Archivio del Tag ‘imprese’
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Soldi gratis: il mondo vuole la Mmt, e l’Italia ignora Draghi
Finire impiccati dagli interessi passivi sul debito pubblico: succede, se si impedisce allo Stato di rimediare, emettendo liquidità a costo zero. Non a caso, l’Italia è in avanzo primario da decenni: in termini di servizi, lo Stato spende meno di quanto incassi dai cittadini sotto forma di tasse. E allora perché nessuno dà retta a Mario Draghi, che nella sua ultima esternazione da presidente della Bce ha evocato il ricorso alla Modern Money Theory di Warren Mosler, cioè il finanziamento teoricamente illimitato da parte dello Stato mediante immissione di liquidità? Se lo domandano Paolo Becchi e Giovanni Zibordi su “Milano Finanza”, ricordando che la Mmt è oggi sostenuta persino da Jan Hatzius, capo-economista di Goldman Sachs, e da Stefanie Kelton, “mente” economica del candidato democratico Bernie Sanders. Con Trump, il debito pubblico Usa aumenterà di altri 1.200 miliardi di dollari, sforando i 23.000 miliardi, proiettando l’America nel decimo anno consecutivo di espansione «senza avere problemi di inflazione o di debolezza del dollaro». Il debito del Giappone rappresenta il 250% del Pil, e Tokyo ha appena lanciato un altro piano di espansione fiscale, con tassi d’interesse vicini allo zero, «continuando a smentire gli economisti che si preoccupavano del livello del suo debito pubblico».Anche nell’Eurozona si è “stampato moneta”, ricordano Becchi e Zibordi, nel senso che la Bce ha triplicato il suo bilancio (da 1.300 a 4.700 miliardi in pochi anni) comprando più di un terzo dei titoli di Stato sul mercato, e finanziando banche italiane e spagnole che a loro volta ne hanno comprati. «Il risultato è stato che i tassi di interesse sono scesi più o meno a zero o persino sotto zero, e il mercato e lo “spread” è stato addomesticato». A livello globale il debito pubblico negli ultimi dieci anni è più che raddoppiato, aggingono i due analisti, ma i tassi d’interesse sono scesi ai livelli più bassi della storia: un risultato che è più in accordo con la Mmt che con i testi di macroeconomia più diffusi. «La tesi centrale di Warren Mosler è appunto che la politica ottimale sarebbe non emettere titoli di Stato (Treasury o Btp) e tenere i tassi a zero», riassumono Becchi e Zibordi. «I deficit verrebbero finanziati con un misto di finanziamento da parte della banca centrale ed emissione di titoli a breve come i Bot o i T-Bills a cui applicare un limite di rendimento molto basso (0,5% ad esempio)». Da settembre, la Fed sta comprando 60 miliardi di T-Bills al mese, aiutando (pur senza ammetterlo, e dando una motivazione diversa) a finanziare gli enormi deficit pubblici Usa. E non è un caso che Trump le chieda insistemente di portare i tassi a zero.Negli ultimi anni, archiviato l’orrore della Grecia – paese svenduto, licenziamenti in massa, stipendi dimezzati e pensioni decurtate, ospedali senza medicine per i bambini – negli ultimi anni «il mondo assomiglia più a quello che descriveva la Mmt che a quello dei Cottarelli & Company, per i quali invece l’aumento del debito pubblico porta a rischi di default e, se monetizzato, porta a inflazione e svalutazione senza freni». Quello che è stato vietato alla Grecia (e che avrebbe salvato la società allenica, che oggi ha “i conti in ordine” e quindi la peggiore economia europea) viene invece praticato largamente: si smette di considerare lo Stato “una famiglia” e si torna alla verità, cioè alla funzione salvifica del potere di emissione monetaria a costo zero. «Se ora applichiamo la Mmt alll’Italia – scrivono i Becchi e Zibordi su “Milano Finanza” – dobbiamo ricordare che dai primi anni ‘80 lo Stato ha pagato in totale 4.000 miliardi di interessi su Bot, Cct e Btp, per cui si può senz’altro dire che il debito pubblico, di 2.300 miliardi, sia dovuto solo agli interessi cumulati», e dunque «ad un caso, se vogliamo, di “macro-usura”». Se l’Italia avesse applicato la ricetta Mmt di finanziare in parte tramite la banca centrale e in parte con Bot a rendimento limitato – aggiungono i due analisti – avrebbe potuto risparmiare qualcosa come 3.000 miliardi di interessi ed evitare l’austerità, cioè gli “avanzi primari” a cui è obbligata dal 1995.E’ curioso, continuano Becchi e Zibordi, che si finga di non vedere che a salvare il mondo occidentale da una crisi sistemica (e non solo quello, perché la Cina ha aumentato da 7.000 a 40.000 miliardi di dollari i suoi aggregati monetari) sia stato il massiccio intervento di creazione di moneta. Solo la povera Italia, dopo la Grecia, deve restare esclusa dalla soluzione che tutto il mondo pratica da tempo? Dal 1862 al 1980 lo Stato italiano ha finanziato il 54% dei suoi deficit con moneta emessa dalla banca centrale. «Il cuore del problema è la famigerata creazione di moneta da parte dello Stato, che nel mondo moderno è affidata alla banca centrale quando finanzia i deficit pubblici». Un raddoppio dei debiti pubblici nel mondo come quello occorso dalla crisi di Lehman in poi, finanziato in parte da creazione di moneta della banca centrale, «non ha avuto conseguenze negative, anzi: ha consentito di salvare i sistemi bancari e aumentare la spesa (fuori dall’Eurozona), riducendo le tasse e quindi sostenendo l’economia. «Se si guarda a Spagna e Francia, che hanno raddoppiato il debito pubblico dal 2007 tenendo deficit elevati, si vede che hanno potuto riprendersi molto meglio dell’Italia», che invece «ha continuato a tassare più di quello che spendeva».I 60 o 70 miliardi di interessi l’anno, infatti, «ritornavano solo in piccola parte alle famiglie», per cui il deficit del 2% medio italiano, in realtà, «non stimolava l’economia», e le tasse, comunque, «finivano per aumentare sempre». In più, «il vincolo di bilancio ha impedito allo Stato di intervenire a sostegno delle banche italiane in crisi dopo il 2008», come invece è accaduto negli altri paesi. E così, si è lasciato che si tagliasse in modo indiscriminato il credito alle imprese italiane (-25% in dieci anni). «La soluzione – scrivono Becchi e Zibordi – è invece proprio quella di andare avanti sulla strada della monetizzazione del debito, come ha fatto il Giappone dove la banca centrale ne possiede oggi il 44% e una cifra pari al 100% del Pil nipponico». Da trent’anni il Sol Levante ha altissimi deficit primari, «perché ha tenuto la tassazione molto più bassa di noi», e così «il reddito pro capite giapponese è aumentato quanto quello medio dell’Eurozona, mentre il nostro è collassato del -7% dal 2007». Dopo trent’anni (e dopo aver pagato 4.000 miliardi di interessi sui titoli di Stato), secondo Becchi e Zibordi è insensato non ricorrere alla Mmt: significa «continuare a paralizzare per sempre il popolo italiano». Servirebbe «una soluzione una tantum per monetizzare parte di questo debito, che è poi quello che, sotto false spoglie, sta facendo Bankitalia, che ha ora 400 miliardi di debito pubblico».La Mmt, concludono i due analisti, ha il pregio di inquadrare questa soluzione in una teoria della moneta moderna in cui la politica ottimale sarebbe quella di non emettere più Btp, e di finanziare i deficit per metà tramite la banca centrale e per metà con Bot a tasso prefissato. «Un’altra possibilità è emettere debito permanente a cui dare la caratteristica di moneta, cioè tramite cui consentire al pubblico di spendere come da un conto corrente». Attenzione: i Btp decennali non sono sempre esistiti; sono un’invenzione recente, dei primi anni ‘90, e avevano lo scopo di attirare investitori e banche straniere sul nostro debito, che all’epoca era in mano alle famiglie e alle banche (pubbliche) italiane. «Bisogna riconoscere che è stato un errore estromettere le famiglie italiane e affidarsi al mercato estero, anche se non si vuole ammetterlo nonostante l’evidenza delle banche centrali che sono costrette a stampare moneta per ritirare dal mercato titoli, sia in Europa, che in America che in Giappone». La Mmt di Mosler? «Aveva previsto quello che è successo negli ultimi dieci anni». La sua teoria «aiuta a capire che si può uscire dalla paralisi attuale tornando a dare allo Stato il controllo del suo finanziamento». In tutto il mondo, oggi, si discute finalmente della Modern Money Theory, «e persino Draghi l’ha presa in seria cosididerazione». In Italia, invece, «se ne parla solo per screditarla». Nel 2018, Mattarella stoppò Paolo Savona perché, secondo il capo dello Stato, “i mercati” non lo avrebbero gradito, al ministero dell’economia. Eppure, con la Mmt, i “mercati” di cui parla Mattarella – i signori dello spread – sarebbero fuori gioco: neutralizzati dall’emissione di moneta.Finire impiccati dagli interessi passivi sul debito pubblico: succede, se si impedisce allo Stato di rimediare, emettendo liquidità a costo zero. Non a caso, l’Italia è in avanzo primario da decenni: in termini di servizi, lo Stato spende meno di quanto incassi dai cittadini sotto forma di tasse. E allora perché nessuno dà retta a Mario Draghi, che nella sua ultima esternazione da presidente della Bce ha evocato il ricorso alla Modern Money Theory di Warren Mosler, cioè il finanziamento teoricamente illimitato da parte dello Stato mediante immissione di liquidità? Se lo domandano Paolo Becchi e Giovanni Zibordi su “Milano Finanza“, ricordando che la Mmt è oggi sostenuta persino da Jan Hatzius, capo-economista di Goldman Sachs, e da Stephanie Kelton, “mente” economica del candidato democratico Bernie Sanders. Con Trump, il debito pubblico Usa aumenterà di altri 1.200 miliardi di dollari, sforando i 23.000 miliardi, proiettando l’America nel decimo anno consecutivo di espansione «senza avere problemi di inflazione o di debolezza del dollaro». Il debito del Giappone rappresenta il 250% del Pil, e Tokyo ha appena lanciato un altro piano di espansione fiscale, con tassi d’interesse vicini allo zero, «continuando a smentire gli economisti che si preoccupavano del livello del suo debito pubblico».
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Galloni: il Mes è una follia, ma il tradimento risale al 1981
Alto tradimento, da parte di Giuseppe Conte, se ha firmato un accordo segreto sul Mes che espone gli italiani al rischio di dover sostenere di tasca propria l’eventuale “ristrutturazione” del debito pubblico? «Se Conte avesse stipulato un patto segreto contro il suo paese, il reato di alto tradimento dovrebbe essere accertato dai magistrati competenti». Lo afferma l’economista Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, richiamando l’allarme lanciato da Paolo Becchi. Per Galloni, «Becchi ha sollevato una questione reale, ma il problema – sottolinea – è dimostrare che questi accordi ci siano stati». In ogni caso, aggiunge, «le grandi decisioni di politica economica, come il divorzio del 1981 tra Tesoro e Bankitalia, non sono mai passate per il Parlamento». Galloni sgombra il campo da un equivoco: non è stata “l’Europa” a mettere nei guai l’Italia. E’ stata la classe dirigente italiana a smontare l’industria pubblica e svendere quella privata. «A quel punto, Francia e Germania hanno fatto dell’Italia una colonia a vantaggio dei loro interessi», ma solo dopo la decisione dell’Italia di rinunciare a valorizzare il proprio grande potenziale economico.A Galloni, il Mes sembra «una follia», letteralmente: «Dato che il credito privato è più elevato del debito pubblico, allora i privati pagheranno la differenza?». Assurdo, visto che «chi compra i titoli di debito sta dando risorse allo Stato». Quanto ex Fondo salva-Stati, ora Meccanismo Europeo di Stabilità (creato per assicurare fondi ai governi, nel caso il mercato non comprasse i bond), Galloni è netto: «Non si può decretare la depenalizzazione per un istituto come il Mes», i cui funzionari non rispondono alle leggi dei paesi membri. «Casomai, gli Stati avrebbero dovuto accordarsi sull’istituzione di un tribunale penale europeo per le questioni monetarie, finanziarie e tributarie», sostiene l’economista. «Sarebbe stato coerente con la Costituzione italiana, laddove parla di limitazioni della sovranità (ma certo non contro la logica del diritto, depenalizzando reati commessi da qualcuno che è al di sopra della legge)». Aggiunge Galloni: «Se tutta questa manfrina sul Mes serve a introdurre nel sistema la categoria del “legibus solutus”, cioè del sovra-sovrano, è chiaro che siamo tornati indietro dal punto di vista della civiltà».Il problema però non è di oggi, ricorda Galloni: innanzitutto, «i partner Ue hanno sottoscritto accordi basati su parametri che non tenevano conto del fatto che l’economia potesse andare male: si riteneva che l’Ue e l’euro, di per sé, avrebbero garantito una crescita costante, attorno al 2% annuo». Poi c’è stata la doccia fredda del 2009, eppure le premesse allarmanti non mancavano: i tassi di sviluppo negli anni ‘70 erano altissimi, ma sono calati già negli anni ‘80. Negli anni ‘90 sono ulteriormente scesi, e così negli anni duemila, fino a crollare negli ultimi anni. L’economia è in crisi, ma i parametri Ue sono ancora quelli della crescita presunta. «In base al principio “ad impossibilia nemo tenetur”, questi parametri sono annullabili». In una situazione recessiva, che senso ha limitare ancora il deficit al 3% del Pil, e il debito pubblico al 60% del prodotto interno lordo? «Non si era prevista una situazione di crisi e recessione? Male: allora l’accordo era mal fatto, quindi bisogna modificarlo».Comunque, ragiona Galloni, «riguardo al parametro debito-Pil, quelli che firmarono per l’Italia ai tempi di Maastricht non lo sapevano, che il debito italiano aveva superato il Pil già da anni? Perché sono andati a firmare che il debito pubblico doveva scendere sotto il 60%, quando già era al 115%?». Secondo l’economista, «sarebbe stato meglio dire: debito pubblico e debito privato non possono superare il 400%». In quel caso, oltretutto, noi italiani «saremmo “virtuosi” insieme alla Germania, mentre oggi tutti gli altri paesi sono oltre il 400%, se si somma il debito dello Stato a quello delle famiglie e delle imprese». In altre parole, «noi siamo le pecore nere solo per il debito dello Stato, ma si sa che grossomodo il debito pubblico corrisponde alla ricchezza privata». Vie d’uscita, a parte le polemiche sul Mes? Per Galloni, «qui bisogna mettersi intorno a un tavolo seriamente – Italia, Francia e Germania in primis – e dire: rispettiamo solo i parametri che abbiano un senso (e questi non ne hanno: lo sanno pure i sassi). E che siano parametri espressi da organi che sanno di cosa stanno parlando, e non da politici che vanno a svendere i loro paesi».(Fonte: video-intervento di Nino Galloni su YouTube registrato con Marco Moiso il 20 novembre 2019).Alto tradimento, da parte di Giuseppe Conte, se ha firmato un accordo segreto sul Mes che espone gli italiani al rischio di dover sostenere di tasca propria l’eventuale “ristrutturazione” del debito pubblico? «Se Conte avesse stipulato un patto segreto contro il suo paese, il reato di alto tradimento dovrebbe essere accertato dai magistrati competenti». Lo afferma l’economista Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, richiamando l’allarme lanciato da Paolo Becchi. Per Galloni, «Becchi ha sollevato una questione reale, ma il problema – sottolinea – è dimostrare che questi accordi ci siano stati». In ogni caso, aggiunge, «le grandi decisioni di politica economica, come il divorzio del 1981 tra Tesoro e Bankitalia, non sono mai passate per il Parlamento». Galloni sgombra il campo da un equivoco: non è stata “l’Europa” a mettere nei guai l’Italia. E’ stata la classe dirigente italiana a smontare l’industria pubblica e svendere quella privata. «A quel punto, Francia e Germania hanno fatto dell’Italia una colonia a vantaggio dei loro interessi», ma solo dopo la decisione dell’Italia di rinunciare a valorizzare il proprio grande potenziale economico.
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E bravo Draghi, ha ridotto l’Europa a un nano economico
Mario Draghi alla scadenza del suo mandato è stato celebrato come il salvatore della Ue e dell’euro, e non c’è dubbio che abbia fatto di tutto per evitare il collasso della moneta unica e che ci sia riuscito. Ma per l’economia reale – ecco il rovescio della medaglia – questo non ha portato ad alcun giovamento. Nei dieci anni successivi alla crisi, dal 2007 al 2017, secondo i dati della World Bank, il Pil globale nel mondo è aumentato del 22%. Tutto merito della Cina e l’India? Per la verità gli Usa sono cresciuti del 29%. E l’Europa della Ue e dell’euro? Il dato clamoroso è che l’Europa dell’euro in dieci anni è cresciuta, come Pil, dell’1,7%. Questo è incredibile. L’Europa ha a disposizione scienza e tecnologia quanto l’America e l’Asia e si lavora in media otto ore al giorno anche qui. Americani, giapponesi e cinesi prendono un po’ meno vacanze e hanno meno mesi in maternità, vanno in pensione qualche anno più tardi. Ma la differenza non è poi così grande come si pensa. Una differenza così abissale della crescita economica su dieci anni non la si spiega con le ore lavorate, che sono in Eurozona solo un 10 o 15% di meno complessivamente.E in ogni caso questa differenza esisteva anche vent’anni fa, quando invece la crescita europea era paragonabile a quella del resto dei paesi Ocse.Questo enorme divario di crescita si spiega soprattutto con le politiche molto espansive del credito e dei deficit pubblici, che il resto del mondo ha fatto e noi nella Ue no. In Usa, il Pil è aumentato da 15.000 a 19.300 miliardi, mentre il deficit pubblico aumentava da 10.000 a 21.000 miliardi, più che raddoppiato in dieci anni (e tuttora l’America mantiene un deficit pubblico di 1.000 miliardi l’anno). In Cina il totale del debito (incluso quello di imprese e famiglie) era meno di 10.000 miliardi, e in dieci anni è esploso a oltre 40.000 miliardi. In Italia invece il credito totale a famiglie e imprese è calato, negli ultimi dieci anni, perché quello alle imprese è stato tagliato moltissimo (da 940 a 650 miliardi) e quello alle famiglie è salito solo leggermente. E la politica di Draghi alla Bce, che ha espanso il bilancio della Bce di quasi 3.000 miliardi? Questi miliardi sono andati a comprare debito pubblico, sia direttamente che indirettamente (dandoli alle banche che poi compravano ad esempio Btp). Sarebbe stato utile all’economia se si fossero aumentati i deficit tagliando le tasse, ma “le regole Ue” lo hanno impedito. E allora a cosa sono serviti i 3.000 miliardi di Draghi? Solo a far scendere a zero (o sottozero) il rendimenti di tutti i titoli di Stato, persino quell greci.Questo danneggia i risparmiatori, che infatti oggi in Italia hanno abbandonato i titoli di Stato comprando polizze, fondi e prodotti del risparmio gestito, e poi mettendo 300 miliardi nei conti correnti, che sono saliti a 1.400 miliardi. Se schiacci a zero i rendimenti dei titoli, chi vuole risparmiare deve spendere un poco di meno per compensare il reddito che non riceve più sui suoi soldi messi da parte. In compenso, a questi tassi artificialmente bassi diventa più facile indebitarsi per chi opera speculativamente sui mercati. Buona fortuna. Nel resto del mondo si è reagito alla crisi con politiche aggressive di aumento dei deficit e del credito per far circolare più soldi con ogni mezzo anche tra famiglie e imprese. Si sono tagliate le tasse e si è aumentata la spesa, e le banche sono state spinte ad aumentare il credito. Le statistiche mondiali del debito privato e pubblico mostrano un enorme aumento del debito delle imprese specie in Usa e Cina. Oggi il debito equivale in pratica alla moneta che circola, e se si vuole aumentarla bisogna aumentare il debito. Nessuno lo ha capito meglio dei giapponesi e dei cinesi. Il Giappone infatti come si sa ha un debito pubblico doppio del nostro, e la Cina ha trascinato l’economia globale negli ultimi dieci anni aumentando il debito privato di 30.000 miliardi!Se invece non si aumenta il deficit e non si stimolano le banche a prestare alle imprese, stampare moneta come ha fatto Draghi fa solo scendere i tassi sui titoli di Stato a zero o sottozero. Una cosa irrazionale, mai successa in 4.000 anni di storia, e che accade più che altro in Eurozona. Draghi ha pompato liquidità solo per comprare e far comprare alla banche titoli sui mercati. Poco o niente è andato all’economia reale. Questi dati sull’enorme divario tra il resto del mondo che cresce del 22% e l’Eurozona che cresce dell’1% indicano che siamo diventati una eccezione nel mondo; siamo l’area della crescita demografica zero o negativa, come in Italia, perché siamo prigionieri di una gabbia finanziaria che soffoca l’economia e riduce l’occupazione. L’Eurozona sacrifica le prospettive dei suoi figli, che non riproduce più, per rispettare “vincoli finanziari e di bilancio” di cui il resto del mondo se ne frega.C’è chi usa più che altro il debito privato, come i cinesi (ma le loro banche sono pubbliche), chi usa sia quello pubblco come Usa e Uk, e chi usa il debito pubblico, come i giapponesi: sì anche i giapponesi, i quali hanno goduto di un incremento del reddito pro capite dal 2008 di circa il 7% contro un calo dell’8% dell’Italia, nonostante il loro debito pubblico sia il doppio del nostro. La politica della Bce di Draghi è servita solo a impedire che la zona euro si sfaldasse; ma occorre – in Europa, e in Italia prima di ogni altro paese – uno “shock monetario”, una espansione dell’ordine dei 100 miliardi di euro, sotto forma soprattutto di riduzioni di tasse, per rilanciare gli investimenti. L’attuale legge di bilancio mette il paese in coma farmacologico, ma il prossimo anno ci saranno elezioni politiche anticipate e Salvini andrà a Palazzo Chigi; sarà meglio preparere sin d’ora un valido programma per rianimare l’Italia.(Paolo Becchi e Giovanni Zibordi, “I disastri dell’Euro: l’Ue è cresciuta un decimo rispetto al mondo”, da “Libero” del 3 novembre 2019; articolo ripreso sul blog di Becchi).Mario Draghi alla scadenza del suo mandato è stato celebrato come il salvatore della Ue e dell’euro, e non c’è dubbio che abbia fatto di tutto per evitare il collasso della moneta unica e che ci sia riuscito. Ma per l’economia reale – ecco il rovescio della medaglia – questo non ha portato ad alcun giovamento. Nei dieci anni successivi alla crisi, dal 2007 al 2017, secondo i dati della World Bank, il Pil globale nel mondo è aumentato del 22%. Tutto merito della Cina e l’India? Per la verità gli Usa sono cresciuti del 29%. E l’Europa della Ue e dell’euro? Il dato clamoroso è che l’Europa dell’euro in dieci anni è cresciuta, come Pil, dell’1,7%. Questo è incredibile. L’Europa ha a disposizione scienza e tecnologia quanto l’America e l’Asia e si lavora in media otto ore al giorno anche qui. Americani, giapponesi e cinesi prendono un po’ meno vacanze e hanno meno mesi in maternità, vanno in pensione qualche anno più tardi. Ma la differenza non è poi così grande come si pensa. Una differenza così abissale della crescita economica su dieci anni non la si spiega con le ore lavorate, che sono in Eurozona solo un 10 o 15% di meno complessivamente.E in ogni caso questa differenza esisteva anche vent’anni fa, quando invece la crescita europea era paragonabile a quella del resto dei paesi Ocse.
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Ilva, la tomba neoliberista: se tagli lo Stato uccidi il paese
Ilva e Alitalia, Fca in fuga insieme a Whirlpool ed Embraco. E poi altri mille “tavoli di crisi” che disegnano il tramonto del sistema industriale italiano. Chi si concentra solo sulle notizie del giorno (è colpa di chi ha messo in discussione lo “scudo legale”, non si cambiano le regole in corso d’opera, Arcelor Mittal voleva 5.000 esuberi e ha giocato sporco) è destinato a non capire cosa sta davvero succedendo, afferma Dante Barontini su “Contropiano”: «C’è un paese che sta affondando nella de-industrializzazione, senza peraltro avere mai costruito un modello di sviluppo alternativo». Le colpe, secondo il “giornale comunista online”, vanno equamente divise «tra una classe imprenditoriale di inqualificabile viltà e una classe politica, se si può, anche peggiore». Entrambe, infatti, «davanti alla costruzione europea che toglieva sovranità alle scelte economiche, hanno reagito fuggendo», ciascuno a modo suo: gli imprenditori «girando i loro profitti nella finanza speculativa», e i politici (nessuno escluso, da Berlusconi a Salvini) di fatto «accettando i diktat europei, spogliandosi di qualsiasi responsabilità e rifugiandosi nella bolla della “comunicazione”, ossia nella menzogna professionale».Da quasi trent’anni, dal Trattato di Maastricht in poi – ricorda Barontini – la “politica industriale” di tutti i governi è consistita in privatizzazioni e soldi a pioggia alle imprese. In sostanza: “regali industriali” – da Telecom a Italsider, ad Autostrade – accompagnati da generose “dazioni” liquide (sotto forma di decontribuzione, finanziamenti a fondo perduto, taglio del cuneo fiscale), «oltre che da politiche criminali sul lavoro», ovvero «precarietà contrattuale legalizzata, allungamento dell’età lavorativa, eliminazione delle tutele dei lavoratori, deflazione salariale», con la piena “complicità” di Cgil, Cisl e Uil. E tutto questo, «accettando sempre la tagliola del “divieto agli aiuti di Stato” imposta dall’Unione Europea». Di fatto, aggiunge Barontini, «sono state consegnate alle imprese le chiavi dello sviluppo o della morte del paese». Le imprese ovviamente hanno pensato ai loro affari, in una situazione di cortissimo respiro: «I “mercati” valutano le relazioni trimestrali, mica le prospettive strategiche». Rimosso a monte l’obiettivo sistemico (lo sviluppo del paese, il benessere diffuso, posti di lavoro e salari accettabili) non resta che il calcolo costi-benefici «tra costo del lavoro, incentivi a pioggia, efficienza delle infrastrutture, politiche fiscali nazionali».Inevitabile, secondo Barontini, che le imprese «decidessero per la morte, ponendo ogni volta il ricatto con modalità mafiose: o ci date mano libera o ce ne andiamo da un’altra parte». Amarezza: «C’erano una volta i lavoratori che si trasferivano là dove c’erano le industrie, con la valigia di cartone legata con lo spago. Oggi sono le imprese multinazionali a viaggiare, spostando linee di montaggio e casseforti gonfie di soldi». Globalizzazione selvaggia, delocalizzazioni facili: «Da questa condizione storica non si esce con misure una tantum, con un finanziamento in più e neanche con una “partecipazione pubblica” nei casi più disperati», sostiene “Contropiano”, segnalando che «dopo anni, è arrivato a chiederla – per la sola Ilva – persino il segretario della Cgil». Di fronte alla dimensione del disastro economico e sociale, per Barontini c’è bisogno di una visione e di una programmazione di lungo periodo: «C’è bisogno di decidere che cosa produrre e come farlo». Soprattutto: «C’è bisogno di investire in barba a qualsiasi “patto di stabilità europeo”, perché un paese di 60 milioni di persone non può accettare di finire nel baratro della storia solo per rispettare “regole” scritte per favorire altri sistemi industriali, altri paesi e altre multinazionali». Giusto nazionalizzare, ma non basta più: serve «una diversa visione del mondo e della produzione». In altre parole, «si tratta di prendere atto che il capitalismo neoliberista non funziona più e va superato prima che esploda», seminando (come sempre nella storia) «morte e distruzione».Ilva e Alitalia, Fca in fuga insieme a Whirlpool ed Embraco. E poi altri mille “tavoli di crisi” che disegnano il tramonto del sistema industriale italiano. Chi si concentra solo sulle notizie del giorno (è colpa di chi ha messo in discussione lo “scudo legale”, non si cambiano le regole in corso d’opera, Arcelor Mittal voleva 5.000 esuberi e ha giocato sporco) è destinato a non capire cosa sta davvero succedendo, afferma Dante Barontini su “Contropiano“: «C’è un paese che sta affondando nella de-industrializzazione, senza peraltro avere mai costruito un modello di sviluppo alternativo». Le colpe, secondo il “giornale comunista online”, vanno equamente divise «tra una classe imprenditoriale di inqualificabile viltà e una classe politica, se si può, anche peggiore». Entrambe, infatti, «davanti alla costruzione europea che toglieva sovranità alle scelte economiche, hanno reagito fuggendo», ciascuno a modo suo: gli imprenditori «girando i loro profitti nella finanza speculativa», e i politici (nessuno escluso, da Berlusconi a Salvini) di fatto «accettando i diktat europei, spogliandosi di qualsiasi responsabilità e rifugiandosi nella bolla della “comunicazione”, ossia nella menzogna professionale».
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Mazzucco: lo Stato si riprenda acciaio, energia e medicina
La drammatica vicenda dell’Ilva dimostra come non sia possibile, semplicemente, lasciare nelle mani dei privati le risorse strategiche di un paese: non perché l’operatore privato sia da demonizzare, ma perché è ovvio (nonché legittimo) che l’azienda intenda ricavarne un vantaggio economico per sé, anche a scapito del servizio destinato ai cittadini. Questo vale per una “materia prima semilavorata” come l’acciaio, che supporta l’intero sistema industriale nazionale, e vale a maggior ragione per il settore dell’energia. Lo afferma Massimo Mazzucco, esaminando mestamente il caso di Taranto, classico esempio di coperta troppo corta: o tuteli l’ambiente della città e la salute dei lavoratori, oppure – se invece pensi al profitto, cioè alla tua sopravvivenza come impresa – finisci per trascurare sia la sicurezza degli operai che quella degli sfortunati abitanti dei quartieri che sorgono a ridosso dello stabilimento inquinante. Discorso che Mazzucco estende all’immenso settore della sanità e della farmaceutica: come sperare che non si esca dalla logica del business, a scapito della salute, se l’intero, smisurato comparto medico-farmaceutico è completamente nelle mani delle multinazionali?In modo decisamente inconsueto, tra i servizi “di costume” che corredano i telegiornali a margine delle news principali, persino il Tg1 si è appena occupato dell’emblematica situazione di isolamento dei tanti villaggi disseminati sull’Appennino. Spopolamento vertiginoso, bambini costretti a percorrere decine di chilometri per raggiungere la scuola, intere borgate completamente isolate anche telefonicamente (circostanza per nulla rassicurante sul piano della sicurezza, nel caso di emergenze sanitarie o di calamità naturali). Un sindaco del Piacentino indica un palo telefonico divelto, in mezzo al bosco: questo stato di degrado, accusa, è letteralmente esploso da quando le compagnie telefoniche sono state privatizzate, cessando di garantire il servizio a tutti e penalizzando le aree dove vivono pochi utenti, cittadini trasformati in semplici clienti (assisterli, a quel punto, è diventato poco conveniente). C’è una sorta di deriva, di cui non si vede la fine: è caduta nel vuoto, in Parlamento, la mozione presentata dall’ex grillina Sara Cunial per chiedere una moratoria sull’installazione della rete wireless 5G. La richiesta: sospendere le operazioni per tre anni, periodo indicato da scienziati e sanitari per consentire di valutare le analisi in corso, circa l’impatto del 5G sul corpo umano. Tutto inutile: a nulla serve invocare il sacrosanto “prinicipio di precauzione”.Era stato lo stesso Mazzucco, mesi fa, a “scoprire” che aveva dimensione nazionale lo strano fenomeno dell’abbattimento dei grandi alberi nei centri abitati. Operazione condotta in modo quasi clandestino, spesso senza spiegazioni o con vaghi pretesti. «Succede anche nella vostra città?». All’appello di Mazzucco, via web, hanno risposto decine di persone, fornendo immagini e video: una vera e propria “strage” silenziosa, condotta all’insaputa degli italiani. Dai grandi media, silenzio di tomba – così come dalla politica. E’ stato Mazzucco, ancora lui, a scovare un inidizio: documenti governativi della Gran Bretagna raccomandano l’abbattimento degli alberi frondosi, nei centri abitati, perché la loro chioma ostacola la propagazione del segnale wireless di quinta generazione. Il mutismo della politica si fa addirittura assordante nel caso dell’obbligo vaccinale, anche se 130.000 bambini italiani (non vaccinati) nel 2019 sono stati esclusi dall’asilo, per la prima volta nella storia. La Regione Puglia, unico caso italiano, ha monitorato le “reazioni avverse”: 4 bambini su 10 hanno avuto problemi di salute, anche seri, dopo la somministrazione delle vaccinazioni polivalenti. Di questo, naturalmente, non si parla. La politica – tutta – recita il suo atto di dolore sull’Ilva. Ma il sistema-Italia è senza governo, a monte del rito sempre più inutile delle elezioni. Comanda il “pilota automatico”, a cui nessuno osa opporsi.(Massimo Mazzucco anima con Giulietto Chiesa ogni sera alle ore 21 le trasmissioni di “Contro Tv”, neonata voce indipendente dell’informazione italiana. Il pensiero di Mazzucco, reporter e documentarista, è rintracciabile sul blog “Luogo Comune”. Ogni sabato, infine, l’autore dà vita con Fabio Frabetti di “Border Nights” alla diretta web-streaming su YouTube “Mazzucco Live”).La drammatica vicenda dell’Ilva dimostra come non sia possibile, semplicemente, lasciare nelle mani dei privati le risorse strategiche di un paese: non perché l’operatore privato sia da demonizzare, ma perché è ovvio (nonché legittimo) che l’azienda intenda ricavarne un vantaggio economico per sé, anche a scapito del servizio destinato ai cittadini. Questo vale per una “materia prima semilavorata” come l’acciaio, che supporta l’intero sistema industriale nazionale, e vale a maggior ragione per il settore dell’energia. Lo afferma Massimo Mazzucco, esaminando mestamente il caso di Taranto, classico esempio di coperta troppo corta: o tuteli l’ambiente della città e la salute dei lavoratori, oppure – se invece pensi al profitto, cioè alla tua sopravvivenza come impresa – finisci per trascurare sia la sicurezza degli operai che quella degli sfortunati abitanti dei quartieri che sorgono a ridosso dello stabilimento inquinante. Discorso che Mazzucco estende all’immenso settore della sanità e della farmaceutica: come sperare che non si esca dalla logica del business, a scapito della salute, se l’intero, smisurato comparto medico-farmaceutico è completamente nelle mani delle multinazionali?
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Sapelli: salvare l’Ilva, è il nostro ultimo gioiello strategico
Secondo una scuola di economisti neoliberali, non abbiamo più bisogno delle produzioni nazionali, perché l’acciaio si può acquistare, come qualsiasi altra commodity, sul mercato internazionale. Questa posizione sottovaluta però un fattore importante. L’acciaio è una materia prima lavorata, con differenti gradi di perfezione. Grazie al lascito della grande industria siderurgica nazionale di proprietà pubblica, gli acciai piani di Taranto sono di altissima qualità, tra i migliori al mondo. E in un paese caratterizzato dalla presenza di piccole e medie imprese, questi sono venduti per circa il 70% a copertura del fabbisogno nazionale. Di fatto le imprese metallurgiche, meccaniche e affini italiane possono acquistare questo acciaio di altissima qualità a un prezzo inferiore rispetto a quello dell’oligopolio internazionale. Quindi la chiusura dell’ultimo impianto a ciclo integrato rimasto in Italia sarebbe oltremodo grave: verrebbe meno uno dei pochi fattori che consentino alla nostra piccola e media impresa di resistere.Trovare una soluzione è molto difficile, anche perché il problema dell’ex Ilva risale nel tempo. Abbiamo visto avvicendarsi sentenze e provvedimenti con una lettura della responsabilità giuridica delle imprese che, se nel diritto anglosassone comporta sanzioni, nel caso di Taranto (con l’interpretazione che si è data del decreto legislativo 231 del 2001) ha comportato l’esproprio senza alcun processo degli stabilimenti che erano stati acquisiti dalla famiglia Riva e i sequestri di parte della produzione al posto delle multe. Tutto questo ha poi portato a quel provvedimento, certamente inconsueto in uno Stato di diritto, noto come “scudo penale” per Arcelor Mittal, in cambio delle bonifiche ambientali e dei necessari cambiamenti alla produzione. Il tira e molla su questo provvedimento, che ha avuto come protagonisti i 5 Stelle, ora ha indotto il gruppo franco-indiano a prendere la decisione a tutti ormai nota. Non credo che Arcelor Mittal a quel punto abbia poi voglia rimettersi in campo, perché le sono state fatte delle promesse che non sono state mantenute.Bisognerebbe trovare degli altri azionisti privati che subentrassero. Ho in mente per esempio Arvedi, che svolge le stesse produzioni utilizzando delle tecnologie che riducono altamente la possibilità di inquinamento. La nazionalizzazione? Non credo che sia una strada percorribile, per via delle regole europee. Cassa Depositi e Prestiti potrebbe anche entrare nel capitale, ma la cosa importante è trovare altri azionisti e dei manager capaci. Ma ci vorrebbe anche un governo che avesse dei ministri autorevoli, soprattutto allo sviluppo economico. A una cordata sembra stia pensando Renzi, dopo che Italia Viva ha votato insieme agli altri partiti di maggioranza per togliere lo “scudo penale” ad Arcelor Mittal. Quella di Renzi è la posizione che può esprimere una persona che è a capo di un conglomerato industriale, non che viene eletta dal popolo per fare gli interessi della nazione e occuparsi di problemi generali. È molto grave che un singolo parlamentare si faccia promotore addirittura di accordi industriali.Vuol dire che i neo-partiti personali sono agglomerati di imprenditori che di volta in volta contattano degli uomini politici, li mandano avanti per fare in modo che si preveda l’applicazione di determinate leggi e misure e attorno a questo raggiungono un consenso che abbia un peso elettorale. Intanto il Pd viene accusato di essersi appiattito sulle posizioni del Movimento 5 Stelle. Il Pd è da tempo che si allinea alle posizioni che io chiamo “esoteriche” dei 5 Stelle. Un tempo, quanti in Italia erano legati ai gruppi maoisti sostenevano che l’acciaio si potesse fare coi secchi, come secondo loro faceva Mao in Cina. Sappiamo però bene che occorre un altoforno, per questo. Adesso ci sono quanti sostengono che produrre acciaio non ha dei rischi ambientali. Li ha, ma abbiamo tutte le tecnologie idonee per evitarli. A Taranto non si è fatto molto, su questo punto, anche da parte degli enti pubblici. La Regione Puglia ha responsabilità enormi, da Vendola in poi, perché aveva tutti i mezzi legali per imporre almeno una copertura dei rifiuti metallici e impedire che il vento li portasse via.Poche settimane fa Whirlpool ha comunicato di voler chiudere lo stabilimento di Napoli, ora Arcelor Mittal fa un passo indietro da Taranto. Non è un caso, perché questo governo dà segni di grande debolezza, di grande fragilità, soprattutto di indeterminatezza nelle politiche industriali. Anche perché il Pd si è appiattito sulle posizioni dei 5 Stelle. Quindi gli investitori stranieri non si sentono più sicuri e naturalmente pensano già alle vie di fuga dall’Italia. Non escludo che ci siano gruppi esteri pronti all’assalto perché quello di Taranto, una volta risanato, è uno stabilimento di altissima professionalità e rappresenta il 70% del mercato italiano dell’acciaio (che vuol dire le industrie, soprattutto degli stampisti, meccaniche e metallurgiche, tra le migliori al mondo). Nel frattempo, in base ai contratti stipulati, anche senza produrre a Taranto Arcelor Mittal potrà rifornire i clienti dell’ex Ilva con l’acciaio realizzato all’estero. Questa è la cosa che mi preoccupa di più, perché vuole dire che si arriva a eradicare una parte della nostra industria.Penso che con questa vicenda dell’ex Ilva cominciamo ad arrivare al finale della “campagna d’Italia”, cioè alla spoliazione dell’industria italiana. Questa è una vicenda che comincia da Romano Prodi. Un modo per obbligare l’industria italiana, se vuole l’acciaio, a rifornirsi da qualcun altro. Chi se ne avvantaggia? Un po’ tutti i gruppi. Arcelor Mittal è un gruppo franco-indiano. I tedeschi, dopo la drammatica vicenda Thyssen, hanno avuto l’intelligenza di rifarsi. Quindi, come ripeto da tempo, i contendenti della campagna d’Italia sono la Francia e la Germania. Si può rimettere in piedi l’ex Ilva? Ci sarebbe il modo. Abbiamo azionisti privati, penso ad Arvedi; abbiamo anche le capacità manageriali. Ci vuole un sostegno pubblico, che però deve essere forte, autorevole e continuo nel lungo periodo. Cosa che non mi pare possibile oggi. Se c’è un ministro responsabile, mi appello a Gualtieri che mi sembra l’unico con queste caratteristiche nel governo: si dia da fare e si cerchi di separare la polemica pro o contro esecutivo dalla vicenda Ilva. La questione di fondo è salvare l’ex Ilva, qualunque governo ci sia.(Giulio Sapelli, dichiarazioni rilasciate a Lorenzo Torrisi per l’intervista “Caos Ilva, azionista privato e sostegno dello Stato, ecco come fare”, pubblicata dal “Sussidiario” il 6 novembre 2019).Secondo una scuola di economisti neoliberali, non abbiamo più bisogno delle produzioni nazionali, perché l’acciaio si può acquistare, come qualsiasi altra commodity, sul mercato internazionale. Questa posizione sottovaluta però un fattore importante. L’acciaio è una materia prima lavorata, con differenti gradi di perfezione. Grazie al lascito della grande industria siderurgica nazionale di proprietà pubblica, gli acciai piani di Taranto sono di altissima qualità, tra i migliori al mondo. E in un paese caratterizzato dalla presenza di piccole e medie imprese, questi sono venduti per circa il 70% a copertura del fabbisogno nazionale. Di fatto le imprese metallurgiche, meccaniche e affini italiane possono acquistare questo acciaio di altissima qualità a un prezzo inferiore rispetto a quello dell’oligopolio internazionale. Quindi la chiusura dell’ultimo impianto a ciclo integrato rimasto in Italia sarebbe oltremodo grave: verrebbe meno uno dei pochi fattori che consentono alla nostra piccola e media impresa di resistere.
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L’Onu: viene dalle piccole imprese il 70% dei posti di lavoro
Il lavoro autonomo, le microimprese e le piccole imprese svolgono un ruolo molto più importante nell’offerta di posti di lavoro rispetto a quanto si pensasse in precedenza, secondo le nuove stime dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil). I dati raccolti in 99 paesi hanno rivelato che queste cosiddette “piccole unità economiche” rappresentano nel loro insieme il 70% dell’occupazione totale, il che le rende di gran lunga il principale motore dell’occupazione. I risultati hanno implicazioni “altamente rilevanti” per le politiche e i programmi volti alla creazione di posti di lavoro, alla qualità del lavoro, alle start-up, alla produttività aziendale e regolarizzazione del lavoro, che, secondo il rapporto, devono concentrarsi maggiormente su queste piccole unità economiche. Lo studio ha anche scoperto che una media del 62% dell’occupazione in questi 99 paesi è di tipo informale, per cui le condizioni di lavoro in generale tendono a essere peggiori (mancanza di sicurezza sociale, salari più bassi, scarsa sicurezza e salute sul lavoro e relazioni industriali più deboli). Il livello di informalità varia ampiamente, passando da oltre il 90% in Benin, Costa d’Avorio e Madagascar a meno del 5% in Austria, Belgio, Brunei Darussalam e Svizzera.Le informazioni sono pubblicate nel nuovo rapporto dell’Oil “Piccolo è importante: prove globali sul contributo all’occupazione dei lavoratori autonomi, delle microimprese e delle Pmi”. Il rapporto rileva che nei paesi ad alto reddito il 58% dell’occupazione totale è in piccole unità economiche, mentre nei paesi a basso e medio reddito la percentuale è considerevolmente più alta. Nei paesi con i livelli di reddito più bassi la percentuale di occupazione nelle piccole unità economiche è quasi del 100%, afferma il rapporto. Le stime si basano su indagini nazionali sulle famiglie e sulla forza lavoro, raccolte in tutte le regioni ad eccezione del Nord America, anziché utilizzare la fonte più tradizionale di indagini sulle imprese che tende ad avere un ambito più limitato. «Per quanto ne sappiamo, questa è la prima volta che il contributo all’occupazione delle cosiddette piccole unità economiche è stato stimato, in termini comparativi, per un gruppo di paesi così ampio, in particolare i paesi a basso e medio reddito», ha detto Dragan Radic, che guida l’Unità per le piccole e medie imprese dell’Oil.La relazione suggerisce che il sostegno alle piccole unità economiche dovrebbe essere una parte centrale delle strategie per lo sviluppo economico e sociale. Sottolinea l’importanza di creare un ambiente favorevole per queste imprese, garantendo che abbiano una rappresentanza efficace e che i modelli di dialogo sociale funzionino anche per loro. Altre raccomandazioni includono; comprendere in che modo la produttività aziendale è modellata da un “ecosistema” più ampio, facilitando l’accesso ai finanziamenti e ai mercati, promuovendo l’imprenditoria femminile e incoraggiando la transizione verso l’economia formale e la sostenibilità ambientale. Le microimprese sono definite come quelle che hanno fino a nove dipendenti, mentre le piccole imprese hanno fino a 49 dipendenti.(“Oil: le piccole imprese e i lavoratori autonomi coprono la maggior parte dei lavori in tutto il mondo”, da “Voci dall’Estero” del 18 ottobre 2019. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil, in inglese Ilo) è l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di promuovere il lavoro dignitoso e produttivo in condizioni di libertà, uguaglianza, sicurezza e dignità umana per uomini e donne).Il lavoro autonomo, le microimprese e le piccole imprese svolgono un ruolo molto più importante nell’offerta di posti di lavoro rispetto a quanto si pensasse in precedenza, secondo le nuove stime dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil). I dati raccolti in 99 paesi hanno rivelato che queste cosiddette “piccole unità economiche” rappresentano nel loro insieme il 70% dell’occupazione totale, il che le rende di gran lunga il principale motore dell’occupazione. I risultati hanno implicazioni “altamente rilevanti” per le politiche e i programmi volti alla creazione di posti di lavoro, alla qualità del lavoro, alle start-up, alla produttività aziendale e regolarizzazione del lavoro, che, secondo il rapporto, devono concentrarsi maggiormente su queste piccole unità economiche. Lo studio ha anche scoperto che una media del 62% dell’occupazione in questi 99 paesi è di tipo informale, per cui le condizioni di lavoro in generale tendono a essere peggiori (mancanza di sicurezza sociale, salari più bassi, scarsa sicurezza e salute sul lavoro e relazioni industriali più deboli). Il livello di informalità varia ampiamente, passando da oltre il 90% in Benin, Costa d’Avorio e Madagascar a meno del 5% in Austria, Belgio, Brunei Darussalam e Svizzera.
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Conte-bis: manovra da incubo ma semiseria, salvo intese
«Più che una sensazione, l’aumento delle tasse è una certezza: al netto della sterilizzazione dell’Iva, ci sono 12,5 miliardi in più di tasse compensati da 3 miliardi mal contati di cuneo fiscale e da qualcosa sul super-ticket sanitario». Per Alessandro Sallusti, direttore del “Giornale”, «aumentano le tasse di un paese che ha già un’imposizione fiscale tra le più alte d’Europa», e la caotica manovra finanziaria dell’imbarazzante Conte-bis «mette tutto in carico alle partita Iva e al ceto medio: sarà un caso che oggi nessuno esulta? Nessuna categoria, nessun gruppo sociale». La cosa meno seria di tutte, sottolinea Sergio Luciano sul “Sussidiario”, è che il documento destinato all’esame di Bruxelles è stato licenziato “salvo intese”, testualmente. «Mai era accaduto – scrive – che neanche dopo sei ore di confronto il documento che l’Italia è obbligata a inviare alla Commissione Europea fosse approvato senza un’intesa stabile tra le forze politiche che appoggiano l’esecutivo». Tutto, quindi, è ancora reversibile, tra ministri e partiti, prima che in Parlamento se ne possa discutere formalmente, tra «le infinite tensioni e negoziazioni che intercorrono tra Cinquestelle, Pd e renziani, con patetica partecipazione di Leu».«La manovra è espansiva, dobbiamo ritenerci soddisfatti», ha detto Conte, «quel buontempone», rivendicando lo scampato pericolo sull’aumento dell’Iva. Ma non c’è da fidarsi, prosegue Luciano, proprio per quel “salvo intese”. Torna in mente nientemeno che Mario Monti, che il 23 marzo 2012 aveva emesso un comunicato che iniziava così: «Il Consiglio dei Ministri ha approvato oggi, salvo intese, il disegno di legge di riforma del mercato del lavoro». Cioè, ieri come oggi – scrive Luciano – il governo si riservava di modificare il disegno di legge prima di sottoporlo al Parlamento: dunque «un atto politico del governo contro se stesso». Un modo, da parte del premier e dei ministri per dire: “Noi non bastiamo a noi stessi”, decidendo di non decidere. Dunque siamo solo ai “probabili contenuti”, da prendersi con beneficio d’inventario. «Il giudizio che sorge spontaneo su questa procedura non richiede circonlocuzioni: è uno schifo. Ma così è», scrive Luciano. E i contenuti (amcora ipotetici) della manovra? Scongiurato il rincaro dell’Iva (23 miliardi per il 2020), resiste “Quota 100”, a dispetto di Renzi che voleva abolirla. «Per le famiglie si destina poco e nulla, 600 milioni, che il ministro dell’economia Gualtieri ha sintetizzato come “una serie di misure a partire dalla gratuità degli asili nido per gran parte della popolazione e un piano per la costruzione di nuovi asili nido”. Si cancellerà il superticket e dovrebbe aumentare il sostegno alla disabilità».La riduzione del cuneo fiscale ci sarà sin dall’anno prossimo ma di soli 3 miliardi, forse destinati a salire a 5 nel 2021 (sempre “salvo intese”, anzi “intese sulle intese”), a premiare i redditi fino a 35.000 euro: soldi che verrano dati ai lavoratori, ma non alle imprese, scontetando Confindustria. «Il tetto al contante scenderà dai 3.000 euro attuali a 2.000 l’anno venturo e a 1.000 nel 2022, e anche su questo Renzi medita sfracelli», continua Sergio Luciano. «La lotta al contante si direbbe l’unica mossa di qualche rilievo nel pomposo ma vacuo capitolo della lotta all’evasione, che pure contiene numerose regolette seminuove, come il contrasto alle elusioni delle cooperative e l’inasprimento delle pene per i grandi evasori (fino a otto anni per falsa dichiarazione)». Venendo alle misure per l’industria, «lo strombazzato “green new deal” di Conte si limiterà ad un non meglio precisato fondo per la promozione degli investimenti sostenibili». Si prosegue con gli incentivi del programma “Industria 4.0” per sostenere gli investimenti privati e favorire il rinnovo dei sistemi produttivi. Confermate le detrazioni per la riqualificazione energetica e le ristrutturazioni, per l’acquisto dei mobili e degli elettrodomestici “verdi”, e arriva un bonus per i condomini che restaurano la facciata. «E le coperture? I 7 miliardi attesi dall’evasione dimagriscono a 3. E forse, non a caso – chiosa Luciano – il carcere agli evasori resta tra le misure non precisate».«Più che una sensazione, l’aumento delle tasse è una certezza: al netto della sterilizzazione dell’Iva, ci sono 12,5 miliardi in più di tasse compensati da 3 miliardi mal contati di cuneo fiscale e da qualcosa sul super-ticket sanitario». Per Alessandro Sallusti, direttore del “Giornale”, «aumentano le tasse di un paese che ha già un’imposizione fiscale tra le più alte d’Europa», e la caotica manovra finanziaria dell’imbarazzante Conte-bis «mette tutto in carico alle partita Iva e al ceto medio: sarà un caso che oggi nessuno esulta? Nessuna categoria, nessun gruppo sociale». La cosa meno seria di tutte, sottolinea Sergio Luciano sul “Sussidiario”, è che il documento destinato all’esame di Bruxelles è stato licenziato “salvo intese”, testualmente. «Mai era accaduto – scrive – che neanche dopo sei ore di confronto il documento che l’Italia è obbligata a inviare alla Commissione Europea fosse approvato senza un’intesa stabile tra le forze politiche che appoggiano l’esecutivo». Tutto, quindi, è ancora reversibile, tra ministri e partiti, prima che in Parlamento se ne possa discutere formalmente, tra «le infinite tensioni e negoziazioni che intercorrono tra Cinquestelle, Pd e renziani, con patetica partecipazione di Leu».
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Contro la disoccupazione l’unica guerra di Trump: stravinta
Quando incontro persone che sono venute a conoscenza delle mie osservazioni su Putin e Trump, il refrain che ascolto è sempre lo stesso: da quando in qua ti piacciono i dittatori? Vorresti forse un modello che si ispira agli autoritarismi? E avanti di questo passo. Tralasciando l’analisi su Putin (ho scritto un libro su di lui dove è spiegato tutto quello che c’è da sapere), prendiamo in considerazione la mia “simpatia” per Donald Trump, anche e soprattutto alla luce di quanto accaduto oggi. In primo luogo, deve essere chiaro che non nutro alcuna simpatia per il presidente americano. Non mi piace come speaker, né tanto meno la sua carriera privata, sbandierata in modo presuntuoso sui media, quando in realtà stiamo parlando di un palazzinaro newyorkese che ha ereditato una cospicua fortuna dal padre costruttore. Non mi piace il suo look – abiti fuori misura – né la sua trasmissione televisiva sull’imprenditoria, dove esibiva il solito fare paternalistico dell’imprenditore che si è fatto da sé (e non è vero…). Mi stufano i seimila tweet che pubblica quotidianamente, e che sono spesso contraddittori. Fatta questa doverosa precisazione, veniamo però alle cose che Trump ha davvero detto e poi davvero fatto.In primo luogo Trump ha promesso di non iniziare nuovi conflitti geopolitici, al fine di risparmiare le vite di giovani americani e di consentire ad ogni paese ove vi sono tensioni di superarle in autonomia. Una volta eletto, ha rispettato questo impegno? I dati sono sotto gli occhi di tutti. Trump non ha iniziato alcun conflitto e i suoi interventi (ad esempio in Siria) sono risibili rispetto a quelli dei suoi predecessori, Obama e Bush. Ha minacciato Turchia, Corea del Nord, Venezuela. Ma stava solo prendendo per i fondelli i falchi del Pentagono, che da anni sono rimasti senza cibo. Sentite cosa ha dichiarato su di lui l’economista Paul Krugman, non senza un travaso di bile: «A quanto pare, per Trump distruggere la Nato non è un mezzo per raggiungere uno scopo: è lo scopo in sé. Trump non vuole riformare l’ordine mondiale. Vuole distruggerlo». E tutto l’intervento di Krugman viene riportato sul maggior organo di informazione finanziaria d’Italia. Sì, insomma, quando questi si arrabbiano è segno che la direzione intrapresa è quella giusta.Ma veniamo all’economia, alla “struttura”, tanto per usare termini marxisti. Trump aveva promesso di aiutare il settore economico manifatturiero americano. Anche se il manifatturiero pesa pochino dentro la balena economica americana, molti statunitensi sono infatti in difficoltà da anni, perché diverse fabbriche hanno chiuso i battenti per lasciare la produzione nelle mani dei paesi emergenti o di quelli già emersi, come la Cina. Gli Usa, infatti, non sono abitati solo da avvocati ebrei della Grande Mela che vanno a teatro e suonano il flauto nei pub, come Woody Allen, né la costa ovest è frequentata solo dagli smanettoni della Silicon Valley e dagli artisti di San Franciso. Ci sono anche operai, artigiani, estrattori, agricoltori. Insomma, l’America non è solo Apple e Facebook! Trump lo ha capito e ha pensato di aiutare il mondo del lavoro anche della gente comune, e lo sta facendo con politiche protezionistiche tese a savaguardare le produzioni locali. I risultati che finora ha ottenuto sono di destra o di sinistra? Se ancora vi piacciono queste classificazioni, giudicate da soli il dato uscito stamani: il tasso di disoccupazione negli Usa oggi è arrivato al 3,5%.Sembrerà strano, ma non tutti quelli che mi leggono sono intelligenti, e allora per i più duri di comprendonio vale la pena ripeterlo almeno 5 volte, con l’invito di ripetere questa frase ogni mattina, prima delle abluzioni. «Il tasso di disoccupazione – recitano le agenzie – non era così basso dal dicembre di 50 anni fa. Rivisti al rialzo anche i dati sull’occupazione dei due mesi precedenti: a luglio i nuovi posti sono passati da 159.000 a 166.000, ad agosto da 130.000 a 168.000». Cosa significa, per una comunità di enormi dimensioni (327 milioni di abitanti) abbassare la disoccupazione al 3,5%? Due cose, anzitutto: i lavoratori dipendenti hanno maggior potere contrattuale, e in quei territori non lavora solo chi non vuole lavorare. Pregherei i detrattori di risparmiarmi la filastrocca sull’America che non ha la sanità pubblica, il diritto allo studio e le solite cose. Lo so benissimo e combatto contro questo, nel mio piccolo, da sempre. Ma sono distorsioni del capitalismo che non sono di sicuro imputabili a Trump, eletto nel 2016. Che piaccia o no, Trump sta dimostrando almeno due cose: da un lato, che la pianificazione pubblica dell’economia può dare enormi risultati. Dall’altro, che il mondo può essere una realtà politica e culturale multipolare.(Massimo Bordin, “Trump ha ucciso la disoccupazione, ora tocca ai suoi critici”, dal blog “Micidial” del 4 ottobre 2019).Quando incontro persone che sono venute a conoscenza delle mie osservazioni su Putin e Trump, il refrain che ascolto è sempre lo stesso: da quando in qua ti piacciono i dittatori? Vorresti forse un modello che si ispira agli autoritarismi? E avanti di questo passo. Tralasciando l’analisi su Putin (ho scritto un libro su di lui dove è spiegato tutto quello che c’è da sapere), prendiamo in considerazione la mia “simpatia” per Donald Trump, anche e soprattutto alla luce di quanto accaduto oggi. In primo luogo, deve essere chiaro che non nutro alcuna simpatia per il presidente americano. Non mi piace come speaker, né tanto meno la sua carriera privata, sbandierata in modo presuntuoso sui media, quando in realtà stiamo parlando di un palazzinaro newyorkese che ha ereditato una cospicua fortuna dal padre costruttore. Non mi piace il suo look – abiti fuori misura – né la sua trasmissione televisiva sull’imprenditoria, dove esibiva il solito fare paternalistico dell’imprenditore che si è fatto da sé (e non è vero…). Mi stufano i seimila tweet che pubblica quotidianamente, e che sono spesso contraddittori. Fatta questa doverosa precisazione, veniamo però alle cose che Trump ha davvero detto e poi davvero fatto.
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Sapelli: patto segreto Vaticano-Cina, e Conte si è allineato
Via della Seta? Attenti alla Cina: l’asse Roma-Pechino indebolisce l’Italia, facendo perdere al Belpaese la protezione di Washington di fronte all’Ue a trazione franco-tedesca. Quello che pochi conoscono è il ruolo del Vaticano nella svolta filo-cinese del governo italiano. Lo afferma il professor Giulio Sapelli, economista e storico, acuto analista degli scenari geopolitici. Il 22 settembre 2018, scrive Sapelli sul “Sussidiario”, è stato firmato un accordo tra Santa Sede e Repubblica Popolare Cinese, «ancor oggi secretato e sconosciuto all’opinione pubblica». Altrettanto in ombra è la storia, travagliata, dei rapporti diplomatici tra l’Oltretevere e Pechino, interrottisi nel 1951 e riapertisi di fatto solo nel 2014, «giungendo a influenzare più profondamente di quanto non si pensi la stessa vicenda italico-governativa». L’accordo stipulato un anno fa, spiega Sapelli, si fonda sulla libertà del governo cinese di proporre i vescovi cattolici. In cambio, la Santa Sede potrà scegliere quelli che ritiene più idonei al ruolo pastorale. «L’autorità immensa di cui ancor oggi la Santa Sede e il Romano Pontefice godono nel mondo – osserva Sapelli – sono in tal modo sottoposti al rischio di porsi di fatto al servizio delle ambizioni egemoniche e quindi anche culturali cinesi». Oggi, peraltro, «la gerarchia pastorale di Hong Kong ha levato la sua voce contro l’accordo».Le implicazioni con il Conte-bis? Il cuore dell’intesa che ha dato vita all’attuale accordo “pastorale”, scrive Sapelli, non risiede solo nella Segreteria di Stato vaticana, ma anche nella struttura diretta per decenni dal cardinale Achille Silvestrini, prefetto delle Chiese Orientali e grande protettore di Giuseppe Conte. L’attuale premier «è stato una figura importante nell’azione di Villa Nazareth», annota Sapelli. E la sua presenza a Palazzo Chigi, prima alleato con la Lega e ora col Pd, «illumina di una luce molto interessante il profilo culturale sia del governo, sia della nuova politica “pastorale” vaticana». Alcuni hanno parlato di “nuovo cesaropapismo”. In realtà, sintetizza Sapelli, «il governo ha intrapreso una strada parallela in merito ai rapporti economici e geostrategici con la Cina». Questo è appunto l’oggetto del contendere con gli Usa, come ben dimostra la visita riservata del Segretario di Stato americano Mike Pompeo in Vaticano, «che ha avuto come oggetto proprio la questione cinese». Secondo Sapelli, anche in merito alla collocazione internazionale dell’Italia, «gli Usa non possono non essere preoccupati dello straordinario azzardo geostrategico compiuto prima dal governo Conte-1 e poi dalla sua replica», che ha lasciato invariati «i termini di un accordo che segna un pericoloso cambiamento della politica estera italiana».La stessa polemica in corso sui dazi, continua Sapelli, non è stata affrontata in modo serio e veritiero: è stato infatti sottaciuto che il conflitto sul commercio non è tra Italia e Usa, ma tra Stati Uniti e Ue. Una guerra iniziata nel 2004 con il ricorso degli Usa alla Wto per gli aiuti di Stato europei al progetto Airbus, che avrebbe danneggiando la Boeing e l’industria nordamericana (avionica e difesa, telecomunicazioni, elettronica). «Senza dimenticare il ruolo cruciale del “dieselgate” e delle pulsioni anti-industrialiste insite nel progetto della cosiddetta auto elettrica». Non a caso, aggiunge Sapelli, «il peso degli interessi francesi e del Regno Unito in Italia sta crescendo con una velocità imprevista, che non potrà non riflettersi sull’azione del governo». Dal Conte-bis, nessuno spiraglio per una ripresa economica: «L’Iva è certo un tema importante, ma se non è collegato a una politica di investimenti e di creazione di nuove imprese e di sostegno delle esistenti non può provocare né l’innovazione competitiva, né l’aumento del mercato interno», letteralmente indispensabile «per riavviare la crescita e sconfiggere la povertà in Italia». Rimediare con le privatizzazioni? Sarebbe un tragico suicidio. Sapelli cita Luigi Campiglio, economista in forza alla Pirelli: «Privatizzare le migliori imprese italiane, come raccomanda il Fondo Monetario Internazionale, non produrrebbe affatto conseguenze positive per la nostra economia».Il nostro principale problema, infatti, resta l’incremento della domanda interna: se crolla, vincono i prodotti d’importazione. Privatizzando, aggiunge Campiglio, «si darà qualche soldo allo Stato, ma le aziende che producono per la domanda interna diventano straniere», e quindi «l’Italia ne beneficerà soltanto in minima parte». Per Sapelli, la questione è molto chiara: «Senza tutte le politiche economiche ancora importanti per la creazione di occupazione sostenendo le imprese esistenti, in primo luogo le piccole, le artigiane e le medie, non si potrà uscire da questa depressione, che si profila molto pesante». Facili previsioni: «La deflazione secolare rischia di tramutarsi da stagnazione in recessione». Opporsi è possibile, secondo il professore, «solo facendo comprendere che la resilienza italiana è la sola via che oggi deve intraprendere tutta l’Europa, Germania e Francia in primis». Ovvero: se si pone al centro l’ampliamento del mercato interno, l’occupazione, la lotta alla povertà e alla disgregazione sociale, «l’interesse nazionale è l’interesse di tutta l’Europa, al di là delle differenze di produttività del lavoro, di innovazione e di collocazione nelle catene del valore».Al Conte-bis si richiede dunque «un cambiamento di rotta profondo, a cominciare dalla politica estera, riaffermando l’alleanza con gli Usa e respingendo l’idea che sia possibile una crescita europea riproponendo continuamente la divisione geostrategica e geoeconomica iniziata nel 2003 anche per difetto della politica unipolarista degli Usa, che condusse alla divisione tra Francia e Germania da un lato, e Stati Uniti dall’altro». Il guaio è che, per Sapelli, le prospettive del governo, soprattutto in politica estera, «non sono solo insufficienti, ma preoccupanti». Roma dovrebbe «sciogliere i legami dipendenti con la Cina, riaffermare l’interesse prevalente del Mediterraneo per difendere le nostre industrie energetiche e infine uscire dalla confusione sulla cosiddetta economia verde, che mortifica gli interessi industriali italiani (mentre l’industria italiana è la più sostenibile al mondo, non solo nel tessuto energetico e chimico)». Dalla politica estera si giunge alla politica industriale, «che non è solo nazionale, ma sempre continentale e mondiale per l’inserzione italiana nelle filiere industriali e dei servizi alle imprese nel mondo». Quello che molti italiani non sanno, però, è che a Palazzo Chigi siede un premier attentissimo alle indicazioni del Vaticano, che oggi ha stretto un patto strategico con la Cina, vero antagonista storico del nostro tradizionale riferimento, cioè gli Usa.Via della Seta? Attenti alla Cina: l’asse Roma-Pechino indebolisce l’Italia, facendo perdere al Belpaese la protezione di Washington di fronte all’Ue a trazione franco-tedesca. Quello che pochi conoscono è il ruolo del Vaticano nella svolta filo-cinese del governo italiano. Lo afferma il professor Giulio Sapelli, economista e storico, acuto analista degli scenari geopolitici. Il 22 settembre 2018, scrive Sapelli sul “Sussidiario”, è stato firmato un accordo tra Santa Sede e Repubblica Popolare Cinese, «ancor oggi secretato e sconosciuto all’opinione pubblica». Altrettanto in ombra è la storia, travagliata, dei rapporti diplomatici tra l’Oltretevere e Pechino, interrottisi nel 1951 e riapertisi di fatto solo nel 2014, «giungendo a influenzare più profondamente di quanto non si pensi la stessa vicenda italico-governativa». L’accordo stipulato un anno fa, spiega Sapelli, si fonda sulla libertà del governo cinese di proporre i vescovi cattolici. In cambio, la Santa Sede potrà scegliere quelli che ritiene più idonei al ruolo pastorale. «L’autorità immensa di cui ancor oggi la Santa Sede e il Romano Pontefice godono nel mondo – osserva Sapelli – sono in tal modo sottoposti al rischio di porsi di fatto al servizio delle ambizioni egemoniche e quindi anche culturali cinesi». Oggi, peraltro, «la gerarchia pastorale di Hong Kong ha levato la sua voce contro l’accordo».
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Giannini: alzare l’Iva è folle, meglio tassare i super-ricchi
Non so se vi siete resi conto dell’assurdità insita nel meccanismo delle clausole di salvaguardia dell’Iva: se un paese non ha i conti a posto significa che non è cresciuto abbastanza; e in quel caso che cosa non dovrebbe fare l’Unione Monetaria Europea? Fargli alzare l’Iva. Questa imposta, infatti, è una tassa recessiva perché comprime i consumi, che sono il fattore che genera crescita (Pil): se un paese cresce poco, aumentando l’Iva finisce per crescere ancora meno e l’anno successivo sarà messo ancor peggio. Che senso ha, quindi? Nessuno, al massimo quello di renderlo ancor meno competitivo. Visto che accenniamo alla competitività, da questo punto di vista è essenziale un tasso maggiore di meritocrazia nella pubblica amministrazione, visto che i dipendenti incapaci provocano disservizi che ci rendono una nazione scarsamente attrattiva per gli investimenti, una criticità che si affronta non nell’immediato. E se nell’immediato dovessimo rastrellare diversi miliardi?In questo caso è controproducente ridurre il potere di acquisto delle famiglie (dipendenti, piccole imprese) perché spendono i loro stipendi/profitti entro la fine del mese, mentre è auspicabile incidere una tantum su quei tesoretti che, anziché circolare e così generare consumi, Pil e occupazione, se ne stanno fermi nelle tasche di pochi, cioè fermi in banca. Perché, quando si parla di patrimoniali o di tasse, non si scomoda mai quel 10% di italiani che possiede circa la metà della ricchezza nazionale? Una patrimoniale una tantum su queste fascia non scandalizzerebbe nessuno. Questo 10% per caso finanzia i tentacoli di qualche partito importante? Trovo estremamente grave che l’attuale ministro dell’economia Gualtieri, a prescindere dal discorso delle clausole europee, avesse auspicato un aumento selettivo dell’Iva per scelta governativa (in aggiunta peraltro ai prossimi aumenti dei costi delle bollette). Per fortuna questo suo intento pare sia stato scongiurato.(Marco Giannini, “Qualsiasi aumento dell’Iva è uno scandalo”, intervento datato 1° ottobre 2019. Antropologo versiliese già vicino al Movimento 5 Stelle, nel 2015 Giannini ha pubblicato il saggio “Il neoliberismo che sterminò la mia generazione”, edito da Andromeda, contenente autorevoli prefazioni tra cui quella di Anna Maria Variato, economista dell’università di Bergamo. Il libro è stato citato tra gli altri da Alberto Mingardi, direttore dell’Istituto Bruno Leoni. «Mi hanno citato più i neoliberisti che i presunti keynesiani, troppo intenti a occupare spazi mediatici», dice l’autore, che nel 2017 è uscito dall’orbita grillina in polemica con il tentato trasloco del gruppo europarlamentare tra gli ultra-euristi dell’Alde, il gruppo di Guy Verhofstadt in cui militava Mario Monti. Giannini è stato tra i primi, nel 2013, a denunciare il legame tra banca d’affari Jp Morgan e lo stravolgimento della Costituzione italiana – Fiscal Compact, pareggio di bilancio – attuato proprio da Monti, Berlusconi e Bersani. «Destra e sinistra? Meglio “cittadini contro lobby”»).Non so se vi siete resi conto dell’assurdità insita nel meccanismo delle clausole di salvaguardia dell’Iva: se un paese non ha i conti a posto significa che non è cresciuto abbastanza; e in quel caso che cosa non dovrebbe fare l’Unione Monetaria Europea? Fargli alzare l’Iva. Questa imposta, infatti, è una tassa recessiva perché comprime i consumi, che sono il fattore che genera crescita (Pil): se un paese cresce poco, aumentando l’Iva finisce per crescere ancora meno e l’anno successivo sarà messo ancor peggio. Che senso ha, quindi? Nessuno, al massimo quello di renderlo ancor meno competitivo. Visto che accenniamo alla competitività, da questo punto di vista è essenziale un tasso maggiore di meritocrazia nella pubblica amministrazione, visto che i dipendenti incapaci provocano disservizi che ci rendono una nazione scarsamente attrattiva per gli investimenti, una criticità che si affronta non nell’immediato. E se nell’immediato dovessimo rastrellare diversi miliardi?
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De Magistris, giustizia militante: un politico del medioevo
L’ultima notizia dell’infinita saga dell’inchiesta di “Why not”, una sorta di triste serial televisivo con un regista inedito (l’attuale sindaco di Napoli, Luigi de Magistris), è arrivata l’11 settembre 2019. Siamo probabilmente ai titoli finali, con un de Magistris che sembrerebbe sconfitto dopo la sua poco edificante uscita dalla magistratura. Lo afferma Gianluigi Da Rold sul “Sussidiario”, rievocando la breve stagione politico-giudiziaria di cui si è reso protagonista il primo cittadino partenopeo, sempre alla ricerca affannosa di riflettori mediatici, ai margini della politica nazionale. “Why not”, scrive Da Rold, imperversava dal 2007, quando de Magistris, un tempo procuratore di Catanzaro, cominciò a seguire i passi della “magistratura militante”, quella che vuole contare, che vuole dettare i tempi della politica e che ha sempre aspirato a diventare famosa a colpi di comparsate televisive. De Magistris aprì un’inchiesta «basata su prove aeree», cominciata con confessioni poi ritrattate. «E naturalmente, sullo sfondo, complotti giudaico-massonici e altre amenità da “Savi di Sion” senza bisogno della polizia zarista, secondo una delle ricorrenti tendenze giuridiche dei pubblici ministeri italiani».Da Rold polemizza col nostro sistema giudiziario: i Pm: sono rimasti gli ultimi, negli ordinamenti democratici occidentali, a essere ancora parificati ai giudici. E in più «si rifiutano di seguire la grande separazione di tutti i poteri che, sin dal Settecento, si teorizzava anche nella distinzione tra giudice e pubblica accusa». È vero che va di moda Jean-Jacques Rousseau, il filosofo radicale “adottato” da Casaleggio, «ma Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, appunto noto come Montesquieu, precisava con forza che se il giudice facesse lo stesso mestiere del pubblico accusatore sarebbe un abuso». La prova del nove? «Le democrazie di quasi tutto il mondo seguono Montesquieu». Famosi nemici della separazione tra magistratura inquirente e giudicante, due personaggi non proprio democratici: il leader fascista Dino Grandi e il dittatore portoghese António de Oliveira Salazar, «anche lui appassionato dell’unicità di vedute tra accusa e chi formula il giudizio». I tempi cambiano, ma non per tutti: «Ora anche il Portogallo ci ha ripensato; l’Italia invece difende combattiva la non-separazione».Tornando alla cronaca: la Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio una sentenza della Corte d’Appello di Salerno che dichiarava prescritti i reati contestati all’ex procuratore aggiunto di Catanzaro, Salvatore Murone, e all’avvocato generale Dolcino Favi, che avevano avocato i fascicoli sottraendoli all’attuale sindaco di Napoli. Resta dunque valida la sentenza di primo grado del tribunale di Salerno, che aveva assolto i due magistrati di Catanzaro. E l’assoluzione riguarda anche l’ex senatore e avvocato Giancarlo Pittelli, il procuratore Mariano Lombardi (nel frattempo deceduto) e l’imprenditore Antonio Saladino, assolti «per insussistenza del fatto, così come avvenuto in primo grado». A parole, de Magistris (due volte sconfitto) non si arrende: «Continuerà probabilmente a parlare di complotti», avverte Da Rold. «Ma tutta la sua vicenda – aggiunge – è degna di un libro (che infatti è in gestazione) per dimostrare lo strapotere, o forse l’unico potere forte, che è rimasto oggi in Italia: quello della magistratura, gestita principalmente – per un lungo periodo – proprio dai Pm alla de Magistris».Per rendersi conto di quanto capitato, continua Da Rold, vale la pena di vedere quale autogol de Magistris ha fatto in Cassazione e leggere la dichiarazione rilasciata dall’ex procuratore aggiunto di Catanzaro, Murone: «La Cassazione ha finalmente e definitivamente chiuso a mio favore la vicenda “Why not”. Tutte le mistificazioni, le bugie, le cattiverie sono finite. L’assoluzione di primo grado è stata ribadita, a dimostrazione che le vicende successe al signor de Magistris non sono il frutto di congiure e complotti, di poteri forti a livelli superiori, ma solo il suo modo di fare il pubblico ministero, già stigmatizzato dai provvedimenti di carriera che lo hanno colpito, portandolo fuori dalla magistratura». Insomma: per Da Rold, «Luigi de Magistris, tonitruante sindaco di Napoli, non rispettava neppure le regole della pubblica accusa su un impianto procedurale discutibile, come più volte hanno ricordato tanti uomini politici». Marco Pannella fece addirittura della battaglia per la separazione delle carriere una missione della sua vita e portò Enzo Tortora al Parlamento Europeo. «Ma la vocazione inquisitoria della tradizione italiana resiste», anche se «tutti sanno quanto è causa di autentici drammi umani».“Why not” è durata dodici anni. L’imprenditore Tonino Saladino ha visto sua moglie ammalarsi e i suoi figli storditi dalla sua vicenda umana, annota Da Rold. «Ogni tanto si ricorda sbigottito e sgomento il 12 marzo 2007, quando alle sette di mattina gli piombarono in casa i carabinieri per un’ispezione alla ricerca di carte che neppure sapevano che cosa fossero o rappresentassero». Tutta quella storia di “Why not” fu «uno scontro durissimo che coinvolse il governo dell’epoca, quello di Romano Prodi, che alla fine andò in crisi», travolgendo il ministro della giustizia, Clemente Mastella, e sua moglie. «Per placare le acque all’interno della magistratura e nel perenne scontro tra magistratura e politica dovette intervenire nel 2008 anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano». Non era una novità, in quegli anni della già affermata Seconda Repubblica: l’Italia, ricorda Da Rold, era un paese «destabilizzato da svendite di grandi aziende pubbliche, da una cronica mancanza di crescita e da una confusione demenziale della classe dirigente, politica e imprenditoriale», con i magistrati inquirenti spessissimo sopra le righe.Una fenomenologia cominciata in realtà nel 1992, quando la magistratura italiana, «risvegliatasi dal suo torpore, aveva “scoperto” le tangenti politiche, che esistevano dal 1946». Senza contare i circa 1.000 miliardi di lire (secondo Stéphane Courtois) che affluivano al Pci dall’Urss, «potenza ufficialmente nemica». E tutto poi «amnistiato, naturalmente». In fondo, continua Da Rold, la vicenda di “Why not” era il seguito inevitabile delle apparizioni televisive, in gruppo, del pool Mani Pulite: giornate scandite dalle “sensazionali rivelazioni” che qualche talpa del Palagiustizia passava sottobanco ai giornali. «È stata una lunga cavalcata non molto edificante, con alla fine un Francesco Saverio Borrelli che confessa i suoi dubbi a Marco Damilano; con la sempre cacofonica parlata giurisprudenziale italiana del “grande manettaro” Antonio Di Pietro; con la visione del “geniale” Pier Camillo Davigo che pensa di trovarsi di fronte a 60 milioni di italiani potenzialmente colpevoli, che naturalmente devono giustificare la loro condotta». Per non parlare della battaglia delle “correnti” all’interno della magistratura, fino alla pagina nera del Csm con il clamoroso “caso Palamara”, l’inciucio col Pd, di cui si cerca di parlare il meno possibile, sui media.Teoricamante il nostro è uno Stato di diritto, eppure «la giustizia segue tempi scoraggianti, dove gli aspetti inquisitori sono sempre prevalenti». E il peggio è, scrive Da Rold, che non si ha il coraggio di riconoscere che in Italia «questa amministrazione giudiziaria è gestita da una casta feudale, dove le procure rappresentano i feudi superstiti o dei nuovi feudi, che ogni tanto si fanno pure la guerra l’uno contro l’altro, spesso in nome dell’obbligatorietà dell’azione penale o secondo interpretazioni delle norme che farebbero inorridire un filosofo del diritto come Hans Kelsen». Ogni speranza di riforma finisce per naufragare, grazie anche alle “intemerate” del fedelissimo Marco Travaglio, «che spesso anticipa i tempi persino delle sentenze». Buio pesto anche dal ministro Alfonso Bonafede, devoto a Giuseppe Conte, «quindi un visconte per tradizione feudale».«E pensare che la riforma della giustizia, in agenda del nuovissimo governo, ora che i grillini sono diventati europeisti con Ursula von der Leyen, dovrebbe rispettare, o almeno tenere in considerazione, la risoluzione numero 112/97 approvata dal Parlamento Europeo il 4 luglio 1997», chiosa Da Rold. In questo si dice: «È anche necessario garantire l’imparzialità dei giudici distinguendo tra la carriera dei magistrati – i cosiddetti “examining magistrates” – e quella del giudice, al fine di assicurare un processo giusto». Sentenze autorevolmente emesse, al termine di processi in cui si condanna “oltre ogni ragionevole dubbio”. Ha voglia di scherzare, Da Rold: «Perché non si organizza su questo tema un bel convegno tra de Magistris, Davigo, Di Pietro e Travaglio come moderatore?». In questo caso, aggiunge, «lo spettacolo sarebbe assicurato, e poi si potrebbe emigrare tranquillamente».L’ultima notizia dell’infinita saga dell’inchiesta di “Why not”, una sorta di triste serial televisivo con un regista inedito (l’attuale sindaco di Napoli, Luigi de Magistris), è arrivata l’11 settembre 2019. Siamo probabilmente ai titoli finali, con un de Magistris che sembrerebbe sconfitto dopo la sua poco edificante uscita dalla magistratura. Lo afferma Gianluigi Da Rold sul “Sussidiario”, rievocando la breve stagione politico-giudiziaria di cui si è reso protagonista il primo cittadino partenopeo, sempre alla ricerca affannosa di riflettori mediatici, ai margini della politica nazionale. “Why not”, scrive Da Rold, imperversava dal 2007, quando de Magistris, un tempo procuratore di Catanzaro, cominciò a seguire i passi della “magistratura militante”, quella che vuole contare, che vuole dettare i tempi della politica e che ha sempre aspirato a diventare famosa a colpi di comparsate televisive. De Magistris aprì un’inchiesta «basata su prove aeree», cominciata con confessioni poi ritrattate. «E naturalmente, sullo sfondo, complotti giudaico-massonici e altre amenità da “Savi di Sion” senza bisogno della polizia zarista, secondo una delle ricorrenti tendenze giuridiche dei pubblici ministeri italiani».