tal modo sottoposti al rischio di porsi di fatto al servizio delle ambizioni egemoniche e quindi anche culturali cinesi». Oggi, peraltro, «la gerarchia pastorale di Hong Kong ha levato la sua voce contro l’accordo».
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Bombacci: morì fascista il primo leader comunista italiano
Cent’anni fa apparve in Italia il primo leader comunista, amico personale di Lenin; morì poi da fascista, fucilato a Dongo e appeso per i piedi dai suoi compagni in Piazzale Loreto, accanto a Mussolini. Si chiamava Nicolino Bombacci e fu eletto nel 1919 alla guida del partito socialista. Era il capo dei massimalisti, somigliava non solo fisicamente a Che Guevara e ricordava Garibaldi. Era un puro e un confusionario; rappresentava, per dirla con De Felice, il comunismo-movimento, rispetto a chi poi si arroccò nel comunismo-regime. Fu lui a volere la falce e martello nella bandiera rossa, sull’esempio sovietico. Questa storia rimossa dai comunisti merita di essere raccontata. Il 1°maggio di cent’anni fa era nato a Torino “Ordine Nuovo”, fondato da Antonio Gramsci, Amadeo Bordiga e Palmiro Togliatti. A quel tempo, disse poi Tasca (che, esule dal Pci, finì a Vichy con Pétain): «Eravamo tutti gentiliani». Sull’onda della rivoluzione bolscevica nel giugno di cent’anni fa “Ordine Nuovo” propose i soviet in Italia. Quel progetto li ricongiunse a Bombacci e insieme poi fondarono a Livorno il Partito Comunista. «Deve la sua fortuna di sovversivo a un paio d’occhi di ceramica olandese e a una barba bionda come quella di Cristo»: così Mussolini dipinse il suo antico compagno, poi nemico e infine camerata Bombacci.Romagnolo e maestro elementare come Mussolini, cacciato anch’egli dalla stessa scuola perché sovversivo, compagno di lotte e di prigione del futuro duce, e nemico dei riformisti, Bombacci si separò da Mussolini dopo la svolta interventista. Per tornare al suo fianco a Salò ed essere ucciso, dopo aver gridato “Viva il socialismo, viva l’Italia”. A differenza di Mussolini, Bombacci veniva dal seminario (come Stalin e Curcio) e da una famiglia papalina di Civitella di Romagna. Bombacci diventò il principale bersaglio dei fascisti che gli urlavano “Con la barba di Bombacci / faremo spazzolini. Per lucidare le scarpe di Mussolini” (la stessa canzone fu riadattata al Negus quando l’Italia fascista conquistò l’Etiopia). I fascisti lo trascinarono alla gogna, tagliandogli la barba. Zazzera biondastra e incolta, volto magro, zigomi sporgenti, malinconici occhi turchini e una voce appassionata, impetuoso trascinatore di piazza. Così lo ricordava Pietro Nenni: «Una selva di capelli spettinati, uno scoppio di parole spesso senza capo né coda. Nessun tentativo di convincere, ma lo sforzo di piacere. Un’innegabile potenza di seduzione. E in tutto questo, un soffio di passione…».Sposato in chiesa, tre figli e varie storie d’amore alle spalle, Bombacci si schierò con Gramsci dalla parte di D’Annunzio a Fiume con la Carta del Carnaro. Quando nacque il Pcd’I, Mussolini dirà in un discorso alla Camera: «Li conosco i comunisti, sono figli miei». Bombacci fece uscire il folto gruppo parlamentare socialista dalla Camera prima che parlasse il Re nel giorno dell’insediamento, al grido di “Viva il socialismo”. Bombacci fu l’unico dei comunisti italiani in diretti rapporti con Lenin. Bombacci ricevette da lui denaro, oro e platino per la propaganda. A Mosca, Bombacci tornò coi vertici del partito nel quinto anniversario della rivoluzione bolscevica, il 9 novembre del 1922 che nel calendario russo coincideva, col nostro 28 ottobre: quell’anno ci fu la Marcia su Roma. Bombacci sostenne l’intesa tra l’Italia fascista e l’Urss comunista, anche in Parlamento. Poi suggerì ai comunisti d’infiltrarsi nei sindacati fascisti (strategia che Togliatti poi teorizzò come “entrismo”). Fu lui il primo comunista a entrare (indenne) nella Camera con Mussolini al potere.Continuò a far la spola con Mosca, soprattutto dopo che l’Italia fascista era stata il primo paese occidentale a riconoscere l’Urss e ad avviare rapporti economici. Bombacci tornò a Mosca il 1924 ai funerali di Lenin ed era ritenuto il n.1 in Italia. Fu espulso dal partito quattro anni dopo, per deviazionismo e indegnità, dopo aver dato vita a un’agenzia di export-import tra l’Italia e l’Urss; Bombacci fu il precursore delle coop rosse. Per tutta la vita navigò tra i debiti; Mussolini aiutò i suoi famigliari e gli trovò un’occupazione all’Istituto di cinematografia educativa, in una palazzina di Villa Torlonia, proprio dove risiedeva il Duce. E gli finanziò un giornale fasciocomunista degli anni trenta, “La Verità”, che evocava la “Pravda” a cui Bombacci aveva collaborato. Odiato da Starace e dai fascisti, la “Verità” continuò a uscire fino al ’43. Dalle sue pagine teorizzò l’autarchia. Bombacci sognava d’unificare le rivoluzioni di Roma, Mosca e Berlino; ma con la rottura del patto Molotov-Ribbentrop, il comunismo si alleò con le plutocrazie occidentali, e lui, anti-capitalista, si schierò col fascismo.Ai tempi di Salò, Bombacci aveva i capelli corti e la barba non era più incolta; una palpebra gli si era abbassata davanti all’occhio, vestiva con abiti gessati. Ma coltivava ancora il suo velleitario socialismo. A Salò il sindacalista Francesco Grossi lo ricorda «caloroso nell’esporre, gli brillavano gli occhi chiari ed acuti che rivelavano una totale pulizia interiore». Perorò la socializzazione nella prima bozza della Carta di Verona e sognò la nascita dell’Urse, l’unione delle repubbliche socialiste europee. Con Carlo Silvestri voleva riaprire il caso Matteotti per dimostrare che quel delitto fu messo di traverso tra Mussolini e il socialismo per evitare il riavvicinamento. Con Silvestri Bombacci promosse l’estremo tentativo di consegnare le sorti della Rsi al partito socialista di unità proletaria con un messaggio consegnato a Pertini e a Lombardi, che i due leader partigiani cestinarono. Bombacci continuò a predicare tra gli operai la rivoluzione sociale: nel suo ultimo discorso a Genova il 15 marzo del ’45 ritrovò la foga della sua gioventù; lo raccontò in una lettera entusiasta a Mussolini. Fucilato con Mussolini a Dongo, fu esposto col cartello “Supertraditore”. Cadde cogli occhi azzurri spalancati verso il cielo, come si addice a un sognatore ad occhi aperti.(Marcello Veneziani, “Cent’anni fa il primo comunista italiano – che morì fascista”, da “La Verità” dell’11 giugno 2019).Cent’anni fa apparve in Italia il primo leader comunista, amico personale di Lenin; morì poi da fascista, fucilato a Dongo e appeso per i piedi dai suoi compagni in Piazzale Loreto, accanto a Mussolini. Si chiamava Nicolino Bombacci e fu eletto nel 1919 alla guida del partito socialista. Era il capo dei massimalisti, somigliava non solo fisicamente a Che Guevara e ricordava Garibaldi. Era un puro e un confusionario; rappresentava, per dirla con De Felice, il comunismo-movimento, rispetto a chi poi si arroccò nel comunismo-regime. Fu lui a volere la falce e martello nella bandiera rossa, sull’esempio sovietico. Questa storia rimossa dai comunisti merita di essere raccontata. Il 1°maggio di cent’anni fa era nato a Torino “Ordine Nuovo”, fondato da Antonio Gramsci, Amadeo Bordiga e Palmiro Togliatti. A quel tempo, disse poi Tasca (che, esule dal Pci, finì a Vichy con Pétain): «Eravamo tutti gentiliani». Sull’onda della rivoluzione bolscevica nel giugno di cent’anni fa “Ordine Nuovo” propose i soviet in Italia. Quel progetto li ricongiunse a Bombacci e insieme poi fondarono a Livorno il Partito Comunista. «Deve la sua fortuna di sovversivo a un paio d’occhi di ceramica olandese e a una barba bionda come quella di Cristo»: così Mussolini dipinse il suo antico compagno, poi nemico e infine camerata Bombacci.
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Galloni: i dazi di Trump aiutano il lavoro. Piange la finanza
La questione dei dazi commerciali Usa contro la Cina e le corrispondenti ritorsioni sono attese dagli esperti in attenuazione a medio termine; ma potrebbero nel frattempo generare nuovi equilibri interni alle due più importanti potenze economiche del pianeta. Oltre un certo limite, infatti, che potrebbe essere quello del 25%, i dazi spingeranno gli americani a produrre di più, con la conseguenza che aumenterebbero occupazione e salari interni: quanto Trump ha promesso ai propri connazionali e non può ottenere senza dazi se la Fed non accetta politiche monetarie di indebolimento del dollaro. D’altra parte gli Usa sono avvantaggiati dal fatto che le loro esportazioni strategiche riguardano servizi ad alto valore aggiunto. Anche per la Cina la situazione che si sta venendo a creare spinge nella stessa direzione, vale a dire esportare meno, rallentare la crescita ma investire di più all’interno facendo crescere salari e occupazione: vedere risoluzioni in tal senso del comitato centrale del partito comunista.Ma la crescita degli investimenti interni, la sostituzione di importazioni, l’aumento di occupazione e salari vengono visti come una iattura dalle Borse perché si accompagnano a una diminuzione del saggio dei profitti (il rapporto di questi ultimi con gli investimenti che dev’essere particolarmente elevato in Borsa, ma può risultare meno cruciale nell’economia reale e delle piccole imprese). Sia la svalutazione del dollaro (meno probabile, e che sarebbe seguita da altre svalutazioni cosiddette competitive), sia la guerra dei dazi sono destinate a far cambiare le politiche macroeconomiche interne: ci auguriamo, finalmente, travolgendo le fallimentarissime politiche dell’Unione Europea. Anche l’Italia ha il vantaggio competitivo, dato dal fatto che può esportare un prodotto esclusivo; quindi potrà sostituire importazioni senza deprimere l’export.Meno chiaro è come sarà forzata la crescita della domanda interna (pur in presenza di risorse umane e tecnologiche sottoutilizzate) da parte di chi non esercita – a differenza di Usa o Cina – la sovranità monetaria. Comunque il mondo sta andando nella direzione giusta: rivincita dell’economia reale e delle piccole imprese; crisi della finanza; fine delle politiche di austerity e maggiore rispetto per l’ambiente. Ben poco di tutto ciò favorisce i poteri forti mondiali e, quindi, le soluzioni militari è destabilizzanti sono, come sempre nella storia, in agguato. Molto dipenderà dalla evoluzione democratica che dovrebbe puntare – ma è una cosa necessaria e difficile – a un maggior controllo della cittadinanza su moneta e tecnologie disponibili.(Nino Galloni, “Usa, Cina e Borse mondiali”, dal newsmagazine “Scenari Economici” del 14 maggio 2019).La questione dei dazi commerciali Usa contro la Cina e le corrispondenti ritorsioni sono attese dagli esperti in attenuazione a medio termine; ma potrebbero nel frattempo generare nuovi equilibri interni alle due più importanti potenze economiche del pianeta. Oltre un certo limite, infatti, che potrebbe essere quello del 25%, i dazi spingeranno gli americani a produrre di più, con la conseguenza che aumenterebbero occupazione e salari interni: quanto Trump ha promesso ai propri connazionali e non può ottenere senza dazi se la Fed non accetta politiche monetarie di indebolimento del dollaro. D’altra parte gli Usa sono avvantaggiati dal fatto che le loro esportazioni strategiche riguardano servizi ad alto valore aggiunto. Anche per la Cina la situazione che si sta venendo a creare spinge nella stessa direzione, vale a dire esportare meno, rallentare la crescita ma investire di più all’interno facendo crescere salari e occupazione: vedere risoluzioni in tal senso del comitato centrale del partito comunista.
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Guerra sui dazi Usa-Cina, tresette col morto (che è l’Europa)
I negoziati commerciali Usa-Cina non sono andati a buon fine: alla mezzanotte ed un minuto della notte tra venerdì 10 e sabato 11 maggio, gli Stati Uniti hanno posto dazi del 25% su gran parte delle importazioni della Cina e Pechino ha risposto minacciando misure di ritorsione. Nonostante tutto, però, la trattativa sta riprendendo (pare) nella capitale nel nuovo Celeste Impero. Al termine di questa partita (ancora non sono chiari i contorni della prossima), occorre chiedersi chi ha vinto e chi ha perso. Ipotizziamo che si tratti di una partita a carte: un tresette (col morto) dato i principali giocatori sono tre (Usa, Cina, Ue), non quattro. Il resto del mondo resta sullo sfondo, come vi è rimasto nel corso della tornata. Pagherà comunque il conto in termini di incertezza sul futuro non solo del commercio ma anche degli investimenti internazionali, i quali, senza sapere quale è il regime tariffario a cui saranno soggetti i loro prodotti, non sapranno dove andare. Ciò provocherà un rallentamento della crescita dell’eximport mondiale, di cui faranno le spese i paesi esportatori più fragili (come l’Italia).Ma torniamo ai tre contendenti al tavolo da gioco: Usa, Cina e Ue. Gli Usa hanno fatto saltare il branco e terminato il 10 maggio una partita a cui erano stati concessi diversi tempi supplementari: sarebbe dovuta terminare entro il termine perentorio del 30 marzo. Lo hanno fatto nonostante che, almeno nel breve termine, Washington rischi di essere il giocatore che perde di più. Da un lato, i consumatori di prodotti finiti di bassa fascia (giocattoli, abbigliamento) dovranno pagarli di più se non troveranno sostituti manufatti negli Usa o altrove. Da un altro, le aziende (numerose in certe categorie dell’elettronica) che assemblano per il mercato americano componenti manufatte in Cina avranno più alti costi di produzione. Da un terzo, la banca centrale cinese ha nelle sue riserve 1.13 trilioni di dollari Usa e, se vuole, può mettere in serie difficoltà gli americani, riversandone parte sul mercato finanziario.Perde, nel più lungo termine, anche Pechino. Come più volte sottolineato su questa testata, il principale nodo più che il commercio è il fatto che la Cina non ha ottemperato alla promessa, fatta quando è stata ammessa, nel lontano 2001, all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) di trasformarsi in una vera economia di mercato. È a tale trasformazione a cui, per il momento, Pechino si oppone in modo veemente. La bozza di accordo bilaterale prevedeva misure che avrebbero comportato mettere su un piede di parità con gli altri operatori le gigantesche imprese pubbliche cinesi e la revisione della normativa che impone alle aziende straniere che vogliono operare in Cina di dischiudere alle autorità cinesi le loro innovazioni di processo e prodotto. D’altro canto, per Pechino scardinare le imprese statali vuole dire scardinare gli assetti di potere: la Via della Seta è stata concepita come mezzo per mantenere in vita il sistema esistente. Sino a quanto regge.Gli Usa, però, hanno un asso nella manica. Uno studio a limitata circolazione degli uffici del Rappresentante speciale della Casa Bianca, firmato da Alexander Hamilton e Nabil Abbyad, (Executive Briefing on Trade Usitc 2018) documenta la crescita del debito interno della Cina, dovuto in gran misura all’uso inefficiente delle risorse da parte delle imprese statali, e come tale fardello rischia di pesare pesantemente sullo sviluppo del paese nei prossimi anni. Prima o poi, anche a causa di conflitti interni tra la gerarchie del Partito comunista cinese, arriverà il momento del rendiconto. L’Ue potrebbe essere il vincitore, soprattutto se gioca unita e se sa inserirsi astutamente nelle modifiche, ormai urgenti, delle imprese di Stato cinesi. Lo hanno ben compreso Francia e Germania, che hanno concluso accordi di vendita (in contanti) per aerei e macchine utensili. La Grecia, primo Stato a mettersi sulla Via della Seta quando era in brache di tela, rimpiange già la (s)vendita del porto del Pireo. E l’Italia? E’ stata ammaliata nel fascino orientale. Speriamo bene!(Giuseppe Pennisi, “Il tresette commerciale tra Usa e Cina – col morto, che è l’Europa”, da “Formiche.net” del 12 maggio 2019).I negoziati commerciali Usa-Cina non sono andati a buon fine: alla mezzanotte ed un minuto della notte tra venerdì 10 e sabato 11 maggio, gli Stati Uniti hanno posto dazi del 25% su gran parte delle importazioni della Cina e Pechino ha risposto minacciando misure di ritorsione. Nonostante tutto, però, la trattativa sta riprendendo (pare) nella capitale nel nuovo Celeste Impero. Al termine di questa partita (ancora non sono chiari i contorni della prossima), occorre chiedersi chi ha vinto e chi ha perso. Ipotizziamo che si tratti di una partita a carte: un tresette (col morto) dato i principali giocatori sono tre (Usa, Cina, Ue), non quattro. Il resto del mondo resta sullo sfondo, come vi è rimasto nel corso della tornata. Pagherà comunque il conto in termini di incertezza sul futuro non solo del commercio ma anche degli investimenti internazionali, i quali, senza sapere quale è il regime tariffario a cui saranno soggetti i loro prodotti, non sapranno dove andare. Ciò provocherà un rallentamento della crescita dell’eximport mondiale, di cui faranno le spese i paesi esportatori più fragili (come l’Italia).
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Rapporto Onu: crimini Usa contro l’umanità in Venezuela
Il rapporto dell’esperto Onu che ha visitato il Venezuela nel 2017, Alfred De Zayas, propone di deferire gli Stati Uniti alla Corte Penale Internazionale per i crimini contro l’umanità perpetrati in Venezuela dopo il 2015. Lo ricorda il sociologo Pino Arlacchi, vicesegretario generale delle Nazioni Unite dal 1997 al 2002, in un intervento sul “Fatto Quotidiano” riguardo alla crisi umanitaria nel quale è stato sprofondato il Venezuela. Colpa dell’imbelle e corrotto governo Maduro? No, putroppo: se Maduro certo non brilla, a rovinare i venezuelani sarebbero stati soprattutto gli Usa. Per Arlacchi, il caso-Venezuela «si configura nei termini di una gigantesca truffa informativa, volta a coprire la sopraffazione di un popolo e la spoliazione di una nazione». Il principale mito da sfatare, scrive Arlacchi, riguarda le cause di fondo del dramma venezuelano: «I media occidentali non hanno avuto dubbi nell’additare gli esecutivi succedutisi al potere dopo l’elezione del “dittatore” Chávez alla presidenza nel 1998 come unici responsabili della crisi, nascondendone la matrice di gran lunga più importante: le barbare sanzioni americane contro il Venezuela decise da Obama nel 2015 e inasprite da Trump nel 2017 e nel 2018».
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Giannini: ci crediate o no, il governo sta riparando l’Italia
Non sparate sul governo gialloverde: sta facendo molte più di quanto non si veda, specie sui grandi media (tutti schierati all’opposizione). Lo sostiene Marco Giannini, studioso di economia, un tempo vicino ai 5 Stelle. Sbagliano, giornali a televisioni, a descrivere l’azione dell’esecutivo come fallimentare: da una parte fanno leva sullo spread – che non misura l’economia ma solo la speculazione finanziaria, complice la Bce (ai tempi della lira, infatti, lo spread non esisteva) – e dall’altra scaricano lo smottamento industriale su una compagine in carica da meno di un anno. La produzione industriale ha perso il 5,5%: solo un cretino potrebbe non capire che un simile cedimento è dovuto a «questi 8 anni di lunga, controproducente e immotivata austerità», scrive Giannini, in una riflessione ripresa da “Come Don Chisciotte”. Rigore immotivato? Ma certo: perché l’Italia – ricorda Giannini – è in avanzo primario da anni. Cioè: lo Stato intasca, in termini di tasse, più di quanto non spenda, in servizi, per i cittadini. Il famoso debito pubblico? Colpa dei tassi d’interesse. Potrebbero essere normalizzati? Certo: «Servirebbero circa sette anni per “ripulire” il debito da questo aspetto critico», se solo la Bce «operasse come le normali banche centrali». Per contro, l’Italia ha partite correnti invidiabili (ottimo equilibrio import/export). E il governo? Ci crediate e no, insiste Giannini, sta lavorando sodo – checché ne dicano i media, legati a Pd e Forza Italia, spodestati nel 2018.I bersagli preferiti dalla stampa, osserva Giannini, sono Di Maio e Toninelli, “colpevoli” di aver scelto come alleato la Lega e non il Pd, sottomesso a Francia e Germania (secondo uno studio tedesco, il giochetto è già costato 73.000 euro a ogni italiano, in favore di tedeschi e olandesi). Giornali e Tv esaltano i dissidenti 5 Stelle appena si distinguono da Salvini sul tema migranti? C’è puzza di Soros, avverte Giannini. Attaccare Di Maio in quanto succube del leader leghista? Sarebbe stato meglio «attivare i neuroni per creare piani programmatici accattivanti», alle prime avvisaglie di flessione nei consensi. Il vicepremier grillino? «E’ stato un uomo leale con il suo alleato, non certo un suddito: e credo che gli italiani questo lo abbiano capito e apprezzato – dice Giannini – al di là del risultato delle regionali». Quanto al ministro delle infrastrutture, Toninelli «è descritto come un principiante, ma nessuno chiarisce il perché». Se la motivazione sono le gaffe commesse nelle interviste, Giannini ricorda la mitica Gelmini, col suo tunnel per neutrini dal Cern di Ginevra fino al Gran Sasso, per non parlare del “milione di posti di lavoro” di Berlusconi o del leggendario “Enrico stai sereno” rivolto da Renzi al povero Letta. In confronto, Toninelli è un campione di serietà e correttezza.Stiamo ai fatti, raccomanda Giannini: è assai più densa di quello che sembra, l’agenda gialloverde, pur inevitabilmente mediata dai compromessi indispensabili tra Lega e 5 Stelle. Esempio: il reddito di cittadinanza (pur in versione “magra”) è stato comunque approvato, con salario minimo di 5 euro l’ora (cifra bassissima per volere della Lega). «Un po’ poco per il centro-nord dato il costo della vita, forse sufficiente per evitare esclusione sociale per il centro-sud». Se non altro, «le aziende che assumono un soggetto che sta ricevendo il reddito ottengono un bonus fino a 18.000, visto che alleggeriscono lo sforzo profuso dallo Stato». Per Giannini in reddito di cittadinanza «è un provvedimento sacrosanto, una misura anti-ciclica presente non a caso in tutta l’Ue». Troppo misero e troppo normato? Il problema vera si chiama euro, sottolinea Giannini: «L’italiano non vuole la disoccupazione, vuole salari più alti, vuole meno tasse, vuole la crescita, vuole un Rdc più esteso e vuole però anche la moneta unica, che queste conquiste preclude». Come dire: nell’Eurozona, è impossibile pretendere di più. E gli altri partiti? «Pd, Forza Italia e Fratelli d’Italia promettono di abolire il Rdc qualora vincessero le elezioni». Ed è singolare che un sindacato come la Cgil «dopo anni di silenzio di fronte a esodati, austerity, tagli indiscriminati e deflazione salariale» oggi manifesti contrarietà a questo provvedimento «che, giusto o sbagliato, estende i diritti sociali e certo non li restringe».Vogliamo parlare di pensioni di cittadinanza? Se un cittadino ha un assegno inferiore ai 780 euro raggiungerà questo ammontare mensile a patto che abbia una Isee inferiore a 9.360 euro, un patrimonio mobiliare inferiore a 6.000 euro e un patrimonio immobiliare (esclusa la prima casa) inferiore a 30.000 euro. «Dai calcoli Inps sono circa 500.000 le persone interessate al provvedimento». La “Quota 100” era presente nei programmi delle due forze di governo: «E’ stata approvata insieme al reddito di cittadinanza e rappresenta un primo passo concreto per superare la legge Fornero», ricorda Giannini. E sono oltre 100.000 le domande già inviate: tutti «posti di lavoro che si liberano». Salvini voleva la Flat Tax universale? L’ha ottenuta almeno per le partite Iva: aliquota al 15% fino ai 65.000 mila euro. Poi c’è il decreto Inail, con taglio medio del 32% del costo del lavoro (valore: 1,8 miliardi). «Dalla lotta agli sprechi della burocrazia (compreso il numero delle leggi, da ridurre) e della abolizione completa dei finanziamenti all’editoria – aggiunge Giannini – Di Maio ha promesso una ulteriore riduzione del cuneo fiscale, in favore di aziende e lavoratori, e sgravi aggiuntivi per le imprese che assumono». Insomma, le formichine gialloverdi lavorano: è avviato l’iter per ridurre i parlamentari da 945 a 600.Quanto alle pensioni d’oro, chi riceve più di centomila euro l’anno dovrà cedere dal 10 al 20% come contributo di solidarietà. Gli stessi vitalizi dei parlamentari «vengono ricalcolati con il metodo contributivo con un taglio medio del 20%», e il ricavato «dovrebbe riversarsi in un fondo per le pensioni minime» (norma approvata col voto favorevole della sola maggioranza). Quanto alla geopolitica, Giannini apprezza la neutralità dei gialloverdi (specie 5 Stelle) sulla crisi del Venezuela, dove l’Eni ha forti interessi dopo gli accordi col governo Maduro (meglio non ripetere l’autogoal della Libia). Capitolo migranti: gli sbarchi sono calati del 95%. Salvini, leale coi grillini, non ha però espulso nessun clandestino. Tra le novità maggiori, di cui non si parla, secondo Giannini c’è il problema idrogeologico: 11 miliardi di euro in tre anni stanziati per la prevenzione e la messa in sicurezza del territorio. In altre parole, «finalmente usciamo dal medioevo». Volendo, si può parlare anche della legge anticorruzione, che «ha inasprito le pene per i reati di corruzione e ha modificato la prescrizione, rendendola meno “agevole”». Di fatto, «è stata aumentata la trasparenza su fondazioni e donazioni ai partiti».Nota dolente, il rapporto deficit-Pil: il governo ha ceduto a Bruxelles, calando dal 2,4 al 2,04%. Ma attenzione: Pd e Forza Italia avrebbero subito un semplice 0,8% senza battere ciglio. Siamo a un 2% pieno: «Il valore simbolico rappresentato da questo livello è importante – dice Giannini – sebbene non rappresenti la manovra espansiva di cui avremmo bisogno per uscire dalla crisi e per una efficace reindustrializzazione». I “paletti” di Bruxelles, come noto, vietano politiche di questo tipo. «Al contrario di ciò che viene detto dai media, sforando ci si indebita ma si permette all’economia di ripartire (e di rientrare dello sforamento con un surplus in sviluppo)». Purtroppo continua Giannini, la congiuntura mondiale – che vede anche la Germania col segno meno – si riflette sullo Stivale. L’analista già di area 5 Stelle cita anche il decreto sblocca-cantieri, che «renderà più trasparenti le gare d’appalto, semplificando la burocrazia che ne rallenta la realizzazione». Sta inoltre per essere attivato il Fondo Nazionale Innovazione, che rispetto ai precedenti 200 milioni destina un miliardo di euro all’anno per chi apre una startup.Sono infine stati stanziati 45 milioni in 3 anni per la blockchain, tecnologia che segnerà una rivoluzione paragonabile a Internet, «un database in cui verranno registrate transazioni di ogni tipo, che favorirà il flusso di informazioni dal commercio, alla medicina, dall’industria e alla finanza, riducendo la burocrazia». L’impressione generale, conclude Giannini, è che questo governo sia davvero un esecutivo “del fare” e che stia cercando coraggiosamente di impiegare le poche risorse a disposizione nel modo più “performante” e produttivo. «Assistendo ai molti dispositivi messi in gioco su trasparenza, semplificazione, riduzione del carico fiscale sulle imprese ed estensione dei diritti sociali – dice – mi sento di non rilevare un appiattimento sulla Lega da parte del M5S». Sembra tuttavia che questa falsa rappresentazione «sia dovuta in larga parte al frastuono da campagna elettorale di stampa e Tv», oltre che «all’enfatizzazione della questione migratoria rispetto alle questioni socio-economiche e giuslavoriste». Come dire: lasciamoli lavorare. Non hanno ancora risultati smaglianti da esibire, ma di problemi ne stanno risolvendo ogni giorno, e non pochi, grazie a una fatica che il più delle volte non affiora, sui soliti media.Non sparate sul governo gialloverde: sta facendo molte più di quanto non si veda, specie sui grandi media (tutti schierati all’opposizione). Lo sostiene l’antropologo Marco Giannini, studioso di economia, un tempo vicino ai 5 Stelle. Sbagliano, giornali a televisioni, a descrivere l’azione dell’esecutivo come fallimentare: da una parte fanno leva sullo spread – che non misura l’economia ma solo la speculazione finanziaria, complice la Bce (ai tempi della lira, infatti, lo spread non esisteva) – e dall’altra scaricano lo smottamento industriale su una compagine in carica da meno di un anno. La produzione industriale ha perso il 5,5%: solo un cretino potrebbe non capire che un simile cedimento è dovuto a «questi 8 anni di lunga, controproducente e immotivata austerità», scrive Giannini, in una riflessione ripresa da “Come Don Chisciotte”. Rigore immotivato? Ma certo: perché l’Italia – ricorda Giannini – è in avanzo primario da anni. Cioè: lo Stato intasca, in termini di tasse, più di quanto non spenda, in servizi, per i cittadini. Il famoso debito pubblico? Colpa dei tassi d’interesse. Potrebbero essere normalizzati? Certo: «Servirebbero circa sette anni per “ripulire” il debito da questo aspetto critico», se solo la Bce «operasse come le normali banche centrali». Per contro, l’Italia ha partite correnti invidiabili (ottimo equilibrio import/export). E il governo? Ci crediate e no, insiste Giannini, sta lavorando sodo – checché ne dicano i media, legati a Pd e Forza Italia, spodestati nel 2018.
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Arlacchi: Venezuela nella trappola Usa, sui media solo bugie
Ho appena terminato uno studio della crisi del Venezuela basato su documenti Onu e di centri di ricerca indipendenti. Mi è stato difficile mantenere la calma mentre davanti ai miei occhi si componeva una narrativa opposta a quella corrente. Il caso del Venezuela si configura nei termini di una gigantesca truffa informativa che ci oltraggia ogni giorno con notizie false, omissive e distorte su ciò che accade in quel paese. Sono le barbare sanzioni americane inflitte dal 2015 in poi approfittando del crollo del prezzo del petrolio, e cioè della maggiore fonte di entrate pubbliche del Venezuela, e non le politiche sbagliate dei governi Chavez-Maduro a detenere la massima colpa del dramma odierno sofferto da 32 milioni di persone. L’economia del Venezuela è crollata a causa del blocco delle importazioni dovuto all’impossibilità di usare il dollaro per pagarle dopo l’imposizione delle sanzioni da parte prima di Obama e poi di Trump. Gli ospedali del Venezuela sono rimasti senza medicine perché le banche internazionali si rifiutano di accettare i relativi pagamenti in dollari da parte del governo Maduro. E così sta accadendo per il cibo e per le risorse necessarie a far funzionare la macchina produttiva.L’opera viene completata dall’accaparramento di beni e dal mercato nero dominati dai gruppi mafiosi locali protetti e incoraggiati dall’ opposizione e dalla longa manus del governo Usa. C’è poi una mafia valutaria che ha distrutto la moneta locale, il bolivar, alimentando un’iperinflazione senza riscontro nei fondamentali dell’economia. Mafia protetta anch’essa da chi vuole far crollare il governo legittimo e consegnare uno dei paesi più ricchi di risorse naturali del mondo nelle mani degli Stati Uniti. Come? Tramite la solita ricetta neoliberista di privatizzazioni, liberalizzazioni e tagli della spesa sociale promessa da Guaidò ed altri pupazzi manovrati dal governo Usa e dalle sue estensioni internazionali. Questa è una prima sintesi dei risultati della mia ricerca. In un post successivo approfondirò ancora e vi indicherò le fonti cui ricorrere per contrastare questa industria della menzogna globale.(Pino Arlacchi, “Il grande imbroglio sul Venezuela”, dalla pagina Facebook di Arlacchi del 23 febbraio 2019; post ripreso da “Megachip” il 26 febbraio 2019. Sociologo e criminologo, docente anche alla Columbia University di New York, Arlacchi è stato tra gli ideatori della strategia antimafia, insieme a Falcone e Borsellino, firmando il progetto della Dia, Direzione Investigativa Antimafia. Attivo anche a livello internazionale contro la criminalità organizzata, dal 1997 al 2002 ha ricoperto l’incarico di sottosegretario generale delle Nazioni Unite, direttore dell’Undccp (antidroga e prevenzione del crimine), dirigendo anche l’ufficio delle Nazioni Unite a Vienna. Nel 2000 ha promosso a Palermo la Convenzione Onu contro la criminalità internazionale, firmata da 124 paesi. Nel campo della lotta al riciclaggio del denaro sporco, Arlacchi ha promosso la firma nel 2001 da parte di 34 paradisi fiscali di un accordo che li ha impegnati a lavorare con l’Onu per adeguare le loro legislazioni agli standard internazionali di trasparenza finanziaria. E’ stato impegnato con successo in Tagikistan, Kosovo, Cina. Analista geopolitico, è considerato un esperto internazionale in materia di sicurezza).Ho appena terminato uno studio della crisi del Venezuela basato su documenti Onu e di centri di ricerca indipendenti. Mi è stato difficile mantenere la calma mentre davanti ai miei occhi si componeva una narrativa opposta a quella corrente. Il caso del Venezuela si configura nei termini di una gigantesca truffa informativa che ci oltraggia ogni giorno con notizie false, omissive e distorte su ciò che accade in quel paese. Sono le barbare sanzioni americane inflitte dal 2015 in poi approfittando del crollo del prezzo del petrolio, e cioè della maggiore fonte di entrate pubbliche del Venezuela, e non le politiche sbagliate dei governi Chavez-Maduro a detenere la massima colpa del dramma odierno sofferto da 32 milioni di persone. L’economia del Venezuela è crollata a causa del blocco delle importazioni dovuto all’impossibilità di usare il dollaro per pagarle dopo l’imposizione delle sanzioni da parte prima di Obama e poi di Trump. Gli ospedali del Venezuela sono rimasti senza medicine perché le banche internazionali si rifiutano di accettare i relativi pagamenti in dollari da parte del governo Maduro. E così sta accadendo per il cibo e per le risorse necessarie a far funzionare la macchina produttiva.
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Chi smaschera il debito ci rimette la vita: Sankara insegna
Sono passati trent’anni anni da quando il presidente rivoluzionario del Burkina Faso, ribattezzato “il Che Guevara africano”, venne ucciso – secondo la ricostruzione ormai ufficiale – dal suo ex braccio destro nonché successore Blaise Campaorè, verosimilmente appoggiato dai francesi e da altre forze internazionali. Come ricorda Ilaria Bifarini nel suo blog, Sankara era divenuto un personaggio «troppo scomodo, per il piano egemonico mondiale messo in atto dai poteri finanziari internazionali attraverso lo strumento del debito». Studiosa di economia (“bocconiana redenta”), nonché autrice di saggi di successo – dalla crisi neoliberista dell’euro a quella dei migranti – Ilaria Bifarini rievoca il celebre “discorso sul debito” tenuto da Sankara nel 1987 ad Addis Abeba all’assemblea dell’Oua, l’Organizzazione per l’Unità Africana. Un’orazione memorabile, «di una forza e di una chiarezza straordinarie», che rappresenta «un appello a tutti i rappresentanti internazionali a considerare le cause e la reale natura del debito, che non è altro che una nuova e ancora più pervasiva forma di schiavitù, quella finanziaria». Lasciateci in pace, disse Sankara: non abbiamo bisogno degli aiuti della Banca Mondiale e del Fmi, di cui gli africani poi diventano prigionieri.«Con una lucidità e una lungimiranza degne di un vero rivoluzionario – scrive Ilaria Bifarini – Sankara anticipa quanto solo ora alcuni economisti hanno trovato il coraggio di proporre». Ovvero: «Annullare il debito, per permettere alla popolazione di continuare a vivere». Disse Sankara: «Loro, i finanziatori, certo non moriranno se noi non ripagheremo il debito, mentre il nostro popolo sì». La soluzione? Incentivare l’economia nazionale fondata sulla produzione diretta di beni, limitando le importazioni. Lo stesso Sankara, ricorda Bifarini, si vantò dell’abito che indossava – una camicia di cotonella, prodotta dagli artigiani burkinabé. Riguardando il video di quello storico discorso, la Bifarini annota: «La platea è sconcertata ma applaude, la forza trascinatrice è quella di un rivoluzionario, la lungimiranza di un visionario». Solo due mesi e mezzo dopo, a soli 37 anni, Sankara verrà assassinato. Era perfettamente cosciente del rischio che correva: «È possibile – disse – che, a causa degli interessi che minaccio, a causa di quelli che certi ambienti chiamano “il mio cattivo esempio”, con l’aiuto di altri dirigenti pronti a vendersi la rivoluzione, potrei essere ammazzato da un momento all’altro. Ma i semi che abbiamo seminato in Burkina e nel mondo sono qui», aggiunse.Quei semi, sappiatelo, «nessuno potrà mai estirparli: germoglieranno e daranno frutti». Concluse: «Se mi ammazzano, arriveranno migliaia di nuovi Sankara». Purtroppo, osserva Ilaria Bifarini, la sua profezia «si è avverata solo a metà», e i nuovi Sankara «verranno uccisi sul nascere». Proprio a Sankara, il Movimento Roosevelt dedica un importante convegno, in programma il 3 maggio a Milano. Tema: il modello Sankara come antidoto alla crisi dei migranti. In altre parole: restituire piena sovranità all’Africa, in modo da fermare l’esodo dei profughi economici. Nel convegno, la figura di Sankara sarà equiparata a quelle di Carlo Rosselli, martire antifascista e fautore del socialismo liberale, e del premier svedese Olof Palme, assassinato a Stoccolma nel 1986 da un killer tuttora sconosciuto. Olof Palme aveva impegnato lo Stato nel supportare le aziende svedesi in difficoltà, imponendo l’azionariato diffuso tra gli stessi operai, e si era battuto per la libertà dell’Africa protestando – prima di chiunque altro – per la scandalosa detenzione di Nelson Mandela. Come Sankara, Palme sapeva bene a quali risultati avrebbe condotto il neoliberismo coloniale nel continente nero, che costò la vita al giovane presidente del Burkina Faso.Temi di strettissima attualità, come sappiamo, che la stessa Ilaria Bifarini ha sviscerato nel saggio “I coloni dell’austerity”: è proprio l’imperialismo neoliberista a depredare l’Africa, spingendo verso l’Europa i “privilegiati” che possono pagarsi il viaggio della speranza sui barconi. Sono migranti attratti dal miraggio di un’Europa che in realtà non ha più intenzione di accoglierli, alle prese a sua volta con le contorsioni di una crisi più finanziaria che economica, innescata dall’ideologia neoliberista e privatizzatrice che ha inquinato la politica. In che modo? Mettendo fine al socialismo liberale ispirato da Rosselli, di cui proprio il carismatico Olof Palme era il leader più autorevole. Da allora, l’Europa ha cominciato a parlare una sola lingua: quella del Trattato di Maastricht, che ha impoverito gli europei e allineato il vecchio continente allo schema di dominio che – dopo la breve e illusoria parentesi della decolonizzazione – ha finito per schiavizzare l’Africa di Sankara.Sono passati trent’anni anni da quando il presidente rivoluzionario del Burkina Faso, ribattezzato “il Che Guevara africano”, venne ucciso – secondo la ricostruzione ormai ufficiale – dal suo ex braccio destro nonché successore Blaise Campaorè, verosimilmente appoggiato dai francesi e da altre forze internazionali. Come ricorda Ilaria Bifarini nel suo blog, Sankara era divenuto un personaggio «troppo scomodo, per il piano egemonico mondiale messo in atto dai poteri finanziari internazionali attraverso lo strumento del debito». Studiosa di economia (“bocconiana redenta”), nonché autrice di saggi di successo – dalla crisi neoliberista dell’euro a quella dei migranti – Ilaria Bifarini rievoca il celebre “discorso sul debito” tenuto da Sankara nel 1987 ad Addis Abeba all’assemblea dell’Oua, l’Organizzazione per l’Unità Africana. Un’orazione memorabile, «di una forza e di una chiarezza straordinarie», che rappresenta «un appello a tutti i rappresentanti internazionali a considerare le cause e la reale natura del debito, che non è altro che una nuova e ancora più pervasiva forma di schiavitù, quella finanziaria». Lasciateci in pace, disse Sankara: non abbiamo bisogno degli aiuti della Banca Mondiale e del Fmi, di cui gli africani poi diventano prigionieri.
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Gli Usa vogliono il Venezuela, ma il popolo (86%) si oppone
La Guerra Fredda 2.0 ha fatto scalo in Sudamerica. Gli Stati Uniti e i loro soliti vassalli si trovano di fronte ai quattro pilastri dell’integrazione eurasiatica in corso: Cina, Iran, Russia e Turchia. È sì una questione di petrolio, ma non solo. Caracas ha commesso un peccato capitale agli occhi dei neocon; scambiare petrolio bypassando il dollaro Usa e i mercati controllati dagli Stati Uniti. Ricordate cos’è successo in Iraq? Ricordate cos’è successo in Libia? Eppure anche l’Iran sta facendo lo stesso. E così la Turchia. La Russia – perlomeno in parte – è sulla strada. E la Cina finirà per scambiare tutte le proprie fonti energetiche in petroyuan. Già lo scorso anno l’amministrazione Trump aveva sanzionato Caracas, dopo che il Venezuela aveva adottato la petro cripto-valuta ed il bolivar sovrano, escludendola dal sistema finanziario internazionale. Non c’è da stupirsi che Caracas sia sostenuta da Cina, Iran e Russia. Sono loro la vera Troika – e non la ridicola “troika tirannica”, così definita da John Bolton – che combatte contro la strategia di dominio energetico del governo Usa , che essenzialmente consiste nel continuare per sempre a scambiare petrolio in petrodollari.Il Venezuela è un ingranaggio-chiave nella macchina. Lo psico-assassino Bolton l’ha pubblicamente ammesso: «Farebbe tutta la differenza del mondo se le nostre compagnie potessero investire in Venezuela e sfruttarne le capacità petrolifere». Non si tratta solo di lasciare che la Exxon prenda il controllo delle enormi riserve di petrolio venezuelane, le più grandi del pianeta. La chiave è monopolizzare il loro sfruttamento in dollari Usa, a beneficio dei miliardari del cartello Big Oil. Ancora una volta, quel che è in gioco è la maledizione delle risorse naturali. Il Venezuela non deve poter trarre profitto dalla propria ricchezza alle condizioni che vuole; i promotori dell’eccezionalismo americano hanno quindi stabilito che lo Stato venezuelano debba essere distrutto. Alla fine, è tutta una questione di guerra economica. Vedasi l’imposizione da parte del Dipartimento del Tesoro di nuove sanzioni alla Pdvsa, che de facto equivalgono a un embargo petrolifero contro il Venezuela.È oramai appurato che quanto accaduto a Caracas non sia stata una rivoluzione colorata, ma un “regime change” promosso dagli Usa. Si è tentato di sfruttare le locali élite di “comprador” per installare come “presidente ad interim” un personaggio sconosciuto, Juan Guaidó, col suo look mansueto che, un po’ come Obama, in realtà maschera un animo da estrema destra. Tutti ricordano “Assad deve andarsene”. Il primo stadio della rivoluzione colorata siriana fu l’istigazione alla guerra civile, seguita da una guerra per procura tramite mercenari jihadisti da tutto il mondo. Come notato da Thierry Meyssan, il ruolo della Lega Araba viene ora recitato dall’Oas. E quello di Friends of Syria – ora gettato nella spazzatura della storia – dal Gruppo di Lima, il club dei vassalli di Washington. Al posto dei “ribelli moderati” di al-Nusra, potremmo avere mercenari “ribelli moderati” colombiani – o di varia estrazione ma addestrati negli Emirati.Contrariamente a quanto dicono i media mainstream occidentali, le ultime elezioni in Venezuela sono state assolutamente legittime. Non c’era modo di manomettere le macchine per il voto elettronico, made in Taiwan. Il Partito Socialista salito al potere ha ottenuto il 70% dei voti. Una rigorosa delegazione del Consiglio degli Esperti Elettorali dell’America Latina (Ceela) è stata chiara: l’elezione ha rispecchiato «in modo trasparente la volontà dei cittadini venezuelani». L’embargo americano è sicuramente maligno. Bisogna però anche ammettere che il governo Maduro è stato abbastanza incompetente nel non diversificare l’economia e nel non investire nell’autosufficienza alimentare. Rilevanti importatori di cibo, speculando come se non ci fosse un domani, stanno facendo una fortuna. Fonti attendibili a Caracas dicono tuttavia che i barrios – i quartieri popolari – al momento rimangono in gran parte pacifici.In un paese dove un pieno di benzina costa meno di una lattina di Coca-Cola, non v’è dubbio alcuno che sia stata la cronica penuria di cibo e medicinali ad aver costretto almeno due milioni di persone a lasciare il Venezuela. Il fattore chiave dell’offensiva è stato però l’embargo statunitense. Alfred de Zayas, l’inviato Onu in Venezuela, esperto di diritto internazionale ed ex segretario del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, va dritto al punto: più che attaccare Maduro, Washington sta conducendo una “guerra economica” contro un’intera nazione. È illuminante vedere come il “popolo venezuelano” consideri la situazione. In un sondaggio condotto da Hinterlaces ancor prima del golpe, l’86% dei cittadini aveva dichiarato di essere contrario a qualsiasi tipo di intervento Usa, militare o di altro tipo. E l’81% dei venezuelani ha dichiarato di essere contrario alle sanzioni statunitensi. Ne hanno abbastanza di “benigne” interferenze straniere a favore di “democrazia” e “diritti umani”.Le analisi di acuti osservatori come Eva Golinger, e soprattutto il collettivo Mision Verdad, sono estremamente utili. Quel che è certo, in puro stile Impero del Caos, è che il fine americano, al di là di embargo e sabotaggio, è quello di fomentare la guerra civile. Instabili “gruppi armati” sono stati attivati nei barrios di Caracas, agendo nel cuore della notte ed amplificando i “disordini” sui social media. Eppure Guaidó non ha assolutamente alcun tipo di potere all’interno del paese. La sua unica possibilità di successo è riuscire a installare un governo parallelo – incassando le entrate petrolifere e facendo in modo che Washington arresti i membri del governo con pretestuose accuse. Indipendentemente dai sogni bagnati dei neocon, i tipi al Pentagono dovrebbero sapere che un’invasione del Venezuela potrebbe sfociare in un pantano in stile Vietnam. L’uomo forte brasiliano in attesa, il vicepresidente e generale in pensione Hamilton Mourao, ha già detto che non ci sarà alcun intervento militare.L’ormai famigerato foglietto dello psicopatico assassino Bolton con su scritto “5.000 truppe in Colombia” è uno scherzo; non avrebbero alcuna chance contro i 15.000 cubani responsabili della sicurezza del governo Maduro; i cubani nel corso della storia hanno dimostrato che non sono molto inclini a cedere il potere. Dipende tutto da cosa faranno Cina e Russia. La prima è la maggior creditrice del Venezuela. Maduro è stato ricevuto lo scorso anno da Xi Jinping a Pechino, dal quale ha ricevuto ulteriori 5 miliardi di prestiti, in dollari, e col quale ha firmato almeno 20 accordi bilaterali. Putin gli ha invece offerto il proprio pieno sostegno al telefono, sottolineando che «le distruttive interferenze dall’estero violano palesemente le norme basilari del diritto internazionale». A gennaio 2016, il petrolio si attestava a 35 dollari al barile, un disastro per le casse del Venezuela. Maduro ha allora deciso di trasferire alla russa Rosneft il 49,9% della partecipazione statale in Citgo, sussidiaria americana di Pdvsa, per un semplice prestito di 1,5 miliardi.Non ci poteva essere notizia peggiore per Washington: i “cattivi” russi erano ora entrati in possesso di parte del principale asset del Venezuela. Alla fine dello scorso anno, bisognoso di ulteriori fondi, Maduro ha aperto alle compagnie minerarie russe l’estrazione dell’oro nel proprio paese. E non solo oro; alluminio, bauxite, diamanti, minerale di ferro, nichel, tutti ambìti da Russia, Cina e Stati Uniti. Per quanto riguarda l’oro venezuelano in mano alla Banca d’Inghilterra (1,3 miliardi di dollari) le possibilità di rimpatriarlo sono zero. E poi, lo scorso dicembre, è arrivata la goccia che ha fatto traboccare il vaso del Deep State; il volo amichevole di due bombardieri russi Tu-160 con capacità nucleari. Come osano? Nel nostro cortile?La strategia energetica dell’amministrazione Trump potrebbe implicare l’annessione del Venezuela ad un cartello parallelo di “Paesi Nord-Sud Americani per l’Esportazione di Petrolio” (Nasapec), in grado di rivaleggiare con l’alleanza Russia-Casa di Saud. Se anche ciò si realizzasse, e aggiungendo una possibile alleanza congiunta tra Stati Uniti e Qatar (basata su gas naturale liquefatto), non vi è però alcuna garanzia che sarebbe sufficiente ad assicurare ai petrodollari – e al petrogas – preminenza nel lungo periodo. L’integrazione energetica dell’Eurasia aggirerà il petrodollaro; questo il cuore della strategia di Brics e Sco. Da Nord Stream 2 a Turk Stream, la Russia vuole siglare una partnership energetica a lungo termine con l’Europa. E il dominio petroyuan è solo una questione di tempo. Mosca lo sa. Anche Ankara, Riyadh, Tehran lo sanno. Che ne dite allora del piano B, cari neocon? Siete pronti per il vostro Vietnam in salsa tropicale?(Pepe Escobar, “Venezuela, come stanno realmente le cose”, da “Information Clearing House” del 5 febbraio 2019; articolo tradotto da “Hmg” per “Come Don Chisciotte”).La Guerra Fredda 2.0 ha fatto scalo in Sudamerica. Gli Stati Uniti e i loro soliti vassalli si trovano di fronte ai quattro pilastri dell’integrazione eurasiatica in corso: Cina, Iran, Russia e Turchia. È sì una questione di petrolio, ma non solo. Caracas ha commesso un peccato capitale agli occhi dei neocon; scambiare petrolio bypassando il dollaro Usa e i mercati controllati dagli Stati Uniti. Ricordate cos’è successo in Iraq? Ricordate cos’è successo in Libia? Eppure anche l’Iran sta facendo lo stesso. E così la Turchia. La Russia – perlomeno in parte – è sulla strada. E la Cina finirà per scambiare tutte le proprie fonti energetiche in petroyuan. Già lo scorso anno l’amministrazione Trump aveva sanzionato Caracas, dopo che il Venezuela aveva adottato la petro cripto-valuta ed il bolivar sovrano, escludendola dal sistema finanziario internazionale. Non c’è da stupirsi che Caracas sia sostenuta da Cina, Iran e Russia. Sono loro la vera Troika – e non la ridicola “troika tirannica”, così definita da John Bolton – che combatte contro la strategia di dominio energetico del governo Usa , che essenzialmente consiste nel continuare per sempre a scambiare petrolio in petrodollari.
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Galloni: follia, invadere il Venezuela. Come salvare il paese
Scortatevi che sia ammissibile o in qualche modo giustificabile un intervento armato, da parte degli Usa o dei suoi satelliti, per abbattere il regime venezuelano di Nicolas Maduro. Lo afferma l’economista post-keynesiano Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, in un’analisi su “Scenari Economici” nella quale esamina la catastrofica situazione del paese caraibico, disegnando però anche una via d’uscita. «Dal punto di vista politico – premette Galloni – nessuna ingerenza negli affari interni di un paese risulta giustificata o foriera di miglioramenti». Ammesso che nel peggiore dei casi, a Caracas, si possa arrivare al bagno di sangue della guerra civile, si sa che quest’ultima «risulterà ben più lunga e sanguinosa, in funzione degli interventi esterni». Se il governo venezuelano venisse rovesciato la milizie straniere, il costo umano dello scontro sarebbe infinitamente più drammatico. «Il caso Libia docet: Gheddafi era un dittatore, ma gli eventi connessi alla sua caduta ce lo hanno fatto rimpiangere non poco». Perché dunque ritentare, in Venezuela, un’analoga follia sanguinosa?In generale, sintetizza Galloni, gli Stati forti – importatori di materie prime – si sono spesso avvalsi della destabilizzazione dei paesi esportatori. E’ comodo, scatenare il caos negli Stati da cui provengono materie prime e semilavorati: serve a ottenere prezzi più bassi. «Il caso emblematico è la Repubblica Democratica del Congo, ma gli esempi abbondano anche nel corso della storia “post-coloniale”». Un copione che si ripete: l’instabilità politica colpisce sempre i paesi ricchi di risorse. Finiscono immancabilmente nei guai, e così vengono costretti a svendere i loro tesori. E’ quanto potrebbe accadere anche alla repubblica “bolivariana” di Chavez e Maduro: «Dal punto di vista economico – chiarisce Galloni – il Venezuela dovrebbe pensare alla raffinazione del suo petrolio, allo scopo di trattenere valore aggiunto». La vera ricchezza delle nazioni, infatti, «consiste nella trasformazione, non nella presenza di oro, argento e materie prime». E’ evidente: il prodotto grezzo costa meno, ed espone il paese detentore al prevedibile ricatto degli acquirenti-trasformatori.Un paese che deve importare tutto (a parte qualche materia prima alimentare), non può emettere moneta statale “non a debito”, neppure se basata sulla garanzia delle materie prime di cui dispone, le sue immense ricchezze naturali. Al contrario, sostiene Galloni, occorre stimolare assolutamente la produzione locale di beni, per ridurre drasticamente le importazioni di prodotti finiti, generalmente troppo costosi in rapporto ai salari locali. Vale anche per il Venezuela: se rimettesse in piedi la propria economia, potrebbe ricominciare a produrre in proprio i beni essenziali, a costi accettabili (dati i salari venezuelani). E in questo modo metterebbe fine all’autentico salasso rappresentato ormai dalla necessità di importare dall’estero praticamente tutto, fuorché il greggio. Se esistesse una vera comunità internazionale non predatoria, la soluzione sarebbe perfettamente alla portata. Basterebbero due semplici passi: il supporto diretto all’industria locale e il ricorso a una moneta parallela, fiduciaria, emessa dallo Stato ma non convertibile in altre valute.Questa exit-strategy, secondo Galloni, si agevola in due modi. Intanto, attraverso una vera cooperazione internazionale «finalizzata al miglioramento delle condizioni di vita dei paesi deboli affinchè si dotino di industrie adeguate». E nel frattempo, mediante «la emissione di moneta “povera”». Esempio: «In cambio di nuovi beni, ai produttori lo Stato fornisce mezzi monetari di tipo fiduciario». Aziende e lavoratori possono così usare la “moneta di Stato” per acquistare beni primari, sempre prodotti nel paese. Riducendo le importazioni, continua Galloni, l’economia comincerebbe a riprendersi in modo automatico. «Quando il doppio effetto del maggior valore aggiunto derivante dall’approntamento di prodotti industriali finiti e di adeguata produzione di base avrà cominciato a cambiare le cose – conclude – lo Stato potrà cominciare ad emettere la moneta sovrana non a debito, con cui si pagheranno le tasse (ovvero gli stipendi dei funzionari pubblici)». Questo, aggiunge Galloni, sarebbe possibile appena la produzione di base avrà raggiunto un livello minimo. Prima, invece, «la moneta sovrana non varrebbe nulla», di fronte ad attività produttive inconsistenti. Esiste qualcuno, al mondo, con in mente un piano simile per salvare il Venezuela?Scordatevi che sia ammissibile o in qualche modo giustificabile un intervento armato, da parte degli Usa o dei suoi satelliti, per abbattere il regime venezuelano di Nicolas Maduro. Lo afferma l’economista post-keynesiano Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, in un’analisi su “Scenari Economici” nella quale esamina la catastrofica situazione del paese caraibico, disegnando però anche una via d’uscita. «Dal punto di vista politico – premette Galloni – nessuna ingerenza negli affari interni di un paese risulta giustificata o foriera di miglioramenti». Ammesso che nel peggiore dei casi, a Caracas, si possa arrivare al bagno di sangue della guerra civile, si sa che quest’ultima «risulterà ben più lunga e sanguinosa, in funzione degli interventi esterni». Se il governo venezuelano venisse rovesciato la milizie straniere, il costo umano dello scontro sarebbe infinitamente più drammatico. «Il caso Libia docet: Gheddafi era un dittatore, ma gli eventi connessi alla sua caduta ce lo hanno fatto rimpiangere non poco». Perché dunque ritentare, in Venezuela, un’analoga follia sanguinosa?
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Chavez fu ucciso, ma ora è Maduro a uccidere il Venezuela
Hugo Chavez è stato assassinato: la notizia è pressoché certa. Poi ci ha pensato l’indegno Maduro, a “terminare” il Venezuela. Ma non da solo: è stato aiutato, nell’opera di devastazione del paese, dai vizi capitali del “bolivarismo” venezuelano. La giusta crociata contro il latifondo ha finito per affidare le terre a cooperative gestite da incapaci, scelti per la loro fedeltà politica. Idem le imprese, simbolo dell’odiata borghesia “coloniale” e parassitaria, alleata dagli Usa: troppe aziende sono state consegnate ai militari, che le hanno fatte fallire. Risultato: il Pil è franato, togliendo al paese la capacità di produrre beni diversi dal petrolio. E quando il prezzo del greggio è crollato, si è spalancato il baratro. La tragedia? Ad affrontarla non c’era più il popolarissimo Chavez, ma l’incolore Maduro. Che poi, di fronte alle proteste, non ha trovato di meglio che forzare la Costituzione, sospendere la democrazia e far sparare sulla folla, salvo poi accusare gli yankee di aver strangolato il Venezuela. Chi oggi si ostina a difendere Maduro – scrive Giuseppe Angiuli, su “L’Intellettuale Dissidente” – dimostra la stessa cecità del potere imperiale neoliberista che ha fatto la guerra a Chavez fin dal primo giorno, cercando anche di deporlo con il golpe del 2002, neutralizzato dal popolo venezuelano che si strinse attorno al suo leader – l’unico che in tanti anni abbia davvero lavorato, giorno e notte, per il benessere della sua gente.Rifiutarsi di leggere con lucidità la storia recente del Venezuela, scrive Angiuli nella sua accurata ricostruzione, significa innanzitutto fare un torto ai venezuelani, oggi alla fame. Un affronto alla memoria dello stesso Chavez, strenuo difensore del suo popolo. E’ stato grande, Chavez, ma inevitabilmente imperfetto: proprio i suoi errori ottici, secondo Angiuli, hanno creato le premesse di una crisi spaventosa, che oggi – senza più il carisma e l’onestà di fondo del leader – stanno mettendo in pericolo il Venezuela. Il paese perde milioni di cittadini, ridotti a profughi. Mancano cibo e medicinali, e c’è anche il rischio concreto che le sue frontiere vengano violate da un intervento militare ispirato dagli Usa e condotto da paesi come la Colombia e l’inquietante Brasile di Bolsonaro. La domanda che sfugge, nel derby delle opposte tifoserie italiane ed europee, è la seguente: com’è possibile che sia finito nella disperazione di massa uno dei paesi virtualmente più ricchi del mondo? Quella del Venezuela è considerata la prima riserva petrolifera del pianeta: e da parte degli Usa, certamente ostili al regime chiavista, non c’è però mai stato nessun embargo del greggio venezuelano. Al contrario: proprio grazie all’export dell’oro nero, a Caracas negli ultimi vent’anni sono circolati fiumi di petrodollari. Che fine hanno fatto?All’inizio, miliardi di dollari sono serviti a finanziare il grandioso welfare ideato da Chavez per allievare le storiche sofferenze dei poveri. Ma non un soldo è stato investito nell’economia non-petrolifera. In compenso, grazie al controllo centralizzato della gestione dei cambi, è fiorito il contrabbando di valuta estera. E oggi si mangia acquistando alla borsa nera i generi alimentari che i gerarchi di Maduro – che controllano i petrodollari – fanno sparire all’ingresso del paese, prima che possano raggiungere i supermercati, dove i prezzi sarebbero calmierati per legge. Ma l’attuale tragedia del Venezuela – umanitaria, sociale, politica – non può impedire di guardare col necessario distacco (e col rispetto che merita) a quello che è stato il più clamoroso fenomeno sudamericano degli ultimi decenni: la “rivoluzione bolivariana” di Chavez, per 14 anni alla guida del paese caraibico. Un quasi-capolavoro, fondato su una scommessa di tipo socialista: nazionalizzare il petrolio per finanziare grandiosi programmi di assistenza e liberare la popolazione della piaga cronica della povertà, generata dallo spietato sfruttamento delle multinazionali occidentali.Nella sua meticolosa ricostruzione sulla crisi venezuelana pubblicata da “L’Intellettuale Dissidente”, Angiuli scrive che la morte di Chavez, nel marzo 2013, è «quasi certamente avvenuta per avvelenamento radioattivo, messo in atto da non ben identificati servizi segreti di qualche paese nemico». Magari gli Usa, che a Chavez non avevano mai perdonato il coraggio e l’indipendenza politica. O qualche entità sudamericana allineata alla Dottrina Monroe, secondo cui l’America Latina deve restare sottomessa a Washington. Il Venezuela di Chavez – poi letteralmente tradito da Maduro – ha rappresentato una grande speranza per tutto il Sud del mondo. Ma sarebbe sbagliato trasformarlo in un culto, osserva Angiuli: perché Chavez ha commesso l’errore (fatale) di basare il riscatto economico nazionale solo sul petrolio, mortificando l’industria e l’agricoltura. Ancora oggi, ridotto alla fame, il Venezuela continua a dividere: da una parte le destre neoliberiste che hanno sempre criminalizzato il chavismo fin dall’inizio, e dall’altra la vecchia sinistra terzomondista, che arriva a perdonare un dittatore come Maduro pur di non ammettere i gravi errori della politica venezuelana, che hanno messo nei guai il paese ben prima che scattasse l’accerchiamento geopolitico neoliberista che ha isolato il governo di Caracas.Il pensiero unico mainstream «tende a demonizzare alla radice l’intera vicenda del socialismo venezuelano, relegandola nell’ambito del caudillismo alla sudamericana». Per contro, gli epigoni delle residuali correnti marxiste-leniniste si erano illusi di poter finalmente riscattare, in Venezuela, «la tragica sconfitta del comunismo novecentesco», seppellito dalle macerie del Muro di Berlino. All’intera vicenda del “socialismo bolivariano” inaugurato da Hugo Chavez, Angiuli ammette di essersi accostato con emozione, sperando di trovarvi «un nuovo laboratorio politico capace di ripensare l’idea stessa e la pratica del socialismo». Angiuli è stato spesso in Venezuela, a stretto contatto con la società e con gli ambienti filogovernativi. Dopo l’entusiasmo, però, è subentrata l’amara disillusione. Beninteso: a prescindere dall’orrendo regime militare di Maduro, «resta in ogni caso intangibile – precisa Angiuli, a scanso di equivoci – il diritto del popolo venezuelano di costruire il suo futuro in condizioni di libertà, sovranità e autonomia rispetto a qualsiasi intervento di destabilizzazione esterna, a cominciare dalle esplicite minacce di invasione che ultimamente provengono dai governi dell’ultradestra insediatisi al potere delle nazioni vicine, con lo scontato supporto degli Usa che da sempre considerano quella parte del mondo come il proprio cortile di casa».Detto questo, ammette Angiuli, «è triste giungere alla conclusione di dover affermare che il socialismo venezuelano ha purtroppo tradito una buona parte dei suoi propositi, e oggi non può più costituire un modello positivo di giustizia e di benessere per i popoli oppressi di tutto il mondo». Cionondimeno, il “bolivarismo” di Chavez era partito con le migliori intenzioni. Analizzarne i difetti è indispensabile: provare a capire «cosa non ha funzionato in Venezuela» è fondamentale, per tentare di spiegarsi la drammatica situazione in cui oggi versa il paese che dette i natali al “libertador” Simon Bolivar, «un personaggio passato alla storia quale nemico giurato del colonialismo ispanico». Anche Hugo Chavez ha fatto la storia: la sua presa del potere a Caracas, a cavallo tra il 1998 e il 1999, ha simboleggiato per l’intero continente di Neruda e Garcia Marquez «la più grande sfida di discontinuità storico-politica rispetto alla lunga notte neoliberista, vissuta per alcuni decenni dall’America Latina». Micidiali le dittature militari filo-Usa degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta. Per questo, è naturale che il chavismo abbia suscitato «una grande ondata di legittime speranze fra tutti i popoli».Ex ufficiale paracadutista dell’esercito venezuelano, tradizionalmente “popolare” anche nei suoi ranghi più alti, Hugo Chavez – autore di un fallito tentativo di colpo di Stato del 1992 ai danni dell’allora presidente in carica Carlos Andres Perez – era riuscito in pochi anni a far coagulare attorno a sé «i migliori sentimenti e le aspirazioni di riscatto delle fasce sociali medio-basse del suo paese, fino a quel momento escluse dal godimento dei profitti della “Venezuela Saudita”». L’ideologia di Chavez? Un mix originale e composito, «che attinge tanto al panamericanismo di Simon Bolivar quanto all’umanesimo socialista di ispirazione massonica caro a Giuseppe Garibaldi e a Salvador Allende». Innegabili le influenze esercitate dal pensiero di Antonio Gramsci e dalla prassi rivoluzionaria di Ernesto Che Guevara e Fidel Castro. «Cuba rivoluzionaria, la piccola isola che da decenni resiste ad un crudele embargo degli Usa, per Chavez costituiva un esempio di dignità e un prototipo da emulare, soprattutto sotto il profilo dell’indipendenza nazionale e della lotta all’imperialismo a stelle e strisce». E proprio a partire dagli accordi di mutua assistenza con la Cuba di Fidel – petrolio in cambio di medici – Hugo Chavez, appena insediatosi alla presidenza, iniziò a «costruire sapientemente il suo modello di integrazione politica latinoamericana attorno ai principi generali di cooperazione, equità e solidarietà».Lo stesso Che Guevara, nei suoi scritti, aveva ben individuato la “maledizione” dei paesi dell’America Latina, «storicamente condannati a programmare le loro economie non in base ai propri bisogni interni, bensì in rapporto agli appetiti famelici dei loro paesi dominanti». Fin dall’epoca del colonialismo ispano-portoghese, gli europei avevano imposto a quei territori un modello “rentista” o monoculturale, «tutto basato sull’estrazione a costo zero di materie prime»: un “prelievo forzoso” grazie a cui sarebbero state edificate le basi dell’impero industriale e capitalistico dell’Occidente. A partire dal suo esordio, ricorda Angiuli, «uno dei principali meriti politici di Hugo Chavez è stato quello di sottrarre il controllo dell’oro nero del Venezuela a quella ristretta borghesia “compradora” fortemente compromessa col capitalismo a stelle e strisce». Una borghesia che «per decenni, dopo essersi appropriata della rendita petrolifera, era stata abituata a delocalizzare sistematicamente i suoi profitti a Miami, umiliando il paese estrattore con delle infime royalties e con dei contratti-capestro». Fino a quel momento, gli immensi giacimenti petroliferi non avevano mai consentito al Venezuela di trarre risorse per investimenti sociali. A questo ha provveduto proprio Chavez, all’inizio del suo mandato, con una nossa clamorosa: nazionalizzare la compagnia petrolifera Pdvsa, per poi tenere alto il prezzo del greggio premendo sull’Opec – insieme all’Iraq di Saddam e alla Libia di Gheddafi – al fine di contenere i volumi di estrazione.Destinare la rendita petrolifera alla spesa assistenziale finalizzata ad appianare le gravi diseguaglianze sociali del suo popolo – prosegue Angiuli – ha costituito indubbiamente l’atto più rivoluzionario compiuto da Hugo Chavez. Interventi imponenti, per garantire servizi sanitari anche nei “barrios” più poveri e alfabetizzare milioni di venezuelani, compresi i gruppi indigeni. Diritti: la nuova Costituzione varata da Chavez nel 1999 «contiene sulla carta alcuni principi inediti che possono fare da insegnamento anche alle democrazie più avanzate». E’ fondata su una netta separazione fra i poteri e contempla molteplici strumenti di democrazia diretta: c’è anche l’istituto del “referendum revocatorio”, che consente perfino di far dimettere il presidente a metà mandato, mediante una consultazione popolare indetta dal basso. La nuova Carta, poi, decreta l’intangibilità di Madre Natura quale soggetto titolare di diritti. E in più tutela l’identità etnoculturale delle comunità dei nativi amerindi, «facendosi così portatrice di un generale messaggio di rinascita dell’orgoglio indigeno», dopo secoli di sottomissione ai “conquistadores” e ai “gringos”.Il primo decennio del chavismo, riconosce Giuseppe Angiuli, è stato contrassegnato «da un risveglio delle coscienze del popolo venezuelano e da una straordinaria voglia di partecipare a riscrivere la storia del proprio paese da parte di milioni di persone, fino ad allora del tutto escluse dalla scena politica e incapaci perfino di intendere lo stesso concetto di cittadinanza». Solo gli osservatori più prevenuti, sottolinea l’analista, possono avere finto di non accorgersi della reale genuinità che ha connotato i primi anni del processo politico “bolivariano”, contraddistinti da un fermento rivoluzionario autentico, addirittura emozionante. E contro l’imperialismo mercantile “yankee”, Chavez s’è mosso anche a livello geopolitico: ha dato vita all’Alba (Alianza Bolivariana para los pueblos de nuestra America), reclutando Cuba, la Bolivia del leader sindacale Evo Morales, l’Ecuador dell’economista Rafael Correa, il Nicaragua sandinista, l’Honduras di Manuel Zelaya e vari piccoli Stati insulari caraibici. Checché ne dicessero i media occidentali, sottolinea Angiuli, il governo di Chavez – fino alla sua rielezione nel 2012 – è sempre stato largamente supportato dal popolo venezuelano. Ma oggi, ribadisce, il Venezuela non sarebbe in crisi nera, se lo stesso Chavez non avesse commesso clamorose ingenuità sul piano economico.Dopo aver distribuito soldi a pioggia per «contrastare la povertà più estrema di una parte significativa della popolazione», il chavismo ha mancato l’appuntamento con lo sviluppo, nonostante la felice congiuntura petrolifera, col prezzo del barile rimasto sopra gli 80 dollari fino al novembre 2014. Nonostante il fiume di valuta forte, piovuto su Caracas per almeno un decennio, il governo «non ha mai messo in campo alcuna seria misura per provare a debellare il vero cancro comune a tutti quei paesi la cui economia, come quella del Venezuela, si basa su un modello “rentista”», ovvero: «La dipendenza dalla estrazione della materia prima quale unica risorsa del proprio modello di sviluppo». Nonostante i tanti proclami, non è mai riuscito a diversificare le attività produttive: anzi, i governi chavisti hanno attuato «una massiccia politica di disincentivo al lavoro delle piccole e medie imprese», determinando così una contrazione drammatica del Pil, in quei settori, «con la conseguenza che la classe media è progressivamente scomparsa». Paradossale: «Oggi i venezuelani conducono in media un tenore di vita clamorosamente più basso di quello che si ricordi anche negli anni più bui della notte neoliberista dell’America Latina». E scontano «una diffusa scarsità di prodotti di prima necessità che oggi forse non si riscontra nemmeno a Cuba, paese ininterrottamente sotto embargo da più di mezzo secolo».Pessimo il bilancio dall’agricoltura: buona l’idea di una riforma agraria per smantellare i latifondi improduttivi. Ma poi è subentrata «una deriva ideologica di tipo estremistico velleitario, che ha condotto ad una espropriazione generalizzata delle terre anche di media dimensione». Terre assegnate «a improvvisate cooperative di lavoratori che non si sono mai realmente dimostrate all’altezza del loro compito», e con incarichi direzionali «troppo spesso affidati obbedendo unicamente a meri criteri di fedeltà politica». Risultato: la produzione agricola è crollata, ricorda Angiuli, persino per i più tipici prodotti alla base della dieta venezuelana: riso e farina di mais, frutta e verdura, polli d’allevamento, uova e caffè. Stessa sorte ha colpito l’industria: «Una analoga degenerazione demagogica del chavismo, nel segno del collettivismo spinto – scrive Angiuli – ha condotto negli anni a una diffusa e capillare occupazione delle fabbriche», da parte di «settori disinvolti delle forze armate». I militari, «arrogandosi il diritto di agire sempre e comunque nell’interesse del “pueblo” e contro l’odiata borghesia nazionale», si sono spesso impadroniti «con modalità arbitrarie e violente» dei mezzi di produzione, «lasciandoli cadere quasi sempre e molto presto in malora e facendo così crollare la produzione anche in quei settori nei quali – prima del chavismo – il Venezuela riusciva tranquillamente a soddisfare il suo fabbisogno interno, raggiungendo perfino l’obiettivo di esportare una discreta quantità di merci all’estero: ferro, acciaio, automobili, caffè».L’aspetto più inquietante di questo fallimento economico di dimensioni catastrofiche, scrive Angiuli, non risiede neppure nella pianificazione centralistica stile Urss e Cina maoista: il paradosso sta nella pessima gestione dell’oceano di petrodollari. Fino al 2013, il petrolio rappresentava ancora il 95% dell’export. Anziché sfruttare quell’enorme massa di denaro per rendere il Venezuela più autonomo economicamente, i governi socialisti «hanno finito per accentuare oltre ogni limite il tradizionale carattere “rentista” dell’economia venezuelana, legandone le sorti in modo irreversibile alla ciclicità dell’andamento del prezzo degli idrocarburi». Gli effetti di questa politica sono esplosi a partire dal 2015, con il crollo della quotazione del greggio: di colpo, il Venezuela ha incassato meno soldi, sia per il welfare che per pagare l’enorme volume di importazioni, cresciuto negli anni col progressivo calo della produzione interna di beni primari. Risultato: «La scarsità di prodotti sugli scaffali dei supermercati si è manifestata in modo crescente e irrimediabile». Ecco perché, osserva Angiuli, sta semplicemente mentendo, Maduro, quando si sforza ogni giorno di attribuire l’odierna crisi alla guerra economica orchestrata dall’odiato imperialismo yankee. Le sanzioni americane – varate da Obama e inasprite da Trump – non bastano a spiegare la catastrofica penuria di generi di prima necessità.Le stesse sanzioni, peraltro, non hanno impedito alle grandi banche d’affari statunitensi, prima fra tutte la Goldman Sachs, di investire copiose somme nell’acquisto di buoni obbligazionari emessi dalla compagnia petrolifera Pdvsa: «Un elemento che smaschera tanto l’ipocrisia del capitalismo a stelle e strisce quanto quella della retorica antimperialista così tanto sbandierata dal governo di Caracas». Inoltre, sebbene Trump abbia proibito nel 2018 l’acquisto di titoli del colosso petrolifero venezuelano, «nessun embargo commerciale petrolifero è mai stato decretato da Washington verso Caracas». Lo confermano i numeri delle esportazioni, che ora – non a caso – Maduro ha addirittura proibito di diffondere, roprio per non compromettere il suo vittimismo retorico che attribuisce al nemico imperialista la causa di ogni male. L’altra verità che Maduro nasconde, continua Angiuli, è che il suo Venezuela ha affidato a una ristretta oligarchia – società riconducibili all’establishment militare – l’intera gestione del cambio dei dollari necessari per accedere al mercato delle importazioni di beni dall’estero. Sono questi privilegiati ad accedere ai dollari, e in modo truffaldino, cioè con un cambio alterato sopravvalutando il bolivar: se la moneta venezuelana era stimata 1.000 a 1, rispetto al dollaro, l’élite governativa monopolista ha invece intascato 10 bolivar per ogni dollaro destinato ad acquistare beni dall’estero.Una volta che gli importatori della ristretta cerchia governativa hanno acquisito i dollari ad un cambio preferenziale e privilegiato, quella valuta forte, «ufficialmente necessaria per pagare le merci che si dovrebbero importare dall’estero», ha finito in realtà per alimentare «un circuito vorticoso e perverso, con cui gli stessi importatori filogovernativi sono troppo spesso riusciti ad occultare clandestinamente sia la valuta che le stesse merci importate». Una colossale frode valutaria, insomma, «che ogni giorno sottrae ricchezza al paese caraibico», e oggi costringe i venezuelani a lasciare le loro case. Elementare: «Se la moneta venezuelana viene scambiata sui mercati ad un valore reale spesso anche di 100 volte inferiore a quello con cui viene scambiata dagli organismi governativi, tutti coloro i quali sono nelle condizioni di mettere le mani sulla rendita petrolifera, una volta ottenuti i dollari col sistema del cambio preferenziale, ne investono effettivamente solo una parte nell’attività di importazione». E al contempo, aiutandosi con sovrafatturazioni fittizie (di merci mai effettivamente acquistate) occultano facilmente grandi quantità di valuta forte, trasferendole dei paradisi fiscali, «ovvero alimentando il mercato nero del dollaro all’interno degli stessi confini del Venezuela». Lo si capisce già all’aeroporto, appena si sbarca a Caracas: si viene assaliti da “agenti del cambio in nero” che offrono disinvoltamente i bolivar in cambio di dollari (o euro) secondo un rapporto di cambio molto distante da quello ufficiale.Per questo, aggiunge Angiuli, da quando si è diffusa la pratica governativa di sopravvalutare artificiosamente il bolivar, «il traffico di valuta è diventato di gran lunga il business più redditizio per chiunque riesca a venire in possesso di una certa quota della rendita petrolifera incamerata dal Venezuela». Negli anni, il fenomeno ha acquisito dimensioni impressionanti e incontrollabili. E il suo principale effetto nefasto sull’economia del paese è il generale disincentivo verso l’avvio di qualsiasi genere di attività produttiva. L’ex ministro per la pianificazione economica Jorge Giordani, grande amico di Chavez (dimessosi nel 2014 da ogni incarico governativo in polemica con Maduro) ha pubblicamente denunciato il furto, attraverso questo meccanismo fraudolento, di qualcosa come 25 miliardi di dollari dall’organismo governativo addetto alle operazioni di cambio su larga scala. E oltre al mercato nero di valuta, c’è anche la piaga che colpisce gli approvvigionamenti: il cibo, i medicinali e i prodotti manifatturieri che dovrebbero entrare in Venezuela a prezzo calmierato vengono in gran parte intercettati e rivenduti clandestinamente. Borsa nera: «Un formidabile, gigantesco contrabbando di merci vendute al mercato nero a prezzi molto più alti di quelli che il governo si sforza inutilmente di imporre nelle catene dei supermercati popolari», nei quali ormai scarseggia di tutto, dallo shampoo al dentifricio, dal sapone alla carta igienica.Giuseppe Angiuli lo descrive come «il disastro di una economia nazionale ormai strutturalmente e capillarmente fondata sul malaffare, sulla frode valutaria e sulla speculazione parassitaria, con un sistema di complicità e protezioni che purtroppo investe anche le sfere più alte del potere centrale». A questo si aggiunge l’iper-inflazione scatenata irresponsabilmente dalla banca centrale del Venezuela, «ricorsa in questi anni in misura sempre più massiccia alla stampa di cartamoneta priva di ogni copertura e valore reale». Tra il 1999 e il 2016, la massa monetaria circolante nel paese è cresciuta di circa il 33.000%. Inflazione folle: nel 2017 si è attestata al’830%, per poi raggiungere l’anno seguente il 4.684,3 percento, vero e proprio record mondiale. Secondo il Fmi, si viaggia ormai verso il “milione per cento” su base annua. Una catastrofe: paralisi economico-produttiva, l’iper-inflazione, crollo del valore reale dei salari. Generale impossibilità di procurarsi da vivere lavorando. Collasso del sistema sanitario nazionale, scarsità di viveri e medicinali, drammatico aumento della mortalità neonatale e della denutrizione infantile. Tutto questo sta oggi facendo vivere al Venezuela «un esodo di proporzioni bibliche dei suoi cittadini verso l’estero, come non si era mai visto nella storia recente del paese».Un fallimento così apocalittico, osserva Angiuli, avrebbe dovuto obbligare da tempo il governo Maduro ad adottare misure radicali, in forte discontinuità rispetto alle politiche suicide fin qui condotte. Di fronte all’esperazione popolare, sfociata in drammatiche proteste, Maduro ha risposto violando la Costituzione, truccando le elezioni e ordinando all’esercito di sparare sulla folla. Hugo Chavez non l’avrebbe mai fatto. Anzi: il “comandante” accettò lealmente il verdetto del referendum perduto, attraverso cui i venezuelani avevano bocciato la sua proposta di riforma costituzionale in senso presidenzialista. Maduro è solo, spelleggiato esclusivamente dai militari. Diversi dirigenti chavisti storici della prima ora – come l’ex ministro dell’ambiente Ana Elisa Osorio, l’ex ministro dell’economia Jorge Giordani, lo storico presidente della Pdvsa Rafael Ramirez e l’ex procuratrice generale Luisa Ortega Diaz – sono stati delegittimati ed emarginati. Qualcuno è riparato all’estero «per sottrarsi alla furia vendicatrice della cricca di potere vicina a Maduro».Non sappiamo quale futuro attende il Venezuela, conclude Angiuli, ma dopo vent’anni di chavismo «i risultati dell’economia del paese parlano un linguaggio implacabile, che non ammette repliche». Un fallimento di dimensioni così catastrofiche dimostra «l’evidente sconfitta politica del gruppo dirigente cresciuto all’ombra di Chavez, che non si è dimostrato all’altezza dei propri compiti storici». I meriti dell’azione ispiratrice dei primi anni del chavismo «andrebbero rivalorizzati e recuperati», ripensando le radici dottrinali del socialismo “bolivariano”, «che andrebbero rinforzate e vivificate». Attenzione: a livello geopolitico, il Venezuela resta «un attore decisivo per la possibile formazione di un nuovo mondo multipolare». E infatti, sottolinea Angiuli, «attorno alla tenuta dell’indipendenza del paese da eventuali aggressioni militari esterne si gioca gran parte del suo futuro». Certo, la catastrofe sociale potrebbe sfociare in esiti terribili. E se il Venezuela «dovesse progressivamente subire delle aggressioni militari da parte degli Usa o di paesi vicini governati dall’ultradestra, come la Colombia o il Brasile», secondo Angiuli occorrerà battersi «a difesa della sacrosanta intangibilità dei suoi confini e della sua legittima sovranità». Quello che non serve, per aiutare il Venezuela a uscire dall’incubo, è continuare a «fornire un sostegno acritico e fideistico al governo di Maduro». Meglio rileggere con onestà la grande storia di Hugo Chavez e anche i suoi limiti, onde avviare al più presto «quegli interventi indifferibili e vitali che il popolo venezuelano si attende, e di cui oggi non può più fare a meno».Hugo Chavez è stato assassinato: la notizia è pressoché certa. Poi ci ha pensato l’indegno Maduro, a “terminare” il Venezuela. Ma non da solo: è stato aiutato, nell’opera di devastazione del paese, dai vizi capitali del “bolivarismo” venezuelano. La giusta crociata contro il latifondo ha finito per affidare le terre a cooperative gestite da incapaci, scelti per la loro fedeltà politica. Idem le imprese, simbolo dell’odiata borghesia “coloniale” e parassitaria, alleata dagli Usa: troppe aziende sono state consegnate ai militari, che le hanno fatte fallire. Risultato: il paese ha perso la capacità di produrre beni diversi dal petrolio. E quando il prezzo del greggio è crollato, si è spalancato il baratro. La tragedia? Ad affrontarla non c’era più il popolarissimo Chavez, ma l’incolore Maduro. Che poi, di fronte alle proteste, non ha trovato di meglio che forzare la Costituzione, sospendere la democrazia e far sparare sulla folla, salvo poi accusare gli yankee di aver strangolato il Venezuela. Chi oggi si ostina a difendere Maduro – scrive Giuseppe Angiuli, su “L’Intellettuale Dissidente” – dimostra la stessa cecità del potere imperiale neoliberista che ha fatto la guerra a Chavez fin dal primo giorno, cercando anche di deporlo con il golpe del 2002, neutralizzato dal popolo venezuelano che si strinse attorno al suo leader – l’unico che in tanti anni abbia davvero lavorato, giorno e notte, per il benessere della sua gente.