Archivio del Tag ‘indignados’
-
Lividi e Uguali: Grasso superfluo. E solo per colpire Renzi
A sinistra, «l’odio unisce più dell’affinità, il fratricidio vince sempre sulla fratellanza». Marcello Veneziani ribattezza “Lividi e Uguali” i profughi del Pd, alleatisi con vendoliani e civatiani non per vincere, ma solo per far perdere il “nemico”. «La loro priorità – scrive Veneziani sul “Tempo” – non era chiamare a raccolta la sinistra, ma danneggiare Renzi». E allora «hanno pensato che nuocesse di più al fiorentino un leader sferico e mobile, privo di identità politica e capace di suonare il piffero per l’elettore qualunque, pescando così nel target renziano». In questo, D’Alema e Bersani «sono rimasti fieramente, ferocemente di sinistra», cioè settari e frazionisti fino all’autolesionismo. Veneziani definisce “Liberi e Uguali” un mix tra «sinistra movimentista, briciole di Rifondazione, lasciti del vecchio Pci e giovani sfigati di tristi speranze, più gloriose reliquie della Seconda Repubblica, accomunati dal disprezzo per il Vanesio Fiorentino». In fuga da un “corpo estraneo” come Renzi, «che subivano e odiavano», chi chiamano come leader? «Un altro corpo estraneo, un Papa straniero, un magistrato e uomo dell’establishment, il presidente del Senato Grasso. Uno che a giudicare dal curriculum e dalle oscillazioni, avrebbe potuto tranquillamente militare con Renzi, con Berlusconi e con chiunque altro».Grasso, secondo Venziani, ha accettato il ruolo «perché la vanità è l’ultima a morire, e si gonfia, s’illumina d’incenso». Ma si può capire, aggiunge: «Un anno fa temeva di essere abolito insieme al Senato, e ora gli offrono di guidare un cartello intero con una visibilità assai forte. E appartenendo alla genia degli Ego-magistrati, da Di Pietro a Ingroia, da De Magistris a Emiliano, assumere un ruolo di vetrina coi gradi di comando, “sputace sopra”».Se Grasso in fondo lo si può capire, meno comprensibili risultano loro, «i combattenti e reduci della sinistra», gli esuli dal Pd e i profughi del ciclone renziano che, «quando finalmente si fanno una casa tutta loro e possono darsi un leader di sinistra, schietto, vanno a pescare il presidente del Senato». Non la Boldrini, presidente della Camera, «che almeno è un’icona della sinistra e una custode del politicamente corretto, del tardo-femminismo e dell’antifascismo sacro». Macché, scelgono Grasso, «che con la sinistra c’entra poco o nulla».Sempre secondo Veneziani, la sinistra aveva due possibilità: poteva scegliere un leader che rappresentasse la sua tradizione e la sua identità, magari «uno che indossa con dignità il Novecento, comunismo incluso», oppure uno che fosse «la traduzione italiana di Tsipras o degli Indignados spagnoli, una specie di postsinistra protestataria del terzo millennio». E invece, chi ti vanno a pescare? «Un Grasso che non incarna né l’una né l’altra, che non è carne né pesce, ma colesterolo allo stato grezzo. Grasso superfluo». Come spiegare questa scelta suicida? E’ l’ennesima conferma (in casa propria) di quel che sostengono gli avversari della sinistra stessa, ossia «l’incapacità di partorire una leadership chiara e distinta di sinistra». Il museo delle cere firmato Bersani e D’Alema, poi, sottolinea una volta di più il tramonto di antiche dicotomie: destra e sinistra hanno sottoscritto insieme il rigore europeo, imposto dall’oligarchia internazionale al potere. L’altra casella – vedi alla voce “democrazia progressista” – resta ancora vacante, lontana anni luce dal “grasso superflio” di Lividi e Uguali.A sinistra, «l’odio unisce più dell’affinità, il fratricidio vince sempre sulla fratellanza». Marcello Veneziani ribattezza “Lividi e Uguali” i profughi del Pd, alleatisi con vendoliani e civatiani non per vincere, ma solo per far perdere il “nemico”. «La loro priorità – scrive Veneziani sul “Tempo” – non era chiamare a raccolta la sinistra, ma danneggiare Renzi». E allora «hanno pensato che nuocesse di più al fiorentino un leader sferico e mobile, privo di identità politica e capace di suonare il piffero per l’elettore qualunque, pescando così nel target renziano». In questo, D’Alema e Bersani «sono rimasti fieramente, ferocemente di sinistra», cioè settari e frazionisti fino all’autolesionismo. Veneziani definisce “Liberi e Uguali” un mix tra «sinistra movimentista, briciole di Rifondazione, lasciti del vecchio Pci e giovani sfigati di tristi speranze, più gloriose reliquie della Seconda Repubblica, accomunati dal disprezzo per il Vanesio Fiorentino». In fuga da un “corpo estraneo” come Renzi, «che subivano e odiavano», chi chiamano come leader? «Un altro corpo estraneo, un Papa straniero, un magistrato e uomo dell’establishment, il presidente del Senato Grasso. Uno che a giudicare dal curriculum e dalle oscillazioni, avrebbe potuto tranquillamente militare con Renzi, con Berlusconi e con chiunque altro».
-
Pornografia e feticismo, la postmodernità delle anime morte
La postmodernità non è un esercizio filosofico, è la prassi che la nuova classe finanziaria dominante ha messo in atto per appropriarsi di ulteriori ricchezze attraverso un insieme di strategie comunicative e tramite la colonizzazione dell’inconscio. Nel contesto politico attuale, nel tempo malsano e degradato dell’egemonia dei banksters, la democrazia appare sempre più agonizzante e i Parlamenti degli Stati europei si sono svuotati di potere politico rappresentativo. I partiti tradizionali non avendo veri programmi si sono trasformati solo e unicamente in dispositivi elettorali per vincere le elezioni, e il liberismo ha sostituito le classi sociali con le categorie borghesi e popolari a-politiche e decontestualizzate: le “donne”, i “giovani”, gli “immigrati”, i “gay”, e via discorrendo. Ai diritti sociali, tutela del benessere moderno, welfare e lavoro, si sono sostituiti i diritti civili ed estetici: unioni civili, ius soli, maternità surrogata. Sparite dunque le classi (e le lotte di classe) oggi ci si concentra sull’individuo. Del resto «la società non esiste, esistono gli individui», chiosava Margaret Thatcher, punta di diamante del neoliberismo delle origini, capace di coniugare saldamente dumping salariale e riduzione del welfare a condizioni individuali, formalmente libere dalle imposizioni morali ma anche sociali tipiche delle ideologie.Schiavitù economica contrabbandata come libertà per i singoli, ma fino a un certo punto, perché si mina alla base il concetto di uguaglianza (perché dovremmo essere uguali? L’individuo non deve essere uguale a nessun altro) per favorire l’individualismo thatcheriano. Negli ultimi 10 anni si sono diffuse in Europa vari tipi di forze politiche, che sono state definite dal potere “populismi”: Indignados, Sovranisti, Podemos, M5S. Ma secondo l’ordine simbolico e linguistico imposto dal potere, con il solo obiettivo di rinsaldare il proprio dominio sui dominati, è necessario controllare la popolazione, e mantenere la massa schiavizzata in una condizione di subalternità, in modo tale che la neolingua possa diventare veicolo di potenziamento dei valori del neoliberismo. Dal 1989 il capitale ha adottato una nuova neolingua, e chiunque metta in discussione il potere oligarchico viene demonizzato come disfattista, complottista, o populista. La categoria di populista serve esattamente a diffamare ogni prospettiva che assuma la parte del Servo e non del Signore (“Fenomenologia dello spirito”, W. Friedrich Hegel).Oggi viene diffamato chiunque prenda la difesa dei lavoratori precarizzati e schiavizzati, perché ciò contraddice il potere, che vuol contrabbandare i propri dogmi ideologici come fossero interessi universali: concorrenza, competitività, globalizzazione, delocalizzazione, cancellazione dell’articolo 18, licenziabilità senza giusta causa, flessibilità. Chiunque abbia il coraggio di svelare il vero significato oscurato della neolingua viene silenziato come populista e complottista, incapace di accettare la mera ricostruzione dei fatti e degli eventi prospettata dalla mediatizzazione della realtà, che il potere ci mostra quotidianamente sugli schermi televisivi. Il termine “populismo” o “antipolitica”, viene quindi usato dal potere con toni spregiativi e diffamatori, è diventato una specie di parolaccia. E i media ci presentano una realtà confusa e distorta, Grillo come Trump, Raggi come Obama, l’imperatore buono, Premio Nobel per la pace, in realtà ha sostenuto 7 guerre in contemporanea (Afghanistan, Libia, Somalia, Pakistan, Yemen, Iraq e Siria).Modernità e Postmodernità. Termini che indicano lo spirito di una civiltà, nel suo divenire storico, antropologico e culturale. La distinzione va ricercata secondo un’analisi marxista, l’aforisma di Marx, per cui «la cultura dominante coincide perfettamente con la cultura della classe dominante» (Karl Marx, “Ideologia tedesca”). Le realtà virtuali, l’iperrealtà, sono la matrice della Postmodernità, strettamente correlate all’uso di macchine creatrici di virtualità: Pc, Tablet, iPhone… Se la “produzione” è la cifra della Modernità, la “simulazione” è quella della Postmodernità. La Postmodernità ridimensiona la produzione per favorire la simulazione, sposta ingenti masse di salariati dalle fabbriche al terziario o oltre, azzera quella middle class che era il volano dell’economia dei consumi, chiude impianti produttivi. La disoccupazione di massa è la vera piaga della postmodernità: felicità virtuale e disperazione reale.L’Illuminismo aveva concentrato l’attenzione sull’impatto politico della nuova mentalità scientifica, che inneggiava all’“Homo faber fortunae suae”, e aveva indotto i nuovi uomini a sostenere le prime grandi rivoluzioni della storia, Rivoluzione Americana 1776, Rivoluzione Francese 1789. Il background filosofico culturale entro cui nasce il populismo è dunque l’età postmoderna, che propone una narrazione sempre più inquieta e socialmente devastante, dove le solide narrazioni della modernità si sono frantumate contro il nonsense di un sistema sociale globalizzato, sfilatosi verso una remota periferia a-ideologica. Diversi autori hanno percepito in anticipo l’avvento del postmoderno, e lo hanno interpretato attraverso la loro acuta sensibilità, a partire dagli anni ’70: Jean-François Lyotard, Guy Debord, Jean Baudrillard, Marc Augé, Zygmunt Bauman. Al popolo postmoderno non interessa la “verità” dei fatti né il senso degli eventi, perché vuole ascoltare solo le narrazioni, favole illusionistiche, simulacri evanescenti, emersi direttamente dal nuovo oscuro inconscio collettivo, e dalla società dello spettacolo.Le nuove minacce metropolitane sono: migranti e clandestini che invadono il paese, offrendo manodopera a basso costo, ingrossando le file della microcriminalità e minando così la serenità sociale; grottesche crociate contro l’Islam; politiche di austerity che massacrano l’economia dell’Italia, divenuta il Sud Europa. La “notizia” della postmodernità è una fake news, consiste nella negazione stessa dell’informazione, perché non mira a informare sulla “verità” dei fatti, ma li reinterpreta deformandoli, proprio per oscurarli completamente (Marco Travaglio, “La scomparsa dei fatti”). Jean-François Lyotard, nel suo testo “La condizione postmoderna” (1979), conia il nuovo termine di “postmoderno” per definire l’epoca attuale. Il termine designa uno sviluppo tecnologico e scientifico che ha delle ricadute immediate sulla vita quotidiana e sulla politica. Lo sviluppo tecnologico diventa sempre più invasivo per il benessere neurovegetativo umano (“Psyche e Techne”, Umberto Galimberti). La pornografia dei media produce la molteplicità dei linguaggi, la contaminazione degli stili, un citazionismo ossessivo (film di Quentin Tarantino), tipico di un’epoca che non ha più nulla da dire, se non ripetere all’infinito, in modalità sempre diverse, le stesse tematiche.Ne è derivata la perdita di centralizzazione nell’organizzazione dello Stato (federalismo), la perdita di sovranità (euro, Ue), un aumento dei “processi di disgregazione dello Stato Nazione”. L’Occidente sta vivendo una stagione sconcertante, attraversata dalle rapidissime trasformazioni scientifico-tecnologiche. Con grande lucidità, Lyotard propone una partizione storiografica tra l’epoca moderna (secoli XVII e XX) e l’epoca post-moderna, che si è affermata compiutamente nel tardo Novecento. I moderni e i postmoderni professano una visione dell’uomo, della società e in genere della realtà, antitetiche nei loro aspetti più essenziali. L’idea forte dei moderni è il progresso umano, essi concepiscono la storia come un processo di emancipazione progressiva nella quale l’uomo realizza e arricchisce le proprie facoltà. L’idea forte della modernità è il progresso, inteso come orientamento a un modello di vita e di azione, come aspirazione a valori ultimi, fondati sulla capacità dell’uomo di esercitare la ragione. Ciò che definisce l’essenza della condizione post-moderna, invece, è proprio la negazione della capacità umana di produrre il progresso, una sorta di nichilismo dei valori. Ne segue la negazione della scuola e dell’università come agenti di socializzazione e orientamento di valori. La perdita di potere e di funzione sociale dell’intellettuale, che a partire dall’età dei Lumi era stato la coscienza della modernità. Tutto molto strano per quella che viene definita la «società della conoscenza».Guy Debord, di formazione hegeliana e marxista, è stato uno dei critici più importanti delle società occidentali avanzate. L’incipit della “Società dello Spettacolo” (1967) riprende a un secolo di distanza quello del “Capitale” (1867) di Marx: «Tutta la vita delle società moderne in cui predominano le condizioni attuali di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di merci». L’incipit dell’opera di Debord è: «Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli» (“La Società dello Spettacolo”). Secondo Debord, La caratteristica principale del capitalismo moderno consiste nell’accumulazione del capitale, nell’espansione delle tecnologie della comunicazione, e nel «feticismo delle merci». Quest’aspetto dello spettacolo è sicuramente «la sua manifestazione sociale più opprimente» («Lo spettacolo non è un insieme di immagini ma un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini»). Tuttavia lo spettacolo è necessariamente falso ed ingannevole, giacché struttura le immagini secondo gli interessi di una parte della società.«Per il fatto stesso che lo spettacolo è separato, è il luogo dell’inganno dello sguardo e il centro della falsa coscienza». Lo spettacolo è così il prodotto della mercificazione della vita moderna, il progresso del capitalismo consumistico verso il feticismo e la reificazione. E poi, giacché la comunicazione dei media è unilaterale, il Potere giustifica se stesso attraverso un incessante discorso elogiativo del capitalismo e delle merci da esso prodotte. «Lo spettacolo è il discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo. È l’autoritratto del potere». Lo spettacolo del capitalismo presuppone quindi l’assenza di dialogo, poiché è solo il potere a parlare. «Il sistema economico fondato sull’isolamento è una produzione circolare di isolamento». Ridotto al silenzio, al consumatore non resta altro che ammirare le immagini che altri hanno scelto per lui. L’altra faccia dello spettacolo è l’assoluta passività del consumatore, il quale ha esclusivamente il ruolo, e l’atteggiamento, del pubblico, ossia di chi sta a guardare, e non interviene. In questo modo lo spettatore è completamente dominato dal flusso delle immagini, che si è ormai sostituito alla realtà, creando un mondo virtuale nel quale la distinzione tra vero e falso ha perso ogni significato.È vero ciò che lo spettacolo ha interesse a mostrare. Tutto ciò che non rientra nel flusso delle immagini selezionato dal potere, è falso, o non esiste. Come l’immagine si sostituisce alla realtà, la visione dello spettacolo si sostituisce alla vita. I consumatori piuttosto che fare esperienze dirette, si accontentano di osservare nello spettacolo tutto ciò che a loro manca. Per questo lo spettacolo è il contrario della vita. Debord descrive in questi termini l’alienazione del consumatore: «Più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio». In una società mercificata, sostiene Debord, è la merce ad avere un ruolo centrale. Ogni merce promette il soddisfacimento dei bisogni, e quando arriva l’inevitabile delusione, dovuta al fatto che tali bisogni sono fittizi e manipolati, subentra una nuova merce pronta a mantenere la promessa disillusa dall’altra. Si crea così una concorrenza tra le merci, rispetto alla quale il consumatore frustrato è un mero spettatore.Questo modello impregna di sé, ormai, tutta la vita sociale, divenendo il prototipo di ogni competizione, compresa quella politica. Questa si riduce alla competizione tra leader che vendono la propria immagine come una merce, e fanno promesse che non manterranno mai. Il tutto nell’assoluta passività e apatia dei “cittadini”. Alle regionali siciliane Vittorio Sgarbi si presenta con un movimento, “Rinascimento siciliano”, insieme a Morgan e Giulio Tremonti, proponendo un trinomio decisamente bizzarro, composto da vecchi arnesi della politica spettacolo, camuffati da nuova proposta rinascimentale. La società è completamente dominata da immagini falsificate che sostituiscono la realtà, facendo scomparire qualsiasi verità al di là della falsificazione continua. Ciò determina una disincantata rilettura della storia, definitivamente sottratta a ogni finalismo e quindi anche della democrazia. La finzione di democrazia è mantenuta in vita solo attraverso la costruzione di un nemico comune, il quale consente una falsa unità che ricopre la realtà della separazione gerarchica tra dirigenti ed esecutori. È questo il ruolo del terrorismo. «Questa democrazia così perfetta fabbrica da sé il suo inconciliabile nemico, il terrorismo. Vuole infatti essere giudicata in base ai suoi nemici piuttosto che in base ai suoi risultati».La mondializzazione dell’economia è l’apogeo di questo processo che si distingue da ciò che l’ha preceduta per un solo elemento, ma d’importanza decisiva. «Il fatto nuovo è che l’economia abbia cominciato a fare apertamente guerra agli umani; non più soltanto alle possibilità della loro vita, ma anche a quelle della loro sopravvivenza». Si può quindi affermare che «l’economia onnipotente è diventata folle, e i tempi spettacolari non sono altro che questo». Nella comunità la comunicazione prende la forma del dialogo e della discussione ai quali ciascuno può partecipare, condizione necessaria per prendere decisioni in comune. Questa comunicazione diretta è l’opposto di quella unilaterale dello spettacolo, nel quale una parte separatasi dalla totalità pretende di essere l’unica a parlare impartendo ordini che il resto della società deve limitarsi ad eseguire. Per essere rivoluzionario, dunque, il proletariato dovrebbe riprendere coscienza del tempo storico, ossia del fatto che l’economia è il vero motore della storia. A questa presa di coscienza si oppone lo spettacolo che cerca di perpetuarsi diffondendo la finzione di un eterno presente che pretende di aver posto fine alla storia.Jean Baudrillard poi, altro acuto osservatore del postmoderno, ha illustrato la frammentazione dell’identità e l’immagine frammentata del mondo e dell’uomo, confezionata dai mass media contemporanei, i quali trasformano il mondo in una serie di pseudo-eventi di natura spettacolare. Per lo spettatore dei media tutto si riduce ad apprezzare l’intensità e le sensazioni della superficie delle immagini, senza poter attivare in modo consistente meccanismi di identificazione e di proiezione nei confronti di personaggi e caratteri. Baudrillard inizia con la critica polemica verso il capitalismo. Smantellate le grandi teorie che guardavano alla realtà come un sistema complesso ma ordinato e descrivibile (“Idealismo o Positivismo”), il presente diventa ora un insieme di segni. Oggi predomina una iperrealtà virtuale, fatta di segni e simulacri (“Simulacri e simulazioni”, 1981). Ad essere messo in discussione è il concetto di realtà, non di verità, come spesso era accaduto in passato. Lo sguardo di Baudrillard che si proietta sul quotidiano è pessimistico, per non dire tragico e drammatico. La cultura produce qualcosa senza significato, e la sola branca del reale che è in grado di tenere in mano le sorti dell’uomo è l’industria, la società dei consumi.I nuovi media hanno giocato un ruolo cruciale nella fabbricazione del significato o finto valore della realtà. Nel suo libro “Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?” (1996), Baudrillard ha spiegato come la televisione abbia sostituito la realtà. Tutto ciò che vediamo attraverso lo schermo è una comunicazione artificiale, un reale contraffatto, che diventa la vera realtà. Consideriamo Disneyland, Las Vegas, dove tutto è incastrato in un meccanismo di funzionamento invidiabilmente impeccabile, un mondo finto che però funziona alla perfezione. Ci rechiamo volontariamente in tali luoghi perché attratti dalla spettacolarità magnetica della ri-creazione, della meraviglia, del simulacro. Siamo assorbiti dalla manipolazione dei media, dei programmi informatici e delle psicologie commerciali. Qual è l’originale realtà per noi? Viviamo di segni e simulacri realtà virtuali o siamo in grado di coglierne la differenza con criticità? Viviamo nei non-luoghi, definiti così da Marc Augé nel libro “Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità”. Gli spazi privi di identità, relazioni e storia: autostrade, svincoli e aeroporti, mezzi di trasporto, grandi centri commerciali, outlet, campi profughi, sale d’aspetto, ascensori… ecc ecc. Spazi in cui milioni di individui si incrociano senza entrare in relazione, senza entrare in contatto, senza discutere, parlare, guardarsi, dialogare… l’esatto contrario dell’agorà di Atene, culla della democrazia. Sospinti solo dal desiderio frenetico di consumare o di accelerare viaggi e percorsi.I nonluoghi sono prodotti della società della postmodernità, dove i luoghi della memoria sono confinati e banalizzati in posizioni limitate e circoscritte alla stregua di “curiosità” o di “oggetti interessanti”. Le differenze culturali sono massificate, in ogni centro commerciale possiamo trovare cibo cinese, italiano, messicano e magrebino. Il mondo con tutte le sue diversità è tutto racchiuso lì. I nonluoghi sono incentrati solamente sul presente, caratterizzato dalla precarietà assoluta dalla provvisorietà, dal viaggio, dal passaggio e da un individualismo solitario. Le persone transitano nei nonluoghi ma nessuno vi abita. Nel film “The Terminal” di Steven Spielberg, il protagonista, Tom Hanks, un cittadino di un immaginario Stato dell’Europa orientale, atterra a New York e dopo aver scoperto che nel suo paese è avvenuto un colpo di Stato, diviene improvvisamente un uomo senza nazionalità, e perciò impossibilitato sia a uscire nella tanto agognata New York, sia a fare ritorno a casa, quindi resta prigioniero e si integra perfettamente nel nonluogo. I nonluoghi sono presenti anche sulla moneta Euro, con l’effigie di edifici e monumenti privi di identità e di storia, a differenza delle immagini presenti sulla Lira di Caravaggio, Verdi, Montessori, Galileo, Marconi, Colombo…Gli utenti si accontentano della sicurezza di poter trovare in qualsiasi angolo del globo la propria catena di ristoranti preferita o la medesima disposizione degli spazi all’interno di un aeroporto. Da qui un paradosso: il viaggiatore di passaggio smarrito in un paese sconosciuto si ritrova solamente nell’anonimato delle autostrade, delle stazioni di servizio e degli altri nonluoghi (“Villaggio globale”, Marshall McLuhan). Il rapporto fra i nonluoghi e i suoi abitanti avviene solitamente tramite simboli, parole o voci preregistrate. L’esempio lampante sono i cartelli affissi negli aeroporti vietato fumare oppure non superare la linea bianca davanti agli sportelli. L’individuo nel nonluogo perde tutte le sue caratteristiche di cittadino e i suoi ruoli personali per continuare a esistere solo ed esclusivamente come cliente o utente. Non vi è un riconoscimento delle classi sociali, come siamo abituati a pensare nel luogo antropologico. Si è socializzati, identificati e localizzati solo in occasione dell’entrata o dell’uscita dal nonluogo; per il resto del tempo si è soli e simili a tutti gli altri utenti/ passeggeri/ clienti/ consumatori che si ritrovano a recitare una parte che implica il rispetto delle regole.La società che si vuole democratica non pone limiti all’accesso ai nonluoghi. Farsi identificare come consumatori solvibili, attendere il proprio turno, seguire le istruzioni, fruire del prodotto e pagare. Anche il concetto di “viaggio” è stato pesantemente attaccato dalla surmodernità: i grandi “nonluoghi” posseggono ormai la medesima attrattività turistica di alcuni monumenti storici. Il più grande centro commerciale degli Stati Uniti d’America, il “Mall of America”, richiama oltre 40 milioni di visitatori ogni anno. Scrive il critico Michael Crosbie nella rivista “Progressive Architecture”: «Si va al Mall of America con la stessa religiosa devozione con cui i Cattolici vanno in Vaticano, i Musulmani alla Mecca, i giocatori d’azzardo a Las Vegas, i bambini a Disneyland». Anche i centri storici delle città europee si stanno sempre di più omologando, con i medesimi negozi e ristoranti, il medesimo modo di vivere delle persone e addirittura gli stessi artisti di strada. L’identità storica delle città è stata ridotta a stereotipo di richiamo turistico. Nell’Europa che tenta di fermare l’ingresso dei migranti, si crea un’ambivalenza dei nonluoghi: quelli dell’abbondanza, e quelli della miseria, come campi profughi, centri di detenzione dei migranti et similia. In essi però l’identità è pericolosa per chi ci si trova, poiché espone al rischio di espulsione o incarcerazione.Zigmunt Bauman è stato forse il pensatore, che ha meglio interpretato il disorientamento contemporaneo. Molti saggi di grande successo, a partire da “Dentro la globalizzazione” del 1998, o “Modernità liquida” del 2000, lo hanno decretato il guru del pensiero della postmodernità. La modernità liquida, concetto fra i più noti del sociologo, ci dice che con la fine delle grandi narrazioni del secolo scorso sono finite anche le certezze del passato in ogni ambito, dal welfare al lavoro fisso, dalla sanità pubblica alle pensioni, la postmodernità le ha smontate tutte, dissacrandole e mescolandole a pulsioni nichilistiche. L’unica comunità dell’individuo è diventata il consumo, la sua unità di misura l’individualismo antagonista ed edonista in cui nuotiamo tutti noi senza più una missione comune (“Amore liquido”, 2003 o “Vita liquida”, 2005). La fase che viviamo è propizia alla nascita dei populismi, che nascono dall’indignazione. Dagli Indignados ad Occupy Wall Street fino ai movimenti populisti europei, l’ordine costituito viene fortemente contestato, con istanze naturalmente diverse ma sempre antisistema. La modernità poggiava sull’etica del lavoro, perché il capitalismo produttivo aveva bisogno di quadri dirigenziali, che facessero funzionare le industrie, fonte del proprio profitto, quindi c’era necessità di welfare, scuola pubblica, benessere per la collettività destinata a gestire le fabbriche.Al contrario, la postmodernità esalta l’estetica del consumo, che trasforma il mondo in un “immenso campo di sensazioni sempre più intense”. Un mondo spesso investito dalla pubblicità o dal venditore di turno. L’esasperazione della soggettività, trova anche incredibili attuazioni tecnologiche come la realtà virtuale (“La solitudine del cittadino globale”, 1999). Bauman in particolare nel libro “Sesto potere. La sorveglianza nella modernità liquida” del 2014, parla di un approccio del tutto diverso rispetto alle strutture di potere. Jeremy Bentham e Michel Foucault avevano parlato di Panopticon, inteso come carcere centralizzato che controlla migliaia di detenuti, e in cui bastano pochi agenti di sicurezza per la custodia, metafora evidente del potere centralizzato della modernità e del suo controllo sulla società moderna. Bauman invece parla di un modello di società in cui le forme di controllo assumono le fattezze dell’intrattenimento e dunque del consumo, in cui sotto l’attenzione delle organizzazioni transnazionali finiscono i dati e le persone, o meglio le loro emanazioni digitali, i cui rischi più elevati sono la privacy, la libertà di azione e di scelta. La novità postmoderna è che questo spazio del controllo ha perso i muri, e a dire il vero non occorrono neanche più i sorveglianti, visto che le “vittime” contribuiscono a collaborare al loro stesso controllo. Sono impegnati nell’autopromozione e non hanno gli strumenti per individuare l’aspetto oscuro nascosto sotto a quello seduttivo.La globalizzazione è dunque un processo intimamente legato alle forze di mercato che ha ripercussioni su molti altri settori della vita, in pratica è una nuova forma d’imperialismo finanziario, impadronirsi dell’economia degli Stati, della loro moneta e della loro sovranità. Le forze economiche, infatti, hanno trasceso la dimensione nazionale, hanno perso ogni legame col territorio, dettano legge e non si prefigurano più come sistema produttivo dell’uomo per l’uomo, ma come sistema auto-referenziale, fine a se stesso. Le corporation trasnazionali muovono in uno spazio extraterritoriale, volano sopra i confini dello Stato nazionale, fino ad oggi strumento di rappresentazione delle identità sociali, eludendo ogni sorta di controllo politico e collettivo, ignorando le differenze economiche, politiche, culturali, etniche e religiose delle singole nazioni. Il potere della globalizzazione economica è ormai senza volto e senza luogo, introduce la flessibilità come dogma e preannuncia l’incertezza delle esistenze, vissute nell’affannosa rincorsa per rimanere nella società dei consumi. Il potere ci tiene in scacco lasciandoci soli, levandoci qualsiasi capacità di autodeterminazione e programmazione futura.Nascere in Italia 40 anni fa significava avere buone probabilità di vivere la propria vita in quegli stessi luoghi, avere la speranza di trovare un lavoro vicino a casa, di conoscere i propri concittadini, la possibilità di fare previsioni verosimili sul proprio futuro. Oggi, si nasce in luoghi che mediamente vengono lasciati nella prima adolescenza, i giovani seguono opportunità di lavoro fugaci, sempre più volatili ed evanescenti, i lavoratori vengono assunti in aziende che da un momento all’altro potrebbero delocalizzare. Le spinte all’individualismo e alla competizione determinano questo stile di vita veloce che porta con sé nuova alienazione: quella dell’uomo e dei suoi rapporti. Per il cittadino globale la leggerezza e la velocità di spostamento sono caratteristiche fondamentali, meno vincoli si hanno e più si è pronti alla sopravvivenza nella selva-mondo virtuale, senza barriere né confini. Anche le relazioni umane, dice Bauman, si adeguano e si plasmano sulla base di un consumo ipertrofico, sono sempre più numerose ma sempre più brevi e superficiali. E così, la nostra situazione affonda in un mare di indifferenza, che è l’unica arma di difesa valida a breve termine nei confronti dell’incertezza di ogni giorno.Nella postmodernità è nata una nuova immagine di società, come spazio che racchiude una molteplicità di individui senza più alcuna cornice comune, sempre più uguali nei loro destini ma sempre più divisi e soli nelle proprie vite. Aumenta poi costantemente il divario tra la condizione dei poveri e quello dei ricchi. Il populismo, in modo particolare il M5S, per quanto riguarda la situazione italiana, è quindi la reazione culturale e politica rispetto alle condizioni sociali drasticamente mutate nel tempo della postmodernità, dopo il golpe messo in atto dalla nuova classe sociale dominante, quell’aristocrazia finanziaria che mira a distruggere i diritti del lavoro, a proletarizzare la middle class, a desovranizzare gli Stati, ad americanizzare l’Europa. Data la potenza propagandistica dei media, riuscirà veramente a vincere le prossime elezioni politiche e a prendere il potere? Oppure sarà costretto inevitabilmente ad abbandonare istanze essenziali delle proprie battaglie, soggiogato dalla potenza della restaurazione liberista?(Rosanna Spadini, “Populismi e postmodernità”, da “Come Don Chisciotte” del 28 settembre 2017).La postmodernità non è un esercizio filosofico, è la prassi che la nuova classe finanziaria dominante ha messo in atto per appropriarsi di ulteriori ricchezze attraverso un insieme di strategie comunicative e tramite la colonizzazione dell’inconscio. Nel contesto politico attuale, nel tempo malsano e degradato dell’egemonia dei banksters, la democrazia appare sempre più agonizzante e i Parlamenti degli Stati europei si sono svuotati di potere politico rappresentativo. I partiti tradizionali non avendo veri programmi si sono trasformati solo e unicamente in dispositivi elettorali per vincere le elezioni, e il liberismo ha sostituito le classi sociali con le categorie borghesi e popolari a-politiche e decontestualizzate: le “donne”, i “giovani”, gli “immigrati”, i “gay”, e via discorrendo. Ai diritti sociali, tutela del benessere moderno, welfare e lavoro, si sono sostituiti i diritti civili ed estetici: unioni civili, ius soli, maternità surrogata. Sparite dunque le classi (e le lotte di classe) oggi ci si concentra sull’individuo. Del resto «la società non esiste, esistono gli individui», chiosava Margaret Thatcher, punta di diamante del neoliberismo delle origini, capace di coniugare saldamente dumping salariale e riduzione del welfare a condizioni individuali, formalmente libere dalle imposizioni morali ma anche sociali tipiche delle ideologie.
-
Nazionalizzare il denaro, l’unica rivoluzione per noi schiavi
Noi uomini siamo portati a pensare che sia possibile risolvere un problema, una crisi, un’ingiustizia, attraverso un’azione collettiva delle persone interessate e consapevoli. Se scopriamo quello che ci sembra essere la causa di un grave male che affligge la società (questa causa potrebbe essere il signoraggio o un certo uso delle onde elettromagnetiche o i vaccini o le registrazioni anagrafiche, tanto per fare qualche esempio), siamo portati a pensare che, diffondendo la consapevolezza di questa nostra scoperta fondamentale, susciteremo una reazione collettiva e coordinata dei nostri simili che potrà risolvere il problema dal basso, con un’azione di massa, magari rivoluzionaria. Solo che tale reazione collettiva e coordinata, nel mondo reale, non vuole partire: il grosso della popolazione non si interessa, se si interessa non capisce, se capisce presto dimentica, se non dimentica comunque non si coordina e non agisce. Questa è l’umanità reale, con i suoi reali comportamenti. Mi obietterete che però, di fatto, l’umanità è capace di fare rivoluzioni. Lo ha dimostrato. Avete ragione.L’attuale situazione della società è veramente molto grave e con pessime prospettive, soprattutto perché la cosiddetta crisi economica appare ormai chiaramente come uno strumento volontariamente attivato e mantenuto per concentrare il reddito e la ricchezza, ma anche il potere politico, nelle mani di pochi grandi finanzieri che si deresponsabilizzano celandosi dietro istituzioni politiche ufficiali che essi hanno svuotato di potere effettivo; e al contempo per far accettare alla gente di avere meno diritti, meno libertà, meno dignità, meno benessere, e di essere governata da lontano e da soggetti irresponsabili. Insomma è una crisi indotta a scopi di ingegneria sociale. Appare altrettanto chiaro che, pertanto, non è possibile risolverla per le vie interne dell’ordinamento giuridico nazionale o internazionale, cioè ad esempio attraverso le elezioni e i parlamenti, dato che esse sono interamente controllate dall’oligarchia al potere su scala globale. Quindi solo un’azione rivoluzionaria dal basso, una rivoluzione popolare, parrebbe idonea a risolvere il problema.Lo conferma il fatto che sono rimasti e rimangono completamente inascoltati, anche di fronte all’avverarsi delle loro previsioni, gli autorevoli economisti che, dagli anni ’70 ad oggi, hanno preavvertito le istituzioni dei disastri che sarebbero stati causati dalle riforme monetarie e bancarie in cantiere, perché hanno proposto e stanno proponendo rimedi razionali. Sono rimasti inascoltati perché parlavano dal punto di vista dell’interesse collettivo, non di quello dell’élite decidente. Molto semplice. Ed eccoci ritornati all’opzione rivoluzionaria. Ma questa opzione deve fare i conti con i dati della realtà storica seguenti. Pensiamo alle grandi rivoluzioni popolari: quella francese, quella sovietica, quella cinese, quella nazista, quella khomeinista in Persia. Tutte sono avvenute a furor di popolo, il popolo si aspettava di risolvere i suoi problemi, ma le cose sono andate diversamente, nel senso che il popolo ha subito un forte peggioramento della sua situazione.In Francia, dopo la rivoluzione, vi fu un ventennio di stragi, con il periodo del Terrore, poi delle guerre contro le coalizioni monarchiche, poi delle guerre napoleoniche, e intere generazioni di giovani furono annientate sui campi di battaglia. Alla fine, in Francia ritornò la monarchia – non è buffo? – e per giunta la Francia si ritrovò subalterna al Regno Unito, cioè perse la sua indipendenza politica. Certo, la rivoluzione francese pose fine al feudalesimo e mise al potere il capitalismo. Negli altri esempi citati, sappiamo tutti che cosa avvenne a quelle nazioni dalle loro rivoluzioni popolari in termini di guerre, distruzioni, dittature, arretratezza. Alle volte, in periodi di acuta crisi, nei quali era evidente una qualche particolare causa della crisi, gli interessi collettivi hanno ottenuto riforme a loro tutela contro gli interessi delle classi sfruttatrice dominanti. Cito come esempi le riforme dei Gracchi nella Roma antica e il Glass-Steagall Act a seguito della crisi del ’29, entrambe tese a porre freno al saccheggio della società da parte della classe finanziaria.Ma poi, in tutti i casi di questo tipo, le classi dominanti, attraverso una pianificazione politica di medio e lungo termine, con azione di lobbying e corruzione, approfittando della cronica distrazione del popolo, hanno sempre recuperato le posizioni perdute e hanno portato avanti i loro interessi contro la popolazione subalterna. Ciò avvenne al tempo dei Gracchi, ed è avvenuto anche ultimamente, con l’abolizione del Glass Steagall Act nel 1999 e tutta una serie di riforme del diritto finanziario e bancario, che hanno permesso le megafrodi bancarie con cui i banchieri hanno realizzato e stanno realizzando enormi profitti a danno della collettività anche oggi e praticamente senza mai pagare il fio. Gli interessi concentrati e consapevoli vincono su sempre su quelli diffusi, nel medio e lungo periodo. Di solito però già anche nel breve periodo.La via rivoluzionaria, nel mondo odierno, è peraltro impraticabile, sia perché l’oligarchia al potere a un enorme vantaggio tecnologico e militare su qualsiasi movimento popolare, disponendo non solo di argomenti ma anche di strumenti di monitoraggio e intervento capillari nella vita di ciascuno, il sogno di tutti i dittatori della storia; sia perché è un mondo interdipendente, perciò, quand’anche un paese insorgesse e se liberasse dai suoi oppressori finanziari e politici, verrebbe bloccato e messo in ginocchio nel giro di pochi giorni. Pensiamo inoltre che l’Italia è un paese e militarmente occupato dagli Stati Uniti con oltre 130 basi militari. E che dipende da forniture esterne per sopravvivere, innanzitutto dal petrolio, che si paga in dollari.Siamo insomma condannati a restare stabilmente in questa situazione e in questo trend peggiorativo, che ci porta verso abissi di insicurezza, di privazione di diritti e libertà, di invasione delle nostre vite da parte di un potere tecnologico incontenibile, entro un regime alla Orwell? Con ragionevole sicurezza, in base all’osservazione dei fatti storici, a questa domanda si può rispondere di no, poiché la storia ci mostra che i sistemi di potere, regni, imperi e repubbliche, così come le costituzioni e le condizioni giuridiche ed economiche, non sono mai stati stabili, non sono mai durati a lungo, soprattutto da quando l’umanità si è messa a commerciare e ha sviluppato varie tecnologie. Cioè da più di 25 secoli. Anche gli imperi apparentemente più solidi, più forti, più invincibili, sono crollati, si sono frantumati, perlomeno a causa di processi disorganizzati ivi interni. Senza bisogno di rivoluzioni popolari.Se esaminate per esempio la storia di Roma, dall’epoca monarchica a quella repubblicana a quella del principato e a quella del dominatus, cioè da Diocleziano in poi, vedrete che gli assetti costituzionali, economici, organizzativi, demografici, si trasformano incessantemente, e che le cose più costanti sono proprio i meccanismi che alimentano squilibri: la lenta demolizione dell’agricoltura e della popolazione in Italia, il trasferimento della ricchezza e del potere dall’aristocrazia terriera senatoriale alla classe finanziaria equestre, il travaso di oro da occidente a oriente (causato dal passivo della bilancia commerciale). Insomma, i grandi cambiamenti avvengono, sono sempre avvenuti, nella storia. Sono avvenuti non solo per effetto di azioni volontarie (collettive o individuali), ma pure e soprattutto per il concorso di forze e di processi molteplici, impersonali, perlopiù incompresi o fraintesi, perlopiù irresistibili, e solitamente con esiti diversi da quelli previsti, progettati, desiderati. Fattori di tipo climatico, economico, demografico o tecnico-scientifico. Pensate all’inaridimento delle fertili pianure nordafricane, al declino demografico della Grecia antica, al declino tecnologico dell’Impero romano, alla divaricazione economica operata dall’introduzione dell’euro tra i paesi che lo usano.Altra illusione abituale: l’uomo pensa che le cose continueranno ad andare in futuro nel modo in cui sono andate in passato, e mira sempre a raggiungere qualche assetto definitivo e sicuro, nel privato come nel pubblico: l’amore per sempre, il matrimonio indissolubile, il posto fisso, i diritti umani inalienabili, un’organizzazione statale perenne, definitiva, perfetta, come la repubblica progettata da Platone. O almeno destinata a durare 1000 anni, come il Reich vagheggiato da Hitler. Ma, al contrario, tutti gli assetti prodotti dall’uomo sono impermanenti, caduchi, transeunti, provvisori. Come l’uomo stesso. Tutto scorre, giustamente osserva Eraclito. Non riusciamo a stabilizzare un tubo. Il grande Cesare Ottaviano Augusto aveva capito i difetti strutturali del possente sistema-paese che governava, e cercò di correggerli, ma non vi riuscì, e come lui non vi riuscirono molti, a Roma e altrove.I grandi cambiamenti, le trasformazioni sistemiche, avvengono, ma solitamente sono molto diversi dai progetti di coloro che li causano: il divenire storico sfugge dal controllo e dalla pianificazione. Pensate per esempio alla I Guerra Mondiale: ognuna delle potenze che vi parteciparono aveva i suoi piani, le sue previsioni, le sue intenzioni, e tutte furono smentite dallo svilupparsi dei fatti. La guerra stessa assunse caratteri che nessuno aveva immaginato. Il suo esito fu… di innescare fascismo, nazismo e una seconda guerra mondiale. Invero, nessuno è mai riuscito a governare la storia, né a prevederla. Tanto meno ci sono riuscite le rivoluzioni popolari, le quali hanno bensì dato colpi e prodotto effetti, ma non gli effetti voluti e progettati, bensì gli altri e impreveduti – almeno per esse. Il comportamento collettivo è sempre miope e ottuso. I popoli non riescono a evitare fallimenti prevedibili.Anche l’attuale tecnocrazia globalizzata, come sistema di potere, è destinata a deteriorarsi, e a cadere, magari proprio perché primo poi le sfuggirà di mano la stessa tecnologia, che si sviluppa e moltiplica le sue capacità in modo praticamente è miracoloso – come Skynet della serie Terminator. Oppure forse cadrà per la sua contrarietà ai bisogni oggettivi, fisiologici, degli esseri umani: essa, guidata com’è dalla logica del bilancio, del rendimento annuale o comunque di brevissimo termine, sta forzando l’uomo e la comunità ad adattarsi a vivere secondo questo brevissimo termine, accettando la precarietà, la discontinuità, l’instabilità come caratteri di fondo dell’esistenza, e rinunciando alla sicurezza, alla progettabilità di lungo termine, alla stabilità, che sono esigenze oggettivamente insite nell’essere umano. E’ una violenza radicale e protratta, implementata attraverso il controllo delle istituzioni. Se scoppiamo, allora potremo dire davvero di essere noi il cambiamento. Oppure ancora è una catastrofe geofisica, climatica, ecologica, il fattore che sta per rimescolare le carte.La popolazione generale, anche buona parte di quelli con istruzione superiore, è consapevole del suo malessere, dell’insicurezza oggettiva in cui sempre più vive, di alcune malefatte compiute da certi potenti; ha una consapevolezza aneddotica, episodica, spesso personificata, dei mali del sistema; ma non è consapevole delle cause strutturali e non manifeste. Non saprebbe dove intervenire, anche potendo. Quindi, mi direte, tu stai dicendo che non c’è niente da fare, per uscire dall’attuale situazione, perché non abbiamo la capacità di correggerla, e del resto essa prima o poi finirà da sé. In effetti, più o meno è così. Più o meno, perché razionalmente e realisticamente ci sono alcune cose da fare, anche per cercare di fare in modo che l’uscita dall’attuale condizione sia verso una condizione non peggiore, magari migliore. Innanzitutto, bisogna fare cose per mettersi al riparo, per difendersi, a livello privato, personale. L’azione politica è pressoché inutile o controproducente, come dimostrano i casi di quei movimenti e di quei partiti che, dopo avere iniziato con grande promesse di rottura, o si sono spenti, oppure si sono omologati al sistema che dovevano abbattere, come in Grecia e in Spagna. Anche tra i grilli nostrani molti danno segni di volersi alleare col Partito Democratico per stabilizzarsi nel potere e nei suoi vantaggi.L’azione collettiva raramente parte e ancora più raramente è efficace, ma l’azione individuale o su scala di piccoli gruppi è fattibile, sul fronte della tutela della salute, del patrimonio, della libertà, considerando sempre anche l’opzione dell’emigrazione verso paesi che consentono una migliore tutela di questi valori. Certamente, di fronte a un drastico e rapido peggioramento della condizione di vita e del livello di dignità, a breve potrebbe anche porsi fortemente l’opzione del suicidio, del suicidio stoico, cioè dell’uomo che rifiuta di vivere privato della libertà e della dignità: pensiamo a Lucio Anneo Seneca che si suicida per non soggiacere agli arbitri e ai capricci di Nerone. Ma non preoccupatevi: pochissimi seguiranno Seneca, in ogni caso, perché gli uomini si adattano facilmente a una vita di pecore schiave, o di topi che sopravvivono arrangiandosi negli angoli bui.Che cosa resta da fare, in positivo, dopo tanti “non podemos”? Proprio grazie a ciò che dicevo all’inizio, ossia alla indeterminatezza e libertà del divenire storico, alla sua apertura, non può mai venir meno la possibilità di entrare in modo rilevante in questo divenire. Poche verità storiche sono certe e comprovate come la potenza esercitata dalle idee nei millenni: Platone, Aristotele, Gesù, Galileo, Marx, Freud, Einstein, e Fra’ Luca Pacioli, l’inventore della partita doppia – solo per fare qualche nome – sono più che mai attuali e attivi, sono potentissimi… La Rivoluzione Francese mancò gli obiettivi pratici di breve e medio termine, ma nel lunghissimo termine essa è – si può ben dire – ancora in svolgimento… nei cambiamenti nel pensiero, nella coscienza collettiva, nelle dinamiche sociali… nell’aver creato una cosa che cosa prima assente, in Europa, dai tempi di Atene, ossia il pubblico dibattito politico.Assieme all’amico psichiatra Paolo Cioni, col saggio “Neuroschiavi”, ho cercato di dare un contributo mirato all’analisi e al contrasto ai mezzi di rimbecillimento e irreggimentazione di massa che tanta parte hanno nella governance sociale, nella compressione della libertà mentale e critica che è l’anima di quel dibattito. E in altri saggi, in solitaria oppure in cooperazione con qualche amico, ho diretto i riflettori su quello strumento di dominazione e sfruttamento sociale che è il potere monetario vestito nelle banche private, e sui suoi meccanismi occultati dalle prassi contabili oggi applicate, e la cui comprensione da qualche anno si viene ora diffondendo. La sua comprensione a livello perlomeno di classi imprenditoriali e intellettuali sarebbe un presupposto per un possibile rivolgimento strutturale della società, per una possibile fine del regime parassitario imposto dal capitalismo finanziario attraverso proprio quelle prassi contabili false, le quali sono alla base del fatto che esso è divenuto un perfetto strumento di dominio sociale: uno strumento che, da un lato, rende la società e l’economia e le istituzioni sempre più dipendenti da sé stesso e sempre più forzatamente obbedienti ai suoi dettami, perché sotto permanente ricatto di fatali conseguenze; e che, dall’altro lato, attraverso l’uso di moneta-debito progressivamente indebitante, sottrae alla società una quota sempre crescente di reddito, pubblico e privato, sotto forma di interessi, di bail out (saccheggio dell’erario) e bail in (saccheggio dei risparmi o investimenti finanziari).E’ una prigionia estorsiva sistemica, in via di perfezionamento, rispetto a cui le truffette del tipo Banca Popolare dell’Etruria sono soltanto incidenti dovuti all’avidità di banchieri locali, incidenti da coprire subito in qualche modo al fine di poter proseguire col perfezionamento del sistema, col piano di lungo periodo. Prima della rivoluzione del 1789, i popolani francesi, sfruttati dai signori feudali, avevano fatto jacqueries, ossia assalti ai depositi di granaglie dei castelli sotto la spinta della fame – cioè avevano attaccato la sola superficie del problema. Questo equivale ai nostri movimentisti, agli indignados, a quelli che oggi manifestano contro i banchieri che li hanno fregati e chiedono rimborsi da parte dello Stato e carcere ai furbetti del credito e le dimissioni della bella ministra Boschi. Niente di risolutivo.Il salto di qualità che dalle jacqueries (le quali lasciano il tempo che trovano) portò alla vera rivoluzione (che cambia invece il tempo), sia pur nel senso che abbiamo visto, avvenne allorquando, nell’agosto del 1789, alla guida del popolino, si misero intellettuali che sapevano dove mettere le mani, e allora gli insorti penetrarono nei castelli non per rubare la farina, ma per aprire i forzieri e distruggere gli atti di proprietà dei fondi terrieri in essi custoditi, facendo così crollare il sistema latifondista. L’equivalente di questa operazione, oggi, potrebbe essere – dico: potrebbe – il pubblico smascheramento dei sistematici falsi in bilancio con cui i banchieri privati creano la quasi totalità dei mezzi monetari circolanti senza pagare su tale creazione alcuna tassa e senza assumersi le responsabilità politiche e sociali dell’esercizio di un tale primario potere pubblico, e la conseguente nazionalizzazione del sistema monetario-creditizio con la liberazione della società dalla moneta indebitante ora in uso. Ma ciò non credo possa partire dall’Italia, la quale non ha alcuna tradizione o predisposizione rivoluzionaria.(Marco Della Luna, estratto da “Crisi, rottura del sistema e trasformazione”, testo preparato per la conferenza organizzata dalla casa editrice Nexus a Cagliari il 17 gennaio 2016 e ripreso dal blog di Della Luna).Noi uomini siamo portati a pensare che sia possibile risolvere un problema, una crisi, un’ingiustizia, attraverso un’azione collettiva delle persone interessate e consapevoli. Se scopriamo quello che ci sembra essere la causa di un grave male che affligge la società (questa causa potrebbe essere il signoraggio o un certo uso delle onde elettromagnetiche o i vaccini o le registrazioni anagrafiche, tanto per fare qualche esempio), siamo portati a pensare che, diffondendo la consapevolezza di questa nostra scoperta fondamentale, susciteremo una reazione collettiva e coordinata dei nostri simili che potrà risolvere il problema dal basso, con un’azione di massa, magari rivoluzionaria. Solo che tale reazione collettiva e coordinata, nel mondo reale, non vuole partire: il grosso della popolazione non si interessa, se si interessa non capisce, se capisce presto dimentica, se non dimentica comunque non si coordina e non agisce. Questa è l’umanità reale, con i suoi reali comportamenti. Mi obietterete che però, di fatto, l’umanità è capace di fare rivoluzioni. Lo ha dimostrato. Avete ragione.
-
Rodotà: 5 Stelle, unico voto utile contro il regime di Renzi
Renzi scherza col fuoco: intere categorie delegittimate giorno dopo giorno potrebbero ribellarsi, e metterlo con le spalle al muro. Giocherà il tutto per tutto al referendum sulla riforma costituzionale? Rischia: la maggioranza potrebbe non seguirlo più. Lui dirà: o me, o il populismo? Idem: l’Italia non è la Francia, e il Movimento 5 Stelle non è il Front National. Al contrario, potrebbe rivelarsi «l’unico voto utile, oggi», per sbarrare la strada al regime post-democratico di cui Renzi è alfiere: democrazia ancora formalmente in piedi, ma completamente svuotata, in modo che i cittadini non contino più niente. Lo sostiene Stefano Rodotà, intervistato da Andrea Fabozzi per il “Manifesto”, partendo dall’analisi del recente voto in Francia e in Spagna, dal quale il bipolarismo è uscito distrutto. «Il populismo è una spiegazione troppo semplice. I partiti tradizionali non riescono più da tempo a leggere la società. Non è populismo, è crisi della rappresentanza».Il Front National «coltivava da tempo il disegno di sostituirsi ai due grandi partiti in crisi, ed è stato facilitato dalla rincorsa a destra di Sarkozy e Hollande, che hanno finito per legittimare Le Pen», osserva Rodotà. «In Spagna, Podemos ha interpretato un movimento reale, quello degli Indignados, e ha predisposto uno strumento di tipo partitico per raccogliere il fenomeno». Da noi, Renzi benedice la nuova legge elettorale italiana e sostiene che in Italia non ci sarà lo smottamento francese e spagnolo? «Non coglie il senso di quello che sta succedendo e, con la sua risposta, non fa che aumentare la distanza tra il partito e la società». Sostanzialmente, Renzi dice: “A me della rappresentanza non importa nulla, a me interessa la stabilità”. «Ma con un governo che rappresenta appena un terzo degli elettori ci sono enormi problemi di legittimazione, di coesione sociale e al limite anche di tenuta democratica», sottolinea Rodotà.L’ingegneria elettorale, continua il giurista, è solo «un modo per sfuggire alle questioni importanti». In questi anni è stato invocato il modello spagnolo, insieme a quello neozelandese e quello israeliano: «Sembrava di stare al supermarket delle leggi elettorali. Tutto andava bene per mortificare la rappresentanza, sulla base dell’idea che ciò che sfugge agli schemi è populismo. Invece è una legittima richiesta dei cittadini di partecipare ed essere rappresentati». Il nuovo sistema italiano? «Presenta il rischio di distorsioni spaventose: può aprire la strada a soluzioni pericolose, ma anche ad alternative interessanti. Penso per esempio alla stagione referendaria che abbiamo davanti: dal referendum costituzionale, a quelli possibili su Jobs Act, scuola e Italicum». Renzi è meno tranquillo di quanto dice? «È possibile, del resto le previsioni sul referendum costituzionale sono difficili, ancora non sappiamo esattamente come si schiereranno le forze politiche».Di certo la partita non è chiusa. Rodotà ricorda che nel 1974 una situazione elettorale che sembrava chiusa fu sbloccata proprio da un referendum, quello sul divorzio. «I cittadini furono messi in condizione di votare senza vincoli di appartenenza politica e l’anno dopo si produsse il grande risultato alle amministrative del partito comunista». Il fatto che Renzi abbia deciso di giocarsi tutto sul referendum costituzionale apre una serie di problemi: il primo è la questione dell’informazione. «C’è già un forte allineamento di giornali e tv con il governo, la riforma della Rai non potrà che peggiorare le cose. Renzi ha già impropriamente politicizzato tutto il percorso della riforma, il dibattito parlamentare è stato gestito in modo autoritario. In teoria quando si scrivono le regole del gioco il cittadini dovrebbero poter votare slegati da considerazioni sul governo, in pratica non sarà così».Per Rodotà, è assolutamente possibile superare il “bicameralismo perfetto” in maniera avanzata, favorendo la rappresentanza e la partecipazione, senza escludere la stabilità. Proposte avanzate e subito scartate, nemmeno discusse. «Alcuni di noi avevano denunciato il rischio autoritario della riforma costituzionale: siamo stati criticati. Poi abbiamo cominciato a leggere di rischi plebiscitari, “democratura” e via dicendo. Troppo tardi, ormai lo stile di governo di Renzi è già un’anticipazione di quello che sarà il sistema con le nuove regole costituzionali e la nuova legge elettorale. Il Parlamento è già stato messo da parte, addomesticato o ignorato, com’è accaduto sul Jobs Act per le proposte della commissione della Camera sul controllo a distanza dei lavoratori. Lo stesso sta avvenendo sulle intercettazioni». Secondo il giurista, «stiamo scivolando verso una democrazia scarnificata, rinunciamo pezzo a pezzo agli elementi sostanziali – la rappresentatività, i diritti sociali e individuali – in cambio del mantenimento di quelli formali – il voto, la produzione legislativa. La situazione è grave. Se questo orientamento proseguirà, non credo che il presidente della Repubblica distoglierà il suo sguardo».Renzi, invece, tira dritto. Il suo gioco è chiaro: se il referendum dovesse andargli male, «punterà alle elezioni anticipate con un messaggio del tipo: o partito democratico o morte, o me o i populisti». Per Rodotà, può essere un calcolo sbagliato: «L’Italia non è la Francia per almeno due ragioni. Il Movimento 5 Stelle non fa paura come il neofascismo del Front National. E la mossa dei candidati socialisti in favore di quelli di Sarkozy è stata seguita perché lì la dialettica politica restava aperta. Da noi al contrario si rischierebbe l’investitura solitaria, rinunciare significherebbe consegnarsi pienamente a Renzi. L’appello al voto utile non credo funzionerà anche perché l’Italia non solo non è la Francia, ma non è più neanche l’Italia di qualche anno fa. Renzi non può chiedere il voto a chi quotidianamente delegittima, negando il diritto di cittadinanza alle posizioni critiche. Infatti si comincia a sentire che il vero voto utile, quello che può servire a mantenere aperta la situazione italiana, può essere quello al Movimento 5 Stelle. Sono ragionamenti non assenti dall’attuale dibattito a sinistra, mi pare un fatto notevole».Renzi scherza col fuoco: intere categorie delegittimate giorno dopo giorno potrebbero ribellarsi, e metterlo con le spalle al muro. Giocherà il tutto per tutto al referendum sulla riforma costituzionale? Rischia: la maggioranza potrebbe non seguirlo più. Lui dirà: o me, o il populismo? Idem: l’Italia non è la Francia, e il Movimento 5 Stelle non è il Front National. Al contrario, potrebbe rivelarsi «l’unico voto utile, oggi», per sbarrare la strada al regime post-democratico di cui Renzi è alfiere: democrazia ancora formalmente in piedi, ma completamente svuotata, in modo che i cittadini non contino più niente. Lo sostiene Stefano Rodotà, intervistato da Andrea Fabozzi per il “Manifesto”, partendo dall’analisi del recente voto in Francia e in Spagna, dal quale il bipolarismo è uscito distrutto. «Il populismo è una spiegazione troppo semplice. I partiti tradizionali non riescono più da tempo a leggere la società. Non è populismo, è crisi della rappresentanza».
-
La Merkel come Bismarck, nell’Europa riletta da Giannuli
Molti parlamentari italiani non sanno neppure dove stia la Libia, quale città ne sia la capitale e con quali paesi confini? Vero, la classe politica italiana fa schifo, scrive Aldo Giannuli, ma gli altri come sono messi? «Certo, un ceto politico non si improvvisa, e da vent’anni la distruzione dei partiti e la scomparsa di ogni attività di formazione politica hanno prodotto una classe politica scalcinata di improvvisatori, cialtroni e incapaci. Ma, chiediamoci: l’impreparazione del ceto politico è un fatto italiano o più generale?». Restando in Occidente e tralasciando i recenti movimenti di protesta – tipo M5S, Front National, Indignados e “Veri Finlandesi” – il politologo dell’ateneo milanese si concentra sui capi di Stato e di governo che hanno retto i propri paesi dal crollo del Muro di Berlino, cioè dall’avvento della globalizzazione neoliberista. I Bush? Il padre, uno dei pochi non confermati per il secondo mandato. Il figlio? «Uno dei peggiori presidenti della storia americana». Di Clinton, «non si ricordano particolari successi». Soprattutto, Giannuli non ricorda né i bombardamenti su Belgrado, né la clamorosa abolizione del Glass-Steagal Act, che scatenò Wall Street verso l’orgia finanziaria culminata nella crisi mondiale del 2007, dovuta proprio alla licenza di speculare concessa da Clinton a tutte le banche.«Molte speranze aveva suscitato Barack Obama, sia dal punto di vista dell’uscita dalla crisi economica, sia da quello della pace internazionale sia, infine, per quanto riguarda il riequilibrio delle diseguaglianze interne». E invece: nessuna riforma storicamente importante, «dato il modestissimo esito tanto della riforma sanitaria quanto di quella sulla finanza». Sul piano della politica internazionale, Obama «ha chiuso gli interventi in Iraq e Afghanistan, ma lasciando una situazione di sfascio totale», poi «ha partecipato all’intervento in Libia e anche lì la situazione è uno sfascio». Infine «ha rotto con la Russia, creando una situazione che non si vedeva dalla fine della guerra fredda». Un bilancio «forse peggiore di quello di Bush figlio», dice Giannuli, che però non cita le ombre più inquietanti della presidenza Obama: l’introduzione degli omicidi di massa mediante bombardamenti missilistici coi droni, il surreale annucio – senza prove – della presunta eliminazione di Osama Bin Laden in Pakistan e il finanziamento dello jihadismo in Siria, poi riciclato anche in Iraq con la sigla “Isis”. Passerà alla storia la tensione del 2013 con la Russia sulla crisi in Siria, da cui poi le immediate ripercussioni in Ucraina.Singolare anche l’interpretazione che Giannuli fornisce della politica francese. Chirac? «Un presidente mediocre». Eppure, osò opporsi a Bush evitando di schierare la Francia nella guerra contro Saddam: una “mediocrità” di cui oggi ci sarebbe estremo bisogno. Sempre per Giannuli, trascurando l’incolore Hollande, il presidente «di gran lunga peggiore» della storia francese sarebbe stato Sarkozy e non Mitterrand, «cui si deve la riorganizzazione europea dopo la riunificazione tedesca», cioè l’attuale “inferno” dell’Eurozona. Il professor Giannuli lo definisce «un piano molto ambizioso, che sul lungo periodo non ha retto». Secondo la maggior parte degli osservatori indipendenti europei, al contrario, Mitterrand è stato il principale artefice dell’attuale regime tecnocratico europeo: un piano che ha retto benissimo, perché mirato alla confisca della democrazia in Europa. Il grande economista francese Alain Parguez, già insider all’Eliseo, rivelò la natura “monarchica” di Mitterrand e dei suoi più stretti consiglieri come Jacques Attali, quello della famosa frase sulla “plebaglia europea” («credono davvero che l’euro l’abbiamo creato per la loro felicità?»).Altrettanto inconsueta l’analisi di Giannuli sulla Germania. Helmut Kohl? «Al pari di Mitterrand, è stato l’artefice della riorganizzazione europea e dell’ingresso dell’Europa nell’era della globalizzazione». Poi, Schoeder «ha proseguito sulla linea europeista del predecessore», avvicinando la Germania alla Russia e allontanandola da Parigi. E l’abominevole Merkel? «Nel contesto europeo attuale spicca, sembra quasi Bismarck, ma vista sul piano storico si colloca in posizione medio-bassa nella graduatoria. Forse in po’ più su di Schroeder, ma comunque al di sotto di Schmidt o Khol». Non una parola, da Giannuli, sull’Italia, se non l’accenno alla «catastrofe del 1992-93», cioè il ciclone Tangentopoli che cancellò la Prima Repubblica. Chiarissimo, al contrario, un analista di rango come l’economista Nino Galloni: fu Kohl a pretendere la testa dell’Italia – anche con Mani Pulite, appunto – per accettare l’euro imposto da Mitterrand come contropartita dell’unificazione tedesca. Kohl accettò a una condizione: che venisse azzoppata la concorrenza industriale italiana. Ormai è tutto chiaro, ma forse non per Giannuli: «Dovremo tornarci su – conclude – per chiederci il perché di questa decadenza della politica».Molti parlamentari italiani non sanno neppure dove stia la Libia, quale città ne sia la capitale e con quali paesi confini? Vero, la classe politica italiana fa schifo, scrive Aldo Giannuli, ma gli altri come sono messi? «Certo, un ceto politico non si improvvisa, e da vent’anni la distruzione dei partiti e la scomparsa di ogni attività di formazione politica hanno prodotto una classe politica scalcinata di improvvisatori, cialtroni e incapaci. Ma, chiediamoci: l’impreparazione del ceto politico è un fatto italiano o più generale?». Restando in Occidente e tralasciando i recenti movimenti di protesta – tipo M5S, Front National, Indignados e “Veri Finlandesi” – il politologo dell’ateneo milanese si concentra sui capi di Stato e di governo che hanno retto i propri paesi dal crollo del Muro di Berlino, cioè dall’avvento della globalizzazione neoliberista. I Bush? Il padre, uno dei pochi non confermati per il secondo mandato. Il figlio? «Uno dei peggiori presidenti della storia americana». Di Clinton, «non si ricordano particolari successi». Soprattutto, Giannuli non ricorda né i bombardamenti su Belgrado, né la clamorosa abolizione del Glass-Steagal Act, che scatenò Wall Street verso l’orgia finanziaria culminata nella crisi mondiale del 2007, dovuta proprio alla licenza di speculare concessa da Clinton a tutte le banche.
-
L’Aspen: rivolte senza rivoluzione, non ci fanno paura
Per fortuna le nostre sono proteste senza un vero progetto politico, capace di cambiare le cose e costruire un’alternativa sociale basata sulla giustizia. Lo dichiara l’Aspen Institute, influente think-tank dell’oligarchia mondiale, che in Italia annovera tra i suoi dirigenti personaggi come Enrico Letta e Giulio Tremonti. Finanziato da fondazioni come Rockefeller, Ford e Carnegie Corporation, l’Aspen lavora per «la creazione di un terreno comune di comprensione approfondita in uno scenario non ideologizzato». Originale l’ultimo studio commissionato al bulgaro Ivan Krastev, presidente del “Centro di strategie liberali” di Sofia e tipico esponente di quella “nuova classe dirigente” dell’Est europeo cresciuta a forza di commissioni internazionali, liberismo e “formazione liberale delle leadership”. Lo studio «fornisce lo sguardo dei “padroni del globo” nel trattare le rivolte degli ultimi anni», come se fossimo giunti alla fine di un’epoca fondata sui diritti.«L’unica “ideologia” che conquista cuore e menti, di fronte al feticcio meccanico del capitalismo disincantato attuale, resta tristemente la religione», scrive Dante Barontini su “Contropiano”. «Ma le rivolte nascono dalla crisi economica, dal peggioramento delle condizioni di vita, dalla confusa sensazione che “non ci sia futuro”, e tantomeno “miglioramento”». L’ideologia «arriva dopo, come “spiegazione” e promessa». Per questo «siamo arrivati, come mondo, ad un punto limite: e nessuno sa dove sia costruibile il passaggio epocale ad un altro modello di vita». All’Aspen, aggiunge Barontini, non interessa ovviamente “superare” il capitalismo: «La posizione “ideologica” è dunque saldamente conservatrice, ma questo non ha mai impedito ai padroni del mondo di guardare in faccia ai problemi reali per trovare anche ciò che serve alla conservazione». Lo sguardo di Krastev coglie momenti rilevanti, comuni a paesi lontani fra loro, per intercettare lo “spirito del tempo” e ovviamente neutralizzare la richiesta di cambianento.Per conto dell’Aspen, il bulgaro Krastev «analizza i movimenti di rivolta come da un osservatorio satellitare, disinteressandosi dei dettagli» e andando al sodo. Dice: «Le proteste differivano, ma gli slogan erano incredibilmente simili: ai quattro angoli del globo i manifestanti si scagliavano contro la corruzione delle élite, le crescenti diseguaglianze economiche, la mancanza di solidarietà e di giustizia sociale e il disprezzo per la dignità umana». Ma aggiunge: «I manifestanti, a differenza dei loro padri rivoluzionari, non mirano a un rovesciamento violento dell’ordine costituito». La nuova generazione degli “indignados” – di Grecia e Spagna, Italia e Ucraina, Brasile e Portogallo – non ci pensa proprio a “cambiare il sistema”: «Non possiede le conoscenze di base, le categorie, la cultura per poter pensare che questo “sistema” sia rovesciabile; non è insomma in grado di immaginare un altro realistico modo di vivere». Soprattutto, aggiunge Barontini, «è ai margini del pensiero politico, non dentro».Per Krastev, «si tratta di una rivoluzione senza ideologia e senza scopi definiti: in mancanza di alternative politiche, si risolve in uno scoppio di indignazione morale». Una febbre passeggera, che non spaventa affatto il potere. Lo studioso bulgaro, continua “Contropiano”, sembra profondamente consapevole del fatto che la gestione del mondo è troppo complessa per lasciarla decidere a opinioni labili, poco consapevoli e altamente disinformate («insomma, a libere elezioni»). Ed è perfettamente a suo agio nell’affontare in modo ironico il mantra dei “social network” come mezzo d’elezione delle nuove proteste planetarie: «I nuovi movimenti si concepiscono come reti, nella convinzione che queste possano avere la meglio sulla gerarchia: l’onnipotente rete è l’arma organizzativa d’elezione, allo stesso modo in cui il piccolo ma disciplinato partito rivoluzionario era l’arma d’elezione dei comunisti».E qui, osserva Barontini, scatta l’ironia crudele di chi è seduto in una lussuosa suite nel cielo del capitale nei confronti delle formiche formicolanti sulla superficie o nelle viscere della terra: «Uno che sa benissimo che “la rete” ha dei gestori, dei proprietari, dei sorveglianti». E lo sa ovviamente anche Krastev, che dice: «I governi hanno appreso in fretta a esercitare il controllo e la manipolazione nell’universo digitale. “Caro utente, sei stato schedato come partecipante a una massiccia turbativa dell’ordine pubblico”: questo il messaggio che i manifestanti ucraini si sono ritrovati sul cellulare a metà gennaio, nel momento esatto in cui la legislazione anti-dimostrazioni veniva approvata dal Parlamento. La stessa tecnologia che aveva portato la gente in strada l’ammoniva di tornarsene a casa». Gli attivisti di Occupy Wall Street sono stati trattati con forse più irritante sufficienza dall’establishment Usa: il pacchetto dei profili Facebook dei “sensibilizzati al movimento” è stato valutato 25 milioni di dollari. E qualche multinazionale delle vendite online o della pubblicità mirata – oltre che le agenzie di intelligence degli Stati Uniti – se l’è certamente comprato.Negli Stati Uniti o in Spagna, prosegue Barontini, gli esecutivi hanno prontamente riconosciuto la legittimità delle preoccupazioni espresse dai manifestanti e hanno dato mostra di ascoltare la piazza. Le proteste non hanno inciso sulle politiche dei governi; piuttosto, hanno cambiato il modo in cui questi comunicano ciò che fanno. Chiaro, no? «Un governo furbo non spiana le proteste popolari a manganellate, ma le “rintontonisce de bucie”. O, come si dice adesso, “cambia la comunicazione”». Il quasi-conflitto di oggi è pressoché innocuo, «molto più “potabile” della guerra rivoluzionaria novecentesca». Chiarisce Krastev: «Oggi, il sistema non interessa quasi più a nessuno. La rivoluzione attuale non è fatta di lettori; gli odierni studenti radicali si preoccupano solo di come essi stessi vivono il sistema, non della sua natura e dei meccanismi che lo governano. Non pensando in termini di gruppi sociali, questi ragazzi hanno un’esperienza comune, ma mancano di un’identità collettiva», in assenza di cultura politica.Riflettendo sulle proteste di São Paulo dell’estate scorsa, il ricercatore brasiliano Pablo Ortellado ha osservato che in tutto il Brasile i manifestanti protestavano sulla scorta di due messaggi simultanei e tra loro contraddittori: “Il governo non ci rappresenta” e “Vogliamo servizi pubblici migliori”. Era una protesta di consumatori radicali, più che di rivoluzionari utopici. Così, quando le condizioni di vita diventano intollerabili, chi oggi protesta «è portato a ritenere che ci sia una “ingiustizia” (dei ladri, una “casta”) che fa funzionare in modo distorto o inefficace un meccanismo altrimenti “buono”», sottolinea “Contropiano”. «I manifestanti sono individui esasperati: amano stare insieme e combattere insieme, ma non hanno un progetto collettivo», sostiene Krastev. «Diffidano delle istituzioni, ma non sono interessati a prendere il potere: sono una miscela tra un desiderio genuino di comunità e un incoercibile individualismo».I manifestanti di oggi, in fondo, si comportano come “consumatori” insoddisfatti. E così, l’arretramento politico dell’attuale società “ribelle” è tale che l’analista dell’Aspen «affonda il coltello nella piaga con autentica gioia», spiegando che «le proteste del XXI secolo somigliano, per alcuni versi, a quelle medioevali», quando le persone «non scendevano in piazza con l’ambizione di rovesciare il re o di sostituirlo con un altro a loro più gradito», ma si limitavano a manifestare «per obbligare il sovrano a fare qualcosa in loro favore, o per impedirgli di far loro del male». L’etica del rigetto può essere radicale e totale, come il rifiuto del capitalismo globale di Occupy Wall Street, oppure modesta e localistica, come le proteste contro la nuova stazione ferroviaria di Stoccarda. «Ma il principio è lo stesso: le proteste possono riuscire o fallire, ma ciò che ne definisce il profilo politico è un generalizzato “no”. Per essere gridato, questo “no” non ha più bisogno di leader o istituzioni: bastano telefonini e social network». Il potere ne ride apertamente, sapendo benissimo come aggirare e manipolare la protesta, mentre il neoliberismo totalitario dell’élite sta mandando in pensione la vecchia democrazia liberale, con elezioni ormai svuotate di senso e Stati senza più sovranità.«Per molti aspetti – chiosa l’analista dell’Aspen – le odierne proteste di massa sono atti in cerca di concetti, pratica senza teoria. Sono l’espressione più plateale della convinzione diffusa che le élite non governino nell’interesse del popolo e che l’elettorato ha perso il controllo sugli eletti». Ma oltre le manifestazioni non si va mai, aggiunge Barontini: «Proteste impolitiche, strumenti organizzativi affidati alla Rete, assenza di identità collettiva e progetto politico, legami reciproci labili… Una contestazione con queste caratteristiche non ha possibilità di mettere in crisi il potere. Basta un cerino di violenza – controllato da una mente politica (posizionata nel satellite iperuranio della finanza globale, per cui conto Krastev scrive) – per “far sciogliere come neve al sole” piazze anche più di grandi di Tahrir, al di là delle buone intenzioni o dell’estrazione sociale di chi le riempie». Nessuno progetta alternative al capitalismo globalizzato. «L’unica cosa di cui abbia timore questo potere è il sempre possibile riaffacciarsi del “comunismo”, il diavolo di San Pietroburgo, il soffio liberatore degli anni ‘60 e ‘70, dal Vietnam al ‘68, dal ‘77 a L’Avana». Krastev alla fine diventa esplicito: le proteste, come le elezioni, servono a tenere il più lontano possibile la rivoluzione, la promessa di un futuro radicalmente diverso. «Il “laureato senza futuro” non è il nuovo proletario», perché «confonde “ideologia” e “visione del mondo”». E il cambiamento continua a non apparire all’orizzonte.Per fortuna le nostre sono proteste senza un vero progetto politico, capace di cambiare le cose e costruire un’alternativa sociale basata sulla giustizia. Lo dichiara l’Aspen Institute, influente think-tank dell’oligarchia mondiale, che in Italia annovera tra i suoi dirigenti personaggi come Enrico Letta e Giulio Tremonti. Finanziato da fondazioni come Rockefeller, Ford e Carnegie Corporation, l’Aspen lavora per «la creazione di un terreno comune di comprensione approfondita in uno scenario non ideologizzato». Originale l’ultimo studio commissionato al bulgaro Ivan Krastev, presidente del “Centro di strategie liberali” di Sofia e tipico esponente di quella “nuova classe dirigente” dell’Est europeo cresciuta a forza di commissioni internazionali, liberismo e “formazione liberale delle leadership”. Lo studio «fornisce lo sguardo dei “padroni del globo” nel trattare le rivolte degli ultimi anni», come se fossimo giunti alla fine di un’epoca fondata sui diritti.
-
L’Altra Europa con Vendola, stampella del neoliberista Pd
Allarme rosso: il voto italiano offre carta bianca a Matteo Renzi per le sue cosiddette riforme: in caso di difficoltà il premier potrà appellarsi al consenso popolare e minacciare elezioni anticipate. Il programma è noto: una piccola riduzione delle tasse e altri bonus in busta paga per nuove fasce di cittadini serviranno a far digerire nuovi pesanti tagli alle amministrazioni locali (cioè riduzione dei servizi), e soprattutto privatizzazioni massicce, ulteriore precarizzazione del lavoro, deregulation nell’edilizia eccetera, legge elettorale ultra-maggioritaria per blindare l’assetto di potere. Il tutto, recitando la parte di chi cerca di “correggere” – per quel poco che si può – le politiche europee di austerity, «legate all’ideologia neoliberale dominante in tutte le istituzioni della Ue quindi molto solide e modificabili solo per alcuni dettagli», sottolinea Lorenzo Guadagnucci.Tutto questo, «inseguendo la chimera della ripresa e della crescita», ovvero «la speranza che ha probabilmente animato gli elettori italiani, convinti che qualche decimale in più nel Pil, da ottenere con le cosiddette riforme annunciate da Renzi, porterà nuova occupazione e il mantenimento dei servizi pubblici che vengono normalmente dati per scontati, come sanità e scuola». In realtà, puntualizza Guadagnucci su “Micromega”, la “ripresa” e l’aumento del Pil sono «argomenti virtuali, agitati dai tecnocrati e dai capi politici neoliberali in assenza di un’alternativa che sia alla loro portata», dal momento che «l’alternativa porta fuori dal paradigma neoliberale», che lavora per l’azzeramento dello Stato e del welfare, la fine delle tutele pubbliche per i cittadini. «Gli elettori – continua l’analista – prima o poi scopriranno che la chimera della ripresa è appunto tale (è dal 2008 che viene annunciata la ripresa entro pochi mesi) e che in ogni caso l’alta disoccupazione in Europa è un dato strutturale».Gli elettori italiani, anche quelli che hanno votato Renzi, «scopriranno prima o poi che il progetto delle élite politiche neoliberali è quello dichiarato da Mario Draghi l’anno scorso – la fine del sistema sociale europeo, che andrà fortemente ridotto e assegnato ai privati – e precisato da Jp Morgan quando ha sostenuto che le Costituzioni antifasciste nate dopo la guerra sono un ostacolo perché concedono troppi diritti ai lavoratori e ai cittadini che contestano il potere». Ed ecco allora la vera missione politica di Renzi nei prossimi mesi: «Rallentare e rimandare lo smascheramento dell’illusione neoliberale», che per Luciano Gallino è «una sorta di religione», visto che «non ammette confutazioni sulla base dei fatti storici». E’ la teologia dell’élite finanziaria: «La recessione in atto da anni, secondo i sacerdoti di quella dottrina, non è dovuta al fallimento delle sue premesse e promesse, bensì a un’imperfetta applicazione delle regole-dogmi della religione stessa».La cosiddetta crisi, continua Guadagnucci, è in realtà «un sistema di governo che per resistere – in presenza di alta e crescente disoccupazione, destrutturazione dello stato sociale, immiserimento della vita causa mercificazione di ogni aspetto dell’esistenza – dev’essere verticistico e tendenzialmente autoritario: i cittadini devono stare al loro posto, votare ogni 4-5 anni e nel frattempo affidarsi alle oligarchie finanziarie, tecnocratiche e politiche dominanti». Proprio per questo, «si preme per sistemi poltici fortemente maggioritari e fortemente personalizzati». Scontato: «Renzi si muoverà subito in questa direzione, e potrà contare nel tempo sull’appoggio dei grandi media per le sue politiche neoliberali e anche per mascherarne gli effetti nefasti e gli insuccessi rispetto alle grandi promesse formulate nelle settimane scorse (e molte altre sono in arrivo)».La domanda, per Guadagnucci, ora è questa: è ancora possibile immaginare la costruzione di un’area culturale e politica al di fuori dell’ideologia neoliberale? Qualcosa che prefiguri una via d’uscita? In Grecia, Syriza ha ottenuto la maggioranza relativa proponendo una rottura col paradigma neoliberale: oggi quello di Tispras è il primo partito del paese, ma non ha davvero sfondato (è al 26%). In Spagna, la lunga protesta degli “indignados” ha avuto un’eco elettorale in una lista che è arrivata all’8%, “Podemos”, mentre in Italia la lista “L’Altra Europa con Tsipras” ha superato faticosamente la soglia del 4%. Ben diversa la tendenza di Francia e Gran Bretagna, dove Ukip e Front National hanno vinto le elezioni, sfoderando solidi argomenti nazionalisti, sovranisti e contrari all’attuale europeismo. Per un’alternativa democratica italiana, dice Guadagnucci, è necessario innanzitutto rompere col Pd, guidato dall’ex democristiano Renzi che individua in Blair, campione del neoliberismo, l’unica sua parentela con “qualcosa di sinistra”, anche se Blair è l’uomo che ha seppellito le istanze della sinistra in Gran Bretagna per votarsi al culto del mercato. Che sarà della Lista Tispras? Vendola, uno dei suoi maggiori azionisti, già propone una convergenza col Pd. Si accomodi pure, dice Guadagnucci: quello del centrosinistra italiano è un binario morto.Allarme rosso: il voto italiano offre carta bianca a Matteo Renzi per le sue cosiddette riforme: in caso di difficoltà il premier potrà appellarsi al consenso popolare e minacciare elezioni anticipate. Il programma è noto: una piccola riduzione delle tasse e altri bonus in busta paga per nuove fasce di cittadini serviranno a far digerire nuovi pesanti tagli alle amministrazioni locali (cioè riduzione dei servizi), e soprattutto privatizzazioni massicce, ulteriore precarizzazione del lavoro, deregulation nell’edilizia eccetera, legge elettorale ultra-maggioritaria per blindare l’assetto di potere. Il tutto, recitando la parte di chi cerca di “correggere” – per quel poco che si può – le politiche europee di austerity, «legate all’ideologia neoliberale dominante in tutte le istituzioni della Ue quindi molto solide e modificabili solo per alcuni dettagli», sottolinea Lorenzo Guadagnucci.
-
Plebiscito Renzi, l’Italia impaurita ha un nuovo padrone
L’Anna Karenina di Lev Tolstoj inizia con il ricordare che «tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo». L’Europa uscita da queste elezioni continentali è più che mai una realtà estremamente variegata, e probabilmente infelice. Il regime dell’austerity ha colpito in modi diversi i popoli europei, provocando reazioni molto differenziate. Queste reazioni sono state influenzate dalla maggiore o minore velocità della crisi, dalla diversa tenuta dei partiti tradizionali, dalla capacità di rassicurare gli elettori da parte dei partiti nuovi e di rottura, dalla traiettoria dell’azione dei rispettivi governi. In certi importanti paesi (come nel Regno Unito e in Francia) si sono affermati in modo clamoroso come primi partiti delle forze di netta rottura. In altri paesi (come in Germania, in Polonia e in Italia) ha funzionato una sorta di tradizionale “riflesso d’ordine” in favore del governo. Altrove, come in Grecia e in Spagna, si è rafforzato chi sta a sinistra del Pse. Ovunque si coglie una qualche tendenza netta, ma è dovunque peculiare.Anche il risultato italiano è straordinariamente netto: il Pd renziano rafforza la propria funzione: riorganizzare efficacemente il blocco sociale conservatore nel momento in cui crolla l’analoga funzione berlusconiana, tenendosi all’interno una porzione ancora molto elevata del suo elettorato tradizionale proveniente da sinistra. Una sorta di Dc 2.0 che ritorna alle percentuali del Pci nelle regioni rosse, prende il doppio dei voti dell’opposizione a cinque stelle e tenterà di dare l’impronta decisiva alla Terza Repubblica, promettendo un dinamismo riformatore, sempre di richiamo nel paese del Gattopardo. Chi scrive non aveva affatto previsto la portata di questa avanzata. Ma una previsione per il prossimo periodo va fatta lo stesso.Nel momento in cui l’area di centrodestra prosciugata dal Pd ratificherà pienamente la nuova leadership, si troverà anche la quadratura per eleggere un nuovo presidente della Repubblica in luogo dell’esausto Napolitano: un Draghi o un suo simile che benedica un’era di nuove privatizzazioni e di ulteriore precarizzazione del lavoro. Di fronte all’odierno distacco di 20 punti percentuali tra Pd e M5S, l’ancora molto rilevante opposizione del movimento fondato da Grillo dovrà aprirsi a un modello di partecipazione politica diversa e a linguaggi che non potranno più continuare con lo schema attuale. In Europa abbondano gli esempi per un rinnovamento, a partire da Alexis Tsipras. Intanto, ovunque la situazione si muoverà, all’ombra delle nuove ombre di guerra che l’Europa ha riportato nel continente.(Pino Cabras, “Il boom di Renzi riorganizza il blocco conservatore”, da “Megachip” del 26 maggio 2014).L’Anna Karenina di Lev Tolstoj inizia con il ricordare che «tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo». L’Europa uscita da queste elezioni continentali è più che mai una realtà estremamente variegata, e probabilmente infelice. Il regime dell’austerity ha colpito in modi diversi i popoli europei, provocando reazioni molto differenziate. Queste reazioni sono state influenzate dalla maggiore o minore velocità della crisi, dalla diversa tenuta dei partiti tradizionali, dalla capacità di rassicurare gli elettori da parte dei partiti nuovi e di rottura, dalla traiettoria dell’azione dei rispettivi governi. In certi importanti paesi (come nel Regno Unito e in Francia) si sono affermati in modo clamoroso come primi partiti delle forze di netta rottura. In altri paesi (come in Germania, in Polonia e in Italia) ha funzionato una sorta di tradizionale “riflesso d’ordine” in favore del governo. Altrove, come in Grecia e in Spagna, si è rafforzato chi sta a sinistra del Pse. Ovunque si coglie una qualche tendenza netta, ma è dovunque peculiare.
-
Giannuli: il mondo non tollera più i diktat dell’Occidente
La globalizzazione neoliberista ha spiccato il volo nei primi anni Novanta fra gioiosi inni alle sue sorti magnifiche e progressive, come attestavano i non dimenticati libri di Francis Fukuyama sulla fine della storia e di Toni Negri sull’Impero. Si prometteva la fine della nazioni e dello Stato-nazione, rottame del passato, di conseguenza dell’ordine westfalico sostituito da una governance mondiale fortemente integrata che avrebbe abolito il “fuori” e trasformato ogni crisi locale in un caso di “insorgenza” da curare con “interventi di polizia internazionale”. Si prometteva uno sviluppo mondiale, che avrebbe riscattato i paesi arretrati, ed il benessere generalizzato attraverso la “democratizzazione della finanza” assistita da nuovi strumenti matematici che avrebbero posto fine alle grandi crisi. Sarebbe sorto un mondo “piatto” e simmetrico.Ogni promessa colpiva un suo particolare target: il benessere generalizzato e lo sviluppo attraeva i paesi arretrati, la “democratizzazione della finanza” i precari delle società metropolitane, la promessa di una governance mondiale in grado di mediare i conflitti seduceva i fautori dell’internazionalismo. Poi le cose sono andate molto diversamente: la governance mondiale si è ridotta ad un concerto molto instabile fra vecchi imperi e potenze emergenti, i conflitti non sono affatto diminuiti e le operazioni di polizia internazionale non hanno dato i risultati voluti, vecchie asimmetrie si sono attenuate o scomparse, ma solo per essere sostituite da nuove. Soprattutto, il sogni di una finanza sempre espansiva e al sicuro da grandi crisi è stato impietosamente spazzato via da una crisi che è già la peggiore dopo quella del 1929 e non accenna a passare.Quello attuale è un mondo segnato da asimmetrie diverse e più aspre di quelle passate, con ragioni di conflitto più insidiose, profondamente instabile, nel quale si avverte chiaramente il rischio di uno sbocco caotico e ingovernabile. E ora siamo ad una crisi di rigetto della globalizzazione che ha assunto forme assai diverse e per questo non viene riconosciuta (o lo è molto a fatica) come fenomeno unitario. La sensazione è quella di un “nuovo disordine mondiale” che assomma fenomeni assai diversi fra loro: rivolte urbane e guerriglie rurali, crisi finanziarie e crisi dell’economia reale, instabilità politica e reazioni culturali. E proprio sulle reazioni culturali vorremmo soffermarci.Con grande sicumera, l’Occidente ha intrapreso la via della globalizzazione come processo di assimilazione a sé del resto del mondo. La “grande Europa” (quella che, oltre che all’Europa propriamente detta, comprende anche le Americhe e l’Oceania, continenti cristiani e dove si parlano lingue europee) ha pensato di poter parlare al mondo senza ascoltare, di poter insegnare la via della modernità e del progresso e che gli altri dovessero limitarsi a copiare il perfetto modello della “Grande Europa”. Ci sono stati due grandi monumenti intellettuali a questa insipienza eurocentrica: “La fine della storia e l’ultimo uomo” di Francis Fukuyama e “L’Impero” di Toni Negri. Già Samuel Huntington fu più accorto e comprese subito che, per gli altri, “modernizzazione” non faceva rima con “occidentalizzazione” e abbozzò una strategia che, pur sempre funzionale al dominio americano, aveva però il pregio di un maggiore realismo.Oggi siamo di fronte a una rivolta contro la globalizzazione neoliberista che assume forme diversissime fra loro ma che, alla base, esprime lo stesso rigetto nei confronti di questo progetto di appiattimento universale: le proteste nelle metropoli capitalistiche, o nelle loro immediate periferie, (da Ows ad Atene, dagli Indignados alla rivolta elettorale “populista” che si avvicina, dal malessere dei ceti medi alle rivolte degli immigrati) contestano l’ipercapitalismo finanziario che è il motore di questo progetto. Le rivolte arabe e il parallelo fenomeno fondamentalista descrivono una dialettica diversa ma comunque di resistenza all’invasività del modello occidentale. I massacri di cristiani segnalano l’odio verso quella religione, che è vista come propria dell’Occidente e della sua volontà di annientare le altre culture. La violenta campagna anti-gay in Russia, in Africa in alcuni paesi asiatici, proprio nel momento in cui in Occidente si parla di matrimoni gay, sembra una aperta rivolta contro un modello culturale che va molto al di là della specifica questione gay. L’evoluzione aggressiva della politica estera cinese manifesta una crescente insofferenza verso il predominio occidentale negli organismi internazionali. Persino nella singola vicenda dei marò italiani in India è difficile non scorgere un certo livore antieuropeo. La “grande Europa” (o meglio, l’asse euro-americano) non è più in grado di dettare legge al mondo, ma non lo ha ancora capito. Intanto monta una rivolta dai mille volti che presto potrebbe diventare una tempesta senza precedenti.(Aldo Giannuli, “Reazioni alla globalizzazione”, dal blog di Giannuli dell’8 maggio 2014).La globalizzazione neoliberista ha spiccato il volo nei primi anni Novanta fra gioiosi inni alle sue sorti magnifiche e progressive, come attestavano i non dimenticati libri di Francis Fukuyama sulla fine della storia e di Toni Negri sull’Impero. Si prometteva la fine della nazioni e dello Stato-nazione, rottame del passato, di conseguenza dell’ordine westfalico sostituito da una governance mondiale fortemente integrata che avrebbe abolito il “fuori” e trasformato ogni crisi locale in un caso di “insorgenza” da curare con “interventi di polizia internazionale”. Si prometteva uno sviluppo mondiale, che avrebbe riscattato i paesi arretrati, ed il benessere generalizzato attraverso la “democratizzazione della finanza” assistita da nuovi strumenti matematici che avrebbero posto fine alle grandi crisi. Sarebbe sorto un mondo “piatto” e simmetrico.