Archivio del Tag ‘indipendentismo’
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Abis: in che mondo ci fa vivere l’élite, con il nostro consenso
Oggi voglio fare da cattivo, e dirvi quanto molti di voi sono condizionati. Le oligarchie hanno due motti: 1 – unisci quello che non può essere unito; 2 – dividi quello che può essere unito. E così hanno inventato: lotte tra vegani e onnivori; lotte tra destra e sinistra; unificazione italiana, americana ed europea; hanno inventato i termini: maschilismo, femminismo, razzismo, accoglienza, bontà, partitismo, fede e devozione; impongono il concetto di cosmopolitismo; fanno sembrare naturale vivere dentro assurde megalopoli. Hanno inventato milioni di giornate mondiali(ste) di questo e di quest’altro, delle mimose e delle scarpette rosse, delle memorie più o meno fantasiose; loro genocidano, e poi chiedono soldi a chi ne ha meno di loro per ovviare alle loro devastazioni; fanno i moralisti e diffondono oscenità, a parole pontificano sulle libertà e fabbricano catene, hanno inventato la globalizzazione per le loro merci e i loro schiavi, hanno stabilito che col lavoro si può rubare il tempo alla gente; hanno occupato tutti gli strumenti per intrattenere, l’arte e la musica possono variare a seconda dei loro scopi, si sono impossessati del cielo e dell’acqua …Hanno inventato le libertà parziali, ecco alcuni termini: separatismo, indipendentismo, autonomismo, zonafranchismo. Hanno inventato la “libertà” del “libero” mercato. Hanno inventato regole, prigioni, confini e recinti per il bestiame umano. Hanno inventato la televisione. Hanno inventato i giornali. Hanno inventato gli opinionisti, il concetto di cittadino, gli albi professionali, le scuole che fanno il contrario di quello che dovrebbero fare. Hanno inventato imposte, tasse, aste giudiziarie e pignoramenti. Hanno inventato i premi Nobel, Greenpeace e “Save the” non si sa cosa, le olimpiadi e i campionati, Hollywood, le Ong, la new age, la ricerca scientifica sotto ricatto. Hanno nascosto le cure ancestrali che funzionavano, e le hanno sostituite con farmaci in grado di curare possibilmente solo i sintomi. Hanno inventato le organizzazioni ambientaliste preventive, tutti i premi letterari e cinematografici. Hanno inventato le fondazioni per nascondere le loro malefatte, non certo per lavarsi la coscienza, visto che non sanno cosa sia. Hanno inventato le vaccinazioni di massa.Hanno inventato le guerre, con conseguente spopolamento, così possono ricavare tutto quello che vogliono da terre abbandonate. Hanno inventato tutti i gruppi terroristici. Affibbiano il termine complottista a chi cerca la verità sui loro complotti reali. Hanno inventato gli auto-attentati. Hanno inventato il capitale e lo spread, gli interessi, le monete private, le monete virtuali. Hanno inventato sia il contante che la sua eliminazione. Spacciano, loro sì, monete false. Hanno inventato il termine “dittatore”, meglio se accompagnato da “becero fascista”. Hanno inventato deleghe e democrazia. Le eggregore, simbologie sataniche, il partitismo e le votazioni, foraggiato utili rivoluzioni, utili ma solo per i loro affari. Ci hanno convinto che noi occidentali stiamo sfruttando popoli poveri, ma noi chi? Fanno di tutto per farci scordare chi siamo veramente. Hanno ricoperto di scorie mondialiste il nostro cervello ancestrale. Hanno ricoperto e soffocato la nostra spiritualità con le religioni. Vorrebbero dimostrare che loro sono le élite e noi il bestiame da sfruttare. Alterano la storia e la cultura. Impongono il pensiero unico. Livellano verso il basso ogni slancio. Chi cerca di elevarsi viene tirato giù dagli utili idioti plagiati. Il loro nome è fetension, fetenzie sioniste.(MarianoAbis, “Oggi voglio fare da cattivo e parlarvi delle oligarchie”, da “Jolao77” del 14 agosto 2019).Oggi voglio fare da cattivo, e dirvi quanto molti di voi sono condizionati. Le oligarchie hanno due motti: 1 – unisci quello che non può essere unito; 2 – dividi quello che può essere unito. E così hanno inventato: lotte tra vegani e onnivori; lotte tra destra e sinistra; unificazione italiana, americana ed europea; hanno inventato i termini: maschilismo, femminismo, razzismo, accoglienza, bontà, partitismo, fede e devozione; impongono il concetto di cosmopolitismo; fanno sembrare naturale vivere dentro assurde megalopoli. Hanno inventato milioni di giornate mondiali(ste) di questo e di quest’altro, delle mimose e delle scarpette rosse, delle memorie più o meno fantasiose; loro genocidano, e poi chiedono soldi a chi ne ha meno di loro per ovviare alle loro devastazioni; fanno i moralisti e diffondono oscenità, a parole pontificano sulle libertà e fabbricano catene, hanno inventato la globalizzazione per le loro merci e i loro schiavi, hanno stabilito che col lavoro si può rubare il tempo alla gente; hanno occupato tutti gli strumenti per intrattenere, l’arte e la musica possono variare a seconda dei loro scopi, si sono impossessati del cielo e dell’acqua…
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Macron insulta l’Italia. E’ una minaccia: rischio terrorismo
Italiani «vomitevoli». Getta la maschera, Emmanuel Macron: il finto amico del Balpaese ora accusa il ministro Salvini (e il governo Conte) di inferiorità etnico-politica. Che gli italiani fossero i nuovi “untermenschen”, per l’Eliseo, lo si era intuito il 30 marzo, quando i gendarmi francesi braccarono illegalmente a Bardonecchia, in territorio italiano, proprio un migrante africano, sorpreso su un treno e trattato come un animale. Gentiloni pigolò debolmente la sua non-protesta, dopo aver promesso di inviare soldati italiani in Niger a fare la guardia ai giacimenti di uranio per conto dei francesi, chiedendo in cambio a Parigi un aiuto per rimettere ordine nel paese che proprio la Francia ha terremotato, a danno dell’Italia: la Libia del post-Gheddafi. Ora, dopo l’esordio del governo “gialloverde” schieratosi con Trump al G7 canadese, siamo già agli insulti. Casus belli: il divieto di sbarco imposto alla nave Aquarius, carica di profughi. La situazione è pericolosa, avverte Mitt Dolcino su “Scenari Economici”: l’inaudita violenza verbale di Macron suona come una minaccia di stampo mafioso. E lascia presagire il rischio di attentati terroristici contro l’Italia proprio per colpire Salvini, vicino a Marine Le Pen e alla Russia di Putin, paese rispetto al quale il governo Conte vorrebbe revocare le sanzioni economiche varate dall’Ue.In altre parole: è il panico, non appena l’Italia esce dal letargo nel quale era sprofondata, rinunciando alla politica estera. «La sfrontatezza di Macron è un segnale pericoloso», rileva Maurizio Blondet. A inquietare Parigi sul caso Aquarius, anche la mossa della “ribelle” Corsica: l’isola, da sempre indipendentista, ha sfidato Parigi candidandosi ad affiancare l’Italia nell’accoglienza in mare, attraverso i propri porti. Da qui, probabilmente, anche l’inaudita reazione di Macron, apparentemente scomposta. In realtà, secondo Dolcino, si sta palesando un disegno eversivo: «L’Italia oggi diventa ad altissimo rischio attentati, probabilmente per colpire Salvini e il governo». Il motivo? Sintetizzato in una foto: la bandiera italiana data alle fiamme insieme a quella americana, in una dimostrazione a margine del G7. «Salvini deve fare estrema attenzione», scrive Dolcino su “Scenari Economici”: il nuovo governo «verrà presto messo in discussione, probabilmente anche mettendo sotto attacco l’Italia con accuse al ministero degli interni». In che modo? «Con il terrorismo (esterno), leggasi attentati in Italia».Dolcino propone una lettura geopolitica: ai francesi risulta indigesto l’allineamento strategico dell’Italia con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna anche in tema economico, sulla «cancellazione dei dazi per tutti». Una proposta trumpiana che Dolcino definisce «geniale e pacificatoria», ma chiaramente contraria agli interessi di Cina, Francia e Germania, «che invece prosperano ad esempio coi loro prodotti sui mercati Usa anche grazie a tariffe e dazi contro le importazioni Usa 4 o 10 volte superiori a quelli statunitensi per gli omologhi prodotti, come le automobili». Dunque, «con un tempismo incredibile», ecco che «vediamo bruciare la bandiera americana, italiana e inglese in piazza da parte dei dimostranti, addirittura durante lo svolgimento dello stesso G7». Dolcino insiste: «Salvini deve fare molta attenzione, perché quella bandiera italiana in fiamme rappresenta molto più di quanto può apparire: l’Italia diventa ufficialmente un problema di grado superiore, da risolvere da parte di coloro che volevano un fronte comune anti-Usa, fronte che può essere sommariamente condensato nei poteri che mirano a sostituirsi agli Usa al comando del Vecchio Continente».Terrorismo, dunque? Segnalando le recenti intercettazioni di armi alle frontiere terrestri del Belpaese, Dolcino ritiene che, da oggi, l’Italia sia a massimo rischio attentati sul proprio suolo. «Immagino che le forze dell’ordine sappiano bene di cosa sto parlando», aggiunge. «Faccio presente che, a prescindere dall’etichetta che potrebbe essere data a tali ipotetici – e speriamo mai attuati – attacchi (Isis, anarchici, immigrati) nel caso dovessero essere perpetrati molto probabilmente non bisognerebbe guardare molto lontano, ad est o in Medio Oriente, ma vicino, a nord e a nord-ovest». Impossibile dimenticare chi è Emmanuel Macron, incredibilmente presentato dai media come outsider della politica transalpina. Già dirigente della Banca Rothschild, Macron ha collaborato con i vari governi della presidenza Hollande, arrivando a fare il ministro dell’economia nella peggior stagione democratica della Francia, con il paese scosso dal terrorismo targato Isis. Stragi e attentati “false flag”, secondo la logica criminale della strategia della tensione: le indagini sul massacro di Charlie Hebdo, ad esempio, sono state bloccate dal segreto di Stato (segreto militare) dopo che la magistratura aveva scoperto un imbarazzante legame tra le armi del commando terrorista e un dirigente dei servizi segreti francesi, che le aveva acquistate in Belgio.Definendo “vomitevole” la nuova politica italiana – promossa a furor di popolo il 4 marzo dal 55% degli elettori – Macron svela il suo vero volto di pericoloso oligarca: è il pupillo di Jacques Attali, il supermassone reazionario che irrise la «plebaglia europa», testualmente, per essersi illusa sull’euro, credendo davvero che la moneta unica fosse stata creata per la «felicità» del popolo. Proprio Attali è uno dei maggiori architetti dell’Europa del rigore, ben incarnata dall’allievo Macron: l’attuale presidente francese, altissimo esponente dell’élite finanziaria che ha fatto praticamente sparire la democrazia in Europa insieme ai diritti del lavoro, ha infatti annunciato tagli colossali nel welfare transalpino e la riduzione drastica del pubblico impiego. Più ancora della Merkel, il supermassone neo-aristocratico Macron è il vero campione dell’eurocrazia banditesca contro la quale gli italiani hanno appena votato. Peggio: è il capo politico di un paese devastato da attentati attribuiti alla manovalanza islamista, ma tutti sinistramente contrassegnati da eloquenti simbologie massoniche, dall’epopea dei Templari sanguinosamente riproposta – in codice – nella mattanza del Bataclan, fino alla strage di Nizza del 2016 attuata il 14 luglio, data “sacra” per la massoneria progressista che – anche dalla nuova trincea italiana – sarebbe impegnata a contrastare la cupola del potere “nero” che si è impadronito dell’Europa, schiacciando i popoli nella morsa dell’austerity.Italiani «vomitevoli». Getta la maschera, Emmanuel Macron: il finto amico del Balpaese ora accusa il ministro Salvini (e il governo Conte) di inferiorità etnico-politica. Che gli italiani fossero i nuovi “untermenschen”, per l’Eliseo, lo si era intuito il 30 marzo, quando i gendarmi francesi braccarono illegalmente a Bardonecchia, in territorio italiano, proprio un migrante africano, sorpreso su un treno e trattato come un animale. Gentiloni pigolò debolmente la sua non-protesta, dopo aver promesso di inviare soldati italiani in Niger a fare la guardia ai giacimenti di uranio per conto dei francesi, chiedendo in cambio a Parigi un aiuto per rimettere ordine nel paese che proprio la Francia ha terremotato, a danno dell’Italia: la Libia del post-Gheddafi. Ora, dopo l’esordio del governo “gialloverde” schieratosi con Trump al G7 canadese, siamo già agli insulti. Casus belli: il divieto di sbarco imposto alla nave Aquarius, carica di profughi. La situazione è pericolosa, avverte Mitt Dolcino su “Scenari Economici”: l’inaudita violenza verbale di Macron suona come una minaccia di stampo mafioso. E lascia presagire il rischio di attentati terroristici contro l’Italia proprio per colpire Salvini, vicino a Marine Le Pen e alla Russia di Putin, paese rispetto al quale il governo Conte vorrebbe revocare le sanzioni economiche varate dall’Ue.
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Della Luna: tengono in vita l’Italia solo per finire di svuotarla
Il re è nudo ma niente succede. I numerosi scandali e, ultimamente, la commissione parlamentare di inchiesta sulle banche, hanno messo a nudo la realtà della politica e della burocrazia, le sistematiche e trasversali ruberie del regime, la sua strutturale illegalità di funzionamento – e niente succede, la società accetta tutto passivamente. Così come fa la “giustizia”, il popolo non reagisce, accetta ingiustizia e illegalità. Sempre più subisce e non agisce. L’esperienza gli ha insegnato che votare e manifestare è improduttivo. Una ribellione popolare contro il marcio regime è impossibile: il popolo italiano è vecchio e sfiduciato, anche in se stesso, e senza fiducia in se stesso un popolo non organizza una ribellione. E il voto non consente di cambiare, come si dirà. I banksters saccheggiano impuniti il risparmio, mentre autorità di controllo giudiziarie e amministrative chiudono un occhio o due e non agiscono nemmeno dopo il fatto. Il governo, con dentro parenti e amici dei banchieri, li copre e scarica sulla società civile i danni dei loro abusi. Grillo ruggiva dichiarando che il suo movimento avrebbe aperto i palazzi del potere come scatolette di sardine per mettere alla luce del giorno tutte le illegalità, come se ciò potesse suscitare reazioni tali da riformare il sistema. Ma non è così: il sistema continua come prima, e la gente subisce passivamente.E perché stupirsi? La legalità è l’interesse più diffuso, dunque il più disperso, il più debole, quindi il più perdente. E’ un interesse impotente a difendere se stesso. Il popolo è bue perché è popolo, non per altra ragione. Per contro, gli interessi concentrati, dei pochi contro i molti, soprattutto se illeciti e nascosti, sono anche poteri forti, e hanno buon gioco a comprare chi gli serve e a mettere nei posti giusti i loro fiduciari. Gli esponenti del regime italiano vantano oggi una ripresa economica, sia pur da fanalino di coda, ma non dicono che le previsioni per i prossimi 25 anni mostrano il sistema-paese Italia in costante perdita di produttività-competitività rispetto agli altri paesi comunitari e Ocse. Il che comporta che, per competere sui costi di produzione, si dovrà continuare a tagliare i salari reali, i diritti dei lavoratori, le pensioni, gli investimenti, e che in prospettiva l’Italia è spacciata, perché già da 25 anni sta perdendo in produttività comparata, e 50 anni così implicano che il paese non è più vitale. Spacciata, anche perché il governo deve perseguire una politica di saldi primari attivi (cioè togliere con le tasse dalla società più denaro di quanto riversa in essa, nonostante che la società sia in grave carenza di denaro).Altro che virtuosità, risanamento, ripresa: tutto deve andare ai banchieri che prestano i soldi, compresa la proprietà delle aziende. Senza investimenti strategici non vi è recupero di produttività, non vi è fine del declino. Ciò accelererà la fuga di capitali, imprenditori, lavoratori qualificati e cervelli. Questo destino fallimentare è connaturato all’Italia unitaria, a questo Stato voluto e creato dall’estero per servire ed essere sfruttato da potenze straniere, come spiegato in precedenti articoli. Uno Stato sbagliato per composizione, che è stata fatta accozzando nazioni preunitarie troppo diverse tra loro e che perciò non hanno mai legato ma hanno generato una governance parassitaria e incompetente, che sa solo arricchirsi rubando sui trasferimenti dalle aree efficienti a quelle inefficienti, e in generale sulle risorse pubbliche e private. Uno Stato vassallo, in cui la politica è decisa dall’estero e alla classe politica interna, come unico spazio di azione, rimane la competizione-lottizzazione nel saccheggio del cittadino e della spesa pubblica. Non potendo procurarsi consensi con le buone politiche nell’interesse nazionale, i nostri politicanti se li procurano distribuendo privilegi clientelari. Questo è il modo di produzione della legittimazione elettorale in Italia.I potentati stranieri dominanti sostengono e legittimano quelle forze politiche e burocratiche italiane che meglio servono i loro interessi a spese degli italiani (fino a mandare eserciti italiani a combattere servilmente guerre americane e francesi contro gli interessi italiani), consentendo loro in cambio di continuare i loro traffici con piccole banche, appalti truccati. E’ grazie a siffatti rapporti con la partitocrazia e la burocrazia italiane che potentati stranieri hanno acquisito il controllo di (quasi) tutte le imprese di punta e strategiche italiane, nonché della Banca d’Italia e del sistema creditizio. E’ così che il governo ha regolarmente sottoscritto, sotto ricatto di rating, contratti finanziari scientemente rovinosi a vantaggio delle controparti dominanti come Morgan Stanley, con perdite per decine di miliardi – vedasi il commento dell’onorevolele Brunetta all’audizione della dottoressa Cannata in commissione banche, audizione che si è cercato di mettere in ombra col polverone sulle dichiarazioni del presidente di Consob Giuseppe Vegas alla medesima commissione sul caso Etruria-Boschi, tacendo sul ministro e sugli alti dirigenti del Tesoro che sono poi passati a Morgan Stanley.Un simile Stato, come apparato, non può vivere se non attraverso una corruzione sistemica, quindi intessuta nelle istituzioni anche di controllo (le campagne di lotta contro la corruzione, ovviamente, sono una presa per i fondelli). I suoi partiti politici sono galassie di comitati di affari dediti ad operazioni illecite o quantomeno scorrette. Le rispettive segreterie fanno da organo di coordinamento tra tali comitati, e di ricezione delle richieste di interessi stranieri (talvolta anche nazionali) dominanti. Che forza avrebbero i partiti di potere se non gestissero (clientelarmente) appalti, crediti, assunzioni, licenze? Nessuna. I partiti che si staccano da quelli di potere per perseguire ideali sociali e di giustizia, sistematicamente, si spengono; non sono vitali, sebbene abbiano talora ottime idee e grande onestà, proprio perché non si portano dietro alcuna fetta di spesa pubblica, alcuna risorsa clientelare. Laddove vi sono seri interessi in gioco, le leggi, anche dagli organi di controllo e giustizia, sono osservate solo marginalmente, soprattutto per mantenere una minima facciata di legittimità agli occhi della gente comune.In realtà, vi è una netta divisione tra chi è soggetto alla legge e chi sta sopra di essa e la usa sugli altri per schiacciarli e spremerli. Il potere pubblico è inteso come proprietà privata, come diritto di passare sopra le regole e di togliere diritti agli altri, cioè di derogare alla legalità. Adesso, in campagna elettorale, è inevitabile che i partiti millantino, ciascuno, di avere la capacità e la volontà di salvare il paese e di combattere la corruzione. Lo afferma quella (pseudo) sinistra che è stata l’esecutore più attivo e fedele degli interessi stranieri, che più ha collaborato nel sottomettere ad essi tutto il paese, nello spremerlo per arricchire gli squali della finanza predona, nel sabotare l’economia e l’ordine pubblico, nell’imporre un pensiero e un linguaggio unico che impedissero persino di descrivere ciò che essa stava e sta perpetrando. Poi abbiamo un Berlusconi, proprietario del principale partito del centrodestra, che ha sempre usato i voti di chi gli dava fiducia per sostenere la linea della (pseudo) sinistra e della Germania, persino il rovinoso governo Monti, al fine di difendere i propri interessi aziendali e processuali – un Berlusconi da sempre condizionabile mediante attacchi giudiziari che scattano quando serve.Abbiamo una Lega con analisi e propositi condivisibili, la quale un tempo era indipendentista e ora non lo è più, almeno nelle dichiarazioni, e si propone come tutrice degli interessi nazionali pan-italiani entro un’Ue e un euro in cui vuole rimanere. Purtroppo, sino ad ora, su scala nazionale, la Lega ha realizzato niente o quasi dei suoi programmi, pur essendo stata a lungo al governo. Abbiamo infine una M5S che conta numerosi esponenti validi, coraggiosi e liberamente agenti, ma i cui titolari – quelli che enunciano che “uno vale uno” – non si sa che mete abbiano e che interessi incarnino, anche se appaiono significativi legami con gli Usa. Abbiamo infine una nuova, furbesca legge elettorale, che lascia nelle mani delle segreterie (negandole agli elettori) non solo la scelta dei parlamentari, ma anche la decisione sul nuovo governo: una legge tipicamente partitocratica. No, signori miei, non illudetevi: il processo di disfacimento e la parassitosi maligna interna ed esterna continueranno più saldamente che mai, con la Bce che sosterrà il debito pubblico, differendo il collasso, per consentire di portare a compimento il piano di trasferimento delle risorse del paese. Niente cambierà con le prossime elezioni. L’unico cambiamento possibile e concreto lo realizza chi emigra.(Marco Della Luna, Il Re è nudo ma niente succede, dal blog di Della Luna del 17 dicembre 2017).Il re è nudo ma niente succede. I numerosi scandali e, ultimamente, la commissione parlamentare di inchiesta sulle banche, hanno messo a nudo la realtà della politica e della burocrazia, le sistematiche e trasversali ruberie del regime, la sua strutturale illegalità di funzionamento – e niente succede, la società accetta tutto passivamente. Così come fa la “giustizia”, il popolo non reagisce, accetta ingiustizia e illegalità. Sempre più subisce e non agisce. L’esperienza gli ha insegnato che votare e manifestare è improduttivo. Una ribellione popolare contro il marcio regime è impossibile: il popolo italiano è vecchio e sfiduciato, anche in se stesso, e senza fiducia in se stesso un popolo non organizza una ribellione. E il voto non consente di cambiare, come si dirà. I banksters saccheggiano impuniti il risparmio, mentre autorità di controllo giudiziarie e amministrative chiudono un occhio o due e non agiscono nemmeno dopo il fatto. Il governo, con dentro parenti e amici dei banchieri, li copre e scarica sulla società civile i danni dei loro abusi. Grillo ruggiva dichiarando che il suo movimento avrebbe aperto i palazzi del potere come scatolette di sardine per mettere alla luce del giorno tutte le illegalità, come se ciò potesse suscitare reazioni tali da riformare il sistema. Ma non è così: il sistema continua come prima, e la gente subisce passivamente.
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Rivoluzione d’Ottobre, oggi, per demolire il potere dell’élite
La Rivoluzione d’Ottobre è la più importante rivoluzione dell’epoca moderna. Finora almeno, aggiungo con un moto di ottimismo. Il 25 ottobre 1917, calendario giuliano, la questione sociale ed il rifiuto della guerra presero il potere in Russia, dando avvio ad un colossale percorso di liberazione dell’umanità. Nonostante gli errori e gli orrori dello stalinismo, l’Unione Sovietica è stata determinante nella sconfitta del nazifascismo e nell’avvio di un’epoca di progresso sociale e di liberazione dei popoli in tutto il mondo, epoca che è durata alcuni decenni, fino agli anni ottanta del secolo scorso. La portata storica generale della Rivoluzione di Ottobre si misura ancora di più nel mondo attuale, ove un capitalismo che non ha più paura del nemico sta mostrando tutta la sua ingorda follia. Non è vero che l’Ottobre abbia esaurito la sua spinta propulsiva, come fu detto quasi 40 anni fa. Anche nella portata della controrivoluzione liberista si misura la forza della rivoluzione sovietica. Quando scoppia una rivoluzione? Secondo Lenin quando le classi dominanti non possono più governare come sempre han governato e le classi subalterne non vogliono più vivere come sempre hanno vissuto. Con questo concetto, si vuole chiarire che le condizioni della rivoluzione siano sia la crisi generale del sistema di potere dominante, sia l’esplodere della soggettività delle masse.Noi oggi viviamo in un sistema economico e politico che ha esaurito tutte le proprie capacità riformiste. Un sistema incapace di qualsiasi vera mediazione sociale, chiuso in sé stesso e nelle sue élites. Un sistema non riformabile. Nel 1914 l’Europa si suicidò con la Prima Guerra Mondiale, una sporca inutile strage che non solo distrusse milioni di vite, ma anche quella che allora era la sinistra, la socialdemocrazia, che nella sua maggioranza tradì sé stessa e chi rappresentava approvando il massacro. Oggi l’Europa si sta suicidando con le politiche di austerità governate dalla Ue, politiche che fanno guerra sociale ai popoli e che hanno visto la stessa distruzione della sinistra ufficiale, che quelle politiche ha approvato e gestito. Oggi torna la necessità di rotture rivoluzionarie, che qui in Europa viene annunciata da crisi politiche diffuse e da una rabbia di massa, che viene espressa in varie e anche opposte forme con quello che oggi viene genericamente definito populismo. La crisi delle classi dominanti non ha ancora dispiegato tutta la sua portata, esse sono ancora capaci di coinvolgere nel proprio potere una parte degli oppressi e soprattutto delle loro rappresentanze. Tuttavia il logoramento del sistema avanza e le rotture avvengono, come sempre partendo dai punti più deboli.Le rivoluzioni le scatenano le masse e nessun surrogato è possibile di esse. Ma questo non significa che si debba stare con le mani in mano. Innanzitutto bisogna cogliere e capire le linee di rottura rivoluzionaria. Che proprio per il concetto stesso di rivoluzione sono sempre diverse da quanto normalmente si presenti sulla scena politica, sono rivoluzioni appunto. Qual era l’argomentazione di fondo dei menscevichi contro Lenin e Trotsky? Che non si dovesse far fare salti alla storia e che in Russia non ci fossero le condizioni oggettive per la rivoluzione. Oggi i neo menscevichi delle varie anime della sinistra usano gli stessi argomenti per giustificare Tsipras in Grecia: e come poteva lui da solo andare contro tutta l’Europa? Oppure per condannare senza appello la Catalogna: cosa c’entra quella mobilitazione popolare per l’indipendenza con la giusta lotta di classe? Oppure per non rompere con Ue e Nato: non sapete che disastro se ci isoliamo da quelle strutture, che in fondo ci tutelano da rischi peggiori?Tutte queste argomentazioni sono piene di parziali verità, ma assieme costituiscono un’unica menzogna. La menzogna è che si debba attendere una evoluzione di tutto il mondo verso momenti migliori, per il cambiamento. Questa evoluzione non esiste, o si arriva ad un processo rivoluzionario, o si precipita nella barbarie verso cui già stiamo scivolando. Lenin e Marx erano prima di tutto dei geni rivoluzionari e in quanto tali dei giganteschi scienziati sociali. Essi non attendevano la conferma delle proprie teorie, ma le verificavano nella rottura rivoluzionaria reale. Marx auspicò che la comunità contadina russa fosse alla base di una rivoluzione sociale, che in quel paese saltasse alcune fasi dello sviluppo capitalistico. Lenin mise in pratica quella intuizione adottando la parola d’ordine populista della terra ai contadini, che i bolscevichi avevano fieramente avversato, senza la quale non avrebbe vinto la guerra rivoluzionaria contro le armate bianche finanziate da tutto l’Occidente. Le rivoluzioni ci spiazzano sempre, proprio perché esse nascono dalla necessità delle masse. Esse per loro natura sono la rottura della politica consolidata, in tutte le sue espressioni.La soggettività rivoluzionaria si misura proprio in quel momento. Se essa è vera e sufficientemente preparata e forte, allora può svolgere il ruolo necessario di direzione del processo, che se ne avvantaggia. Se non lo è allora la rivoluzione va per conto suo, nel bene o nel male, e lascia le “avanguardie” a dare rancorosi voti alla storia. Per questo oggi io sento più attuale che mai la lezione dell’Ottobre sovietico. Quando il sistema è bloccato prima o poi le rivoluzioni esplodono e compito dei veri rivoluzionari è capire ciò che accade e provare a governarlo. Governarlo verso il consolidamento della rottura rivoluzionaria, anche se essa non corrisponde a quanto previsto dai manuali delle giovani marmotte marxiste leniniste, anche se essa non avviene dove si sperava e nel modo e con le dimensione e che si sperava. Perché l’alternativa alla rivoluzione non è un cambiamento più lento e più sicuro, ma la reazione, la regressione brutale. Per questo oggi più che mai dobbiamo prima di tutto essere grati a coloro che nel 1917 hanno dato l’assalto al cielo. E farci carico delle necessità rivoluzionarie del presente.(Giorgio Cremaschi, “L’attualità della Rivoluzione d’Ottobre”, da “Micromega” dell’8 novembre 2017).La Rivoluzione d’Ottobre è la più importante rivoluzione dell’epoca moderna. Finora almeno, aggiungo con un moto di ottimismo. Il 25 ottobre 1917, calendario giuliano, la questione sociale ed il rifiuto della guerra presero il potere in Russia, dando avvio ad un colossale percorso di liberazione dell’umanità. Nonostante gli errori e gli orrori dello stalinismo, l’Unione Sovietica è stata determinante nella sconfitta del nazifascismo e nell’avvio di un’epoca di progresso sociale e di liberazione dei popoli in tutto il mondo, epoca che è durata alcuni decenni, fino agli anni ottanta del secolo scorso. La portata storica generale della Rivoluzione di Ottobre si misura ancora di più nel mondo attuale, ove un capitalismo che non ha più paura del nemico sta mostrando tutta la sua ingorda follia. Non è vero che l’Ottobre abbia esaurito la sua spinta propulsiva, come fu detto quasi 40 anni fa. Anche nella portata della controrivoluzione liberista si misura la forza della rivoluzione sovietica. Quando scoppia una rivoluzione? Secondo Lenin quando le classi dominanti non possono più governare come sempre han governato e le classi subalterne non vogliono più vivere come sempre hanno vissuto. Con questo concetto, si vuole chiarire che le condizioni della rivoluzione siano sia la crisi generale del sistema di potere dominante, sia l’esplodere della soggettività delle masse.
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Contropiano: ma dentro la Ue siamo tutti come i catalani
Se il governo regionale della Catalogna è costretto a valutare se chiedere asilo politico a un altro paese dell’Ue, vuol dire che nulla sarà come prima: quello che sta avvenendo in questi giorni intorno a Barcellona e alla sua volontà di indipendenza dalla Spagna è una di quelle “prime volte” che segnano l’evoluzione di un sistema politico, scrive Dante Barontini su “Contropiano”: «E’ la prima volta, infatti, che l’Unione Europea non riconosce – e anzi condanna – una richiesta di indipendenza certificata da un voto, oltretutto osteggiato con la violenza poliziesca da parte di uno Stato nazionale». Ma è anche la prima volta che questo accade al suo interno, anziché in un paese inserito nella lista dei “nemici”. «Per l’indipendenza di Slovenia, Croazia, Bosnia, Macedonia, Kosovo è stata fatta una guerra durissima che ha smantellato l’ex Jugolavia», ricorda “Contropiano”, facendo notare che «se la stessa richiesta arriva da un paese membro della Ue, questa diventa “illegale”». Una conferma implicita: quello Ue è un sistema sovranazionale «creato a protezione di interessi specifici – quelli del capitale multinazionale, sia industriale che finanziario – che si confronta imperialisticamente con altri sistemi politico-economici».Quella di Barcellona è un’indipendenza formale, non effettiva, perché la Catalogna «non aveva e non ha la possibilità materiale di far rispettare a tutti questo nuovo status», precisa Barontini: niente frontiere protette né esercito, niente moneta autonoma, nessun controllo sui movimenti di capitale e delle imprese. Sarà la prima volta che dirigenti politici democratici chiederanno ufficialmente asilo politico? «Per la sottile ironia della storia – aggiunge l’analista – proprio questa fuga riporta la contraddizione all’interno del cuore dell’Unione Europea, a Bruxelles, costringendo gli algidi burocrati a districarsi con il problema di un governo democratico che chiede asilo politico per sfuggire ai mandati di cattura emessi da un paese membro della stessa Unione – la Spagna di re Felipe e del franchista Rajoy – che non viene classificata di certo tra le “dittature”». Non è invece la prima volta, aggiunge Barontini, che la rivendicazione di indipendenza assume connotati apertamente progressisti e di classe, invece che quelli “populisti di destra” che tanto piacciono all’establishment europeo per “spaventare” le popolazioni sottoposte alla riduzione dei diritti, dei salari e del welfare.Questa Unione Europea, ricorda “Contropiano”, non è altro che «un sistema di trattati vincolanti, che espropriano gli Stati nazionali di molte prerogative-chiave, a partire dal controllo del bilancio pubblico». Proprio questo mostro tecnocratico produce il nemico che sostiene di voler combattere, cioè il razzismo e il neofascismo, «moltiplicando disuguaglianze reddituali, seminando precarietà e insicurezza sociale che poi cerca di capitalizzare militarizzando la società». Alternative alla rottuna, in Catalogna? Debolissime. La parte più moderata del movimento indipendentista, rappresentata da Carles Puigdemont, coltivava un’illusione “riformista” rivelatasi un tragico equivoco, «quello di poter passare da regione autonoma di uno Stato membro della Ue a Stato indipendente, restando completamente dentro le regole Ue già definite», e quindi mantenendo trattati, contratti e moneta, senza alcun trauma». Dopo il referendum, Barcellona sperava in un compromesso con il governo centrale spagnolo, anche a costo di non proclamare formalmente l’indipendenza. Ma non ha funzionato.Puigdemont e compagni «si sono trovati davanti a un muro incompreso, imprevisto, sottovalutato, invalicabile». Ovvero: «Nessuna “riforma” è possibile, nessun compromesso teso a guadagnare respiro». Proprio questo muro, aggiunge “Contropiano”, ha costretto il governo catalano a portare fino in fondo – obtorto collo – il processo istituzionale sfociato nella dichiarazione d’indipendenza. «Non c’è stata la capovolta di Tsipras, non c’è stata la resa plateale che disarma un intero popolo e soprattutto le figure sociali più colpite dalle politiche europee». Di sicuro la fuga in Belgio non è un atto eroico, «ma non è neppure paragonabile al trasformarsi in macellaio della propria gente». E’ un fatto: è avvenuto. «Ma ogni fatto storico di questa portata cambia la situazione», scrive Barontini. D’ora in poi, si tratta di mettere a fuoco «il nemico principale», ovvero quello con cui tutti ci troviamo a fare i conti, «magari senza aver ancora capito che (quanto a condizioni oggettive, in questo continente) oggi siamo davvero tutti come i catalani», di fronte all’aberrante regime di Bruxelles: il vero avversario comune, infatti, è proprio l’Unione Europea.Se il governo regionale della Catalogna è costretto a valutare se chiedere asilo politico a un altro paese dell’Ue, vuol dire che nulla sarà come prima: quello che sta avvenendo in questi giorni intorno a Barcellona e alla sua volontà di indipendenza dalla Spagna è una di quelle “prime volte” che segnano l’evoluzione di un sistema politico, scrive Dante Barontini su “Contropiano”: «E’ la prima volta, infatti, che l’Unione Europea non riconosce – e anzi condanna – una richiesta di indipendenza certificata da un voto, oltretutto osteggiato con la violenza poliziesca da parte di uno Stato nazionale». Ma è anche la prima volta che questo accade al suo interno, anziché in un paese inserito nella lista dei “nemici”. «Per l’indipendenza di Slovenia, Croazia, Bosnia, Macedonia, Kosovo è stata fatta una guerra durissima che ha smantellato l’ex Jugolavia», ricorda “Contropiano”, facendo notare che «se la stessa richiesta arriva da un paese membro della Ue, questa diventa “illegale”». Una conferma implicita: quello Ue è un sistema sovranazionale «creato a protezione di interessi specifici – quelli del capitale multinazionale, sia industriale che finanziario – che si confronta imperialisticamente con altri sistemi politico-economici».
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Barcellona spacca l’Ue, e l’esercito tedesco teme il peggio
La Catalogna? «Sono pazzi se pensano di cavarsela in questo modo», cioè lavandosene le mani. «Immaginate che il Belgio “ceda” Puidgemont, l’uomo il cui movimento ha portato la nonviolenza a un livello nuovo e moderno, e immaginate che Rajoy lo condanni a 30 anni di carcere, e che lo stesso individuo il giorno dopo sieda a qualche meeting a Bruxelles. Che quadro verrebbe dipinto davanti agli occhi di 500 milioni di cittadini europei?». Per Raul Ilargi Meijer, semplicemente, l’Unione Europea sta per collassare. Lo scrive in un post su “The Automatic Earth”, ripreso da “Zero Hedge” e tradotto da “Voci dall’Estero”, che osserva: «La situazione attuale non fa altro che esporre per l’ennesima volta la totale inettitudine delle istituzioni unioniste di Bruxelles», mentre nel frattempo «il paese più potente, il vero egemone, la Germania, lascia fare». Ma attenzione: «Le forze armate tedesche si preparano al “caso peggiore”, quello di crollo della Ue». Secondo lo “Spiegel”, infatti, gli strateghi militari della Bundeswehr, per la prima volta, ritengono possibile la fine dell’euro-sistema. E cominciano a preparare piani per proteggere la Germania da un ipotetico collasso dell’Unione Europea.«Se c’è una cosa che la diatriba tra Spagna e Catalogna può servire a ricordare è la Turchia», scrive Raul Ilargi Meijer. «Per la Ue si tratta di un problema molto più grosso di quanto si pensi». Innanzitutto, premette, Bruxelles non può più continuare a insistere sul fatto che si tratti di un problema interno della Spagna – almeno, non da quanto il presidente catalano Puidgemont è… a Bruxelles, dove si trovano anche altri quattro membri del suo governo. «Questa situazione sposta le decisioni dal sistema giudiziario spagnolo alla sua controparte belga. E le due parti non sono esattamente gemelle, nonostante si tratti di due paesi che fanno parte della Ue. Questo – prosegue l’analista – porta alla luce un problema europeo piuttosto importante: la mancanza di omogeneità nei sistemi giudiziari. I cittadini dei paesi Ue sono liberi di spostarsi e di lavorare in tutti i paesi della Ue, ma sono comunque soggetti a diversi sistemi legislativi e a diverse costituzioni». E il modo in cui il governo spagnolo sta cercando di mettere le mani su Puidgemont, scrive Meijer, «è esattamente lo stesso in cui il presidente turco Erdogan sta cercando di catturare il suo presunto arcinemico, Fethullah Gülen, che da tempo è residente in Pennsylvania».Come noto, gli Usa non sono disposti a estradare Gülen, «nemmeno ora che la Turchia mette sotto arresto il personale delle ambasciate statunitensi». E’ evidente: «Gli americani ne hanno avuto abbastanza di Erdogan». L’autocrate turco accusa Gülen di aver organizzato un colpo di Stato? «Il primo ministro spagnolo Rajoy accusa il governo catalano esattamente della stessa cosa». Non si tratta, però, dello stesso tipo di colpo di Stato: «Quello turco è stato caratterizzato da violenza e morte. Quello spagnolo invece non lo è stato, o almeno non lo è stato da parte di chi oggi viene accusato di aver condotto questa azione». Secondo Raul Ilargi Meijer, «Bruxelles avrebbe dovuto intervenire nel caos catalano già da molto tempo, invocando un incontro e una composizione pacifica, anziché insistere sul fatto che tutto questo non avesse a che vedere con la Ue, come invece è stato vigliaccamente e facilmente affermato». Logico: «O sei un’Unione oppure non lo sei. Se lo sei, allora è tua responsabilità garantire il benessere di tutti i tuoi cittadini. Non puoi fare distinzioni e preferenze, devi essere coerente».Il giornale belga “De Standaard” ha fatto una curiosa distinzione: ha detto che al sistema giudiziario belga non è stato chiesto di “estradare” (uitlevering) Puidgemont in Spagna, ma di cederlo (overlevering). È questo l’assurdo lessico del “legalese”. L’articolo ha anche affermato che il caso sarà portato davanti a tre diverse corti giudiziarie, ciascuna delle quali avrà 15 giorni per annunciare una propria decisione. Per questo motivo Puidgemont è al sicuro per almeno un mese e mezzo. Poi, per il 21 dicembre, Rajoy ha indetto le elezioni in Catalogna. In vista di queste, si dice che voglia bandire come illegali diversi partiti: «Non sorprendetevi se tra questi ci sarà il partito di Puidgemont», scrive Raul Ilargi Meijer. «Peraltro, se anche il presidente catalano democraticamente eletto dovesse perdere tutti i ricorsi a sua disposizione, potrebbe sempre chiedere asilo politico al Belgio (a quanto pare il Belgio è l’unico paese Ue a cui i cittadini Ue possano chiedere asilo politico). A quel punto ci troveremmo in una situazione giudiziaria alquanto caotica, che vedrà la Spagna contro il Belgio contro la Ue. In un certo senso questo sarebbe un fatto positivo, perché metterebbe alla prova un sistema che non è affatto preparato a tutte queste divergenze».Per l’Unione Europea, però, sarebbe l’ennesimo disastro: la Ue «ha già mostrato zero capacità di leadership in questo caso politico, sia da parte dei suoi vertici come il capo della Commissione Europea, Juncker, sia da parte di Angela Merkel, il suo capo di Stato più potente». E quindi, aggiunge Meijer, come potremmo non pensare che l’Unione Europea sia completamente alla deriva? «Da questo punto di vista si tratta di una situazione non meno grave della crisi dei rifugiati o della decapitazione dell’economia greca». Francamente, «la minaccia di infliggere condanne a 30 anni di prigione a persone che hanno solamente organizzato un’elezione pacifica non è esattamente ciò per cui la Ue dovrebbe battersi», aggiunge l’analista. «E adesso che sta avvenendo, questo minaccia la sua stessa sopravvivenza». E’ un fatto: «L’Europa non può essere la terra di Francisco Franco o di Erdogan. Non può voltarsi dall’altra parte e pretendere di andare avanti». Potrebbe essere questo il motivo per il quale le forze armate tedesche, la Bundeswehr, hanno preparato un rapporto che considera gli scenari futuri per l’Europa, inclusi i peggiori.Gli strateghi tedeschi, secondo “Der Spiegel”, ammettono di prendere in considerazione anche gli scenari più catastrofici. «La Bundeswehr – scrive il giornale tedesco – ritiene che la fine dell’Occidente nella sua forma attuale sia una possibilità che potrebbe verificarsi entro i prossimi decenni». Lo si afferma in un documento redatto a febbraio dalla difesa, “Prospettive strategiche 2040”, finora passato sotto silenzio. «Per la prima volta nella storia, questo documento di 102 pagine della Bundeswehr mostra come le tendenze nella società e i conflitti internazionali possano influenzare le politiche di sicurezza tedesche dei decenni a venire». Lo studio quindi «definisce il quadro entro il quale la Bundeswehr dovrà probabilmente muoversi nel prossimo futuro». In uno degli scenari (“La disintegrazione della Ue e la Germania in modalità reattiva”) gli autori ipotizzano una serie di “contrapposizioni multiple”. «Le proiezioni future descrivono un mondo nel quale l’ordine internazionale sarà eroso dopo “decenni di instabilità”, e dove i sistemi di valori globali divergeranno e la globalizzazione avrà termine».«L’ampliamento della Ue è stato un obiettivo per lo più abbandonato, già altri paesi hanno lasciato il blocco Ue e l’Europa ha perso la sua competitività globale», scrive uno stratega della Bundeswehr. «Un mondo sempre più caotico e propenso al conflitto ha mutato drasticamente il contesto della difesa per la Germania e l’Europa». Nel quinto scenario esaminato (“Oriente contro Occidente”), alcuni paesi della Ue orientale bloccano il processo di integrazione europea mentre altri hanno già «aderito al blocco orientale». Nel quarto scenario (“competizione multipolare”) l’estremismo è in crescita e ci sono paesi Ue che «occasionalmente sembrano avvicinarsi al modello russo» di capitalismo statale. Il documento non fa espressamente alcuna previsione, ma tutti gli scenari sembrano «verosimili entro il 2040», scrivono gli autori. «E’ abbastanza divertente notare – chiosa Raul Ilargi Meijer – che le “proiezioni future” assomigliano proprio alla Ue di oggi, almeno per come la vedo io, non a quella del 2040». Angela Merkel «può anche passare tutto il suo tempo a pronunciare discorsi pro-Ue», come gli altri leader europei, «ma il suo esercito ha dei seri dubbi su tutto ciò: e di fronte alla palude che si è aperta col caso catalano, chi potrebbe più dubitare che abbiano ragione ad avere dubbi?».Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca perseguono obiettivi completamente diversi da quelli dei Paesi Bassi e della Germania, osserva l’analista. E in Francia, Macron si sta rendendo conto che potrà farà solo quello la Merkel gli permetterà di fare. «E ora ecco che arriva la Spagna e cerca di comminare leggi franchiste e violenza ai suoi cittadini. Bruxelles non fa nulla, Berlino non fa nulla. I rifugiati possono restarsene a marcire sulle isole greche se i paesi dell’Est non li vogliono, e le nonne catalane vengono massacrate dalle truppe franchiste mentre Bruxelles non trova proprio niente da ridire». La Bruxelles di oggi, anota Meijer, è il culmine di 50-60 anni di progressiva istituzionalizzazione: non è cosa che si possa cambiare con un’elezione qua o là. «La Catalogna sarà la fine dei giochi per Bruxelles? O lo sarà invece la crisi dei rifugiati? Lo sarà la Brexit? E’ impossibile dirlo, ma ciò che è sicuro è che allo stato attuale l’Unione non ha futuro, e al tempo stesso non c’è alcuna soluzione in vista». I poteri di Bruxelles sono ben radicati, «e non hanno alcuna intenzione di abdicare solo perché lo vuole qualche paese, o parte di qualche paese, o qualche partito politico, o qualche gruppo di elettori». E’ la dura realtà: «L’Ue è profondamente antidemocratica e ha tutta l’intenzione di rimanerlo».La Catalogna? «Sono pazzi se pensano di cavarsela in questo modo», cioè lavandosene le mani. «Immaginate che il Belgio “ceda” Puidgemont, l’uomo il cui movimento ha portato la nonviolenza a un livello nuovo e moderno, e immaginate che Rajoy lo condanni a 30 anni di carcere, e che lo stesso individuo il giorno dopo sieda a qualche meeting a Bruxelles. Che quadro verrebbe dipinto davanti agli occhi di 500 milioni di cittadini europei?». Per Raul Ilargi Meijer, semplicemente, l’Unione Europea sta per collassare. Lo scrive in un post su “The Automatic Earth”, ripreso da “Zero Hedge” e tradotto da “Voci dall’Estero”, che osserva: «La situazione attuale non fa altro che esporre per l’ennesima volta la totale inettitudine delle istituzioni unioniste di Bruxelles», mentre nel frattempo «il paese più potente, il vero egemone, la Germania, lascia fare». Ma attenzione: «Le forze armate tedesche si preparano al “caso peggiore”, quello di crollo della Ue». Secondo lo “Spiegel”, infatti, gli strateghi militari della Bundeswehr, per la prima volta, ritengono possibile la fine dell’euro-sistema. E cominciano a preparare piani per proteggere la Germania da un ipotetico collasso dell’Unione Europea.
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Da dove viene il potere di Putin, l’uomo che non sbaglia mai
Esaltato e denigrato con la stessa facilità, Vladimir Putin, 65 anni appena compiuti, per noi è un mistero. Ma non nel senso solito, quello delle gazzette: ex ufficiale del Kgb, “mamma mia che paura”, occhi di ghiaccio e così via. È un mistero, scrive il giornalista Fulvio Scaglione, già corrispondente da Mosca, perché l’Occidente ha adorato da sempre lo stereotipo dello sbirro diventato presidente: da un lato perché è divertente ed esotico, dall’altro perché consente di liquidare una politica ingombrante con quattro luoghi comuni. «Nessuno si è troppo attardato a indagare come sia stato possibile che in piena Perestrojka un agente segreto di seconda fila dei servizi sovietici diventasse il braccio destro di Anatolij Sobciak, il governatore ultraprogressista di San Pietroburgo, che lo difese anche dalle grane che a “Vova” venivano dall’essere alla guida del Comitato per le relazioni esterne della città, incaricato di attrarre e favorire gli investimenti esteri. Posto dove circolavano tanti soldi e tante voci di corruzione». Nessuno che si sia chiesto perché nel 1996, quando il mitico Sobciak perse le elezioni per il governatorato contro l’assai più “politico” Vladimir Jakovlev, Putin non sia stato messo da parte ma invece chiamato a Mosca, dove in tre anni (dicesi tre) compì l’intero grand tour delle poltrone che contavano.Da delegato del Dipartimento per la gestione delle proprietà presidenziali (giugno 1996) Putin ascese alla poltrona di primo ministro (agosto 1999), passando per delegato al Personale dell’Amministrazione Presidenziale, delegato alle Politiche regionali, capo dei servizi segreti interni e membro del Consiglio di sicurezza. «Ricordo gli amici russi quando lo nominarono capo del governo: Putin chi? Non uno che lo conoscesse», scrive Scaglione su “Linkiesta”. E poi, certo: 31 dicembre 1999, Boris Eltsin si dimette; marzo 2000, Putin diventa presidente. «Insomma: Putin è bravo, ok, ma vi pare una storia normale?». A questo passaggio, dieci anni fa Scaglione dedicò quasi metà di un libro (“La Russia è tornata”). La tesi: «Putin non è un carrierista di successo, ma un uomo scelto e allevato per il Cremlino». Da chi? «Da chi comandava all’inizio degli anni Novanta, i “democratici” e quelli del Kgb, che avevano cooperato a liquidare l’elefante Pcus e l’Urss con relativo Gorbaciov ma non ne potevano più di Eltsin e degli sconquassi che agitavano il paese». Qualcosa di simile lo racconta anche il filologo Igor Sibaldi, di madre russa, che vede in Putin l’ultimo terminale del nuovo Kgb fondato da Andropov, che già nell’era Khrushev aveva intuito l’inevitabile collasso dell’Urss, fondando una super-struttura segreta incaricata di tenere in piedi la Russia. Lo stesso Gorbaciov era il protetto di Andropov e veniva pure lui da Kgb, cioè dal network dal quale proviene lo stesso Putin.Anche Scaglione sostiene che Putin è il prodotto di un progetto preciso, a lunga scadenza: «Se ho ragione sarà meglio mettersi seduti e cominciare a ragionare su quanto ancora avremo a che fare con la Russia di Vladimir Putin». Perché è chiaro: se “Vova” è l’astuto arrivista che ha conquistato la cima, finito lui finirà tutto. Se invece Putin ha rappresentato finora la realizzazione di un piano, «allora per certi ambienti occidentali sono cavoli amari, come si dice. E la Russia di Putin forse non finirà con Putin, che peraltro ha solo 65 anni e può star lì un altro bel po’». Nel 1996 Putin viene chiamato a Mosca, e l’anno dopo Zbigniew Brzezinsky, ex segretario di Stato di Jimmy Carter, pubblica il saggio principale diventato la Bibbia degli atlantisti: “La grande scacchiera”. Il sottotitolo era “La supremazia americana e i suoi imperativi geostrategici”. «Chiaro, no? Sulla Russia, Zibi Brzezinski aveva idee precise: bisognava impedire la sua rinascita, anzi sperare che si spezzasse in diversi tronconi. E appoggiare l’allargamento della Ue, per contenerla il più possibile. Ecco, Putin ha mandato tutto questo a banane».Basta fare un piccolo elenco, osserva Scaglione: l’uomo del Cremlino «ha stroncato l’indipendentismo ceceno (nel 1999, quando scoppiò la seconda guerra del Caucaso, ormai subornato dall’islamismo) e ha rafforzato la verticale del potere, restituendo a Mosca il pieno controllo delle regioni e delle province. Frammentare la Russia? Addio». Poi lo “zar” «ha piantato picchetti solidissimi intorno alle risorse naturali della Russia, considerate asset strategico non solo per l’andamento economico del paese ma anche per la sua politica estera: un po’ come la “golden share” del nostro governo su Telecom ma con i modi un po’ più spicci della politica russa». Ovvero: «Mikhail Khodorkovskij vuole portare la Yukos a fare affari con le Sette Sorelle? Via, per un po’ in galera, così ci ripensa. O avete davvero creduto che il buon Misha, che aveva fatto i primi denari nei primi anni Novanta trafficando in valuta, fosse davvero preoccupato per la morale della vita pubblica? Quindi: impedire la rinascita della Russia, con il petrolio per anni sopra i 100 dollari il barile? Addio».E’ sul fronte europeo che Putin, secondo Scaglione, ha patito ciò che Brzezinski sperava: «La Ue si è allargata a tutto l’ex Est, anche a costo di sfrangiarsi e incepparsi, con grande soddisfazione dell’amico americano. E più “Vova” riproponeva l’idea di un’Europa che andasse dall’Atlantico agli Urali (copyright Charles de Gaulle), più gli Usa, sfruttando timori e fobie dei paesi usciti dal blocco sovietico, riproponevano la centralità della Nato e la sua espansione a Est, chiamando Georgia e Ucraina nel “Membership Action Plan” e varando il progetto di scudo missilistico in Polonia e Romania». Anche perché impegnato con le questioni interne, in Europa Putin ha subito, insomma. «E pure la reazione ai fatti di Ucraina, nel 2014, con la riannessione della Crimea e il sostegno alla lotta indipendentista del Donbass (che curiosamente è assai meno compatito della snobbissima Catalogna), sa di catenaccio più che di calcio totale». Però, secondo Scaglione, Putin è stato un buon judoka e due o tre mosse le ha imparate. «Alla spinta americana che voleva confinarlo a Est, il più lontano possibile da un inserimento in Europa e quindi in Occidente, il Cremlino ha reagito in due modi. Con un calcio-falciata laterale (mi pare che si chiami “o soto gari”), colpendo cioè da un’altra parte. Putin ha riportato la Russia in Medio Oriente dove, l’hanno capito anche i sauditi, è tutt’altro che di passaggio».L’attivismo del Cremlino nei paesi islamici è plateale: l’intesa con l’Iran, la fedeltà alla causa della Siria di Bashar al-Assad, il riavvicinamento all’Egitto che nel 1972 aveva espulso i consiglieri sovietici. E poi «la diplomazia con Israele, il tango con la Turchia di Erdogan, la partecipazione alle vicende del mercato mondiale del petrolio» sono tutte vicende che «hanno trasformato la Russia in un’insidia vera per gli Usa, che da decenni spadroneggiano nella regione». E poi, «sfruttando la spinta dell’avversario non potendo respingerla», Putin si è lasciato portare verso Est, «cogliendo l’occasione per un’alleanza strategica con la Cina che con il presidente Xi Jinping aveva abbandonato il tradizionale riserbo e aveva cominciato a picchiare i pugni sulla scena internazionale, dal Mar Cinese meridionale alla Siria». Cina che adesso «si espande in Africa e in Europa, ma intanto ha sete di materie prime, di cui la Russia abbonda». E poi tante altre cose, «belle e brutte, riuscite e non riuscite. Ma anche così, non è un po’ troppo per un uomo solo al comando, per un bruto tenuto in piedi dalle polizie, come ci piace raccontare?».Se così fosse, conclude Scaglione, «avremmo di fronte magari un tiranno ma certo anche un genio della politica, un grande amministratore e un fenomeno dai nervi d’acciaio, capace di sopravvivere a vent’anni di trappole, agguati, inganni, minacce e anche semplici grane. Un superuomo. Un eroe della Marvel. Un Avenger!». “Vova” è bravo, chi può negarlo. «Con il potere si sarà pure sbarazzato di qualche nemico e di qualche amico diventato ingombrante». Ma tutto da solo? «Resto della mia idea di dieci anni fa», insiste Scaglione: Putin è l’ottimo interprete di un grande progetto condiviso dietro le quinte. La pensa così anche Gioele Magaldi, che nel bestseller “Massoni” (Chiarelettere) aggiunge un elemento: sostiene che Putin sia affiliato alla Ur-Lodge “Golden Eurasia”, la stessa di Angela Merkel. E’ una delle 36 superlogge internazionali del massimo potere, dove le grandi decisioni vengono vagliate in anticipo sui tempi della politica. Nemmeno il potere sovietico è mai stato estraneo a quel livello decisionale: lo stesso Lenin, scrive Magaldi, fondò a Ginevra la superloggia (reazionaria) “Joseph De Maistre”. «Putin era un colonnello del Kgb, non un generale», sottolinea Sibaldi, come a dire che i generali ci sono e restano nell’ombra, magari non avendo il talento pubblico del frontman che regna al Cremlino. Chiosa Scaglione: «Lì dietro c’è un’idea, un progetto. E mi sa che continueremo ad averci a che fare per un bel po’».Esaltato e denigrato con la stessa facilità, Vladimir Putin, 65 anni appena compiuti, per noi è un mistero. Ma non nel senso solito, quello delle gazzette: ex ufficiale del Kgb, “mamma mia che paura”, occhi di ghiaccio e così via. È un mistero, scrive il giornalista Fulvio Scaglione, già corrispondente da Mosca, perché l’Occidente ha adorato da sempre lo stereotipo dello sbirro diventato presidente: da un lato perché è divertente ed esotico, dall’altro perché consente di liquidare una politica ingombrante con quattro luoghi comuni. «Nessuno si è troppo attardato a indagare come sia stato possibile che in piena Perestrojka un agente segreto di seconda fila dei servizi sovietici diventasse il braccio destro di Anatolij Sobciak, il governatore ultraprogressista di San Pietroburgo, che lo difese anche dalle grane che a “Vova” venivano dall’essere alla guida del Comitato per le relazioni esterne della città, incaricato di attrarre e favorire gli investimenti esteri. Posto dove circolavano tanti soldi e tante voci di corruzione». Nessuno che si sia chiesto perché nel 1996, quando il mitico Sobciak perse le elezioni per il governatorato contro l’assai più “politico” Vladimir Jakovlev, Putin non sia stato messo da parte ma invece chiamato a Mosca, dove in tre anni (dicesi tre) compì l’intero grand tour delle poltrone che contavano.
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Avremo i tank a Barcellona, il franchismo non è mai morto
L’Europa è stata sorpresa dalla brutalità della polizia spagnola contro il referendum catalano. Brutalità del tutto gratuita, peraltro: se il referendum era illegittimo ed inefficace giuridicamente e politicamente, tam quam non esset, come Rajoi ha sostenuto, perché darsi tanto da fare per impedirlo? In realtà Madrid temeva che andassero a votare più della metà dei catalani, il che, giuridicamente non avrebbe cambiato nulla, ma politicamente avrebbe dato ben più forza contrattuale agli indipendentisti. E la manovra è riuscita perché ha votato meno della metà, anche se nessuno può dire quanti non sono andati a votare per timore delle violenze poliziesche che dimostrano che il franchismo non è proprio del tutto un ricordo del passato. E non c’è dubbio che, al bisogno, Rajoi schiererebbe i carri armati, o avete dubbi in proposito? La radice del problema sta nel modo in cui la Spagna è uscita dal franchismo ed ha fondato l’assetto di potere vigente ancora oggi. Già dalla metà degli anni sessanta, la borghesia spagnola iniziò a pensare di uscire dall’isolamento (la Spagna non faceva parte né della Nato – a differenza del Portogallo né della Comunità europea). E questo avrebbe mantenuto il paese nelle condizioni di strema arretratezza economica in cui era (insieme a Portogallo e Grecia, era il paese più povero dell’Europa Occidentale).Un avvicinamento venne tentato dallo stesso Franco che, a questo scopo, nel 1969 compose un governo con una forte componente Opus Dei, ma invano. La Spagna restava un paese dichiaratamente fascista ed era incompatibile con i trattati istitutivi dell’allora Cee. D’altro canto, nel tardo 1970 un processo a Burgos si concluse con il garrotamento di cinque attivisti baschi che non giovò all’immagine del paese, come anche, quattro anni dopo, la condanna a morte dell’anarchico Puig Antich, garrotato nel marzo 1974. Era chiaro che sinchè Franco fosse vissuto il regime fascista sarebbe durato e sinché la Spagna fosse stata fascista, non sarebbe entrata nella Cee. E peraltro, Franco aveva designato suo successore l’ammiraglio Carrero Blanco per assicurare la continuità del regime. Un contributo indiretto venne dai baschi che, il 20 dicembre 1973 giustiziarono l’ammiraglio con uno spettacolare attentato esplosivo. La meritoria azione basca tolse di mezzo l’unico che avrebbe potuto assicurare la continuità del regime. Il 19 novembre 1975 Franco morì e salì al trono il re Juan Carlos di Borbone che poneva fine alla reggenza del caudillo. Il Re trovò subito l’intesa con la parte moderata della Falange che faceva riferimento al capo del governo Arias Navarro, con il quale avviò il ritorno alla democrazia che fu quasi completato entro il 1976.Nel 1977 le elezioni politiche segnarono la vittoria dell’Unione di Centro Democratico di Adolfo Suarez che ebbe il 34%; i suoi aderenti si dichiaravano formalmente socialdemocratici, liberali, democristiani, ma, in realtà, nelle sue fila si riciclò gran parte del ceto politico franchista mentre un’altra parte confluì nell’Alleanza Popolare di Fraga Iribarne che ottenne l’8% e che proclamava una più diretta filiazione franchista. Sino ai primi anni ottanta il governo restò nelle mani di Suarez. La sinistra ottenne più del 40% fra socialisti, comunisti, baschi e catalanisti, ma il rapporto di forze era assai più sfavorevole dei numeri: il regime fascista era caduto non per una guerra persa, come in Grecia, né per un pronunciamento militare di segno progressista (come in Portogallo), né tantomeno per una insurrezione popolare, ma per una operazione trasformistica dello stesso ceto politico franchista in accordo con la Corona. Il franchismo non venne mai sottoposto ad alcun processo politico o culturale, anzi, la sinistra accettò di buon grado il “pacto dell’olvido” per cui si stendeva una coltre di silenzio sulla storia recente del paese e i monumenti del franchismo, compreso il sacrario della Valle de Los Caidos restavano tutti al loro posto. Soprattutto, non c’era alcuna epurazione delle forze armate di polizia o dell’esercito (da cui verrà fuori quel Tejero che, nel febbraio 1981, tentò il colpo di Stato), dei loro organici e del tipo di formazione delle reclute, donde le odierne brutalità.Stante questa situazione di partenza si comprende come nessuno abbia tentato neppure di rimettere in discussione la monarchia, magari con un referendum istituzionale, e come sia venuta fuori la Costituzione a centralismo castigliano, di cui abbiamo dello nel precedente articolo. Il Re fu il perno intorno a cui si riaggregò il blocco di potere, il garante di una costituzione materiale che mantenesse i rapporti di potere del passato, il punto di riferimento dello sviluppo economico del paese (non a caso, Juan Carlos ebbe, sino alla sua abdicazione, un ruolo attivo in molte trattative economiche, non tutte limpide, peraltro). Ed è impressionante come la sinistra non abbia cercato di far nulla di concreto per rimettere in discussione la monarchia per decenni e nonostante sia stata a lungo al governo. Oggi, anche se lo scettro è nelle mani dell’imbelle Filippo VI (un re che mentre il suo paese rischia la secessione o la guerra civile, tace per cinque giorni per poi andare al soccorso del vincitore, rinunciando ad avere qualsiasi ruolo di mediatore) la situazione cambia poco perchè quel che conta è l’istituto ed il suo rapporto speciale con le forze armate. Di quella antica origine resta anche la debolezza della sinistra in questa occasione: non parliamo dei soliti venduti del Psoe (che come tutti i partiti dell’attuale internazionale socialista sono pronti a qualsiasi tradimento), ma anche dei comunisti e di tutti i componenti di Izquierda Unida che sono stati incapaci di qualsiasi protesta di fronte alle violenze governative. Le ombre del passato spesso sono assai lente a tramontare.(Aldo Giannuli, “Catalogna: le cause vicine nel tempo”, dal blog di Giannuli del 18 ottobre 2017).L’Europa è stata sorpresa dalla brutalità della polizia spagnola contro il referendum catalano. Brutalità del tutto gratuita, peraltro: se il referendum era illegittimo ed inefficace giuridicamente e politicamente, tam quam non esset, come Rajoi ha sostenuto, perché darsi tanto da fare per impedirlo? In realtà Madrid temeva che andassero a votare più della metà dei catalani, il che, giuridicamente non avrebbe cambiato nulla, ma politicamente avrebbe dato ben più forza contrattuale agli indipendentisti. E la manovra è riuscita perché ha votato meno della metà, anche se nessuno può dire quanti non sono andati a votare per timore delle violenze poliziesche che dimostrano che il franchismo non è proprio del tutto un ricordo del passato. E non c’è dubbio che, al bisogno, Rajoi schiererebbe i carri armati, o avete dubbi in proposito? La radice del problema sta nel modo in cui la Spagna è uscita dal franchismo ed ha fondato l’assetto di potere vigente ancora oggi. Già dalla metà degli anni sessanta, la borghesia spagnola iniziò a pensare di uscire dall’isolamento (la Spagna non faceva parte né della Nato – a differenza del Portogallo né della Comunità europea). E questo avrebbe mantenuto il paese nelle condizioni di strema arretratezza economica in cui era (insieme a Portogallo e Grecia, era il paese più povero dell’Europa Occidentale).
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Soros, 18 miliardi a Open Society: nuovo colpo in arrivo?
George Soros ha “donato” 18 miliardi di dollari alla Open Society Foundation, facendo registrare una cifra record per una donazione ad un ente di diritto privato. Il trasferimento di questo ingente quantitativo di denaro sarebbe avvenuto negli anni passati. La notizia, però, è stata ripresa solo ieri dai quotidiani. Il “Wall Street Journal”, al riguardo, ha parlato di “Instant Giant”. Alcuni, ancora, mettono in evidenza come più che di una “donazione” si possa parlare di un “trasferimento di denaro”. L’Open Society Foundation, lo strumento che Soros ha utilizzato per le sue iniziative “filantropiche”, diverrebbe così un vero e proprio gigante della “beneficenza”, ma questo ente, in realtà, è anche il cavallo di Troia che Soros mette puntualmente in moto per le sue campagne progressiste e per orientare mediante i finanziamenti la politica americana e non. Alcuni quotidiani stanno inserendo questa notizia all’interno di una narrativa che vedrebbe Geroge Soros contrapposto a Bill Gates in una sfida tra titani nel campo della “filantropia”. Secondo questo articolo, poi, i 18 milardi di dollari donati da Soros corrisponderebbero all’80% del suo patrimonio totale. Un moto di bontà giunto durante la terza età oppure l’avvio di una campagna spietata sui temi cari al magnate ungherese?Per “Bloomberg”, semplicemente, il gesto sarebbe nato dalla necessità di pagare meno tasse sui gestori degli hedge fund negli Stati Uniti. “Bretibart News”, il portale dell’Alt-Right americana, ha sottolineato, nel riportare la notizia, che Soros è coinvolto, tra le varie campagne più attuali, in azioni contrastanti l’attuale governo israeliano, nel promuovere l’integrazione e l’arrivo dei migranti e in alcune promozioni di campagne pro-aborto in Irlanda. “Breitbart”, ovviamente, si riferisce a Soros come a un influencer che starebbe contribuendo all’invasione islamica dell’Occidente. Il sospetto, per l’Alt-Right e per quanti hanno messo in evidenza le attività di Soros in questi anni, è che il magnate si prepari per mezzo di questo maxifinanziamento ad operare con forza nel campo della geopolitica e in quello degli equilibri economico-finanziari mondo. Leggere le prossime mosse, in questo senso, potrebbe risultare decisivo. Un obiettivo possibile è certamente Donald Trump, contro la cui presidenza Soros ha già scommesso.Oltre ad aver finanziato la campagna elettorale di Hilary Clinton, infatti, il fondatore della Open Society aveva scommesso un miliardo di dollari sul fatto che Trump non vincesse le elezioni presidenziali. Sappiamo com’è andata a finire. Ultimamente, poi, il nome del magnate che ha adottato gli Stati Uniti come seconda patria era stato citato dal quotidiano spagnolo “La Vanguardia” in relazione alla Catalogna. L’Open Society Foundationc ha finanziato con 27.049 dollari il consiglio per la diplomazia pubblica della Catalogna. Indirettamente, quindi, il miliardario avrebbe avuto un ruolo anche nella partita per l’indipendenza catalana. Il fine del maxifinanziamento potrebbe essere quello di allargare ancor di più la sua influenza nel mondo. La fondazione avrebbe dichiarato, tuttavia, di non essere intenzionata ad espandersi nell’immediato. L’Open Society, del resto, è già operativa in 120 nazioni del mondo. Se questo denaro dovesse servire per cercare di modificare indirettamente gli equilibri globali, per sostenere ancor di più l’arrivo dei migranti in Occidente e per sponsorizzare la causa gender e quella favorevole all’aborto, si scoprirà solo nel tempo. Di certo c’è che Soros pare intenzionato a mettere nuovamente mano al portafoglio.(Francesco Boezi, “Quegli strani giri di soldi di Soros: sta preparando un nuovo colpo?”, dal “Giornale” del 19 ottobre 2017).George Soros ha “donato” 18 miliardi di dollari alla Open Society Foundation, facendo registrare una cifra record per una donazione ad un ente di diritto privato. Il trasferimento di questo ingente quantitativo di denaro sarebbe avvenuto negli anni passati. La notizia, però, è stata ripresa solo ieri dai quotidiani. Il “Wall Street Journal”, al riguardo, ha parlato di “Instant Giant”. Alcuni, ancora, mettono in evidenza come più che di una “donazione” si possa parlare di un “trasferimento di denaro”. L’Open Society Foundation, lo strumento che Soros ha utilizzato per le sue iniziative “filantropiche”, diverrebbe così un vero e proprio gigante della “beneficenza”, ma questo ente, in realtà, è anche il cavallo di Troia che Soros mette puntualmente in moto per le sue campagne progressiste e per orientare mediante i finanziamenti la politica americana e non. Alcuni quotidiani stanno inserendo questa notizia all’interno di una narrativa che vedrebbe Geroge Soros contrapposto a Bill Gates in una sfida tra titani nel campo della “filantropia”. Secondo questo articolo, poi, i 18 milardi di dollari donati da Soros corrisponderebbero all’80% del suo patrimonio totale. Un moto di bontà giunto durante la terza età oppure l’avvio di una campagna spietata sui temi cari al magnate ungherese?
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Scappare da Madrid? Ovvio: la storia della Spagna è feroce
Barcellona vorrebbe smarcarsi da Madrid ma non da Bruxelles, che deprime le autonomie nazionali, ma bisogna capire la rivolta contro il centralismo iberico, imposto sempre e solo con brutalità della peggior monarchia europea e poi dal franchismo, una dittatura persino più feroce di quella nazista. Lo afferma il politologo Aldo Giannuli, osservando la crisi catalana in precaria evoluzione, fra richieste di dialogo e minacce di repressione. «La questione catalana sembra essersi impantanata, ma emergono i primi segni di cedimento del fronte indipendentista», scrive Giannuli nel suo blog. «Non sappiamo come andrà a finire, ma l’episodio ha comunque una sua gravità». Giusta la pretesa di autodeterminazione e la rivendicazione di indipendenza, ma resta un problema non sciolto alla base, ovvero: chi è il soggetto titolare di questo diritto? E come delimitarlo? Se era puro delirio quello di Bossi sul “popolo padano”, in un Nord Italia rappresentato da piemontesi, liguri, emiliani e lombardo-veneti più milioni di meridionali e importanti minoranze anche linguistiche (valdostani, altoatesini, ladini, friulani e occitani), perché invece uno spagnolo dovrebbe pensarla diversamente, a proposito della Catalogna?«Certo il caso catalano è molto più definito, e il popolo catalano è una entità decisamente più omogenea e storicamente fondata del popolo padano, che non esiste», premette Giannuli. Ma questo “distinguo” potrebbe valere anche per i baschi, per gli andalusi o per i galiziani, «che hanno una identificabilità più o meno netta», a cominciare proprio dai baschi. E allora, si domanda lo storico dell’ateneo milanese, dov’è la soglia oltre la quale possiamo identificare un popolo-nazione demarcato rispetto agli altri? Ad applicare la formula di Pasquale Stanislao Mancini (comunità di lingua, di religione, di cultura, di storia) nessuno degli Stati nazionali oggi esistenti risulterebbe conforme ad essa, «e tantomeno nel tempo della globalizzazione, basato su un intenso nomadismo». Peraltro, aggiunge Giannuli, la costruzione dell’Unione Europea «ha indebolito fortemente sia i poteri che la legittimazione degli Stati nazionali, risvegliando antichi separatismi più o meno dormienti», anche se «quello catalano non è stato mai davvero dormiente». Di fatto, l’Ue «ha messo a nudo tutte le debolezze della costruzione dei vari Stati nazionali». In particolare, sottolinea Giannuli, «la Spagna non è mai esistita se non come dominio brutale della Castiglia su tutte le altre parti del paese».Brutta, l’architettura statuale iberica: «Una costruzione priva di ogni reale consenso e giustificata solo da un disegno imperiale, peraltro naufragato da secoli e sopravvissuto solo nell’immaginario legato ad una delle monarchie più squalificate d’Europa», sostiene Giannuli. «E’ sintomatico che le spinte indipendentiste si siano attenuate durante le due brevi parentesi repubblicane (1873-74 e 1931-39) quando si posero le basi di un ordinamento di tipo para-federalista». Al contrario, «il centralismo monarchico ha sempre ravvivato le spinte alla separazione». Anche lo Stato italiano è nato come prodotto dell’espansionismo sabaudo? Vero, ma con enormi differenze: il Risorgimento ebbe anche una componente democratica e repubblicana, poi battuta dal “partito moderato” di cui parla Gramsci. Blocco moderato che comunque «ebbe un ruolo che ha caratterizzato in parte lo Stato italiano». Nel caso spagnolo, invece non c’è traccia di questa spinta dal basso: nel XV secolo «tutto è stato deciso solo come conquista castigliana». Da noi, Torino cedette il ruolo di capitale: Firenze, poi Roma. Quello italiano «fu sempre un centralismo imperfetto», in equilibrio coi vari regionalismi.In Italia, continua Giannuli, hanno giocato un ruolo i mutevoli equilibri fra i diversi “partiti regionali”. «Ne è conseguito che il “partito moderato” ha sempre avuto caratteristiche più sociali (blocco delle classi possidenti, monarchia, esercito, burocrazia) che territoriali: l’esercito restava a lungo a preminenza piemontese ma la burocrazia divenne ben presto interregionale ed a centralismo romano, mentre le classi possidenti avevano la loro capitale nel sud (quelle agrarie) e in Lombardia, Toscana e Piemonte (quelle industriali e finanziarie)». Al contrario, in Spagna esiste un unico blocco sociale dominante, quello della Castiglia: e questo attizza i risentimenti regionali. Se quella dell’Italia è «una storia di tipo inclusivo», fondata sulla mediazione, la Spagna «viene da una storia terribile» basata sullo sterminio ricorrente: i Moriscos andalusi, i Marrani ebrei, il bagno di sangue della guerra civile. Ben raramente Madrid ha incluso e mediato, osserva Giannuli, denunciando il franchismo: «Contro l’immagine corrente, fu un fascismo non più moderato ma più feroce del nazismo». Hitler colpì i socialdemocratici e i comunisti, «ma cercò (e in buona parte riuscì) a riassorbire la base socialdemocratica e comunista nel suo sistema di consenso: nei campi di sterminio finirono ebrei, omosessuali, zingari, ma solo in minima parte comunisti e socialisti». Viceversa, il franchismo «procedette all’insegna della “limpieza”, pulizia non etnica ma politica e ideologica».La ferocia delle esecuzioni disgustò persino Galeazzo Ciano, ricorda Giannuli. E ancora dopo la fine della guerra civile, il regime del “caduillo” continuò per quasi 10 anni con la repressione, il cui conto finale è ignoto, ma si parla di 400.000 vittime. Cifra forse esagerata? Non importa: anche se le vittime sono state la metà o un quarto, bastano e avanzano a definire la guerra civile spagnola come «la più feroce della storia moderna d’Europa». E questo, conclude Giannuli, ha un peso anche sul presente: perché la storia, anche quella più lontana, non è mai priva di conseguenze, «a maggior ragione nel caso di un paese che non ha mai fatto i conti con il suo passato dittatoriale». In questa situazione oggi «arriva la globalizzazione, che dice che gli Stati nazionali non hanno più senso». E in Europa «questo si accompagna a uno sconclusionato disegno di unità continentale che, in realtà, è l’alleanza dei sistemi nazionali di potere nella loro staticità e trasferisce poteri ad un centro tecnocratico». E’ ovvio, annota lo storico, che questo «si traduce in una delegittimazione degli Stati nazionali, in una messa a nudo delle illegittimità dei loro sistemi di potere». Risultato: «Si producono irrefrenabili spinte centrifughe», come dimostra il caso di Barcellona.Barcellona vorrebbe smarcarsi da Madrid ma non da Bruxelles, che deprime le autonomie nazionali, ma bisogna capire la rivolta contro il centralismo iberico, imposto sempre e solo con brutalità della peggior monarchia europea e poi dal franchismo, una dittatura persino più feroce di quella nazista. Lo afferma il politologo Aldo Giannuli, osservando la crisi catalana in precaria evoluzione, fra richieste di dialogo e minacce di repressione. «La questione catalana sembra essersi impantanata, ma emergono i primi segni di cedimento del fronte indipendentista», scrive Giannuli nel suo blog. «Non sappiamo come andrà a finire, ma l’episodio ha comunque una sua gravità». Giusta la pretesa di autodeterminazione e la rivendicazione di indipendenza, ma resta un problema non sciolto alla base, ovvero: chi è il soggetto titolare di questo diritto? E come delimitarlo? Se era puro delirio quello di Bossi sul “popolo padano”, in un Nord Italia rappresentato da piemontesi, liguri, emiliani e lombardo-veneti più milioni di meridionali e importanti minoranze anche linguistiche (valdostani, altoatesini, ladini, friulani e occitani), perché invece uno spagnolo dovrebbe pensarla diversamente, a proposito della Catalogna?
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Mariano Rajoy, il pericoloso idiota che serve all’oligarchia
Mariano Rajoy è un pericoloso idiota. E sarebbe il caso che i suoi amici del Partito popolare europeo se ne rendessero conto in fretta. Se davvero i democristiani del Vecchio continente, assieme ai socialisti un po’ ovunque loro alleati, vogliono essere il baluardo contro quello che definiscono la minaccia del vento populista dovrebbero affermare un principio chiaro, precedente a ogni legge e Costituzione: nessun governo può ordinare di picchiare, malmenare, manganellare decine di migliaia di manifestanti inermi e non violenti. Le immagini della Guardia Civil travestita da Dart Fener, che si contrappone alle divise pacifiche e colorate dei pompieri, colpendo a sangue donne anziane e ragazzi con le mani alzate sono la propaganda migliore per chi denuncia (a volte non a torto) gli abusi di un establishment apparentemente interessato solo a conservare il proprio potere.I tanti dotti commenti che in questi giorni, anche sulla stampa nostrana, si limitano a sottolineare come il referendum per l’indipendenza della Catalogna fosse illegale perché non previsto dalla Costituzione, sono miopi e ridicoli. È vero infatti che da sempre nelle democrazie l’uso legittimo della violenza è demandato allo Stato anche per mantenere l’ordine costituito. Ma è evidente che nella società contemporanea la forza deve essere l’extrema ratio, che le sue conseguenze vanno ponderate con cura e che prima di farvi ricorso va battuta ogni strada. La domanda da porsi è dunque una sola: c’erano altre vie? Le cronache che in questi mesi sono giunte dalla Spagna sono unanimi nel rispondere di sì. Basti pensare che Rajoy nel 2010 portò davanti alla Corte costituzionale (che in Spagna è di nomina solo politica) e fece cassare il nuovo statuto per l’autonomia della Catalogna siglato nel 2006 tra il suo predecessore José Zapatero e l’allora amatissimo ex sindaco di Barcellona, Pasqual Maragall.Così, oggi, le centinaia di migliaia di persone che scendono in piazza per protestare contro la violenza di Stato, fanno diventare un gigante politico l’alcadesa Ada Colau. Lei, che da subito aveva annunciato il suo no alla secessione nel referendum poi soffocato nel sangue, si era battuta perché i catalani si potessero comunque esprimere. Il perché è evidente. In un territorio in cui si parla una lingua diversa da quella dello Stato centrale e dove i partiti indipendentisti – ma quasi sempre europeisti – raccolgono il 48 per cento dei consensi, impedire ai cittadini di votare è impossibile (come ci ha insegnato il Regno Unito con la Scozia). Compito della politica è invece quello di prendere atto della situazione e trovare le vie per una mediazione. Anche perché, spesso, come ripeteva Leo Longanesi in uno dei suoi fulminanti aforismi, «un’idea che non trova spazio a tavola è capace di fare la rivoluzione».Il refrain “ma la Costituzione non lo prevede” in questo caso è solo l’ultimo rifugio di chi teme che quanto sta accadendo in Catalogna (per ragioni diverse dall’indipendenza) possa ripetersi altrove. Di chi alla realtà sa solo opporre incapacità e arroganza. Seguendo questa logica, se domani in Spagna un partito repubblicano raccogliesse il 50% e più dei consensi, il referendum per decidere se uscire dalla monarchia dovrebbe essere comunque vietato. E pure l’Europa, che spesso a vanvera si dichiara dei popoli, dovrebbe schierarsi con le truppe del Re contro i cittadini. Dimostrando che oggi il pericolo più grande corso dalle nostre democrazie non è la dittatura o il populismo, ma la sorda e cieca oligarchia.(Peter Gomez, “Mariano Rajoy, il pericoloso idiota che serve all’oligarchia”, da “Il Fatto Quotidiano” del 4 ottobre 2017).Mariano Rajoy è un pericoloso idiota. E sarebbe il caso che i suoi amici del Partito popolare europeo se ne rendessero conto in fretta. Se davvero i democristiani del Vecchio continente, assieme ai socialisti un po’ ovunque loro alleati, vogliono essere il baluardo contro quello che definiscono la minaccia del vento populista dovrebbero affermare un principio chiaro, precedente a ogni legge e Costituzione: nessun governo può ordinare di picchiare, malmenare, manganellare decine di migliaia di manifestanti inermi e non violenti. Le immagini della Guardia Civil travestita da Dart Fener, che si contrappone alle divise pacifiche e colorate dei pompieri, colpendo a sangue donne anziane e ragazzi con le mani alzate sono la propaganda migliore per chi denuncia (a volte non a torto) gli abusi di un establishment apparentemente interessato solo a conservare il proprio potere.
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Blondet: tranquilli, la Lombardia non farà alcuna secessione
Il secessionismo catalano apre la stagione degli altri indipendentismi? Aspettiamoci sorprese dai baschi, dagli scozzesi, dalle componenti etniche dell’Ucraina. E il famigerato Nord-Est italiano? Fra i motivi dell’indipendentismo dei catalani – bottegai – c’è quello dei residui passivi: la regione ricca è stufa di pagare 8 miliardi l’anno agli altri spagnoli. E la Lombardia? Dà ogni anno all’Italia 54 miliardi di euro; che finiscono tutti nell’alimentare il cialtronismo parassitario e la criminalità organizzata del Meridione, all’autonomia siciliana, a Roma capitale del disastro, senza alcun vantaggio per i cittadini meridionali. Puro spreco, e colossale: ogni famiglia lombarda di 4 persone si vede privata ogni anno di 23.000 euro (il costo di un’auto) che potrebbero essere impiegati molto più produttivamente al Nord, in investimenti e infrastrutture moderne, in corsi d’eccellenza per i figli, in università piene di Premi Nobel esteri chiamati dagli alti stipendi, in rifacimenti urbanistici radicali, necessari ad una città che da industriale e siderurgica, è diventa la capitale globale della moda… E non è solo la Lombardia. In Emilia, una famiglia di 4 persone viene privata annualmente di 14.000 eiro. Una famiglia veneta, di oltre 12.000: una emorragia che finisce nelle tasche del Sud criminale, non di quello onesto.La Lombardia si metterà alla testa di questa istanza di giustizia del Nord-Est? E’ stato pur indetto un referendum sull’autonomia, si celebrerà il 22 ottobre. Tremate, parassiti! Anzi no, contrordine. State pur tranquilli, parassiti. La Lombardia non ha alcuna ambizione politica. Non ha mai avuto la minima volontà di “comandare”, né Milano di essere “capitale”. Si è sempre messa volentieri sotto il dominio straniero, senza mai la minima ribellione: spagnoli, austriaci, i francesi di Napoleone, oggi la cosiddetta “Europa” stupida e oppressiva, sono sempre stati padroni benvenuti, perché sollevavano i milanesi dal peso di governare. L’unica volta che hanno avuto impulsi “politici”, nel cosiddetto Risorgimento, è stata una moda della sua classe ricca, “patriottica”, anti-absburgica; ma anche lì, solo il tempo di consegnarsi ai piemontesi, questi avidi e arretrati militaristi da quattro soldi, e dare loro le chiavi (e le casse) della città e della regione più ricca d’Italia. La Lombardia è, più che qualunque altro pezzo di terra italiota, una espressione geografica.La sola volta in cui fu capitale, fu nel 286 dopo Cristo, per scelta non propria, ma di Diocleziano: capitale dell’Impero d’Occidente, nientemeno. In quanto capitale, l’impero la ornò di una urbanistica grandiosa, monumentale, bellissima: la Porta Romana entrava in città dopo un percorso di 4 chilometri di porticato ai due lati; c’erano un circo, uno stadio, grandi basiliche, grandi e straordinarie terme. I portici monumentali di Porta Romana a Milano: possiamo solo immaginarli. Non è rimasto nulla di questa grandiosa bellezza. Praticamente, solo le colonne di San Lorenzo e della basilica di Costantino, sacrilegamente attraversata fino a ieri dai tram. Furono i milanesi stessi, ciechi e sordi al richiamo dell’ambizione che quei monumenti evocavano, a distruggerli, divorarli per recuperarne i mattoni e i marmi – in pochi decenni, Milano riprese l’aspetto dimesso, rurale e operaio, che è il suo. La tuta da lavoratore al posto delle vesti di velluto imperiale.La “bruttezza” di Milano moderna, una bruttezza unica fra le città italiane, anche più piccole (pensate a Parma, a Verona, a Padova) è il sintomo di questa sua mancanza di ambizione. Non vuole comandare, non ha classe dirigente: quando si è sforzata, ha dato a Roma Berlusconi e Bossi, l’ultimo un ladruncolo di denaro pubblico per i figli e la famiglia, un vero “terrone”, l’altro un pirla superficiale e irresponsabile che si vanta di essere “imprenditore” invece che statista. E non è nemmeno imprenditore: al più, impresario, capocomico. E il referendum sull’autonomia? Persino i leghisti della base forse non lo voteranno. I milanesi, secondo i sondaggi, in maggioranza schiacciante non andranno a votare, non capiscono di cosa parli. Dormite tranquilli, cialtroni e parassiti.(Maurizio Blondet, estratto dal post “La Catalogna apre la stagione delle secessioni, ma non qui”, pubblicato sul blog di Blondet il 2 ottobre 2017).Il secessionismo catalano apre la stagione degli altri indipendentismi? Aspettiamoci sorprese dai baschi, dagli scozzesi, dalle componenti etniche dell’Ucraina. E il famigerato Nord-Est italiano? Fra i motivi dell’indipendentismo dei catalani – bottegai – c’è quello dei residui passivi: la regione ricca è stufa di pagare 8 miliardi l’anno agli altri spagnoli. E la Lombardia? Dà ogni anno all’Italia 54 miliardi di euro; che finiscono tutti nell’alimentare il cialtronismo parassitario e la criminalità organizzata del Meridione, all’autonomia siciliana, a Roma capitale del disastro, senza alcun vantaggio per i cittadini meridionali. Puro spreco, e colossale: ogni famiglia lombarda di 4 persone si vede privata ogni anno di 23.000 euro (il costo di un’auto) che potrebbero essere impiegati molto più produttivamente al Nord, in investimenti e infrastrutture moderne, in corsi d’eccellenza per i figli, in università piene di Premi Nobel esteri chiamati dagli alti stipendi, in rifacimenti urbanistici radicali, necessari ad una città che da industriale e siderurgica, è diventa la capitale globale della moda… E non è solo la Lombardia. In Emilia, una famiglia di 4 persone viene privata annualmente di 14.000 eiro. Una famiglia veneta, di oltre 12.000: una emorragia che finisce nelle tasche del Sud criminale, non di quello onesto.