Archivio del Tag ‘ingegneria’
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Il “nuovo” Draghi spaventa i mostri del rigore eurocratico
Chi ha paura del “nuovo” Mario Draghi, che – insieme a Christine Lagarde – auspica una governance monetaria che sia l’esatto contrario di quella esibita finora, alla guida della Bce? Dopo gli attacchi arrivati da banche e assicurazioni tedesche, segnala il “Fatto Quotidiano”, la politica di Draghi finisce nel mirino della vecchia guardia dell’Eurotower. «Da ex banchieri centrali e cittadini europei assistiamo con crescente preoccupazione all’attuale modalità di crisi della Bce», si legge nel documento di due pagine firmato tra gli altri dall’ex capo economista della Bce, Juergen Stark. Il sospetto è che il nuovo quantitative easing, cioè il piano di acquisto di titoli di Stato, possa nascondere l’obiettivo di «proteggere i paesi altamente indebitati da un rialzo dei tassi di interesse». Inoltre, secondo gli ex banchieri centrali, i tassi di interesse bassissimi creano effetti redistributivi «a favore dei proprietari di asset immobiliari», che genererebbero «serie tensioni sociali», mentre «le giovani generazioni si vedono private dell’opportunità di provvedere alla vecchiaia con investimenti sicuri che rendano».Il documento è firmato anche da Herve Hannoun, ex vice governatore della Banque de France, dall’ex componente del comitato esecutivo della Bce Otmar Issing, dall’ex governatore della banca centrale austriaca Klaus Liebscher, dall’ex presidente della Bundesbank Helmut Schlesinger e dall’ex governatore della banca centrale olandese Nout Wellink. Le valutazioni sono state condivise anche dall’ex governatore francese Jacques de Larosiere. Il tono del documento è inequivocabile: «L’acquisto protratto di titoli da parte della Bce difficilmente produrrà un effetto positivo sulla crescita». Parole che sembrano comiche, se si tiene conto che a pronuciarle sono proprio gli ingegneri europei della non-crescita deliberata. Uomini come Issing, che – prima ancora dello stesso Draghi – hanno teorizzato apertamente la disciplina del massino rigore nei conti pubblici, condannando in tal modo i paesi Ue alla sofferenza economica. E infatti, ecco il punto: «Da un punto di vista economico, la Bce è già entrata nel territorio del finanziamento monetario della spesa dei governi, che è strettamente proibita dai Trattati», cioè gli accordi-sciagura su cui è stata costruita la stessa Eurozona.Due giorni prima, ricorda sempre il “Fatto”, Draghi era stato attaccato dal capo della più grande compagnia assicurativa europea, Oliver Baete della tedesca Allianz, che in un’intervista al “Financial Times” ha sostenuto che il banchiere centrale europeo non sarebbe indipendente dai governi. «La ragione per la quale non stiamo facendo riforme fiscali è perché tu stai rendendo facile per la gente spendere soldi che non ha», ha detto l’amministratore delegato di Allianz. «Mi dispiace. Invero abbiamo creato banche centrali indipendenti affinché questo non succedesse, affinché le banche centrali non stampassero denaro. La gente dice che Draghi è indipendente. No, non lo è», ha sostenuto. Getta la maschera, il potere finanziario eurocratico: voleva una Bce arcigna e non disponibile a garantire lo svilippo dell’economia reale con gli eurobond? Draghi ha eseguito gli ordini, per anni. Solo ora, lasciando l’incarico, evoca scenari di segno opposto. E questo, a quanto pare, basta a scatenare il panico tra i signori dell’austerity, quelli che hanno letteralmente sabotato proprio quelle “giovani generazioni” che fingono di tutelare.Chi ha paura del “nuovo” Mario Draghi, che – insieme a Christine Lagarde – auspica una governance monetaria che sia l’esatto contrario di quella esibita finora, alla guida della Bce? Dopo gli attacchi arrivati da banche e assicurazioni tedesche, segnala il “Fatto Quotidiano”, la politica di Draghi finisce nel mirino della vecchia guardia dell’Eurotower. «Da ex banchieri centrali e cittadini europei assistiamo con crescente preoccupazione all’attuale modalità di crisi della Bce», si legge nel documento di due pagine firmato tra gli altri dall’ex capo economista della Bce, Juergen Stark. Il sospetto è che il nuovo quantitative easing, cioè il piano di acquisto di titoli di Stato, possa nascondere l’obiettivo di «proteggere i paesi altamente indebitati da un rialzo dei tassi di interesse». Inoltre, secondo gli ex banchieri centrali, i tassi di interesse bassissimi creano effetti redistributivi «a favore dei proprietari di asset immobiliari», che genererebbero «serie tensioni sociali», mentre «le giovani generazioni si vedono private dell’opportunità di provvedere alla vecchiaia con investimenti sicuri che rendano».
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Petizione: la Gruber è faziosa, va cacciata da Otto e mezzo
«Non si permetta, io non dico sciocchezze!». L’ultima a protestare è Giorgia Meloni, che si è sentita presa a sberle in trasmissione, insolentita da Lilli Gruber. Il sulfureo Vittorio Feltri definisce la conduttrice di “Otto e mezzo” con poche parole: «Capace di dirigere con grande abilità un programma brutto, un ring dove non vince il più forte bensì il più cafone». Lilli Gruber? Sa anche prodursi in «qualcosa di disgustoso e fuori dalle elementari regole del giornalismo», sentenzia il mitico direttore di “Libero”. Perché allora non chiedere che cambi mestiere, la navigatissima giornalista di origine altoatesina che esordì al Tg2 nell’era Craxi? Facile a dirsi, ma la Lilli nazionale «ottiene buoni ascolti», aggiunge Feltri: «E Cairo, il padrone de “La7”, gongola». Tra chi non rinuncia alla speranza di vedere la televisione italiana “bonificata” dall’invadente presenza della Gruber c’è Marco Moiso, pubblicitario londinese, vicepresidente del Movimento Roosevelt. «Lilli Gruber – scrive, nel testo di una petizione su “Change.org” – non sembra essere in grado di fare il mestiere della giornalista in maniera obiettiva ed equanime». L’accusa: «Il suo stile di giornalismo, giudicato fazioso (e strumentale all’agenda politico-finanziaria neoliberista), offende troppe persone per poter continuare ad avere uno spazio importante come quello di “Otto e Mezzo”».
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L’astronauta Worden: siamo noi gli alieni, veniamo da lassù
«Siamo noi, gli alieni: da dove credete che veniamo?». Il colonnello Al Worden, astronauta dell’Apollo 15 e detentore di numerosi record, non ha atteso le clamorose ammissioni dell’Us Navy sugli Ufo per stupire il pubblico. Ci aveva pensato già nel settembre del 2017, rilasciando in televisione una dichiarazione pubblica «sconcertante e, come sempre, passata sotto il totale silenzio dei media internazionali», scrive l’antropologo Enrico Baccarini, documentarista della “Bbc” e direttore della rivista “Archeomisteri”. Appassionato studioso delle antiche civiltà indiane e autore di svariati saggi, Baccarini appartiene – come Graham Hancock – alla corrente di pensiero che rivaluta i testi dell’antichità: non libri “sacri”, ma cronistorie attendibili che narrano le avventure di quelli che, a tutti gli effetti, sembrano essere antichi astronauti. E ora ci si mette anche la Nasa, che ha editato il saggio “Archeology, Anthropology and Interstellar Communication”: secondo il curatore, Douglas Vakoch, è possibile che i nostri antenati abbiano scambiato per “divinità” quei misteriosi visitatori. Il primo a crederci è proprio un veterano dello spazio come Worden: secondo cui, addirittura, gli alieni saremmo noi. Tecnicamente: discendenti di antichi “profughi” cosmici.Alfred Merril Worden (nato Jackson, in Mississippi, il 7 febbraio 1932) è un celebre astronauta statunitense. Fu il pilota del modulo di comando per la missione lunare Apollo 15 nei mesi di luglio e agosto 1971, ricorda Baccarini sil suo sito. Proprio il colonnello Worden fu uno dei 19 astronauti scelti dalla Nasa nell’aprile 1966. Servì come membro dell’equipaggio di supporto della missione Apollo 9 e come pilota comandante del modulo di comando di riserva della missione Apollo 12. Pilotò anche il modulo di comando per l’Apollo 15, dal 26 luglio al 7 agosto 1971. I suoi compagni di volo furono David Scott, comandante del veicolo, e James Irwin, comandante del modulo lunare. Secondo la Nasa, l’Apollo 15 fu la quarta missione con equipaggio a metter piede sul suolo lunare e la prima ad esplorare il Ruscello di Hadley e i Monti Appennini, situati sul bordo sud-est del Mare Imbrium, spazio ora desertico del satellite naturale della Terrra. Per Baccarini, Warden è «una figura di tutto rispetto». Come ingegnere aeronautico e astronauta della Nasa, «ha vissuto una vita addentrandosi ad avere una mente razionale e scientifica, ma ancor più a vagliare e analizzare ogni informazione prima di “parlare”».Cos’ha detto, due anni fa, a proposito delle nostre origini? «Siamo noi gli alieni: pensiamo che sia qualcun altro, e invece siamo noi quelli che sono venuti da qualche altra parte». Quello che Warden evoca è una specie di esodo spaziale: partiti da chissà dove, dice, i nostri progenitori arrivarono sulla Terra perché qualcuno di loro doveva pur sopravvivere. «Sono saliti su un piccolo veicolo spaziale e sono venuti qui, sono atterrati e hanno iniziato la civiltà qui: questo è quello che credo». Insiste l’astronauta: «Se non mi credete, andate a prendere i libri sugli antichi Sumeri e vedete cosa avevano da dire al riguardo, ve lo diranno subito». L’allusione è alla sumerologia, resa popolare dai saggi divulgativi di Zecharia Sitchin: le tavolette mesopotamiche raccontano lo sbarco sulla Terra dei potenti Anunna, o Anunnaki, che poi ibridarono il loro Dna con quello degli ominidi, per dare origine all’homo sapiens. Nell’intervista, rilasciata a “Good Morning Britain” sulla rete inglese “Itv”, Worden sostiene apertamente che gli umani sono i discendenti da una razza extraterrestre legata agli antichi astronauti e che, per varie ragioni, si sono fermati nel nostro pianeta dando inizio alla nostra specie e detenendo un ruolo chiave nell’evoluzione della civiltà umana.In più, Worden consiglia di leggere gli antichi testi sumerici per avere una chiara idea di quanto detto. «Cosa poter aggiungere? Si tratta del delirio senile di un astronauta? Non pensiamo proprio», scrive Baccarini. «Anzi: riteniamo che queste affermazioni debbano essere prese con la giusta importanza che meritano». La teoria degli antichi astronauti, detta anche paleocontatto o paleoastronautica, è quell’insieme di teorie che ipotizzano un contatto tra civiltà extraterrestri e antiche civiltà umane, quali sumeri, egizi, popoli dell’India antica e civiltà precolombiane. Questa teoria, ricorda Baccarini, iniziò a diffondersi verso la fine degli anni ’50, quando giornalisti e studiosi di varie estrazioni iniziarono a ipotizzare che, nel remoto passato del nostro pianeta, una o più civiltà altamente progredite e provenienti dallo spazio esterno avessero interagito con noi, e forse in certi casi letteralmente “creato” la nostra specie. A distanza di quasi settant’anni – aggiunge Baccarini – questo campo di studi è riuscito a collezionare una serie di evidenze ed elementi tali da non lasciare altre possibilità interpretative, al riguardo.Le affermazioni di Al Worden non sono certamente le prime e non saranno le ultime: Baccarini ricorda quelle dell’astronauta Edgar Mitchell, scomparso nel 2016. Otto anni prima, in un’intervista radiofonica, aveva dichiarato: «Da ambienti militari e governativi sono venuto a conoscenza del fatto che il fenomeno Ufo è reale, che ci sono stati contatti tra esseri umani ed esseri extraterrestri, e che questi contatti sono tuttora in corso». Né Warden né Mitchell ci portano alla “pistola fumante” per confermare definitivamente questa costellazioni di tesi, ammette Baccarini. Ma, provenendo da fonti così autorevoli, queste affermazioni «non possono certamente essere prese sotto gamba». Peraltro, «risultano sintomatiche di una linea di pensiero che, di giorno in giorno, sembra acquisire sempre più fautori». Uno degli aspetti più interessanti investe anche la reinterpretazione delle testimonienze archeologiche: alcune figure umanoidi, inicise nella roccia, sembrano indossare tute e caschi. E’ possibile che antichi astronauti extraterrestri abbiano visitato il nostro pianeta in un remoto passato e ritenuti dai nostri antenati come divinità discese dal cielo? Secondo “Archeology, Anthropology and Interstellar Communication”, pubblicato dalla Nasa, l’antica arte rupestre potrebbe essere il segno delle loro visite passate.Alcuni dei capitoli più interessanti – segnala sempre Baccarini – trattano il tema della comunicazione extraterrestre nel passato. «In una sezione, ad esempio, il professor William Edmondson, dell’Università di Birmingham, considera la possibilità che alcune raffigurazioni di arte rupestre sulla Terra possano essere di origine extraterrestre». In realtà, aggiunge Edmondson, non abbiamo certezze: «Possiamo dire poco su ciò che significano queste raffigurazioni, sul perchè siano state incise nella roccia o su chi le abbia create». Addirittura, aggiunge il professore, «potrebbero essere state fatte degli alieni a tutti gli effetti». Come riporta il “Daily Mail”, la pubblicazione affronta una serie di argomenti con l’intervento di numerosi esperti, tra cui la prospettiva di vita su altri pianeti e gli strumenti attraverso i quali inviare o ricevere messaggi. Il curatore, Douglas Vakoch, da parte sua parla delle difficoltà che potrebbero sorgere a seguito di un primo contatto con una civiltà aliena: sa segnali radio, dice, «potremmo intuire l’esistenza di un’intelligenza, ma non potremmo capire cosa dico». E aggiunge: «Anche se rilevassimo una civiltà in uno dei sistemi stellari più vicini, i loro segnali dovrebbero attraversare migliaia di miliardi di chilometri, raggiungendo la Terra dopo molto tempo».Ma la speranza non è perduta: in tutto il libro, Vakoch e colleghi cercano di offrire soluzioni concrete che possano rivelarsi preziose per il futuro. «Per andare oltre la semplice individuazione di tale intelligenza, e avere qualche possibilità realistica di comprenderla, possiamo prendere esempio da ricercatori che affrontano sfide simili sulla Terra», continua Vakoch: «Come gli archeologi, che ricostruiscono la storia di civiltà del passato da informazioni frammentarie, così dovranno fare i ricercatori del Seti per comprendere civiltà lontane da noi, separate da vaste distese di spazio e tempo». Il Seti (Search for Extra-Terrestrial Intelligence) è un progetto finanziato dalla Nasa dal lontano 1971. Missione: rilevare la presenza di vita intelligente nello spazio oltre la Terra. A quanto pare sono stati fatti passi da gigante, in questa direzione, se è vero che l’astronauta Edgar Mitchell parla di contatti stabili e regolari con entità aliene. Nel suo libro, Vakoch (Nasa) resta sul vago, è vero. In compenso, Al Worden sostiene che i discendenti degli alieni siamo noi. Affermazioni destabilizzanti, ovviamente, fino a ieri sostanzialmente ignorate dai grandi media. Ora invece è il Pentagono a rifarsi avanti: per suggerirci – sia pure a piccole dosi – che tra noi e gli equipaggi degli Ufo c’è probabilmente una lunga storia, che forse sta per essere raccontata.«Siamo noi, gli alieni: da dove credete che veniamo?». Il colonnello Al Worden, astronauta dell’Apollo 15 e detentore di numerosi record, non ha atteso le clamorose ammissioni dell’Us Navy sugli Ufo per stupire il pubblico. Ci aveva pensato già nel settembre del 2017, rilasciando in televisione una dichiarazione pubblica «sconcertante e, come sempre, passata sotto il totale silenzio dei media internazionali», scrive l’antropologo Enrico Baccarini, documentarista della “Bbc” e direttore della rivista “Archeomisteri”. Appassionato studioso delle antiche civiltà indiane e autore di svariati saggi, Baccarini appartiene – come Graham Hancock – alla corrente di pensiero che rivaluta i testi dell’antichità: non libri “sacri”, ma cronistorie attendibili che narrano le avventure di quelli che, a tutti gli effetti, sembrano essere antichi astronauti. E ora ci si mette anche la Nasa, che ha editato il saggio “Archeology, Anthropology and Interstellar Communication”: secondo il curatore, Douglas Vakoch, è possibile che i nostri antenati abbiano scambiato per “divinità” quei misteriosi visitatori. Il primo a crederci è proprio un veterano dello spazio come Worden: secondo cui, addirittura, gli alieni saremmo noi. Tecnicamente: discendenti di antichi “profughi” cosmici.
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Università dell’Alaska: 11 Settembre, l’Edificio 7 fu demolito
Un gruppo di ricerca del dipartimento di ingegneria civile e ambientale dell’università dell’Alaska, guidato dal dottor Leroy Hulsey e dal collega Zhili Quan, insieme al professor Feng Xiao dell’università di Nanchino (dipartimento di ingegneria civile) ha dato la fatale notizia in modo ufficiale: non sono state le fiamme sprigionatesi dalle Twin Towers, l’11 Settembre, a causare il collasso dell’Edificio 7, la terza torre di Manhattan crollata su se stessa in pochi secondi. «La versione ufficiale è ora ridotta a un cumulo di macerie», prende nota Paul Craig Robers, popolare analista statunitense, già vice-ministro di Reagan, commentando quella che a tutti gli effetti è «la prima indagine scientifica» sulla stranissima fine del Building 7, schiantatosi al suolo senza neppure esser stato colpito da aerei, l’11 settembre 2001. «La principale conclusione del nostro studio – scrivono, all’università dell’Alaska – è che il fuoco non ha causato il crollo del Wtc 7». E questo, «contrariamente alle conclusioni del Nist», la commissione d’indagine governativa, «e delle società di ingegneria private che hanno studiato il crollo». E’ stato «un collasso globale, che ha comportato il cedimento quasi simultaneo di tutti i pilastri dell’edificio». In gergo tecnico si chiama: demolizione controllata.Sul suo sito, Craig Roberts fa notare che «ci sono voluti 18 anni per ottenere una vera indagine sulla distruzione di un edificio di cui erano stati accusati dei terroristi musulmani». Inoltre, «l’unico modo in cui si può verificare il “cedimento quasi simultaneo di tutti i pilastri dell’edificio” è attraverso una demolizione controllata». E questo straordinario risultato, certificato dai tecnici universitari, non è stato riportato dai grandi media. «In altre parole – aggiunge Roberts – lo studio è già stato destinato al Buco della Memoria: questo è il modo in cui opera “The Matrix”». Accusa l’ex sottosegreario al Tesoro: «L’unico scopo dei notiziari stampati e televisivi è quello di programmarvi in modo che seguiate pedissequamente l’agenda di chi vi governa: quelli che seguono i notiziari della Tv, ascoltano la National Public Radio o leggono i giornali vengono programmati per essere automi senza cervello». Richiamandosi al clamoroso rapporto fornito poche settimane fa dai vigili del fuoco di New York – che confermano la tesi della “demolizione controllata” delle Torri Gemelle e chiedono alle autorità giudiziarie di riaprire il caso – Craig Roberts invoca giustizia: stabilita finalmente la verità sul disastro, è ora che i responsabili vengano trascinati in tribunale.L’immane tragedia ha causato circa 15.000 vittime: quasi 3.000 nei crolli, più almeno 12.000 persone morte nei mesi e anni seguenti, per i tumori provocati dalla nube di amianto su Manhattan (numeri accertati dalle autorità, che hanno riconosciuto gli ingenti indennizzi). Molti sospetti caddero da subito sul proprietario del World Trade Center, Larry Silverstein, che aveva appena assicurato le Torri Gemelle e l’Edificio 7 contro un “incidente” come quello poi verificatosi. Mentre però le Twin Towers furono colpite da aerei di linea (o almeno, in apparenza da dei Boeing), l’Edificio 7 collassò senza essere colpito né da velivoli, né dal fuoco. Per Massimo Mazzucco, autore dei documentari “Inganno globale” (trasmesso da Canale 5 nel 2006) e “La nuova Pearl Harbor”, è probabile che gli aerei che colpirono le torri fossero dei droni militari: la stessa Boeing ha escluso che i suoi velivoli possano compiere manovre così precise, a bassa quota, viaggiando a quella velocità: a 800 chilometri orari, le ali dei Boeing si staccherebbero. Ma se non c’erano viaggiatori, su quegli aerei-bomba, dov’erano finiti i passeggeri imbarcati?Mazzucco ricorda che l’Operazione Northwoods del 1962 (memorandum “Justification for Us Military Intervention in Cuba”) prevedeva che i passeggeri di un volo di linea – da far esplodere nei cieli cubani per poi incolpare Fidel Castro – fossero fatti segretamente sbarcare in una base militare, prima che l’aereo (telecomandato) proseguisse per la sua missione suicida. Come accettare l’idea mostruosa di eliminare centinaia di ignari passeggeri? In un solo modo possibile, osserva Mazzucco: «Certa gente non ragiona come noi: di fronte opzioni come quella, le persone diventano semplici dettagli». Ragionando in grande: senza il bagno di sangue delle Twin Towers, il Deep State che dominava il governo Usa non sarebbe mai riuscito a far accettare, all’opinione pubblica americana, la “guerra al terrorismo” che comportò le disastrose invasioni militari dell’Afghanistan e dell’Iraq. Nel libro “Massoni” (Chiarelettere, 2014), Gioele Magaldi scrive che fu la superloggia “Hathor Pentalpha”, del clan Bush, a concepire l’attacco alle Torri, dopo aver affiliato Osama Bin Laden. Lo stesso Abu-Bakr Al Baghdadi, “califfo” del sedicente Isis, sarebbe stato poi affiliato alla “Hathor”.«Entro un paio d’anni emergerà la verità sull’11 Settembre», annunciò tempo fa Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”. A quanto pare, importanti rivelazioni stanno ora affiorando. Il russo Dimitri Khalezov, veterano dell’intelligence nucleare sovietica, ricorda che la costruzione del World Trade Center fu autorizzata dal Comune di New York solo dopo che i costruttori ebbero fornito le istruzioni per la demolizione degli edifici, come prevedeva la prassi a Manhattan: tutti i grattacieli dovevano poter essere demoliti, all’occorrenza. Solo che per demolire le Torri Gemelle – considerate indistruttibili – i progettisti calcolarono che sarebbe stata indispensabile la bomba atomica. E infatti, osserva Khalezov, dai documenti dell’ufficio edilizia della città emerge che, nelle fondamenta, furono appositamente ricavati dei bunker nei quali ospitare, nel caso, delle “mini-nukes” destinate a “fondere” le torri, dal basso. Questo spiegherebbe anche le folli temperature sprigionatesi nel rogo, che trasformò il sottosuolo in una specie di vulcano arroventato, per mesi. Per contro, i vigili del fuoco raccontarono di aver udito precise esplosioni, molto di sotto del punto di impatto degli aerei: esplosioni peraltro confermate dallo strano scoppio (verso l’esterno) delle vetrate, non spiegabile dall’urto degli aerei decine di metri più in alto.In attesa di accertare la verità integrale, i pompieri di New York certificano l’inattendibilità della versione ufficiale. Il distretto di Franklin Square e Munson, dei vigili del fuoco, riconosce «la natura significativa e convincente della petizione posta all’attenzione del procuratore degli Stati Uniti per il distretto meridionale di New York riferentesi a crimini federali non perseguiti commessi presso il World Trade Center l’11 settembre 2001», e invita il procuratore «a presentare tale petizione ad uno speciale Gran Giurì ai sensi della Costituzione degli Stati Uniti». Il dossier dei vigili del fuoco aggiunge che «le prove schiaccianti presentate in detta petizione dimostrano oltre ogni dubbio che esplosivi e/o materiali incendiari pre-impiantati – non solo gli aerei e gli incendi conseguenti – avevano causato la distruzione dei tre edifici del World Trade Center, uccidendo la stragrande maggioranza delle vittime». Conclude Paul Craig Robers: «Le vittime dell’11 Settembre, le loro famiglie, la popolazione di New York City e la nostra nazione meritano che ogni crimine relativo agli attacchi dell’11 settembre 2001 sia indagato con il massimo rigore e che ogni persona responsabile sia portata di fronte alla giustizia».Cosa fu, davvero, ad abbattere le Twin Towers e l’Edificio 7 «non lo sappiamo, né spetta a noi l’onere di stabilirlo», sintetizza Mazzucco: «L’unica cosa ormai certa è che a far crollare le torri non furono quegli strani Boeing, capaci di manovre estreme (da jet militari) e a velocità folle, a bassissima quota, senza che si smembrassero in volo prima dell’impatto». Droni senza pilota? Per Mazzucco, è l’unica spiegazione logica: velivoli telecomandati, “truccati” da Boeing e super-rinforzati, probabilmente col muso imbottito di esplosivo. A csa erano dovute le esplosioni che i pompieri dicono di aver udito distintamente nella parte bassa delle torri? Cariche di nano-termite? Mini-atomiche? Tutte queste cose insieme? Magaldi ricorda che le Twin Towers rappresentavano Jachin e Boaz, le colonne del tempio massonico: chi le ha distrutte ha voluto dichiarare guerra, simbolicamente, all’ideologia massonico-progressista di Roosevelt, che trasformò gli Usa nella superpotenza leader dell’Occidente prospero, del benessere diffuso. La “prova del nove” è imbarazzante: lo scenario al quale oggi siamo abituati (conflitti ovunque, dalla Libia alla Siria, con escalation sanguinose) prima dell’11 Settembre non sarebbe stato neppure lontanamente pensabile.Un gruppo di ricerca del dipartimento di ingegneria civile e ambientale dell’università dell’Alaska, guidato dal dottor Leroy Hulsey e dal collega Zhili Quan, insieme al professor Feng Xiao dell’università di Nanchino (dipartimento di ingegneria civile) ha dato la fatale notizia in modo ufficiale: non sono state le fiamme sprigionatesi dalle Twin Towers, l’11 Settembre, a causare il collasso dell’Edificio 7, la terza torre di Manhattan crollata su se stessa in pochi secondi. «La versione ufficiale è ora ridotta a un cumulo di macerie», prende nota Paul Craig Robers, popolare analista statunitense, già vice-ministro di Reagan, commentando quella che a tutti gli effetti è «la prima indagine scientifica» sulla stranissima fine del Building 7, schiantatosi al suolo senza neppure esser stato colpito da aerei, l’11 settembre 2001. «La principale conclusione del nostro studio – scrivono, all’università dell’Alaska – è che il fuoco non ha causato il crollo del Wtc 7». E questo, «contrariamente alle conclusioni del Nist», la commissione d’indagine governativa, «e delle società di ingegneria private che hanno studiato il crollo». E’ stato «un collasso globale, che ha comportato il cedimento quasi simultaneo di tutti i pilastri dell’edificio». In gergo tecnico si chiama: demolizione controllata.
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Soldi a tutti, e meno ore di lavoro: abolire i poveri conviene
Soldi gratis per tutti e (molto) più tempo libero. Perché garantire a ogni cittadino un reddito di base conviene: riduce la criminalità, la mortalità infantile e la dispersione scolastica, e favorisce la crescita e l’uguaglianza di genere. E ridurre la settimana lavorativa a 15 ore aumenta la produttività, aumenta i posti part time, riduce le emissioni di CO2 e favorisce l’emancipazione femminile. E’ la “Utopia per realisti” (uscito in Italia per Feltrinelli) di Rutger Bregman, trentenne storico olandese con interessi che spaziano dalla filosofia all’economia, salito agli onori delle cronache per un provocatorio discorso contro l’evasione e l’elusione fiscale tenuto in gennaio ai partecipanti all’ultimo Forum economico di Davos. «Nessuno solleva l’argomento che i ricchi non pagano la loro parte, quella che è giusto che paghino», ha scandito Bregman – che il mensile “Fq Millennium” aveva intervistato nel novembre 2017 – davanti alla platea di milionari riuniti in Svizzera. «Mi sento come a una conferenza di pompieri in cui non è permesso parlare dell’acqua. Tasse, tasse, tasse. Tutto il resto sono stronzate».Il punto di partenza del libro è che questa nuova utopia è utile e necessaria in un mondo in cui «tanti pensatori e politici di sinistra tentano di mettere a tacere le idee radicali tra le proprie fila per la paura di perdere voti», mentre «i neoliberisti sono imbattibili nel gioco in cui contano la ragione, i giudizi e le statistiche». Ma è proprio con una grande mole di numeri e statistiche che Bregman spiega come la lotta contro la povertà sia «un investimento che ripaga con gli interessi», e come distribuire denaro senza un eccesso di cavilli burocratici sia il modo migliore per condurla. Soldi gratis, dunque, «non come favore ma come diritto»: quella che Bregman definisce «la via capitalista al comunismo». Secondo l’economista Charles Kenny, dello statunitense Center for Global Development, «il principale motivo per cui la gente è povera è perché non ha abbastanza soldi, perciò non dovrebbe essere una grossa sorpresa vedere che dargli dei soldi è un modo fantastico per ridurre il problema».E Bregman elenca una serie di casi in cui le elargizioni di soldi senza contropartite hanno funzionato nel migliorare le condizioni di vita della popolazione nei paesi in via di sviluppo – dal Malawi alla Namibia – o di gruppi sociali a rischio come gli homeless: esperimenti condotti nei Paesi Bassi e in Utah mostrano per esempio che fornire case gratis, oltre a togliere le persone dalla strada, riduce notevolmente l’incidenza di alcolismo e abuso di droga, e nel complesso costa molto meno che garantire assistenza agli homeless e sostenere i costi giudiziari legati ai piccoli crimini che commettono per sopravvivere. Ma gli esperimenti di redditi di base hanno funzionato bene, pur su piccola scala, anche quando applicati a piccole comunità locali, come avvenuto a fine anni ‘60 negli Usa durante la presidenza di Lyndon B. Johnson e in Canada negli anni ‘70 con il Mincome. «Greg J. Duncan, professore della University of California, ha calcolato che sottrarre una famiglia americana alla povertà costa una media di circa 4.500 dollari all’anno», nota Bregman. «Alla fine, i rientri di questo investimento per bambino sarebbero: +12,5 per cento di ore lavorate, +3.000 dollari di risparmio annuale come welfare, +50mila-100mila dollari di maggiori guadagni nella vita, +10mila-20mila dollari di introiti fiscali statali aggiuntivi».Questo perché la povertà, ponendo continue sfide immediate da affrontare, riduce quella che gli psicologi hanno definito “larghezza di banda mentale”, arrivando addirittura a influenzare negativamente il quoziente intellettivo misurato dai test. Nel 1969, racconta Bregman, il presidente Usa Richard Nixon era stato in procinto di varare il reddito senza contropartite per tutte le famiglie povere. Ma alcuni suoi consiglieri fecero strenua opposizione, fino a consegnargli un documento sugli esiti estremamente negativi del sistema Speenhamland, risalente ai primi anni dell’Ottocento inglese, che consisteva nell’incremento fino al livello di sussistenza dei redditi di «tutti gli uomini poveri e industriosi e loro famiglie». Documento che in seguito si rivelò però manipolato fin dall’origine, per “sabotare” il reddito di base. Ora, secondo l’autore, «l’ora è arrivata» per garantire a tutti «una rendita mensile sufficiente per campare, anche se non muovi un dito», senza «nessun ispettore che ti controlla da dietro per vedere se li spendi saggiamente, nessuno che ti chiede se sono davvero meritati».Gli altri due pilastri della “utopia per realisti” riguardano il lavoro. Il primo è la riduzione degli orari, che l’economista John Maynard Keynes riteneva una conseguenza inevitabile del progresso ma al contrario non si è mai materializzata, nonostante in molti casi si sia toccato con mano che la produttività non va di pari passo con l’aumento delle ore lavorate, anzi. Il secondo è un meccanismo di incentivi che renda meno attraenti quelli che Bregman definisce “lavori burla”, attività ben pagate che però non forniscono contributi tangibili alla società o addirittura distruggono ricchezza anziché crearla (l’esempio del libro sono i banchieri, che concepiscono «complessi prodotti finanziari che sono, in pratica, una tassa sul resto della popolazione»). L’idea è quella di una tassa sulle transazioni finanziarie che, oltre a generare gettito da utilizzare per investimenti utili alla società, motiverebbe le menti più brillanti a dedicarsi alla ricerca, all’insegnamento o all’ingegneria invece che preferire una carriera nelle banche di investimento. Idee irrealizzabili? «Definirle “irrealistiche” era una semplice scorciatoia per intendere che collidevano con lo status quo», è la risposta di Bregman. «La fine dello schiavismo, l’emancipazione delle donne, l’avvento della previdenza sociale erano tutte idee progressiste nate folli e “irrazionali” ma alla fine accettate come cose di comune buon senso».(Chiara Brusini, “Reddito di base e 15 ore di lavoro alla settimana”, l’utopia dello storico che ha detto ai ricchi di Davos di pagare le tasse”, dal “Fatto Quotidiano” dell’11 maggio 2019. Il libro: Rutger Bregman, “Utopia per realisti”, Feltrinelli, 251 pagine, 18 euro).Soldi gratis per tutti e (molto) più tempo libero. Perché garantire a ogni cittadino un reddito di base conviene: riduce la criminalità, la mortalità infantile e la dispersione scolastica, e favorisce la crescita e l’uguaglianza di genere. E ridurre la settimana lavorativa a 15 ore aumenta la produttività, aumenta i posti part time, riduce le emissioni di CO2 e favorisce l’emancipazione femminile. E’ la “Utopia per realisti” (uscito in Italia per Feltrinelli) di Rutger Bregman, trentenne storico olandese con interessi che spaziano dalla filosofia all’economia, salito agli onori delle cronache per un provocatorio discorso contro l’evasione e l’elusione fiscale tenuto in gennaio ai partecipanti all’ultimo Forum economico di Davos. «Nessuno solleva l’argomento che i ricchi non pagano la loro parte, quella che è giusto che paghino», ha scandito Bregman – che il mensile “Fq Millennium” aveva intervistato nel novembre 2017 – davanti alla platea di milionari riuniti in Svizzera. «Mi sento come a una conferenza di pompieri in cui non è permesso parlare dell’acqua. Tasse, tasse, tasse. Tutto il resto sono stronzate».
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Test rischiosi: anche Russia e Cina manipolano la ionosfera
A manipolare il clima non ci sono solo gli Usa con la loro discutibile geoingegneria, il sistema Haarp-Muos e le sostanze rilasciate in atmosfera dagli aerei, come in parte ammesso dalla stessa Nasa. Anche Cina e Russia hanno condotto congiuntamente «un’opinabile serie di esperimenti per modificare l’atmosfera terrestre con onde radio ad alta frequenza». Lo afferma Peter Dockrill su “ScienceAlert”, in una segnalazione tradotta da “Come Don Chisciotte”. Da un impianto russo chiamato Sura Ionosferic Heating Facility, nei pressi della città di Vasilsursk a est di Mosca, scrive Dockrill, gli scienziati hanno generato onde radio ad alta frequenza per manipolare la ionosfera, mentre il satellite cinese Cses ha misurato dall’orbita gli impatti sul “plasma” (particelle di gas ionizzate) in perturbazione. La missione Cses (China Seismo‐Electromagnetic Satellite) è un’operazione spaziale congiunta, sino-italiana, «composta da un satellite per lo studio del campo magnetico, del plasma e dei flussi di particelle nell’orbita terrestre», precisa il traduttore del post, “Nickal88”. Non è la prima volta, avverte Dockrill, che viene condotta una ricerca come questa. Ma le notizie sugli sviluppi Cina-Russia – trasmesse attraverso un documento pubblicato sugli esperimenti e un recente articolo sul “South China Morning Post” – hanno accresciuto le preoccupazioni sulle potenziali applicazioni militari di questo tipo di scienza.Questo perché la ionosfera, e il gas ionizzato (“plasma”) che vi risiede, è cruciale per le comunicazioni radio: «Perturbando selettivamente le particelle cariche che costituiscono questa parte dell’alta atmosfera, gli scienziati o addirittura i governi potrebbero teoricamente aumentare o bloccare i segnali radio a lungo raggio», scrive Dockrill. «Anche questi esperimenti preliminari – condotti a giugno e apparentemente concepiti come un precedente per la futura ricerca correlata sulla ionosfera – hanno avuto effetti estremi». In uno degli esperimenti, l’area interessata dalle perturbazioni della ionosfera sembra aver coperto 126.000 chilometri quadrati. In un altro test, il gas ionizzato nell’atmosfera sarebbe aumentato in calore di 100 gradi Celsius (212 gradi Fahrenheit). Da parte loro, le persone coinvolte affermano che la ricerca è puramente scientifica e innocua per l’atmosfera. «Non ci atteggiamo ad essere Dio», ha detto al “South China Morning Post” un ricercatore non identificato che ha chiesto di rimanere anonimo: «Non siamo l’unico paese che fa squadra con i russi, altri paesi hanno fatto cose simili».La base Sura, riassume Dockrill, è stata fondata dall’Unione Sovietica nei primi anni ’80, ma si dice che sia stata d’ispirazione per un impianto di riscaldamento atmosferico ancora più grande negli Stati Uniti, il famoso Haarp (High Frequency Active Auroral Research Program), costruito in Alaska circa un decennio dopo. Haarp è un impianto “a pompa ionosferica” notevolmente più potente di Sura: inizialmente è stato in parte finanziato dall’esercito Usa, ma ora è gestito dall’Università dell’Alaska Fairbanks. L’Us Air Force, aggiunge Dockrill, non ha rinunciato alla manipolazione atmosferica. E tra gli altri progetti, negli ultimi tempi ha investigato sullo sganciamento nell’atmosfera superiore di “bombe al plasma” di particelle cariche, per vedere come ciò influisce sulla ionosfera. Non è neppure da escludere che la Cina, a sua volta, stia costruendo un riscaldatore ionosferico avanzato: accadrebbe nella città di Sanya, nella provincia dell’isola di Hainan nel sud della Cina, che sempre il “South China Morning Post” sospetta che manipoli la ionosfera su tutto il Mar Cinese Meridionale.«Non ci sono prove che qualcosa di nefasto sia in corso», ammette Dockrill, «anche se la Russia è stata accusata da varie parti, quest’anno, di interferire con i segnali Gps, e gli esperimenti di manipolazione ionosferica potrebbero essere stati ipoteticamente implicati». Tuttavia, avverte Dockrill, è meglio stare attenti: come molti ricercatori hanno chiarito, «questo campo della scienza è stato per lungo tempo tormentato da teorie cospirative, destate da una blogosfera paranoica». Detto questo, anche alcuni scienziati appartenenti alla comunità di ricerca sulla manipolazione della ionosfera hanno trovato «un po’ strani» i recenti annunci sugli esperimenti del giugno scorso. «Questa cooperazione internazionale è molto inusitata per la Cina», ha detto – sempre al “Post” – il fisico e ingegnere Guo Lixin della Xidian University cinese, che non è stato coinvolto nei test. Secondo Lixin, «la tecnologia impiegata è troppo delicata». Le risultanze degli esperimenti, peraltro – conclude Dockrill – sono state regolarmente riportate su “Earth and Planetary Physics”.A manipolare il clima non ci sono solo gli Usa con la loro discutibile geoingegneria, il sistema Haarp-Muos e le sostanze rilasciate in atmosfera dagli aerei, come in parte ammesso dalla stessa Nasa. Anche Cina e Russia hanno condotto congiuntamente «un’opinabile serie di esperimenti per modificare l’atmosfera terrestre con onde radio ad alta frequenza». Lo afferma Peter Dockrill su “ScienceAlert”, in una segnalazione tradotta da “Come Don Chisciotte”. Da un impianto russo chiamato Sura Ionosferic Heating Facility, nei pressi della città di Vasilsursk a est di Mosca, scrive Dockrill, gli scienziati hanno generato onde radio ad alta frequenza per manipolare la ionosfera, mentre il satellite cinese Cses ha misurato dall’orbita gli impatti sul “plasma” (particelle di gas ionizzate) in perturbazione. La missione Cses (China Seismo‐Electromagnetic Satellite) è un’operazione spaziale congiunta, sino-italiana, «composta da un satellite per lo studio del campo magnetico, del plasma e dei flussi di particelle nell’orbita terrestre», precisa il traduttore del post, “Nickal88”. Non è la prima volta, avverte Dockrill, che viene condotta una ricerca come questa. Ma le notizie sugli sviluppi Cina-Russia – trasmesse attraverso un documento pubblicato sugli esperimenti e un recente articolo sul “South China Morning Post” – hanno accresciuto le preoccupazioni sulle potenziali applicazioni militari di questo tipo di scienza.
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Urali, mappa del mondo: chi la incise, 120 milioni d’anni fa?
«Scienziati russi hanno annunciato di aver trovato nella regione degli Urali una grande lastra minerale di origine artificiale che ritengono vecchia di 120 milioni di anni e che riporterebbe una mappa geografica in rilievo della regione». Così il “Corriere della Sera” nell’ormai lontanissimo 2002, raccontando le sconcertanti esternazioni del professor Aleksandr Chuvyrov, della facoltà di chimica dell’Università di Bashkir, nella repubblica russa dei Bashiri. Secondo lo scienziato, la mappa tridimensionale potrebbe essere stata realizzata solo grazie a prospezioni aeree. La lastra «sarebbe solo un frammento di un’enorme mappa di tutta la Terra che, data l’ipotizzata età del manufatto, sconvolgerebbe tutte le conoscenze attuali». Chuvyrov non vuole suggerire un’origine extraterrestre, osserva il “Corriere”, ma definisce «inspiegabile» la mappa. La lastra, alta 148 centimetri e larga 106, è spessa 16 centimetri e pesa una tonnellata e mezza. E’ formata da tre strati sovrapposti di dolomite, diopside e porcellana. È stata rinvenuta nella località di Chandar, negli Urali, già nel 1999 – ma la notizia è trapelata solo tre anni dopo. Secondo il professor Chuvyrov, il manufatto riporta la identificabile geografia antica della regione, più quelle che appaiono come opere di ingegneria con sistemi di canali e dighe. Vi sono inoltre iscrizioni in una lingua geroglifico-sillabica di origine sconosciuta.All’inizio, scrive sempre il “Corriere”, gli scenziati russi ritenevano che potesse risalire ad alcune migliaia di anni fa, ma poi sono state ritrovate incastrate negli strati conchiglie fossili che risalgono a un tempo remotissimo: fra i 50 e i 120 milioni di anni fa. «L’età sarebbe confermata anche dalla configurazione dei fiumi e dei canyon come sarebbero stati decine di milioni di anni fa». Sempre secondo i russi, la “mappa” non potrebbe essere stata realizzata a mano, ma verosimilmente «con strumenti di alta precisione e grazie a prospezioni aeree». Dal 2002, a quanto pare, del caso si è cercato di non parlare più: troppo imbarazzante, per l’ambiente accademico mondiale? «Mentre il mondo scientifico si apprestava a voltare immediatamente pagina, dimenticando l’accaduto, una nuvola di polvere sempre più fitta s’addensava sulla rete Internet», scrivono – sette anni dopo – Alessandro Moriccioni e Andrea Somma sul blog “Terra Incognita”. «La guerra tra scettici e credenti non ha portato ovviamente a nulla, se non ad un ispessimento dell’enigmatica vicenda». Tuttavia, lo stranissimo ritrovamento «ha posto leciti interrogativi circa le affermazioni del professore russo». “Mappa del creatore, una bufala mondiale”, si affrettò a concludere Silvio Sosio dalle pagine di “Corriere.fantascienza.com”, attaccando scienziati in errore e giornalisti creduloni.Domande comprensibili, ammettono Moriccioni e Somma: perché un professore universitario come Chuvyrov, seppure laureato in chimica, ha commesso un errore madornale affermando che l’uomo di Neanderthal comparve sulla Terra 75.000 anni fa, quando gli stessi archeologi – dubbiosi per convenzione – stimano un’età di 300.000 anni ai fossili più antichi? E ancora: come può Chuvyrov riconoscere tra le pieghe di una lastra di pietra «zone della Russia che certamente 120 milioni di anni fa erano completamente diverse da come appaiono oggi?». Ad ogni modo, obietta “Terra Incognita” nel 2009, lo scettico Sosio «non fornisce alcuna risposta». Gli scienziati russi «sono ormai convinti che la lastra di Chandar sia solo uno dei 348 frammenti che dovrebbero comporre una mappa dell’intero pianeta». Ne consegue che la mappa completa «avrebbe delle dimensioni di circa 340×340 metri». Perché il “creatore” avrebbe utilizzato la nanotecnologia e la sua scienza sconosciuta e avanzatissima per realizzare un’opera di dimensioni mastodontiche e certamente poco funzionale? Perché fabbricare una lastra formata da tre strati eccezionalmente duri e pesanti semplicemente per descrivere la geologia di una zona? Anche ammesso che tutto questo sia possibile – conclude “Terra Incognita” – a che scopo fu realizzata questa enorme carta geografica?«Gli studi di Chuvyrov – rilevano Moriccioni e Somma – hanno messo in luce l’accuratezza dei rilievi geografici rappresentati, senza però fornire una spiegazione sull’utilità dell’avere una mappa, un tempo integra, di tali dimensioni. Ma chi potrebbe mai utilizzare un simile manufatto?». In ogni caso, riassume “Terra Incognita”, la scoperta degli Urali «ha messo in seria difficoltà l’intera concezione storica umana, riproponendo alla scienza quegli spettri del passato ai quali ha sempre cercato di sottrarsi». La stranissima lastra «sarebbe la prova incontestabile dell’esistenza di una civiltà venuta molto prima e scomparsa d’improvviso». Se questa dichiarazione fosse confermata «straccerebbe ogni umana certezza riguardo ciò che è stato nel passato». Secondo una leggenda del luogo, un numero imprecisato di lastre – raffiguranti grandi zone della Terra – dovevano trovarsi nel piccolo paese ai piedi dei monti Urali. Quella rinvenuta nel luglio del 1999 è emersa scavando sotto il pavimento del porticato della casa di un ex funzionario dell’amministrazione locale. L’obiettivo iniziale degli archeologi russi? Provare una migrazione cinese verso le zone della Siberia e degli Urali. Per questo, pensarono che le indecifrabili iscrizioni scolpite sulla lastra fossero un antico idioma di origine cinese.In passato, infatti – ricorda “Terra Incognita” – in molte zone della Siberia e della Russia sono state in passato rinvenute steli incise in un’antica lingua del Catai, come documentato nel libro di Gavin Menzies “1421: la Cina scopre l’America”. Ma la tesi non ha retto per molto, poiché nessuno degli esperti è riuscito a leggere quei segni. «Si pensa attualmente che si tratti di un linguaggio geroglifico-sillabico di origine sconosciuta». Negli archivi del governo della città di Ufa sono presenti documenti che riportano il ritrovamento, avvenuto nel diciottesimo secolo, di numerose lastre di pietra di aspetto curioso. «Fino al 1998 Chuvyrov era convinto che si trattasse appunto solo di una leggenda», aggiunge “Terra Incognita”, ma poi nel 1999 una lastra venne segnalata a Chuvyrov dall’ex funzionario statale di Chandar. La lastra, pesantissima, venne estratta con la massima cautela e venne ripulita dal terriccio. Gli scienziati poterono a questo punto esaminare il reperto e riconobbero la morfologia della Bashkiria. Chuvyrov afferma che nell’arco di milioni di anni la geografia della zona rappresentata non è poi cambiata molto; infatti gli studiosi russi e cinesi al seguito di Chuvyrov stabilirono che la mappa descriveva i fiumi Belya, Ufimka e Sutolka, oltre a diversi canyon dei monti Urali.Tra i segni sconosciuti incisi sulla pietra, di chiara origine artificiale, il professore russo è convinto di averne decifrato uno: a parer suo, indicherebbe la latitudine dell’attuale città di Ufa. Gli studiosi hanno stabilito l’età della lastra prima attraverso l’analisi al radiocarbonio degli strati, quindi per mezzo di due molluschi rinvenuti all’interno dello strato di porcellana con lo scopo di segnalare due punti precisi. Questi molluschi, noti alla scienza come “Navicopsina munitus” e “Ecculiomphalus princeps”, risultano estinti (rispettivamente 500 e 120 milioni di anni fa). «Si è diffusa la convinzione che la lastra sia stata realizzata quando il polo magnetico del globo terrestre si trovava presso la zona della Terra di Francesco Giuseppe nel Mare di Barents». E’ a questo punto che Chuvyrov, grazie al suo sodalizio con una scienziata cinese, ha abbandonato definitivamente l’idea di una possibile origine storico-cinese della mappa. «Ci siamo stupiti incredibilmente, quando abbiamo tirato su questa lastra e abbiamo visto che era praticamente un’iscrizione», ha dichiarato Aleksandr Chuvyrov alla trasmissione “Stargate, linea di confine”: «Era una mappa in tre dimensioni che raffigurava una parte della superficie terrestre».Trasferito il manufatto a Ufa, capoluogo regionale, il professore ha costituito un team di specialisti: geologi e geografi, cartografi, filologi, fisici, matematici ed esperti di merci e tecnologia dei materiali. «Da una prima analisi – ha detto Chuvyrov – abbiamo scoperto che questa pietra contiene delle informazioni cartografiche relative alla parte meridionale della catena dei monti Urali». Una mappa “tridimensionale”, dove «sono indicate tutte le montagne e tutti i fiumi nell’aspetto reale che hanno, secondo le misure riportate in scala 1 a 1,1», vale a dire: ogni centimetro equivale a un chilometro e cento metri. Colpisce anche la stratificazione della lastra: prima la dolomite, poi la diopsite e infine la copertura di porcellana, eseguita «dopo che era stato fatto il rilievo, cioè dopo che erano stati fatti i tagli sulla pietra». Lo scienziato russo fa notare che lo strato di diopside è stato fatto «utilizzando la nanotecnologia», data la durezza di quel materiale. Sulla “mappa”, gli studiosi hanno rilevato 12.000 chilometri di canali, larghi 500 metri e profondi 300. «Oggi come oggi – ha ammesso Chuvyrov – non possiamo immaginare con esattezza chi possa aver fatto questo lavoro». La lastra resta l’unica finora rinvenuta, ed è anche l’unico oggetto di quel genere di cui si abbia conoscenza: non ci sono reperti analoghi, al mondo.Analizzando a fondo la porcellana, i russi si sono resi conto che si tratta di «un tipo di porcellana sconosciuto», la cui origine è oscura quanto quella delle misteriose iscrizioni che presenta. «Abbiamo notato che nella parte sinistra della carta c’è un modello del sistema solare, e da questo dettaglio – ha aggiunto il professore – possiamo cercare di determinare la data più bassa di quando hanno fatto questa mappa. Possiamo dire perlomeno che la mappa è stata realizzata più di 13.000 anni fa». I dati indiretti, paleontologici – i fossili dei molluschi – costringono invece a retrodatare la lastra di qualcosa come 120 milioni di anni. Ma le conchiglie non potevano essere già presenti sulla lastra all’epoca in cui il misterioso autore della “mappa” la usò per inciderla? Ipotesi esclusa: «Un’analisi molto attenta di questi molluschi ci ha dimostrato che sono stati murati nella mappa quando erano ancora vivi», ha chiarito Chuvyrov. «Per cui, in base a questo dato, possiamo dire qual è l’età della carta». Perfetto: il mistero è servito. Con la conseuta superficialità, i “debunker” del Cicap si erano affrettati a definire “bufala mondiale” la scoperta di Chuvyrov, appigliandosi esclusivamente all’errore (qui irrivelante) sulla datazione del Neanderthal. Lungi, quindi, dal rispondere all’unica domanda che conti, tuttora senza risposta. Ovvero: chi può aver istoriato quella lastra, usando una lingua sconosciuta, 120 milioni di anni fa?«Scienziati russi hanno annunciato di aver trovato nella regione degli Urali una grande lastra minerale di origine artificiale che ritengono vecchia di 120 milioni di anni e che riporterebbe una mappa geografica in rilievo della regione». Così il “Corriere della Sera” nell’ormai lontanissimo 2002, raccontando le sconcertanti esternazioni del professor Aleksandr Chuvyrov, della facoltà di chimica dell’Università di Bashkir, nella repubblica russa dei Bashiri. Secondo lo scienziato, la mappa tridimensionale potrebbe essere stata realizzata solo grazie a prospezioni aeree. La lastra «sarebbe solo un frammento di un’enorme mappa di tutta la Terra che, data l’ipotizzata età del manufatto, sconvolgerebbe tutte le conoscenze attuali». Chuvyrov non vuole suggerire un’origine extraterrestre, osserva il “Corriere”, ma definisce «inspiegabile» la mappa. La lastra, alta 148 centimetri e larga 106, è spessa 16 centimetri e pesa una tonnellata e mezza. E’ formata da tre strati sovrapposti di dolomite, diopside e porcellana. È stata rinvenuta nella località di Chandar, negli Urali, già nel 1999 – ma la notizia è trapelata solo tre anni dopo. Secondo il professor Chuvyrov, il manufatto riporta la identificabile geografia antica della regione, più quelle che appaiono come opere di ingegneria con sistemi di canali e dighe. Vi sono inoltre iscrizioni in una lingua geroglifico-sillabica di origine sconosciuta.
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Chiesa, Mazzucco, Messora, Fusaro: quante verità oscurate
«È la stampa, bellezza. E tu non puoi farci niente». Lo dice uno straordinario Humphrey Bogart alla fine del film “Deadline” di Richard Brooks (in italiano, “L’ultima minaccia”). Era il 1952: una profezia. Ancora oggi, ufficialmente, le Torri Gemelle sono crollate per colpa dell’impatto con aerei dirottati. La “demolizione programmata” è stata ormai dimostrata da oltre duemila architetti e ingegneri, eppure per l’11 Settembre la “verità” resta quella palesemente falsa. Grazie a chi? Ai media mainstream, che spacciano “fake news” governative. Il primo a denunciarlo, riguardo al caso delle Twin Towers, in Italia fu Giulietto Chiesa, con il libro “La guerra infinita”, uscito nel 2003 per Feltrinelli (e vendutissimo, nonostante il silenzio di giornali e televisioni). Ebbe più fortuna mediatica qualche anno dopo Massimo Mazzucco, con il suo esplosivo documentario “Inganno globale”, trasmesso da Mentana in prima serata a “Matrix”, su Canale 5. Un’eccezione, mai più ripetuta. «Arrivato a La7 – dice Mazzucco – Mentana poteva essere “il primo degli ultimi”, dando voce agli esclusi, e invece ha scelto di restare “l’ultimo dei primi”, accodandosi all’ufficialità». In compenso, ormai l’opinione pubblica più disincantata è letteralmente esplosa: milioni di persone, anche in Italia, la verità ufficiale non se la bevono più.Fino a ieri, ad esempio, sarebbe stato impensabile organizzare un evento come quello in programma il 13 gennaio a Treviso: con Mazzucco e Chiesa, insieme a personaggi come Claudio Messora di “ByoBlu”, Diego Fusaro, Enrica Perucchietti. A promuovere l’operazione-verità è l’associazione SalusBellatrix, coordinata da Francesca Salvador: una delle voci della nuova cultura italiana, indipendente dai circuiti mainstream. Verità “altre”, in tutti i campi: dalla sconcertante Bibbia tradotta (alla lettera) da Mauro Biglino, al potere occulto delle 36 superlogge che dominano il mondo, svelato da Gioele Magaldi in “Massoni”, altro bestseller-fantasma (gettonatissimo dai lettori e oscurato da giornali e televisioni). Quanto conta, questa Italia? Abbastanza, se è vero che il Movimento 5 Stelle nato dal web ora è al governo, e che Marcello Foa (autore de “Gli stregoni della notizia”, che mette alla berlina i media e le loro menzogne) oggi è presidente della Rai. Conta parecchio, la nuova società in subbuglio, non solo nel nostro paese: se l’oligarca tedesco Günther Oettinger (Commissione Ue) ottiene una legge-bavaglio per frenare il web limitando i link e obbligando le piattaforme a filtrare i contenuti dei blog, un altro oligarca (Emmanuel Macron, prodotto massonico di casa Rothschild) è costretto a vedersela con i Gilet Gialli che paralizzano la Francia.Vuoi vedere che i pionieri come Francesca Salvador avevano visto giusto, anni fa, quando cominciarono ad aggregare platee attorno ai primi narratori eretici? Sono tante, in Italia, le entità culturali come la trevigiana SalusBellatrix: attraverso YouTube, sono riuscite a fare opinione diffondendo informazioni e idee. C’è un’Italia che il mainstream l’ha semplicemente aggirato, prendendolo alle spalle. Un dirigente del Cnr si lascia scappare, da Bruno Vespa, che è in un corso un esperimento di controllo climatico mondiale? A completare l’informazione provvede Mazzucco, nell’appendice YouTube della web-radio “Border Nights”: spiega che, già durante l’alluvione di Firenze, lo stesso Cnr emise un rapporto sui test, allora in corso, di “inseminazione” delle nubi per aumentare le precipitazioni. Forse così risulta meno oscura la possibile origine di fenomeni disastrosi, come i nubifragi che hanno raso al suolo le foreste delle Dolomiti. Il cielo è sempre meno blu, rigato fin dal mattino dalle scie stranamente persistenti rilasciate dagli aerei? Mentre il mainstream tenta di deridere chi “crede alle scie chimiche” (neanche fossero un dogma di fede, anziché un fenomeno visibile), sempre su “Border Nights” il generale Fabio Mini, già dirigente della Nato, avverte: i cittadini hanno il diritto di pretendere spiegazioni esaurienti, finora mai fornite, su questo fenomeno.«Remare contro la corrente della menzogna e dell’inganno – ammette Giulietto Chiesa – è faccenda che richiede pazienza quasi infinita, e anche rischio: può costare la vita». Costa sicuramente «la rinuncia a onori e prebende». E comporta «la disponibilità di non avere, in vita, alcun riconoscimento pubblico delle verità che sono state scoperte». Perché i “padroni universali” e i loro “gate keepers” hanno i mezzi per impedire che le vere notizie arrivino agli occhi e alle orecchie delle grandi masse popolari, spesso così condizionate – ormai da decenni – da non riuscire neppure ad accettarle, certe verità imbarazzanti. Lo sanno benissimo anche gli altri relatori della conferenza di Treviso: non poteva sperare, Mazzucco, che facesse il giro dei telegiornali la rivelazione dell’ultimo suo documentario “American Moon”, che dimostra – grazie al contributo dei più famosi fotografi del mondo – che le immagini del presunto “allunaggio” diffuse in mondovisione nel 1969 erano state realizzate in studio. Dalla trincea di “ByoBlu”, lo stesso Messora – cui Google ha rimosso di colpo la possibilità di finanziarsi con la pubblicità – sa benissimo quanto cosa lottare per informare i concittadini.Per dirla con Diego Fusaro, si tratta di dribblare «i padroni del discorso e la manipolazione di massa». Ne sa qualcosa Enrica Perucchietti, che ha spiegato – in brillanti saggi – come le “fake news” spacciate dai media servano anche a coprire il terrorismo “false flag”, quello che in Europa non colpisce mai nessun centro di potere, ma solo e sempre innocui passanti. “Fake news” sono anche quelle che proteggono, molto spesso, il business di Big Pharma, specie nel caso dei vaccini: ben poco spazio è stato concesso, mesi fa, alla notizia dei 7.000 militari italiani ammalatisi dopo frettolose somministrazioni. Quasi-silenzio anche sulla Puglia, dove la Regione – l’unica ad aver istituito un servizio di “farmacovigilanza atttiva” – ha scoperto che, tra i bambini appena vaccinati, 4 su 10 subiscono reazioni avverse. Là dove invece non si può tacere, perché la fonte è il presidente dell’ordine dei biologi, si cerca di far passare per pazzo il “disturbatore”, peraltro intervistato da un unico giornale, “Il Tempo”, diretto da Franco Bechis. Eppure, la notizia veicolata dal rappresentante dei biologi italiani, Vincenzo D’Anna, è clamorosa: sono stati scoperti vaccini contaminati (con antibiotici, feti abortiti e persino diserbanti agricoli) e vaccini inefficaci, perché privi nei necessari agenti immunizzanti.Di verità scientiche occultate è esperto Giorgio Iacuzzo, un altro degli esperti attesi a Treviso: ha lavorato nel cinema scientifico e tecnologico, scrive per periodici italiani e stranieri ed è pronto a rivelare alcuni dei “segreti di Stato in pillole” di cui è a conoscenza. Verità indicibili attorno al mondo scientifico, come quella sull’espianto degli organi: si intitola “Morte cerebrale, verità o finzione”, la relazione a cura del professor Rocco Maruotti, primario di chirurgia. Ulteriori informazioni, al pubblico di Treviso, saranno fornite da Sonia Saterini Burighel, della Lega Antipredazione Veneto. Tema: “La confusione in atto, in ordine alla donazione di organi, imposta nelle anagrafi quando il cittadino va a rinnovare la carta d’identità”. Primo passo: evitare gli equivoci. Che sono quotidiani (e spesso voluti, nel mondo dell’informazione) specie se c’è di mezzo una traduzione: lo conferma Paola Iacobini, laureata a Londra in mediazione linguistica. E’ un oceano, ormai, l’ambito di quella che un tempo si sarebbe chiamata controinformazione, all’epoca in cui il giornalismo aveva ancora una sua dignità: magari era reticente in qualche caso per compiacere l’editore, ma non aveva ancora abdicato alla sua funzione. Per il Premio Pulitzer americano Seymour Hersh, oggi non piangeremmo milioni di morti, se solo la stampa avesse smesso di fare il suo dovere: avremmo avuto meno stragi, meno guerre, meno terrorismo “sotto falsa bandiera”.Secondo Giulietto Chiesa, sempre assai pessimista sul destino che ci attende, c’è però uno spiraglio di luce, che si è aperto soltanto in quest’ultimo decennio: «La perdita del controllo da parte di coloro che erano certi di esserselo già definitivamente assicurato, per i secoli dei secoli». Sempre per Chiesa, la fibrillazione dei “gate keepers” sta assumendo vertici così acuti «da lasciarci supporre che temano di essere travolti dagli stessi strumenti di controllo e dominio che ritenevano le loro creazioni più perfette». Aggiunge: «Sono ora impegnati allo spasimo per costruire dighe atte a frenare il fiume e i canali per deviarne le correnti». Certo, siamo ancora molto lontani dall’ora della verità. «Ma a noi resta la sottile soddisfazione di osservare il terrore che pervade i dominatori e la loro affannosa ricerca di una via d’uscita». Fausto Carotenuto, già analista geopolitico dell’intelligence Nato (ora passato a una visione spiritualistica dell’esistenza), insiste su una tesi: almeno un terzo dell’umanità starebbe letteralmente uscendo dal letargo. «Se il mondo sta diventando così feroce – dice – è proprio perché i decisori lo sanno, e temono questo risveglio che ormai è in corso, e che sarà inarrestabile». Il sistema di dominio affina strumenti di manipolazione sempre più sofisticati? Vero, ma c’è anche il rovescio della medaglia: «Ci controllano perché ci temono. Facciamo paura, perché siamo tanti. Il nostro problema? Non ce ne rendiamo conto. Crediamo che i dominatori siano invincibili. Ma non lo sono, e lo sanno».(Sul sito dell’associazione SalusBellatrix sono rintracciabili tutte indicazioni per partecipare alla conferenza “E’ la stampa, bellezza”, domenica 13 gennaio 2019 a Treviso).«È la stampa, bellezza. E tu non puoi farci niente». Lo dice uno straordinario Humphrey Bogart alla fine del film “Deadline” di Richard Brooks (in italiano, “L’ultima minaccia”). Era il 1952: una profezia. Ancora oggi, ufficialmente, le Torri Gemelle sono crollate per colpa dell’impatto con aerei dirottati. La “demolizione programmata” è stata ormai dimostrata da oltre duemila architetti e ingegneri, eppure per l’11 Settembre la “verità” resta quella palesemente falsa. Grazie a chi? Ai media mainstream, che spacciano “fake news” governative. Il primo a denunciarlo, riguardo al caso delle Twin Towers, in Italia fu Giulietto Chiesa, con il libro “La guerra infinita”, uscito nel 2003 per Feltrinelli (e vendutissimo, nonostante il silenzio di giornali e televisioni). Ebbe più fortuna mediatica qualche anno dopo Massimo Mazzucco, con il suo esplosivo documentario “Inganno globale”, trasmesso da Mentana in prima serata a “Matrix”, su Canale 5. Un’eccezione, mai più ripetuta. «Arrivato a La7 – dice Mazzucco – Mentana poteva essere “il primo degli ultimi”, dando voce agli esclusi, e invece ha scelto di restare “l’ultimo dei primi”, accodandosi all’ufficialità». In compenso, ormai l’opinione pubblica più disincantata è letteralmente esplosa: milioni di persone, anche in Italia, la verità ufficiale non se la bevono più.
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La lotteria dell’universo e i numeri sbagliati del pianeta
La verità. La verità è che siamo fuori di qualche trilione. Lo so, ammise il supremo contabile; ma il problema, come sempre, è politico. Occorre ben altro che il pallottoliere: servono narrazioni, e il guaio è che i narratori ormai scarseggiano. Il Supremo aveva superato i sessant’anni ed era cresciuto al riparo dei migliori istituti, poi l’avevano messo alla prova per vedere se sarebbe stato capace di premere il pulsante. Intuì che premere il pulsante era l’unico modo per restare a bordo, e lo premette. Quando poi vide la reale dimensione del dramma, ormai era tardi: c’erano altri pulsanti, da far premere ad altri esordienti. Si fece portare un caffè lungo, senza zucchero, e provò il desiderio selvaggio di tornare bambino. Rivide un prato senza fine, gremito di sorrisi e volti amici, tutte persone innocue. Devo proprio aver sbagliato mondo, concluse, tornando alla sua contabilità infernale.Il messia. Alla mia destra, aveva detto, e alla mia sinistra. Sedevano a tavola, semplicemente. Avevano sprecato un sacco di tempo in chiacchiere inconcludenti, e lo sapevano. Con colpevole ritardo, dopo inenarrabili vicissitudini dai risvolti turpemente malavitosi, si erano infine rimessi al nuovo sire, l’inviato dall’alto. Familiarmente, tra loro, lo chiamavano messia, essendo certi che avrebbe fatto miracoli e rimesso le cose al loro posto, ma non osavano consentirsi confidenze di sorta: ne avevano un timoroso rispetto. Quell’uomo incuteva soggezione, designato com’era dal massimo potere superiore. Non restava che ascoltarlo, in composto silenzio, assecondandolo in tutto e sopportandone la postura da tartufo. La sua grottesca affettazione si trasformava inevitabilmente, per i servi, in squisita eleganza. Gareggiavano, i sudditi, in arte adulatoria. Stili retorici differenti, a tratti, permettevano ancora di distinguere i servitori seduti a destra da quelli accomodati a sinistra.Tungsteno. L’isoletta era prospera e felice, o almeno così piaceva ripetere al governatore, sempre un po’ duro d’orecchi con chi osava avanzare pretese impudenti, specie in materia di politica economica, magari predicando la necessità di sani investimenti in campo agricolo. Il popolo si sentì magnificare le virtù del nuovo super-caccia al tungsteno, ideale per la difesa aerea. Ma noi non abbiamo nemici, protestarono. Errore: potremmo sempre scoprirne. Il dibattito si trascinò per mesi. I contadini volevano reti irrigue, agronomi, serre sperimentali, esperti universitari in grado di rimediare alle periodiche siccità. Una mattina il cielo si annuvolò e i coloni esultarono. Pioverà, concluse il governatore, firmando un pezzo di carta che indebitava l’isola per trent’anni, giusto il prezzo di un’intera squadriglia di super-caccia al tungsteno.Stiamo pensando. Stiamo pensando alla situazione nella sua inevitabile complessità, alle sue cause, alle incidenze coincidenti ma nient’affatto scontate. Stiamo pensando a come affrontare una volta per tutte la grana del famosissimo debito pubblico, voi capite, il debito pubblico che è come la mafia, la camorra, l’evasione fiscale, l’Ebola, gli striscioni razzisti negli stadi, la rissa sui dividendi della grande fabbrica scappata oltremare, l’abrogazione di tutto l’abrogabile. Perché abbiamo perso? Stiamo pensando a come non perdere sempre, a come non farvi perdere sempre. Stiamo pensando, compagni. E, in confidenza, di tutte queste problematiche così immense, così universali, così globalmente complicate, be’, diciamocelo: non ne veniamo mai a capo. Il fatto è che non capiamo, compagni. Non capiamo mai niente. Ma, questa è la novità, ci siamo finalmente ragionando su. Stiamo pensando. Una friggitoria di meningi – non lo sentite, l’odore?Unni. Scrosciarono elezioni, ma il personale di controllo era scadente e il grande mago cominciò a preoccuparsi, dato che i replicanti selezionati non erano esattamente del modello previsto. Lo confermavano a reti unificate gli strilli dei telegiornali, allarmati anche loro dall’invasione degli Unni. Non si capiva quanto fossero sinceri i loro slogan, quanto pericolosi. Provò il dominus ad armeggiare con i soliti tasti, deformando gli indici borsistici, ma non era più nemmeno certo che il trucco funzionasse per l’eternità. Vide un codazzo di Bentley avvicinarsi alla reggia e si sentì come Stalin accerchiato dai suoi fidi, nei giorni in cui i carri di Hitler minacciavano Mosca. Ripensò ai tempi d’oro, quando gli asini volavano e persino gli arcangeli facevano la fila, senza protestare, per l’ultimissimo iPhone.(Estratto da “La lotteria dell’universo”, di Giorgio Cattaneo. “Siamo in guerra, anche se non si sentono spari. Nessuno sa più quello che sta succedendo, ma tutti credono ancora di saperlo: e vivono come in tempo di pace, limitandosi a scavalcare macerie. Fotogrammi: 144 pillole narrative descrivono quello che ha l’aria di essere l’inesorabile disfacimento di una civiltà”. Il libro: Giorgio Cattaneo, “La lotteria dell’universo”, Youcanprint, 148 pagine, 12 euro).La verità. La verità è che siamo fuori di qualche trilione. Lo so, ammise il supremo contabile; ma il problema, come sempre, è politico. Occorre ben altro che il pallottoliere: servono narrazioni, e il guaio è che i narratori ormai scarseggiano. Il Supremo aveva superato i sessant’anni ed era cresciuto al riparo dei migliori istituti, poi l’avevano messo alla prova per vedere se sarebbe stato capace di premere il pulsante. Intuì che premere il pulsante era l’unico modo per restare a bordo, e lo premette. Quando poi vide la reale dimensione del dramma, ormai era tardi: c’erano altri pulsanti, da far premere ad altri esordienti. Si fece portare un caffè lungo, senza zucchero, e provò il desiderio selvaggio di tornare bambino. Rivide un prato senza fine, gremito di sorrisi e volti amici, tutte persone innocue. Devo proprio aver sbagliato mondo, concluse, tornando alla sua contabilità infernale.
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Popolo, non people: democratizzare il globalismo di Davos
Democratizzare la globalizzazione: mettere in discussione il dogma della visione di sviluppo proposta dall’élite. La chiave: tornare a inglobare l’economia nella società e nella cultura, come proposto già nel 1944 dall’economista e filosofo ungherese Karl Polanyi, e poi nel 1985 dallo statunitense Mark Granovetter, ideologo della “nuova sociologia economica”. Sono le conclusioni alle quali perviene Mario D’Andreta, autore di una ricerca condotta sulle rappresentazioni sociali della globalizzazione all’interno del World Economic Forum di Davos. Dal suo resoconto, scritto per “Libreidee”, emergono alcune ipotesi interpretative su cui «fondare ipotesi di intervento per il cambiamento sociale». Psicologo clinico e delle organizzazioni, D’Andreta si occupa di ricerca indipendente sulle dimensioni psicosociali del potere e della globalizzazione. Cambiare, scrive nel suo intervento, significa innanzitutto eliminare una “parola densa” come “people”, recuperando il senso della parola greca “demos”, che si riferisce invece al potere di governo democratico dei cittadini. «Così riconfigurati in termini di cittadinanza globale, gli interlocutori dell’élite possono riacquistare autonomia decisionale e di autogoverno e promuovere la democratizzazione dal basso dei sistemi politici», verso la condivisione di un futuro comune, valorizzando «il senso del bene pubblico, concepito come appartenente alla collettività, in contrasto con il bene privato, che si riferisce a un possesso esclusivo, che priva qualcuno di qualcosa».Migliorare la comprensione per pianificare il cambiamento. I risultati della ricerca sociale di orientamento costruttivista e psicoanalitico evidenziano come il comportamento umano sia guidato dai significati condivisi dell’esperienza sociale soggettiva (Blumer 1969, Mead 1934, Berger and Luckmann 1966, Moscovici 1961, Matte Blanco 1975, Carli 1993). Questa prospettiva di analisi dei fenomeni sociali può essere utilizzata per comprendere i fattori culturali alla base dell’azione politica ed economica delle élites globali, che ci ha portato all’attuale stato di crisi sociale, economica ed ambientale. La comprensione di questi significati, infatti, può consentire di identificare possibili efficaci strategie di intervento per indurre un cambiamento mirato dello status quo, orientato a sviluppare una maggiore democrazia nei processi di governance globale, una maggiore giustizia economico-sociale e qualità della vita, volte a rafforzare i processi di convivenza civile a livello globale. Questo tipo di conoscenza orientata all’intervento per il cambiamento, come evidenziato dalla recente letteratura di matrice psicosociologica (Carli e Paniccia 2002), può essere ottenuta attraverso l’analisi dei discorsi socialmente prodotti intorno a temi di rilevanza collettiva, come in questo caso quello della globalizzazione, considerabile come il comune orizzonte di senso (weltanschauung) che guida l’azione sociale nel mondo di oggi. Sulla base di questi presupposti, ho condotto un’analisi del discorso sulla globalizzazione del World Economic Forum.L’immagine della globalizzazione. La rappresentazione della globalizzazione nell’élite di Davos che emerge da questa ricerca non appare univoca e monolitica, ma piuttosto composta da quattro differenti dimensioni culturali corrispondenti ai raggruppamenti (cluster) di parole dense ottenuti attraverso l’analisi statistica dei testi in esame. La prima dimensione è caratterizzata dai seguenti elementi: una rappresentazione negativa dell’altro da sé come una massa anonima di persone che agisce esclusivamente sulla base di fattori emotivi, invece che razionali, sulla base di parole dense quali people e believe; la proposizione di tre principali frame simbolici per l’attribuzione di significato alle esperienze di vita nell’era della globalizzazione, espressi dalle parole dense world, time e growth; l’impatto concreto che la globalizzazione ha sulla vita delle persone e soprattutto su quella dei giovani (in relazione a parole dense quali impact e young people); una forma di pensiero basata sul determinismo genetico e una conoscenza pragmatica orientata a prendere possesso della realtà attraverso la tecnologia (sulla base di parole dense quali engineer, think, history, ready, accelerate, life, industry).La seconda dimensione ruota attorno ai seguenti tre aspetti: la speranza messianica nella dimensione della grandezza o grandiosità, espresse dalle parole dense big e hope, in relazione ad istituzioni finanziarie internazionali quali l’African Development Bank e l’International Monetary Fund); la dinamica di dipendenza che queste istituzioni istituiscono con i loro interlocutori, in funzione di un obbligo a pagare (in termini di “condizionalità” ed interessi per restituire i prestiti ricevuti) che appare quasi come un dono riparatore volto a placarne le possibili ritorsioni, rappresentate dalla minaccia dell’inflazione e dell’imposizione di condizioni di vita al limite della sopravvivenza (l’austerity), che tengono costantemente sotto pressione i paesi europei (in relazione a parole dense quali stress, European countries, inflation, growth, strong, pay, price, Greece, shock); il predominio del fattore economico nella definizione delle politiche pubbliche, secondo i dogmi del libero mercato e del vantaggio personale (relativi a parole dense come policy, interest, Gdp, economy).La terza dimensione è focalizzata sui seguenti cinque punti: il perseguimento del rafforzamento della capacità di fornire, investire e gestire budget e fondi (relativo a parole dense come strengthen, invest, budget, fund, manage, provide); una visione distorta della competizione, basata sulla ricerca di condizioni di privilegio per battere i propri concorrenti attraverso l’eliminazione di ogni costrizione alla propria espansione, quali ad esempio le tasse, vissute come un’imposizione autoritaria che limita la soddisfazione dei propri bisogni (legata alle parole dense competition, advantage, need, tax); la conseguente esigenza di sviluppare un ordine sociale basato su un’idea di libertà concepita come assenza di restrizioni alla continua espansione e sviluppo di potere delle élites, ai danni però dei suoi interlocutori, rappresentati ad esempio da lavoratori posti in condizioni di sempre maggiore precariato (espressa dalle parole dense freedom, forecast, rule, boost, employee); l’importanza chiave degli strumenti cognitivi riguardo a capacità come percepire, riconoscere, distinguere, scegliere e stabilire, nel perseguimento di questo ideale di successo (relativi alle parole dense know, crisis, solve).La quarta dimensione comprende i seguenti elementi fondamentali: il ruolo delle istituzioni finanziarie sovranazionali (esemplificate in questo caso dall’InterAmerican Development Bank Group) nella creazione di un nuovo tipo di colonialismo attraverso la pratica degli aiuti allo sviluppo, che di fatto si traduce in uno scambio tra la condizione di sicurezza (psicologica, oltre che economica) fornita ai paesi beneficiari (qui esemplificati dalla parola densa Latin America & Caribbean) mediante i finanziamenti e la graduale espropriazione del potere politico ed economico di questi ultimi, che li pone in una condizione di dipendenza e sudditanza (sempre psicologica, oltre che economica) nei confronti dei propri finanziatori (in relazione alle parole dense sure, respect, establish, make decisions, benefit); gli effetti di schemi di finanziamento innovativi, come l’impact investment, che pur essendo mirati a generare benefici sociali (insieme ai rendimenti finanziari), diventano di fatto un modo per impossessarsi degli ultimi campi di intervento pubblico restanti quali il welfare, la salute, l’istruzione e l’energia (relativi alle parole dense impact-investors, tool, investor, finance, impact-investing); la necessità di integrare i paesi beneficiari degli aiuti allo sviluppo nel mito di fare soldi nelle loro regioni, che però potrebbe anche essere letto come fare soldi delle/o attraverso le loro regioni (rispetto alle parole dense making money e Region); la tendenza ad interfacciarsi esclusivamente con l’élite imprenditoriale di questi paesi, quale strategia efficace per perseguire i propri obiettivi e tenersi al riparo dal rischio di crisi (espressa dalle parole dense vis à vis, Ceo, seek, approve, full, completely).La cultura dell’élite di Davos: tra pretesa e adempimento. La caratteristica centrale della cultura della globalizzazione dell’élite di Davos emersa da questa analisi è la carenza di democrazia nei processi decisionali, sia a livello relazionale che organizzativo. A livello relazionale, questo è espresso da specifici modelli di dinamiche intersoggettive emozionali e motivazionali. Le prime si caratterizzano per i seguenti elementi: la provocazione rappresentata dalla pretesa di imporre una visione dogmatica della realtà, il controllo dell’adempimento degli obblighi che ne derivano, la sfiducia verso l’altro da sé (per la sua connotazione negativa ed il rischio di mancato rimborso dei finanziamenti ricevuti), la preoccupazione e la lamentela contro i limiti. Queste dinamiche emozionali rivelano un approccio alle relazioni sociali orientate al possesso dell’altro piuttosto che a uno scambio produttivo e creativo con lui, che può essere letto come espressione della paura nei confronti dell’altro e della sua ignota imprevedibilità, derivante dalla sua rappresentazione come nemico. Ciò porta alla tendenza di tentare di trasformare l’altro sconosciuto in un amico noto, dato per scontato e assimilato alle proprie categorie, nel tentativo di eliminare la sua imprevedibilità ed il rischio delle sue possibili manifestazioni di ostilità.Ciò, tuttavia, implica inevitabilmente la negazione delle differenze e la perdita delle opportunità che esse offrono. Lo schema motivazionale risulta caratterizzato dalla prevalenza del bisogno di potere come motivazione sociale dominante, articolata in tre dimensioni: un modello gerarchico che contrappone l’élite ai suoi interlocutori, la dimensione di grandiosità a chi spera in essa, gli amministratori delegati ai lavoratori, i finanziatori ai beneficiari dei finanziamenti; una dinamica polarizzata di appartenenza/esclusione dal sistema di potere, basata sulla dipendenza affettiva verso l’altro (espressione del bisogno motivazionale di affiliazione nel modello di Mc Clelland), indotta dalla logica del sostegno finanziario ai programmi di sviluppo; ed una dinamica manipolativa basata sulla contrapposizione tra apparenza e realtà, come evidenziato dal contrasto tra l’immagine positiva delle politiche di assistenza allo sviluppo e l’espropriazione del potere politico ed economico locale prodotto dalla sua logica esclusivamente finanziaria.Per quanto riguarda il livello organizzativo, la carenza di democrazia è espressa da una concezione dogmatica e aprioristica delle istituzioni finanziarie internazionali, radicata in una dimensione mitica che le fa percepire come immutabili e poco inclini al cambiamento e al miglioramento. Il funzionamento di queste organizzazioni appare infatti basato quasi esclusivamente su un mandato sociale legato al rispetto di sistemi di valori socialmente fondati, conformi ai loro fini, e su una funzione sostitutiva nella fornitura dei loro servizi (aiuto allo sviluppo e gestione delle crisi del debito sovrano), legata alla dimensione fortemente tecnocratica che le caratterizza, in virtù della quale i tecnici (gli esperti) si sostituiscono agli utenti dei loro servizi, espropriandoli del loro potere decisionale. In tal modo, queste organizzazioni operano senza una vera committenza da parte dei loro beneficiari e quindi non rispondono né sembrano ritenersi responsabili delle esigenze, aspettative e obiettivi di questi ultimi, né dell’efficacia dei servizi ad essi forniti.Cosa è possibile fare per cambiare questo stato di cose? Sulla base di queste considerazioni, possono essere ipotizzate diverse strategie di intervento per mutare lo scenario sin qui evidenziato. L’implementazione di queste strategie richiede tuttavia un coinvolgimento attivo e responsabile di tutti gli interlocutori delle élites globali. L’obiettivo principale legato alla dimensione relazionale concerne la definizione e la messa in atto, in maniera partecipativa, di nuove regole di gioco per la convivenza sociale che consentano di contenere le possibili manifestazioni di ostilità entro la relazione tra sistemi di appartenenza e l’ignota alterità dell’estraneo. Questo richiede di configurare l’altro non più come nemico o amico noto, ma come amico sconosciuto, da conoscere in una relazione di scambio reciproco, producendo creativamente insieme per il bene comune. Questo modello di relazioni sociali permette di liberare il proprio potere creativo (potere del fare), evitando il rischio di trasformare la propria eventuale impotenza creativa e produttiva in forme di potere su qualcuno o qualcosa (inteso come una forma di possesso).Per quanto riguarda la motivazione al potere, il passaggio da un modello relazionale basato sul potere sull’altro a quello caratterizzato dallo scambio produttivo con lui, consente di aggirare il modello gerarchico di relazione, dirigendo l’attenzione su obiettivi e prodotti del rapporto con l’altro e sullo sviluppo delle competenze necessarie per perseguirli in modo efficace. Di conseguenza, anche la dinamica dell’appartenenza, radicata nelle emozioni del potere e dell’appartenenza, può cambiare, passando dal modello del possesso dell’altro a quello dello scambio con l’altro. In tal modo, superando il possesso dell’altro come espressione dominante del potere, si possono anche contrastare le forme manipolative del potere (come le attuali forme di assistenza allo sviluppo che portano all’esproprio del potere locale), poiché il potere viene indirizzato verso una più creativa costruzione del bene comune. A livello organizzativo, l’obiettivo principale del miglioramento riguarda il passaggio da una logica di azione basata sull’adempimento ad una orientata ad obiettivi e prodotti concordati, considerati come mezzi di verifica dell’efficacia dell’azione sociale. Ciò consentirebbe di passare da una modalità organizzativa interamente basata sulla legittimazione sociale ad una guidata dalla committenza di prodotti e servizi verificabili da parte dei loro destinatari, in base alle loro esigenze e ai loro obiettivi.Di conseguenza, i destinatari potrebbero aumentare il loro ruolo attivo nella relazione con la funzione tecnica, che quindi potrebbe essere orientata ad integrare il loro potere decisionale, facilitando lo sviluppo delle loro competenze nel raggiungimento autonomo dei propri obiettivi. Questo richiede la messa in discussione, in modo sempre più dialettico e argomentativo, del dogma della visione di sviluppo proposta dall’élite e di lavorare sulla definizione e l’attuazione di ipotesi e modelli alternativi, ad esempio volti a re-inglobare l’economia nella società e nella cultura, come proposto da Polanyi (1944) e Granovetter (1985). Per promuovere questo processo di cambiamento della cultura organizzativa dell’élite di Davos, è necessario, ad esempio, che i beneficiari delle istituzioni finanziarie internazionali cambino il loro atteggiamento nei confronti di queste organizzazioni, proponendosi come committenti che richiedono loro servizi, sulla base di specifiche esigenze, obiettivi e prodotti attesi. Questi ultimi rappresentano, infatti, i mezzi di verifica per valutare l’efficacia di queste organizzazioni nel realizzare gli obiettivi proposti e promuovere il cambiamento ed il miglioramento delle loro modalità di funzionamento.La precondizione per procedere efficacemente in questa direzione è il cambiamento dell’immagine sociale degli interlocutori dell’élite, superando la connotazione negativa ad essi attribuita dall’élite con la parola densa people, (etimologicamente riconducibile all’idea della classe infima della popolazione), attraverso il recupero del senso della parola greca démos, che si riferisce invece al potere di governo democratico dei cittadini. Così riconfigurati in termini di cittadinanza globale, gli interlocutori dell’élite possono riacquistare autonomia decisionale e di autogoverno e promuovere la democratizzazione dal basso dei sistemi politici di governo (in termini sia di democrazia partecipativa che rappresentativa), in una prospettiva di costruzione collettiva e condivisa del futuro comune. Ciò comporta il recupero del senso del bene pubblico, concepito come appartenente alla collettività, in contrasto con il bene privato, che si riferisce a un possesso esclusivo, che priva qualcuno di qualcosa. Il perseguimento di questo processo di trasformazione culturale richiede lo sviluppo di competenze specifiche, orientate allo sviluppo di una cittadinanza attiva e consapevole; il che può diventare anche l’obiettivo e il prodotto su cui ricostruire il senso dello scopo sociale dell’educazione pubblica e della sua efficacia produttiva.(Mario D’Andreta, “L’immagine della globalizzazione dell’élite di Davos: conoscere per intervenire”, da “Libreidee” del ….. . Nel suo blog, D’Andreta propone alcune riflessioni intorno ai temi della convivenza sociale, dello sviluppo locale, della globalizzazione, del benessere psicosociale e di ecologia acustica. Può essere contattato alla mail mario.dandreta@libero.it).https://mariodandreta.net/Riferimenti bibliografici per lo studio su Davos:Berger, P. L. and T. Luckmann (1966), The Social Construction of Reality: A Treatise in the Sociology of Knowledge, Garden City, NY: Anchor BooksBlumer, Herbert. (1969), Symbolic Interactionism; Perspective and Method. Englewood Cliffs, NJ: Prentice-Hall Print.Carli, R. (1993) (a cura di), L’analisi della domanda in psicologia clinica, Giuffré, MilanoCarli, R., & Paniccia, R. M. (2002). L’Analisi Emozionale del Testo. Milano: Franco Angeli.Granovetter, M. (1985). Economic Action and Social Structure: The Problem of Embeddedness. American Journal of Sociology. 91 (3): 481–510.Matte Blanco, I. (1975) The Unconscious as Infinite Sets. London: KarmacMcClelland, D.C. (1987). Human motivation. New York: University of CambridgeMead, George H. (1934). Mind, Self, and Society. The University of Chicago PressMoscovici, S. (1961). La psychanalyse, son image et son public. Paris: Presses Universitaires de France.Polanyi, K. (1944). The Great Transformation. New York: Farrar & RinehartTransnational Institute (2015), Who are the Davos class? Disponibile all’indirizzo http://davosclass.tni.org, ultimo accesso dicembre 2015Democratizzare la globalizzazione: mettere in discussione il dogma della visione di sviluppo proposta dall’élite. La chiave: tornare a inglobare l’economia nella società e nella cultura, come proposto già nel 1944 dall’economista e filosofo ungherese Karl Polanyi, e poi nel 1985 dallo statunitense Mark Granovetter, ideologo della “nuova sociologia economica”. Sono le conclusioni alle quali perviene Mario D’Andreta, autore di una ricerca condotta sulle rappresentazioni sociali della globalizzazione all’interno del World Economic Forum di Davos. Dal suo resoconto, scritto per “Libreidee”, emergono alcune ipotesi interpretative su cui «fondare ipotesi di intervento per il cambiamento sociale». Psicologo clinico e delle organizzazioni, D’Andreta si occupa di ricerca indipendente sulle dimensioni psicosociali del potere e della globalizzazione. Cambiare, scrive nel suo intervento, significa innanzitutto eliminare una “parola densa” come “people”, recuperando il senso della parola greca “demos”, che si riferisce invece al potere di governo democratico dei cittadini. «Così riconfigurati in termini di cittadinanza globale, gli interlocutori dell’élite possono riacquistare autonomia decisionale e di autogoverno e promuovere la democratizzazione dal basso dei sistemi politici», verso la condivisione di un futuro comune, valorizzando «il senso del bene pubblico, concepito come appartenente alla collettività, in contrasto con il bene privato, che si riferisce a un possesso esclusivo, che priva qualcuno di qualcosa».
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Il Corriere: aerosol tra le nuvole, la geoingegneria è realtà
Nuvole gonfiate e aerosol salveranno la Terra? Lo scrive, già nel 2012, il “Corriere della Sera”, presentando la geoingegneria come «la (buona) scienza che manipola il clima». Tempi non sospetti: sei anni fa era ancora scarso il “gossip” sulle cosiddette scie chimiche, e forse i cieli non erano ancora così intasati di “strisce” rilasciate dagli aerei, fino a stendere quello strano, persistente velo nuvoloso al quale siamo ormai abituati anche nelle giornate serene. Soprattutto, non era ancora accaduto che un paese come l’Italia venisse colpito da tempeste violentissime, con venti furiosi (190 chilometri orari) in grado di sradicare centinaia di migliaia di alberi proprio il 4 novembre, anniversario della Grande Guerra, e proprio nella geografia del Nord-Est – le Dolomiti, il Piave – che nel 1918 salutò l’affermazione “patriottica” della giovane nazione italiana. Complottisti scatenati e dubbiosi in aumento, vista la perdurante riluttanza delle autorità nel rilasciare dichiarazioni chiarificatrici, una volta per tutte, riguardo all’ipotetica correlazione tra scie bianche, innalzamento climatico ed eventi catastrofici generati dal meteo “impazzito”. Nulla che peraltro non fosse paventato, come pericoloso effetto collaterale, dagli esperti sondati nel 2012 da Emanuele Buzzi, autore di una ricognizione giornalistica per il “Corriere”.Un tramonto rosso fuoco perenne e specchi giganti nello spazio per riflettere la luce solare? «Orizzonti alla Blade Runner, ma non è fantascienza», scrive Buzzi. «È il futuro (forse) del nostro pianeta: ipotesi di ingegneria climatica che sono già al vaglio degli esperti». Per Buzzi, sei anni fa, la geoingegneria era «una realtà complessa», che stava «mobilitando la comunità scientifica internazionale», facendola discutere. Obiettivo dichiarato: «Combattere il surriscaldamento globale», ma con interventi molto diversi tra loro: «C’è chi studia l’immagazzinamento e lo smaltimento di anidride carbonica e c’è un ramo più radicale che propone esperimenti “solari”, che mutino o catturino le radiazioni a livello della stratosfera». Molto prudente, allora, un tecnico come Antonello Provenzale, ricercatore del Cnr di Torino in forza all’Isac, Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima: «A mio parere, mentre ha senso la rimozione di CO2, sono ancora inopportuni interventi di altro tipo». Ovvero: «Prima di agire ci sono dei fattori che vanno presi in considerazione: la sostenibilità nel tempo di azione del genere, la loro effettiva efficacia e la nascita di ampie alleanze geopolitiche in grado di sostenerle».Le teorie al vaglio degli scienziati, scrive Buzzi nel 2012, spaziano per cieli, terra, aria e mari: «Si va dalla “semina” di ferro negli oceani, per aumentare la presenza dei microrganismi che intercettino la CO2, all’adozione di specie di piante ad alto potere riflettente, alla messa in orbita di giganteschi parasole». Ma l’idea più discussa «riguarda l’uso di gas aerosol come l’anidride solforosa da immettere con costanza nella stratosfera per riflettere la luce solare». Controindicazioni del caso: «Secondo alcuni studiosi (e detrattori della teoria), le emissioni assottiglierebbero lo strato di ozono». In realtà, sottolinea il “Corriere”, i gas aerosol sono già presenti nell’atmosfera. E non solo: «Negli ultimi anni», annota lo stesso Provenzale, «sono state individuate altre due cause oltre all’effetto serra che hanno provocato l’innalzamento delle temperature: la massiccia deforestazione e l’uso di gas aerosol di origine antropica, specie in Cina e nel Sudest Asiatico». Una differenza però c’è: «Rispetto all’anidride carbonica, questi gas stanno meno tempo nell’atmosfera, circa 10-15 giorni».Intanto, segnala il “Corriere” sempre nel 2012, l’idea di manipolare il clima «ha già catturato l’attenzione di plurimiliardari come Bill Gates, Richard Branson e il fondatore di Skype, Niklas Zennstrom». Anche Buzzi cita il Bpc, Bipartisan Policy Center di Washington, indicato dal reporter Gianni Lannes come think-tank neocon, punta di lancia della lobby che spingerebbe per la manipolazione climatica tramite l’irrorazione sistematica dei cieli. Il “Corriere” la definisce «un’organizzazione non profit fondata da quattro ex senatori Usa, due repubblicani e due democratici», che nel 2011 ha invitato la Casa Bianca a creare «un programma di ricerca federale». Scienziati delle università inglesi, aggiunge Buzzi, hanno organizzato «un test per pompare nella stratosfera particelle chimiche». Esperimento che però è «abortito», anzi «rimandato». Anche perché è stata proprio la Royal Society britannica, alla conferenza sul clima di Durban nel 2011, a presentare un rapporto sugli scenari della geoingegneria: «Giocare con la natura in questo modo deve essere solo una soluzione estrema», scrivevano sette anni fa gli scienziati inglesi, «ed è comunque una soluzione pericolosa».Sulla stessa linea anche un report commissionato dal ministero dell’educazione e della ricerca tedesco, che all’epoca auspicava «ulteriori ricerche» e sosteneva che «le conseguenze dell’utilizzo di queste tecniche non possono essere stimate con la precisione necessaria». Nessun allarmismo in Cina, invece, dove si ipotizzano nuove frontiere, chiosa Buzzi sul “Corriere”: a Pechino, «gli effetti della geoingegneria sono già tangibili», da molti anni. Nel 2012 la Cina ammise di stipendiare non meno di 36.000 “rainmaker”, equipaggiati con razzi, cannoni e arei per intervenire sulle nubi e scatenare precipitazioni nelle zone aride. «Mentre in altri paesi sono state sperimentate solo occasionalmente, a Pechino e nella regione di Jilin le piogge artificiali – grazie a nuvole “gonfiate” con ioduro d’argento – sono una realtà», scriveva Buzzi, sei anni fa. «E il governo – aggiungeva – sta pianificando di estendere l’esperimento ad altre cinque zone». Oltre alla Cina, l’altro paese che ammette di condurre test di manipolazione meteo è Israele, mentre analoghe notizie filtrano da Messico e Sudafrica. Nel frattempo, i nostri cieli si sono riempiti di strisce bianche rilasciate dagli aerei: semplici scie di condensazione, secondo le autorità, che però non spiegano come mai l’ipotetico vapore acqueo non si dissolva, ma anzi permanga in atmosfera per ore, estendendosi fino a velare interamente il cielo.Nuvole gonfiate e aerosol salveranno la Terra? Lo scrive, già nel 2012, il “Corriere della Sera”, presentando la geoingegneria come «la (buona) scienza che manipola il clima». Tempi non sospetti: sei anni fa era ancora scarso il “gossip” sulle cosiddette scie chimiche, e forse i cieli non erano ancora così intasati di “strisce” rilasciate dagli aerei, fino a stendere quello strano, persistente velo nuvoloso al quale siamo ormai abituati anche nelle giornate serene. Soprattutto, non era ancora accaduto che un paese come l’Italia venisse colpito da tempeste violentissime, con venti furiosi (190 chilometri orari) in grado di sradicare centinaia di migliaia di alberi proprio il 4 novembre, anniversario della Grande Guerra, e proprio nella geografia del Nord-Est – le Dolomiti, il Piave – che nel 1918 salutò l’affermazione “patriottica” della giovane nazione italiana. Complottisti scatenati e dubbiosi in aumento, vista la perdurante riluttanza delle autorità nel rilasciare dichiarazioni chiarificatrici, una volta per tutte, riguardo all’ipotetica correlazione tra scie bianche, innalzamento climatico ed eventi catastrofici generati dal meteo “impazzito”. Nulla che peraltro non fosse paventato, come pericoloso effetto collaterale, dagli esperti sondati nel 2012 da Emanuele Buzzi, autore di una ricognizione giornalistica per il “Corriere”.
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Strinati: caro Giacomelli, unico giudice ucciso in pensione
Un delitto “senza”: senza clamore e senza assassini (mai trovati), senza movente per lungo tempo, senza lapidi e celebrazioni per ricordare l’uomo e il magistrato. Un delitto senza niente e senza tutto, quello del giudice trapanese Alberto Giacomelli, freddato dai killer il 14 settembre 1988: il primo a morire già in pensione, dopo aver osato (di nuovo: per primo) applicare in Sicilia la legge Rognoni-La Torre sulla confisca dei patrimoni mafiosi. «Un giudice dimenticato un attimo dopo la sua morte violenta», lo ricorda Attilio Bolzoni nella sua prefazione della biografia “Un uomo per bene” (Edb, 2018) scritta da Salvo Ognibene. Giacomelli? «Inghiottito da maldicenze e depistaggi, dall’omertà, dall’ignoranza. Inghiottito da una Sicilia che appena qualche giorno dopo stava piangendo il presidente della Corte d’assise Antonino Saetta e qualche giorno dopo ancora il giornalista Mauro Rostagno». Proprio ad Alberto Giacomelli, su Libridee, Fabio Strinati dedica un’intensa rievocazione poetica.Si saprà solo dopo molti anni – quando ne parleranno i pentiti di Cosa Nostra – che Alberto Giacomelli aveva “pagato” per avere confiscato con un provvedimento un “bene di famiglia”, una proprietà di Gaetano Riina, il fratello dello “zio Totò”, il capo dei capi, in quel 1988 latitante già da quasi vent’anni. Giacomelli, scrive ancora Bolzoni, era presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Trapani: un uomo defilato, silenzioso, sobrio. Dietro il sipario, decideva i destini economici di quei “galantuomini”. E aveva «messo la sua firma su un patrimonio che per sua volontà e in nome del popolo italiano non apparteneva più al mafioso di Corleone», il feroce padreterno che in Sicilia «decideva chi doveva vivere e chi doveva morire». Così è uscito di scena, in punta di piedi, «un coraggiosissimo magistrato siciliano che non aveva mai avuto le attenzioni dei cronisti o le luci degli studi televisivi». Così è morto in solitudine Alberto Giacomelli, classe 1919, in magistratura dal ‘45, congedato nell’87 e assassinato appena un anno dopo, con un proiettile in testa.Il fatale provvedimento l’aveva firmato quattro anni prima. Pentiti di mafia e collaboratori di giustizia confermarono che fu proprio quella decisione a costargli la vita. Per la prima volta, Cosa Nostra decise di colpire un magistrato giudicante. E quello di Giacomelli resta l’unico caso di omicidio, nella storia d’Italia, di un magistrato in pensione. Ancora Bolzoni inquadra l’omicidio nella luce sinistra del biennio ‘88-89, che preparò le stragi di Capaci e via d’Amelio. «Corvi, talpe, sciacalli, candelotti di dinamite, “menti raffinatissime”, misteri che hanno fatto tremare l’isola e anche l’Italia». Inquietante il diario dell’ex sindaco palermitano Giuseppe Insalaco, che proprio nel 1988 indicò i “buoni” (Piersanti Mattarella, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Cesare Terranova e Pio La Torre, tutti assassinati), additando fra i “cattivi” Salvo Lima e Andreotti, il procuratore capo Vincenzo Pajno e l’esattore mafioso Ignazio Salvo. «E in mezzo, una Palermo sprofondata nella paura», in balìa dei sicari di Riina.Il maxi-processo si era concluso un anno prima, con le prime e decisive condanne per la Cupola. «L’impianto accusatorio del pool antimafia aveva retto alla prova della Corte d’Assise, ma in tanti speravano nell’appello per disintegrare quel capolavoro di ingegneria giudiziaria che aveva inventato Giovanni Falcone». Era già arrivata la stagione del disincanto, scrive Bolzoni. Fu in quella primavera, aggiunge, che a Roma «decisero di scavare la fossa istituzionale a Falcone». Al posto di Antonino Caponnetto, il consigliere istruttore che aveva sostituito Rocco Chinnici (saltato in aria nell’83), il Csm nominò «un vecchio magistrato che non sapeva nulla di questioni mafiose e che in poche settimane disintegrò a colpi di penna “l’unicità” di Cosa Nostra, sparpagliando in mille rivoli tutte le indagini che il pool aveva centralizzato». Per Bolzoni, era la fine di un metodo di lavoro e di investigazione che aveva dato per la prima volta straordinari risultati. «Un segnale per Giovanni Falcone, dentro e fuori Palermo, dentro e fuori lo Stato». Paolo Borsellino denunciò «la fine della lotta alla mafia».L’estate siciliana del 1988, aggiunge Bolzoni, se ne andò con un titolo in prima pagina – ogni giorno – su tutti i quotidiani italiani. Era esploso il “caso Palermo”, con il suo tribunale ormai chiamato il Palazzo dei Veleni, le infuocate polemiche sulla mancata nomina di Falcone a consigliere istruttore, il cambio improvviso dei vertici della polizia palermitana, i timori degli ambienti politici romani, le speranze dei siciliani. «Un’estate inquieta, che non era ancora finita. E il 14 settembre, di mattina, nel silenzio più cupo uccisero Alberto Giacomelli, giudice figlio di un giudice, che da poco più di un anno aveva lasciato la toga». Delle indagini, ricorda oggi la Rai, si occupò lo stesso Borsellino, poi ucciso in via d’Amelio, in collaborazione con Paolo Germanà, scampato ai killer a Mazara del Vallo quattro anni dopo. Una storia esemplare ma coperta dal silenzio, quella di Giacomelli, in un paese – scrive Ognibene – che ha il difetto di dimenticare in fretta. Anche per questo assume un particolare valore la tensione emotiva della poesia di Strinati, commosso omaggio a un uomo mite e giusto come Giacomelli.AD ALBERTO GIACOMELLIHanno contaminato il tuo addomeavvelenato il tuo dabbene sguardosottratto la tua anima alla vitausando il megafono della violenzail microfono dell’arroganza,il sotterfugio putrido vile dell’ignoranza;hanno calpestato il tuo onorepestato il tuo cognome da galantuomoscucito al mondo il tuo sorrisodelicato che sapeva come corteggiare la speranza;hanno usato la peggior vergognaper ammorbare il tuo esile corpoattraverso un colorante colmo, strapieno di sangue…e ti hanno tolto l’esistenzaperché figli di un frutto acerbodi un albero avverso nutrito dal morbofradicio della menzognala più cattiva rogna che sembra uno sciame,intinto, in un volume abnorme di peccato.(Fabio Strinati)Fabio Strinati (Esanatoglia, 1983) è poeta, artista visivo, compositore e fotografo. È presente in diverse riviste e antologie letterarie. Da ricordare “Il Segnale”, rivista letteraria fondata a Milano dal poeta Lelio Scanavini, la rivista Fabio Strinati“Sìlarus” fondata da Italo Rocco, e “Osservatorio Letterario – Ferrara e L’Altrove”. È stato inserito da Margherita Laura Volante nel volume “Ti sogno, Terra”, viaggio alla scoperta di Arte Bellezza Scienza e Civiltà, inserito nei “Quaderni del Consiglio Regionale delle Marche”. Sue poesie sono state tradotte in romeno e in spagnolo. È inoltre il direttore della collana poesia per “Il Foglio Letterario” e cura una rubrica poetica dal nome “Retroscena”, proprio sulla Rivista trimestrale del “Foglio Letterario”. Pubblicazioni: “Pensieri nello scrigno. Nelle spighe di grano è il ritmo” (2014); “Un’allodola ai bordi del pozzo” (2015); “Dal proprio nido alla vita” (2016); “Al di sopra di un uomo” e “Periodo di transizione” (2017), “Aforismi scelti Vol.2” e “L’esigenza del silenzio” (2018).Un delitto “senza”: senza clamore e senza assassini (mai trovati), senza movente per lungo tempo, senza lapidi e celebrazioni per ricordare l’uomo e il magistrato. Un delitto senza niente e senza tutto, quello del giudice trapanese Alberto Giacomelli, freddato dai killer il 14 settembre 1988: il primo a morire già in pensione, dopo aver osato (di nuovo: per primo) applicare in Sicilia la legge Rognoni-La Torre sulla confisca dei patrimoni mafiosi. «Un giudice dimenticato un attimo dopo la sua morte violenta», lo ricorda Attilio Bolzoni nella sua prefazione della biografia “Un uomo per bene” (Edb, 2018) scritta da Salvo Ognibene. Giacomelli? «Inghiottito da maldicenze e depistaggi, dall’omertà, dall’ignoranza. Inghiottito da una Sicilia che appena qualche giorno dopo stava piangendo il presidente della Corte d’assise Antonino Saetta e qualche giorno dopo ancora il giornalista Mauro Rostagno». Proprio ad Alberto Giacomelli, su Libridee, Fabio Strinati dedica un’intensa rievocazione poetica.