Archivio del Tag ‘indole’
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Il Conte Zio: si finge Zorro l’eurogrillino “falce e mattarella”
Chi è Conte e come si comporterà, ci chiedevamo quando fu insediato premier. Queste erano le considerazioni che facemmo, più di un anno fa. Abbiamo quattro ingredienti di partenza per costruire un suo ritratto: il curriculum falsato o gonfiato che sarà un vizio diffuso ma lo rende un po’ sbruffone e un po’ inaffidabile (miles gloriosus, per i colti). Poi la sua temeraria adesione al fantagoverno grillino prima del voto, e la sua pronta accettazione di un incarico nonostante la sua Verginità Assoluta, anzi in virtù della sua verginità assoluta. Quindi le sue prime dichiarazioni che denotano la sua pronta adesione all’ideologia nazionale, il Cerchiobottismo, in cui il Professore si è dimostrato un eurogrillino falce e mattarella, per compiacere tutti e procedere senza spigoli, rotolando come si addice ai cerchi. Infine il suo modo di presentarsi, la sua sincera emozione e il suo simpatico inciampare nelle parole, qualche traccia di dauno e un po’ meno di visiting professor nelle università più fantastiche del pianeta. Il suo sguardo mi ha ricordato qualcuno. Il suo volto, i suoi occhi, la sua modesta altezza e la sua evidente smisurata ambizione. I suoi fogli inseparabili. Ma sì, era lui, somiglia a Silvio, il Berlusconi del ’93, il Berlusconi che scende in campo e lo annuncia urbi et orbi.Fermate alcuni fotogrammi e paragonate. Viso lungo, occhio furbo, sguardo in cerca di accattivare. Berlusconi coi capelli. Con l’età quasi ci siamo, la differenza è tricologico-imprenditoriale, qualche capello in più e qualche azienda in meno. E l’inflessione non brianzola, la differente capacità comunicativa; versione rustico-accademica di Berlusconi, populismo meridional-avvocatesco. Solo che lui il lifting, il riporto lo fa al curriculum anziché alla capigliatura. A vederlo meglio, la sua espressione è un incrocio preciso tra Berlusconi e Tonino Capacchione da Margherita di Savoia, mio amico, che ha le terre in quel di Zapponeta, dalle parti del prof. Ecco, sparsi i pezzi del mosaico provo a comporre un ritratto non reale ma surreale del Professore, fino a leggergli la mano, la fronte e il futuro. Se tanto mi dà tanto, e se conosco l’indole pugliese-levantina (a cui appartengo) che pure incide benché in percentuale bassa, il professore sarà presto un’entità autonoma da Di Maio, si metterà uno studio in proprio a Palazzo Chigi e giocherà ai due forni, le Istituzioni e il Popolo, Mattarella e i grillini, gli eurocrati e gli eurofobi (nuovo reato in via di formazione, primo imputato il professor Savona).Il suo primario interesse sarà restare in piedi. E tifa per la sua durata, ma sotto traccia, quasi l’intero Parlamento per ragioni di autoconservazione. Sarà quello il vero collante, di natura personale. Ma torno sul professore e su quei tratti preliminari. Se tanto mi dà tanto, dai curriculum farciti allo spirito d’avventura d’imbarcarsi in questa impresa, dalle sue parole ai suoi sguardi, ho l’impressione che sarà pronto all’infedeltà, mascherata da una superiore fedeltà al suo ruolo, alle istituzioni, al mandato divino. In Italia il passaggio dal cerchiobottismo al paraculismo è facile e anche rapido… Però a me questo Conte avvocato del popolo ricorda qualcuno, che conoscevo da bambino. Ma sì, El Zorro, che poi vuol dire Volpe. Eccolo, il Conte Zorro, un accademico appartato e schivo che si mette la mascherina, prende il cappello a cinque stelle, sguaina la spada e combatte nel nome del popolo contro il Palazzo che egli stesso frequenta quando è in borghese. Pronto ad arrampicarsi ai lampadari per togliere ai ricchi e dare ai poveri. O almeno fingere di farlo, per accontentare il pubblico pagante e i produttori del film. Sì, alla fine è la fiction, è il film l’unica chiave di lettura… Non può essere vero quello che stiamo vivendo. Lui, loro e noi.(Marcello Veneziani, “Il Conte Zio”, dal blog di Veneziani del 13 agosto 2019).Chi è Conte e come si comporterà, ci chiedevamo quando fu insediato premier. Queste erano le considerazioni che facemmo, più di un anno fa. Abbiamo quattro ingredienti di partenza per costruire un suo ritratto: il curriculum falsato o gonfiato che sarà un vizio diffuso ma lo rende un po’ sbruffone e un po’ inaffidabile (miles gloriosus, per i colti). Poi la sua temeraria adesione al fantagoverno grillino prima del voto, e la sua pronta accettazione di un incarico nonostante la sua Verginità Assoluta, anzi in virtù della sua verginità assoluta. Quindi le sue prime dichiarazioni che denotano la sua pronta adesione all’ideologia nazionale, il Cerchiobottismo, in cui il Professore si è dimostrato un eurogrillino falce e mattarella, per compiacere tutti e procedere senza spigoli, rotolando come si addice ai cerchi. Infine il suo modo di presentarsi, la sua sincera emozione e il suo simpatico inciampare nelle parole, qualche traccia di dauno e un po’ meno di visiting professor nelle università più fantastiche del pianeta. Il suo sguardo mi ha ricordato qualcuno. Il suo volto, i suoi occhi, la sua modesta altezza e la sua evidente smisurata ambizione. I suoi fogli inseparabili. Ma sì, era lui, somiglia a Silvio, il Berlusconi del ’93, il Berlusconi che scende in campo e lo annuncia urbi et orbi.
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Feltri l’antiromano, delizioso antropofago proto-gialloverde
Se Vittorio Feltri è diventato Vittorio Feltri, lo deve a tante qualità e a qualche suo difetto, ma lo deve sotto sotto a una cosa: non si è mai fatto sedurre, conquistare, tentare dalla Gloriosa Baldracca di nome Roma. È rimasto refrattario al fascino lascivo di lei, incorruttibile, non è mai sceso nella Capitale per dirigere giornali, per trafficare indulgenze e complicità, è sempre stato al di là del Rubicone, anzi nel regno dei Lombardi. Ha considerato i romani perfino peggio dei meridionali, il che per lui è tutto dire. Il viaggio della sua vita è stato da Bergamo a Milano, e lì è il suo sapore e la sua salvezza. Se pensi a tutti i giornali che ha diretto, ha fondato, ha ribattezzato, te li trovi tutti a Milano e paraggi. Non solo i giornali da cui è partito, come è inevitabile per chi viene dalla provincia. Ma anche quelli in cui è cresciuto e si è affermato: dall’“Eco di Bergamo” alla “Notte”, dal “Corriere della Sera” all’“Europeo”, dall’“Indipendente” al “Giornale”, da “Libero” alle altre avventure di passaggio. Perfino l’unico settimanale che ha diretto di passaggio, e che era diventato romano, “Il Borghese”, lui lo fece a nord e poi lo usò come un utero in affitto per partorire “Libero”.A proposito di “Borghese”, è uscito un suo bel libro, autobiografico, nell’inconfondibile stile feltriano, intitolato “Il Borghese” (ed. Mondadori), ma non allude al settimanale di Longanesi e dei Tedeschi (pater et filius), ma a se stesso. E Feltri in effetti può dirsi almeno per metà borghese. Ma a differenza dei borghesi italioti, Feltri ama sì, i costumi borghesi, i perfetti abiti borghesi, lo stile gentleman e alcuni modi di vivere straborghesi, ma è ispido, un po’ selvatico, paleoleghista, capace di fregarsene dei bei modi borghesi. Ama la borghesia del nord, non quella romana, il generone parastatale, vaticanesco e alla vaccinara. Ma quel suo modo di essere, quel suo modo di preferire cavalli e gatti a romani e migranti, lo ha reso quel che è. È forse l’unico personaggio di cui Crozza fa una caricatura perfino più moderata rispetto all’originale. Ma quell’indole, quel bossismo interiore ma con giacche firmate e non in canottiera, lo ha vaccinato dai compromessi col potere romano, col sottobosco della capitale e gli ossequi alla curia. Insomma il contrario di Gianni Letta, che è stato il miglior cerimoniere, il miglior diplomatico, l’unico cardinale prestato dalla curia al giornalismo e alla politica.Nelle sue pagine, Feltri parla dei suoi incontri con alcuni potenti, Fanfani, Andreotti, che collaborò col suo Europeo, Craxi, che egli attaccò come Cinghialone ma poi difese quando finì in esilio e rivalutò da morto. Si capisce che non ha mai trescato con loro. Non è mai sceso a patti col potere, ma non per chissà quale Visione etica e trascendentale, ma per una ragione più semplice e più schietta: il carattere. Allergico ai salamelecchi, ai minuetti, ai cedimenti, pratico, mai contorto. Fu burbero e scontroso anche coi suoi editori, incluso Berlusconi. Non a caso si diceva “Il Giornale di Feltri” e non, come poi si è detto, “il Giornale di Berlusconi”. Posso testimoniare che con lui ho avuto il massimo di libertà di scrivere e pure di criticare il berlusconismo, il centro-destra e paraggi. Se un’opinione non gli piaceva, pensava ai lettori che l’avrebbero condivisa e magari vi opponeva un’opinione in senso contrario. Ma la sua forza è sempre stata il mercato, aveva i numeri dalla parte sua, aveva le copie, e se all’editore non andava giù qualcosa, lui poteva andarsene a fondare un altro giornale.Epica fu la stagione de “L’Indipendente”, gloriosa quella del “Giornale”, nientemeno dopo Montanelli, il suo dio fondatore, che lui raddoppiò nelle vendite. E poi “Libero”. Andò di successo in successo, dando voce a quella metà d’Italia che i potentati giornalistici ignoravano. Posso dire d’aver partecipato a tutte le sue imprese di successo, meno a un paio che successo ne ebbero un po’ meno. Feltri è stato il precursore del berlusconismo in politica, del bossismo, del centro-destra e un po’ anche del Vaffa grillino; ha rappresentato l’altra metà del mondo, ora in maggioranza, i cani sciolti e gli arrabbiati, la borghesia delusa e spaventata. E dev’essere un gran cruccio ora vedere che più di mezza Italia la pensa come lui in molte cose ma i giornali più vicini a quell’area di umori e malumori non sfondano, perché la gente non legge più. Esprime umori, non cerca opinioni. Con Feltri c’incontrammo perché lo invitai a scrivere per “L’Italia Settimanale” nel ’92 e insieme sostenemmo l’alleanza ibrida che poi prese corpo. Ricordo che gli chiesi un commento sul tema “Se cani e gatti si alleassero”, che precorse il Polo delle Libertà. Poi lasciai il “Giornale” di Montanelli per seguirlo all’“Indipendente”, tornai con lui al “Giornale” lasciando la redazione Rai; poi a “Libero”, e ancora al “Giornale”.L’unica parentesi critica fu col “Borghese” – lui direttore e io direttore editoriale – accorpato con un settimanale che dirigevo io, “Lo Stato”. Lui chiuse l’inserto culturale, lo “Stato delle Idee”, gli editori infilarono cassette semi-porno nella rivista, e io nel nome di Longanesi e della dignità me ne andai. Lo reincontrai una volta a Roma al Matriciano ma fingemmo di non vederci. L’incontro fatale fu su un treno Roma-Milano. Stavo andando in bagno, era occupato, si liberò in quel momento e uscì Feltri. Eravamo faccia a faccia. Avevo tutto da perdere nello stringergli la mano perché il 50% degli italiani, bergamaschi inclusi, non si lava le mani dopo la pipì. Ma fu giocoforza. Riuniti per la prostata. Poi riprendemmo il nostro strano sodalizio senza frequentazione, adozione a distanza, ammirazione e forse affetto, ma senza darlo a vedere. Lui nordista io sudista, lui lombardocentrico io romanocentrico, io nazionalista lui padano-individualista, lui liberista io destra-sociale, io per la cultura lui per il giornalismo duro e puro. Ma la divergenza fu il sale della nostra unione, non dirò che fummo precursori della coppia Di Maio-Salvini, ma ci siamo capiti…Feltri ha dato sapore e brio al giornalismo nostrano, ha dato carattere, anche brutto, ha dato inventiva e titoli esagerati ma efficaci. Nel momento in cui cadevano gli dei del giornalismo, Bocca, Biagi, Montanelli, Fallaci – a cui Feltri dedica in queste pagine succosi ritratti- lui è rimasto solo. El Diretur. Se Vittorino da Feltre fu un grande umanista, Vittorione Feltri è un delizioso antropofago che se ne impipa dell’umanità. Il peggior affronto che gli feci, lo riconosco, fu quella volta, vent’anni fa, che lo portai a pranzo dopo una riunione a Roma del “Borghese”. Lo portai ar Pallaro, romanesco che più romano non si può, e lui guardava inorridito il luogo e gli indigeni, come se l’avessi portato in un campo rom o in una baraccopoli africana. Se famo du spaghi dottò? So di avergli fatto passare una brutta ora. Ma non volevo fargli un torto, e neanche la mitica sora Paola der Pallaro lo voleva. È lo spirito sornione della Vecchia Roma che appena sente odore di antiromani li prende in ostaggio, dà il peggio di sé, e se mette a‘ cojonà il suo nemico. Che spettacolo indimenticabile fu Feltri cacio e pepe.(Marcello Veneziani, “Feltri l’antiromano”, da “Il Tempo” del 21 settembre 2018, articolo ripreso sul blog di Veneziani. Il libro: Vittorio Feltri, “Il borghese. La mia vita e i miei incontri da cronista spettinato”, Mondadori, 108 pagine, 17 euro).Se Vittorio Feltri è diventato Vittorio Feltri, lo deve a tante qualità e a qualche suo difetto, ma lo deve sotto sotto a una cosa: non si è mai fatto sedurre, conquistare, tentare dalla Gloriosa Baldracca di nome Roma. È rimasto refrattario al fascino lascivo di lei, incorruttibile, non è mai sceso nella Capitale per dirigere giornali, per trafficare indulgenze e complicità, è sempre stato al di là del Rubicone, anzi nel regno dei Lombardi. Ha considerato i romani perfino peggio dei meridionali, il che per lui è tutto dire. Il viaggio della sua vita è stato da Bergamo a Milano, e lì è il suo sapore e la sua salvezza. Se pensi a tutti i giornali che ha diretto, ha fondato, ha ribattezzato, te li trovi tutti a Milano e paraggi. Non solo i giornali da cui è partito, come è inevitabile per chi viene dalla provincia. Ma anche quelli in cui è cresciuto e si è affermato: dall’“Eco di Bergamo” alla “Notte”, dal “Corriere della Sera” all’“Europeo”, dall’“Indipendente” al “Giornale”, da “Libero” alle altre avventure di passaggio. Perfino l’unico settimanale che ha diretto di passaggio, e che era diventato romano, “Il Borghese”, lui lo fece a nord e poi lo usò come un utero in affitto per partorire “Libero”.