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Mazzucco, l’11 Settembre e la religione di Fausto Biloslavo
Se il simpatico Fausto Biloslavo fosse un avvocato, anziché un giornalista, il suo assisito – gli Usa – non avrebbe scampo: l’ergastolo non glielo leverebbe nessuno. Il difensore, infatti, non sa spiegare le circostanze fondamentali del crimine, i fatti: non sa spiegare come mai le Torri Gemelle crollarono su se stesse in pochi secondi, come può avvenire solo nei casi di demolizione controllata (con edifici minati dalle fondamenta), né sa spiegare com’è possibile che un Boeing possa volare a 900 chilometri orari, ad appena duecento metri di altezza, senza disintegrarsi nell’impatto con l’aria. Tra le tante, basterebbero queste due “prove regine” a inchiodare l’imputato: la sua versione risulta palemesente falsa. Eppure “l’avvocato” Biloslavo (che su questo si dichiara incompetente) ammette, candidamente, di “credere” alla versione ufficiale sull’11 Settembre. Unanime il verdetto: non della corte, ma del pubblico (in questo caso, della trasmissione “Il Ring”, offerta da “ByoBlu” mettendo a confronto Biloslavo con Massimo Mazzucco, autore di due monumentali documentari sull’attacco alle Torri, il primo dei quali – “Inganno globale” – trasmesso nel 2006 da Enrico Mentana a “Matrix”, in prima serata su Canale 5).Beninteso: è fuori discussione l’assoluta buona fede di Biloslavo, rinomato reporter di guerra in forza al “Giornale”. Lo dimostra il candore con cui ribadisce la sua tesi, sorvolando sull’evidenza dei fatti principali: gli Usa furono davvero colpiti da un maxi-attentato inatteso, e solo l’indomani decisero di approfittare della “nuova Pearl Harbor”, abusando del loro potere “imperiale” per esportare la guerra in mezzo mondo. «Me lo disse il comandante Massud, in persona: Al-Qaeda si stava preparando a colpire le città occidentali». E chi era, Al-Qaeda? E’ evidente, ammette Biloslavo, il ruolo dei sauditi. Il giornalista non esclude neppure che qualche settore dell’intelligence Usa possa esser stato al corrente della minaccia, che sarebbe stata in ogni caso sottovalutata. Sempre ricorrendo alla sua fede nella versione ufficiale, lo stesso Biloslavo esclude categoricamente che lo stratega americano Zbiginew Brzezinski possa aver reclutato Osama Bin Laden, in Afghanistan, originariamente in funzione antisovietica. Sul web circolano foto che ritraggono i due, ma Biloslavo – senza un perché – afferma di non credere all’autenticità di quelle foto, che peraltro (dice) non ha neppure mai visto.Se uno volesse inforcare le lenti della dietrologia, scoprirebbe che Gioele Magaldi, nel libro “Massoni” (Chiarelettere, 2014) afferma di poter esibire prove schiaccianti, contenute in documenti riservati ma all’occorrenza pubblicabili. Testualmente: proprio Brzezinski affiliò Bin Laden alla superloggia “Three Eyes”, dominata da Kissinger, per farne una pedina strategica del disegno imperiale statunitense durante la guerra fredda. Più tardi, caduta l’Urss, lo stesso Brzezinski ci rimase male, quando il “fratello” Bin Laden abbandonò la “Three Eyes” per passare alla “Hathor Pentalpha” creata dai Bush, con un obiettivo preciso: elevare all’ennesima potenza il ruolo del terrorismo internazionale, “islamico” solo nella sua manovalanza, per farne un decisivo strumento di potere a livello geopolitico. Da quella “officina supermassonica” nacque il Pnac dei neocon, in cui – nel 2000 – si scrive che, per militarizzare il pianeta, occorre l’alibi di una “nuova Pearl Harbor”. L’anno dopo, tutto accadde in tre giorni: il 9 settembre venne ucciso Massud, il 10 settembre Bush esaminò il piano di invasione dell’Afghanistan e l’indomani, finalmente, crollarono le Torri.Per Biloslavo, a uccidere il leader dell’Alleanza dei Nord fu Al-Qaeda. I due killer erano agli ordini del “signore della guerra” Burnuddin Hekmathyar. Non è più un segreto per nessuno che lo stesso Hekmathyar fosse a libro paga dell’Isi, il servizio segreto militare del Pakistan, longa manus della Cia. Lo ribadì Benazir Bhutto, annunciando di volersi candidare a Islamabad anche per denunciare il legame tra servizi segreti atlantici e Al-Qaeda: hanno ucciso Massud, disse, per eliminare l’unico leader autorevole in circolazione in Afghanistan, capace quindi di restituire piena sovranità al paese una volta sfrattati i Talebani. Faceva così paura, la verità di Benazir Bhutto, che fu uccisa con un’automoba nel 2007, alla vigilia di elezioni che, secondo ogni previsione, l’avrebbero incoronata alla guida del Pakistan con un autentico plebiscito. Ma in un’ora e mezza di serrato confronto – quasi cavalleresco, se non fosse per le continue interruzioni imposte da Biloslavo a Mazzucco, nonostante l’ottima conduzione di Francesco Toscano – il giornalista non ha neppure vagamente sfiorato la maniglia della porta proibita, quella che permette di accedere alle fonti che raccontano l’altra verità, la più scomoda.Biloslavo preferisce credere alle dichiarazioni processuali di un terrorista tuttora nelle mani degli americani, che l’hanno torturato per vent’anni a Guantanamo (Khalid Sheik Mohammed: sostiene di esser stato il regista dell’operazione su ordine di Bin Laden), mentre ritiene inattendibili le testimonianze di 108 pubblici ufficiali – poliziotti e pompieri di New York – che dichiarano di aver percepito distintamente una serie di esplosioni simultanee, nelle Torri Gemelle, in prossimità dell’impatto dei velivoli. Semplicemente, Biloslavo ritiene implausibile la teoria dell’auto-attentato: un gesto troppo mostruoso, e un complotto troppo difficile da attuare (mantenendo poi il silenzio per vent’anni). Una tesi che ricorda quella agitata, per decenni, dai sostenitori della versione ufficiale sull’omicidio di John Kennedy. Tuttora, c’è chi ripete che non esistono ragioni valide per dubitare che l’assassino fu Lee Harvey Oswald. Peccato che la versione ufficiale sia stata letteralmente demolita dagli stessi autori del complotto, esecutori e mandanti intermedi. Storia che lo stesso Mazzucco ha ricostruito, prove alla mano, in un esemplare documentario di mezz’ora.L’amante di Lyndon Johnson, che odiava i Kennedy, ha ammesso che l’allora vicepresidente le confessò l’imminente fine di Jfk, la sera prima dell’attentato, dopo un summit a Dallas con i vertici della Cia e dell’Fbi. In punto di morte, l’allora numero due della Cia – Howard Hunt – registrò una dichiarazione in cui ammise di aver orchestrato il delitto usando sicari della mafia. Il pilota di un aereo della Cia, Tosh Plumlee, ha ammesso di aver trasportato a Dallas uno dei capimafia incaricati dell’esecuzione, Johnny Rosselli, confermando che il tiratore scelto – Chuck Nicoletti – li attendeva nella città texana. A far esplodere il cervello di Kennedy fu James Files, reo confesso, tuttora detenuto negli Usa. Consegnò a un detective privato, Joe West, la pistola fumante: se fate riesumare la salma di Kennedy, gli disse, troverete nel cranio le tracce di mercurio con cui era imbottito il fatale proiettile. Il detective West corse dal giudice, ma non fece in tempo a far riaprire il caso: morì in seguito a complicazioni cliniche dopo un ordinario intervento chirurgico. Il killer, James Files, è ancora in carcere, senza che nessuno si sia preso la briga di interrogarlo, né di far riesumare il cadavere di Kennedy. Si preferisce ancora credere che a sparargli fu Oswald, presentato come uno squilibrato assassino solitario, senza complici né coperture.Troppo dura, ammettere che siano stati i vertici di uno Stato a decidere di ammazzare il presidente? Se c’è un complotto, prima o poi la verità viene sempre a galla, dice Biloslavo. La confessione di Howard Hunt, altissimo dirigente della Cia, è datata 2007: quasi mezzo secolo dopo il crimine. Dall’11 Settembre sono passati appena vent’anni, ma molte verità sono già emerse. Per una piena confessione occorreanno ancora un paio di decenni? Biloslavo ride, del cosiddetto complottismo: gli sembra puro delirio, come quello dei terrapiattisti. Proprio per questo, probabilmente, Mazzucco – nei panni di pubblico ministero di un ipotetico processo – si tiene alla larga da qualsiasi tesi: non si sbilancia sui possibili autori del complotto, né sulle modalità di esecuzione. Per esempio: quali esplosivi sarebbero stati usati per minare le Torri? «Non sta a me sostenere l’onere della prova» ribadisce: «Mi basta dimostrare che la versione ufficiale non regge». Per 3.500 ingegneri e architetti americani, le Twin Towers furono demolite in modo controllato: in base alle leggi della fisica, solo abbattendo i supporti sottostanti si può verificare un crollo simile, in pochi secondi.Quanto agli aerei è la stessa Boeing a confermare: a quella quota, se un aereo come quelli volasse a 900 chilometri orari perderebbe i pezzi, subendo il distacco delle ali. E dunque? Se quelli non erano Boing normali ma aerei-bomba rinforzatati e telecomandati, dove sarebbero finiti i passeggeri? Bella domanda, dice Mazzucco: forse un giorno lo scopriremo. I 19 ipotetici dirottatori – quelli che in realtà non erano in grado di pilotare aerei – non sono mai stati filmati, negli scali d’imbarco. E sono almeno una trentina i fatti – i riscontri oggettivi, incontrovertibili – che demoliscono la versione ufficiale, nella quale Biloslavo dichiara di “credere” (se non altro perché non osa prendere in considerazione, psicologicamente, l’idea del maxi-complotto). Intanto – e non è poco – ha comunque accettato di confrontarsi con Mazzucco, stimatissimo negli Usa per il suo lavoro di indagine giornalistica. E, con la trasmissione web-streaming del 14 febbraio su “ByoBlu”, Messora e Toscano hanno fatto un piccolo capolavoro di informazione: dimostrando, in un leale confronto alla pari, che il mainstream media non sa spiegare, tecnicamente, perché le Torri Gemelle crollarono in quel modo (e neppure se lo domanda, a distanza di vent’anni).Se il simpatico Fausto Biloslavo fosse un avvocato, anziché un giornalista, il suo assistito – gli Usa – non avrebbe scampo: l’ergastolo non glielo leverebbe nessuno. Il difensore, infatti, non sa spiegare le circostanze fondamentali del crimine, i fatti: non sa spiegare come mai le Torri Gemelle crollarono su se stesse in pochi secondi, come può avvenire solo nei casi di demolizione controllata (con edifici minati dalle fondamenta), né sa spiegare com’è possibile che un Boeing 767 possa volare a 900 chilometri orari, ad appena duecento metri di altezza, senza disintegrarsi nell’impatto con l’aria. Tra le tante, basterebbero queste due “prove regine” a inchiodare l’imputato: la sua versione risulta palesemente falsa. Eppure “l’avvocato” Biloslavo (che su questo si dichiara incompetente) ammette, in modo disarmante, di “credere” alla versione ufficiale sull’11 Settembre. Unanime il verdetto: non della corte, ma del pubblico (in questo caso, della trasmissione “Il Ring“, offerta da “ByoBlu” mettendo a confronto Biloslavo con Massimo Mazzucco, autore di due monumentali documentari sull’attacco alle Torri, il primo dei quali – “Inganno globale” – trasmesso nel 2006 da Enrico Mentana a “Matrix”, in prima serata su Canale 5).
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Soleimani come Massud: ucciso l’eroe, seppellirai la pace
Qassem Soleimani era certamente un militare, un duro, ma era anche uomo di Stato, un consigliere politico insostituibile per la “guida suprema” dell’Iran, l’ayatollah Alì Khamenei: in quella veste «ha dimostrato di essere un uomo di stabilizzazione, un tessitore, al pari della sua risolutezza come guerriero». Attenzione: nel 2001, un paio di giorni prima dell’11 Settembre, il leggendario guerrigliero afghano Ahmad Shah Massud venne ucciso in un attentato. Chi lo fece (il signore della guerra Gulbuddin Hekmatyar, agente dell’Isi – l’intelligence pakistana, braccio operativo della Cia) sapeva benissimo che da lì a poco l’Afghanistan sarebbe stato invaso. I killer di Massud non volevano tra i piedi un eroe nazionale che rappresentasse un punto di stabilità per quel paese. «Chi ha ucciso Soleimani sa bene cosa sta per succedere e ha inteso togliere di mezzo preventivamente un perno di stabilità per tutta la regione». E’ l’analisi che Simone Santini offre, dal blog “Megachip”, per leggere tra le righe del caos scatenato dall’infame agguato terroristico statunitense, in territorio iracheno, costato la vita al leader dei Pasdaran, eroe nazionale iraniano e liberatore della Siria grazie alla storica sconfitta impartita al’Isis, la sanguinosa formazione terrorista sunnita finanziata e protetta dall’Occidente.Da Santini, uno sguardo disincantato e prospettico sul nuovo pericoloso incendio mediorientale, scatenato – colpendo l’Iran – per minare il possibile rafforzamento dell’asse tra Teheran e Pechino (e magari Mosca) nel quadro della “nuova guerra fredda” in corso (o, se si preferisce, Terza Guerra Mondiale a puntate). Già tre anni fa, all’indomani della elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, Santini elencava i compiti che sarebbero stati affidatio all’amministrazione Trump. Primo: ripristinare e proteggere l’economia interna, ricostruendo le sue basi fondamentali. Ovvero: Stati Uniti rimessi in pista come motore produttivo, manifatturiero, verso la piena occupazione, mettendo fine alle delocalizzazioni selvagge. Poi: distensione con la Russia, ma senza cedere nulla di quanto conquistato nel frattempo. Tradotto: «Congelamento dello status quo, fine delle aggressioni, reciproco rispetto formale e collaborazione laddove gli interessi fossero convergenti». Cruciale il capitolo Cina, come si è visto: massima competizione commerciale ed economica con Pechino, «ma senza spingere al momento sull’acceleratore del confronto militare». Sul medio periodo, prevedeva Santini, «si dovrà alzare sempre più l’asticella della competizione globale e porre Pechino davanti ad una scelta strategica: accettare la supremazia americana in cambio di una parziale condivisione dei dividendi dell’Impero oppure il confronto militare, sempre più aggressivo».E intanto: «Concentrarsi nell’immediato sullo scacchiere mediorientale, lo scenario più urgente». Dunque: «Fine della sponsorizzazione del jihadismo sunnita, che ha esaurito in quell’area la sua funzione, e spinta verso la democratizzazione delle petromonarchie del Golfo, a partire dall’Arabia Saudita. Il nemico principale, tuttavia – sottolineava Santini tre anni fa – torna ad essere lo sciismo politico e i suoi alleati, il cosiddetto asse della resistenza, e il suo centro nevralgico, l’Iran». Le linee di faglia su cui si sarebbe mossa l’amministrazione americana erano dunque ben visibili da subito, conferma oggi l’analista di “Megachip”. «Questi tre anni di presidenza, turbolenti, ci hanno poi confermato quelle direttrici e consentito di approfondire taluni approcci». In particolare, per quanto riguarda il confronto con l’Iran, «Trump è apparso bilanciarsi tra le due fazioni principali dello Stato Profondo statunitense che, semplificando e banalizzando, si potrebbero così riassumere: la fazione realista, “il partito dell’assedio”, per cui il nemico va accerchiato, logorato, ma non colpito a fondo perché poi diventa molto difficile ricomporre i cocci di quel che si è rotto; la fazione idealista, messianica, “il partito della guerra”, per cui vale il motto “colpisci per primo, colpisci due volte, e sui cocci pisciaci sopra”».Tra queste due posizioni “imperiali”, ne esistono tante altre, variegate e composite, e Trump è a cavallo di una di queste. «Nel gruppo di potere che lo ha portato alla Casa Bianca, ad esempio – scrive oggi Santini – ci sono quelli che vorrebbero concentrarsi esclusivamente sugli affari interni lasciando sullo sfondo il resto del pianeta, e le lobbies ultrasioniste il cui unico interesse è togliere di mezzo la Repubblica islamica iraniana». L’assassinio di Qasem Soleimani, secondo Santini, dimostra che il “partito della guerra” ha preso definitivamente il controllo della strategia nei confronti dell’Iran. «Se Trump abbia preso tale decisione o sia stato messo davanti al fatto compiuto sarà materia di dibattito per gli storici, ma non cambia la situazione», aggiunge l’analista. «In ogni caso, c’è chi ritiene prevalente l’ipotesi di una decisione diretta del presidente, soprattutto per scopi elettorali: creare un nemico esterno imminente lo aiuterebbe a tirarsi fuori dai guai interni, richiesta di impeachment e collaterali (va aggiunto che anche Israele è, di nuovo, in campagna elettorale, e questa tornata è esistenziale per Netanyahu ancor più che per Trump)». La tesi opposta è quella di un Trump che non vorrebbe lo scontro diretto, ma vi è spinto dai falchi del complesso militare-industriale. «Tutto più o meno plausibile», annota Santini: «Personalmente propendo per una ipotesi intermedia, rifacendomi anche ad un precedente storico», quello di Bill Clinton.Durante tutto il 1998, l’allora presidente vide montare in maniera virulenta lo scandalo Lewinsky, un sexgate che portò alla sua incriminazione per spergiuro ed ostacolo alla giustizia. «Clinton non aveva a cuore la crisi internazionale che si stava profilando all’orizzonte, il Kosovo: sapeva a malapena dove si trovasse». Poi, improvvisamente – continua Santini – nell’autunno inoltrato di quell’anno, «quando lo scandalo interno era al culmine, decise di mettere la crisi balcanica al centro della sua azione politica». Miracolo: «Altrettanto improvvisamente la crisi interna si sgonfiò». E la crisi del Kosovo, «da affare regionale, divenne affare globale». Si domanda Santini: «Furono molto bravi gli strateghi di Clinton a sviare l’attenzione o, piuttosto, il sexgate rivelò la sua vera natura?». Si trattò quindi di «uno strumento di pressione montato ad arte da alcuni centri di potere, per fare sì che il presidente, e alcuni altri centri di potere che egli rappresentava, portassero gli Stati Uniti in guerra». In altre parole: «Sventolando il Kosovo davanti a Clinton fu facile trovare un accordo win-win: tu ci dai la guerra e il sexgate finisce nel dimenticatoio». Mutatis mutandis, può essere accaduto lo stesso in questa fase tra Trump, i gruppi di potere del Deep State, l’impeachment e l’Iran.A questo punto, prosegue Santini nella sua analisi, si fa un gran discutere su quali potrebbero essere le future mosse degli iraniani: la preoccupazione di una escalation è fortissima e tangibile, visto che si temono ripercussioni drammatiche. «Alcuni analisti sostengono che gli Usa stiano scherzando col fuoco, che hanno commesso un errore fatale, che la politica estera statunitense è allo sbando, chiaro segnale del loro inarrestabile declino». Santini non è affatto d’accordo: «Ritengo invece che questa escalation, questa accelerazione di fase, sia stata lucidamente pianificata e perseguita». Infatti, le due conseguenze immediate che ha già prodotto «sono esattamente quelle che gli americani si attendevano». Tanto per cominciare, «l’Iran si è ritirato dall’accordo nucleare». Il governo di Rouhani-Zarif ha resistito fino all’ultimo: «Ha resistito alla denuncia unilaterale del trattato da parte americana, che lo rendeva di fatto vuoto, ha resistito alla imposizione di ulteriori pesantissime sanzioni che stanno avendo profondi effetti sulla società iraniana». I politici di Teheran «hanno più volte chiesto sostegno diplomatico agli immobili e tremebondi paesi europei, inutilmente».Ora, aggiunge Santini, «l’atto terroristico americano, una sorta di dichiarazione di guerra, ha colpito sotto la cintola la componente moderata del potere iraniano», che di fatto «non può più resistere alle pressioni della componente radicale senza esserne travolta sul piano interno». E così, «gli Stati Uniti hanno di nuovo lo strumento retorico e mediatico principe da brandire contro l’Iran e contro i riottosi alleati europei per giustificare le prossime aggressioni: la paura della bomba atomica in mano agli ayatollah (e poco importa se tale minaccia sia sempre stata inesistente, conta solo che venga percepita come tale)». La seconda conseguenza, poi, secondo Santini è molto sottile da interpretare: «Che il Parlamento iracheno abbia decretato la cacciata delle truppe straniere di occupazione dal paese potrebbe sembrare una sconfitta per gli americani, ma così non è». Il governo iracheno infatti è fragilissimo, di fatto dimissionario dopo le imponenti manifestazioni popolari contro corruzione e condizioni economiche dei mesi scorsi, represse a costo di centinaia di morti e migliaia di feriti, e che si sono interrotte solo in seguito alla promessa del premier Abdul-Mahdi di dimettersi. «Un governo in queste condizioni non ha la minima forza per imporre la decisione assunta contro gli Stati Uniti».L’Iraq si trova, oggettivamente, in una condizione di pre-guerra civile. «Se fossi uno stratega americano, o israeliano, farei il possibile per favorire tale drammatico esito», scrive Santini. Tutti nemici: iracheni contro curdi e sunniti contro sciiti, ma le divisioni interne travagliano le stesse componenti sciite. «Il mondo sciita non è monolitico», spiega Santini: «In particolare, la dottrina khomeinista ha prodotto al suo interno una profonda frattura di ordine religioso ma con importanti riflessi politici», dato che «religione e politica nell’Islam si intrecciano intimamente». In Iraq «esistono fazioni sciite radicali ma nazionaliste (la principale è quella che fa capo a Moqtada al Sadr) e fazioni sciite altrettanto radicali ma filo-iraniane (che si richiamano alla ideologia e organizzazione degli Hezbollah libanesi)». Gli sciiti nazionalisti iracheni – aggiunge Santini – mal sopportano (è un eufemismo) l’ascesa egemonica degli sciiti filo-iraniani in Iraq. Sicchè, lo scontro armato è all’ordine del giorno, visto che «questi partiti, gruppi e fazioni sono tutti strutturati in organizzazioni paramilitari». Dare la parola alle armi? «Sarebbe possibile se il paese sprofondasse nel caos», in una sorta di “tutti contro tutti” dagli esiti imprevedibili.In quel caso, conclude Santini, «l’Iran sarebbe risucchiato in questa guerra civile irachena e ne uscirebbe ulteriormente dissanguato». Dopo due guerre che hanno raso al suolo l’Iraq, emerge una verità di fondo: «Gli americani in questi lunghi anni di occupazione hanno dimostrato di non avere la forza militare sufficiente per imporre la loro egemonia, ma ce l’hanno a sufficienza per “controllare” una guerra civile, aperta o sotterranea, indefinitamente, finché fosse nel loro interesse». Ed ecco che, alla luce di questa analisi, risulta meno “folle” e incomprensibile l’efferata uccisione del grande tessitore carismatico Soleimani, che Santini – in modo davvero suggestivo – accosta alla fine, altrettanto atroce, che la longa manus terroristica degli Usa riservò al “leone del Panshir”, l’eroe nazionale afghano che (come il guerriero Soleimani) avrebbe avuto il prestigio, l’autorevolezza e la popolarità per imporre la pace, mettendo fine alle ingerenze internazionali nel suo tormentato paese. Ieri il comandante Massud, oggi il generale Soleimani: e i registi della morte provengono dalla medesima capitale, Washington.Qassem Soleimani era certamente un militare, un duro, ma era anche uomo di Stato, un consigliere politico insostituibile per la “guida suprema” dell’Iran, l’ayatollah Alì Khamenei: in quella veste «ha dimostrato di essere un uomo di stabilizzazione, un tessitore, al pari della sua risolutezza come guerriero». Attenzione: nel 2001, un paio di giorni prima dell’11 Settembre, il leggendario guerrigliero afghano Ahmad Shah Massud venne ucciso in un attentato. Chi lo fece (il signore della guerra Gulbuddin Hekmatyar, agente dell’Isi – l’intelligence pakistana, braccio operativo della Cia) sapeva benissimo che da lì a poco l’Afghanistan sarebbe stato invaso. I killer di Massud non volevano tra i piedi un eroe nazionale che rappresentasse un punto di stabilità per quel paese. «Chi ha ucciso Soleimani sa bene cosa sta per succedere e ha inteso togliere di mezzo preventivamente un perno di stabilità per tutta la regione». E’ l’analisi che Simone Santini offre, dal blog “Megachip“, per leggere tra le righe del caos scatenato dall’infame agguato terroristico statunitense, in territorio iracheno, costato la vita al leader dei Pasdaran, eroe nazionale iraniano e liberatore della Siria grazie alla storica sconfitta impartita al’Isis, la sanguinosa formazione terrorista sunnita finanziata e protetta dall’Occidente.
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A chi giovano le sconcertanti minacce rivolte a Mentana?
Tutto si può imputare, a Enrico Mentana, tranne che la mancanza di cordialità e di umana empatia. E’ un affabile surfer, il direttore del telegiornale de La7, nel mare tempestoso delle fake news ufficiali: magari dribbla le verità più scomode e sta ben attento a non uscire mai dalla cornice disegnata dagli spin doctor dell’establishment, ma almeno non partecipa alle crocifissioni rituali che il sistema infligge, con acrimonia, a questo e a quello, attraverso propagandisti con la bava alla bocca, travestiti da giornalisti. Di tutto si sentiva la mancanza, oggi in Italia, fuorché di un bel costume da martire, tagliato su misura per l’Enrico nazionale. Alla bisogna ha prontamente provveduto la mano (anonima, ovviamente) che gli ha indirizzato minacce mafiose, evocando l’oscura escatologia della forca che attenderebbe, un giorno, i malfattori della disinformazione. La minaccia è stata accolta così seriamente da mobilitare nientemeno che il primo ministro, dichiaratosi preoccupato per l’incolumità della libera informazione – che evidentemente nel nostro paese esiste ancora, secondo Giuseppe Conte.Par di sentire l’eco di antiche, orrende canzoni. Del tipo: negli anni di piombo, giornalisti come Indro Montanelli finirono all’ospedale “gambizzati” (mentre altri, come Walter Tobagi e Carlo Casalegno, non ebbero altrettanta fortuna). Nel saggio “Gli stregoni della notizia”, Marcello Foa – ora presidente della Rai – accusa frontalmente la categoria a cui appartiene: l’autocensura quotidiana, praticata in ossequio al potere, mina il giornalismo. Gli toglie prestigio e credibilità, e alla fine indebolisce il sistema democratico stesso, privandolo delle verità indispensabili alla buona salute dell’opinione pubblica. Oggi ci si mette a ridere, al solo ricordo della fialetta agitata da Colin Powell alle Nazioni Unite, per sembrare più convincente nel vendere la bufala delle armi di sterminio di Saddam. Ma il sorriso sparisce subito, se solo si prova a far presente – anche a Mentana – che architetti e ingegneri americani hanno dimostrato, in modo ormai incontrovertibile, che le Torri Gemelle non possono essere crollate in quel modo solo per l’impatto di aerei dirottati.Con Enrico Mentana ha ingaggiato una sorta di leale duello a distanza, a viso aperto, un personaggio come il regista e video-reporter Massimo Mazzucco, autore del primo documentario d’inchiesta sull’11 Settembre, “Inganno globale”, trasmesso proprio da Mentana nel 2006 in prima serata, su Canale 5. Bei tempi, dice Mazzucco, quando l’Enrico faceva ancora il giornalista, e quindi dava spazio anche all’altra campana, la versione non ufficiale dei fatti. Col tempo, non ha solo silenziato le indagini indipendenti sull’11 Settembre. Si è allineato all’establishment su tutto: dalla politica all’economia, sposando in modo acritico la teologia dell’austerity. Vale anche per il cosiddetto complottismo declassato a gossip. Invece di indagare giornalisticamente sulle scie che stranamente imbrattano i cieli da alcuni anni, suscitando interrogativi nella popolazione (e persino interrogazioni in Parlamento), si preferisce ridere di “quelli che credono alle scie chimiche”. Le famiglie italiane sono state terremotate dall’obbligo vaccinale per bambini e neonati? E certo, lo vuole “la scienza”. E la sanità della Regione Puglia, che ha scoperto che il 40% dei bimbi vaccinati ha subito reazioni avverse? E non è “scienza” l’ordine dei biologi, che ha scoperto vaccini “sporchi” e inefficaci, perché privi degli agenti immunizzanti?Mazzucco si occupa anche di vaccinazioni – come tanti, sul web – cercando di mettere insieme notizie e ragionamenti logici. Consultando i maggiori fotografi internazionali, nel documentario “American Moon” ha dimostrato che le immagini del mitico allunaggio del 1969 furono girate in studio. Si è occupato anche di cannabis, Mazzucco, scoprendo che c’era la lobby del petrolio dietro la storica decisione di criminalizzare di punto in bianco l’uso della canapa, oggi rivalutata in campo oncologico. E sempre a proposito di salute, lo stesso Mazzucco si è occupato anche di cancro, rivelando che – da cent’anni – i medici che avrebbero imparato a guarire i pazienti colpiti da tumori vengono semplicemente ignorati e silenziati, quando non messi all’indice. Milanese come Mentana, Mazzucco è nato come fotografo, assistente di Oliviero Toscani. Poi è passato al cinema, lavorando per anni – da regista e sceneggiatore – negli studios della De Laurentiis, a Hollywood. Fino a quel maledetto lunedì 11 settembre 2001, quando ha visto il seguente spettacolo: due aerei hanno potuto centrare le Torri Gemelle senza che nessun F-16 si fosse levato il volo, quantomeno nell’eternità di tempo trascorsa tra il primo e il secondo impatto.Quella mattina, a proteggere la superpotenza più armata del mondo c’erano solo due velivoli pronti a decollare, muniti di missili, più altri due di riserva. Tutti gli altri – centinaia – erano stati trasferiti per esercitazioni concomitanti, lontanissimo da New York. Una circostanza più che anomala: mai prima verificatasi, nella storia degli Usa (né mai più ripetutasi, infatti). Nel saggio “La guerra infinita”, uscito nel 2003, Giulietto Chiesa ricorda che l’ordine di attacco per l’Afghanistan era sulla scrivania di George W. Bush già il 9 settembre 2001, lo stesso giorno in cui i terroristi del “signore della guerra” Gulbuddin Hekmatyar uccisero l’unico legittimo leader agfhano, Ahman Shah Massoud. Troppo ingombrante, Massoud: campione della resistenza nazionale, prima contro l’Urss e poi contro i Talebani, sarebbe stato facilmente acclamato come nuovo presidente, una volta riconquistata Kabul. Gli assassini di Massoud – disse Benazir Bhutto – erano protetti dall’Isi, l’intelligence militare del Pakistan, succursale della Cia. «Mi candido alle elezioni», annuciò la Bhutto, «per ristabilire la verità». Saltò in aria in piena campagna elettorale, il 27 dicembre 2007, dilaniata da una bomba.Spesso, Enrico Mentana ha espresso nostalgia per il suo primo amore, la politica estera. Che fine ha fatto, dopo tanti anni, la voglia di scavare dietro la verità ufficiale della geopoltica? Mentana ha fatto la storia del giornalismo televisivo italiano: giovane esponente del Psi approdato in Rai grazie a Bettino Craxi, nel 1991 – a soli 37 anni – accettò la grande scommessa prospettatagli da Berlusconi: creando l’allora rivoluzionario Tg5, mandò in pensione il letargico e paludato Tg1, imponendo un nuovo tipo di informazione, brillante e fulminea, che già anticipava la velocità attuale del web, l’immediatezza istantanea dei social. Una volta approdato a La7, Mazzucco gli rinfaccia di essersi sprofondato nella nuova poltrona: poteva essere “il primo degli ultimi”, la maggiore delle voci indipendenti (in piena coerenza con la sua storia professionale) e invece si è rassegnato a essere “l’ultimo dei primi”, mestamente allineato al coro.Le residue illusioni sono cadute dando uno sguardo allo strombazzatissimo giornale online che Mentana ha aperto, in proprio, con il lodevole intento di dare spazio ai giovani giornalisti. Sulla nuova testata, “Open”, le notizie di apertura sono però di questo tenore: “Suoni e visioni: Google lancia l’Interpreter Mode, è l’inizio della fine degli interpreti umani?”. Ora, Mentre Mazzucco e gli altri ex estimatori augurano la buonanotte al fu Enrico Mentana, c’è però chi gli augura tutt’altro: “Presto vi puniremo, sappiamo tutto di voi, punirvi è un dovere”. Questo il messaggio che Mentana ha ricevuto, firmato “Boia chi molla”, con tanto di svastica. L’Italia ribolle di risentimenti, in parte fuori controllo: il governo gialloverde ha provato a metterci una pezza, ma con risultati deludenti. La stessa Europa sta franando, dai Gilet Gialli alle convulsioni post-Brexit. La tensione è in aumento ovunque, dopo gli opachi attentati domestici di marca Isis. Si avvicinano le europee, insieme alla temuta recessione. Cresce il caos? Manca solo il fantasma peggiore: quello del terrorismo. Qualcuno – non si sa chi – lo rianima prontamente, riuscendo a trasformare in quasi-eroe persino lo sbiadito, reticente Enrico Mentana.Mala tempora currunt: su pressione dell’oligarca tedesco Günther Oettinger, commissario Ue, il Parlamento di Strasburgo ha gettato le basi per un vero e proprio bavaglio del web, che impone il filtro dei contenuti sulle maggiori piattaforme (Google, Facebook, YouTube) e mette virtualmente fine alla libera circolazione dei link. E’ di questo che ha paura, il mainstream, dopo le ultime sconfitte subite: il referendum di Renzi e l’euro-diserzione del Regno Unito, la vittoria di Trump e quella dei gialloverdi. Comunque vada a finire, se mai dovesse sciaguratamente prendere corpo una reale minaccia di tipo terroristico contro la cosiddetta libera informazione, ci ritroveremmo di fronte a un copione già scritto: ancora più potere ai media mainstream, e un’ulteriore emarginazione dei media indipendenti, comodamente criminalizzabili in blocco. Come ha da poco ricordato lo stesso Mazzucco, l’imbecille di turno non manca mai. Il problema non è lui, ma chi poi lo manipolerà. Storia: le prime Br erano un fenomeno spontaneo. Quelle che uccisero Moro, non più.Di tutte le guerre striscianti in corso oggi, quella per l’informazione è la più cruciale: senza l’appoggio “militare” del mainstream, uno come Monti sarebbe stato preso a pesci in faccia, nel 2011. I vari Cottarelli e Moscovici possono sfilare tranquillamente in passerella davanti alle telecamere: nessun grande giornale e nessun telegiornale prenderà mai in seria considerazione le voci, anche molto autorevoli, che smontano ogni giorno le loro tesi. E’ una vera e propria emergenza democratica, quella dell’informazione manipolata. Lo dimostra, ogni giorno di più, il deficit di credibilità che oggi colpisce i giornalisti, una categoria di cui ormai la maggioranza della popolazione non si fida più. Attaccarli in modo sgangherato e proditorio non può che rafforzarli, puntellandone la pericolante attendibilità. Saranno ancora loro a scendere nell’arena delle prossime europee, ciascuno scrupolosamente “embedded”, precisamente istruito dai club come l’Aspen, il Bilderberg e la Trilaterale, sempre così premurosi nel fabbricare il consenso quotidiano attorno all’oligarchia neoliberista che ha silenziosamente svuotato le nostre democrazie, appaltate a politici di cartone trasformati in star da ex giornalisti che di tutto si occupano, tranne che delle vere ragioni della grande crisi.(Giorgio Cattaneo, “A chi giovano le sconcertanti minacce rivolte a Enrico Mentana?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 17 gennaio 2019).Tutto si può imputare, a Enrico Mentana, tranne che la mancanza di cordialità e di umana empatia. E’ un affabile surfer, il direttore del telegiornale de La7, nel mare tempestoso delle fake news ufficiali: magari dribbla le verità più scomode e sta ben attento a non uscire mai dalla cornice disegnata dagli spin doctor dell’establishment, ma almeno non partecipa alle crocifissioni rituali che il sistema infligge, con acrimonia, a questo e a quello, attraverso propagandisti con la bava alla bocca, travestiti da giornalisti. Di tutto si sentiva la mancanza, oggi in Italia, fuorché di un bel costume da martire, tagliato su misura per l’Enrico nazionale. Alla bisogna ha prontamente provveduto la mano (anonima, ovviamente) che gli ha indirizzato minacce mafiose, evocando l’oscura escatologia della forca che attenderebbe, un giorno, i malfattori della disinformazione. La minaccia è stata accolta così seriamente da mobilitare nientemeno che il primo ministro, dichiaratosi preoccupato per l’incolumità della libera informazione – che evidentemente nel nostro paese esiste ancora, secondo Giuseppe Conte.
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Il vero motivo della morte di Carlo Giuliani al G8 di Genova
Non sparate a casaccio sulla polizia, si raccomanda Franco Gabrielli dalle pagine del “Manifesto”, ripercorrendo l’inferno del G8 di Genova rievocato dal “quotidiano comunista”, secondo cui «la credibilità della polizia è da ricostruire». A stretto giro, la risposta – durissima – del padre di Carlo Giuliani, affidata al blog “Contropiano” dopo che, scrive, il “Manifesto” ha rifiutato di pubblicargliela. La tesi del capo della polizia: c’erano anche i carabinieri, a Genova, insieme ad altri organi dello Stato; per questo non è giusto criminalizzare un’istituzione che, assicura Gabrielli, si è ampiamente emendata dai gravi errori commessi. Giuliano Giuliani concorda solo in parte: è oggi questore di Pesaro, scrive, il funzionario che a piazza Alimonda accusò un manifestante di aver ucciso suo figlio, «completando così l’indegna azione di un carabiniere che con una pietra ha spaccato la fronte di Carlo agonizzante». Paura e odio, furore, guerriglia: sotto i riflettori, per anni, gli attori di quella spaventosa pagina italiana, per la quale si è parlato di “sospensione della democrazia”. D’accordo, ma il movente? Perché trasformare Genova nel teatro di una carneficina? Lo spiega un ex dirigente della Nsa, Wayne Madsen. L’intelligence Usa, rivela, ha piegato le forze dell’ordine italiane a un disegno oscuro: quel sangue doveva servire a seppellire per sempre il movimento NoGlobal, di cui le multinazionali avevano il terrore, all’alba del nuovo millennio.Missione compiuta, si direbbe: dopo Seattle, Praga e altre fiammate, a Genova nel luglio del 2001 è stato letteralmente soppresso «il primo movimento di protesta, nella storia dell’Occidente, capace di mobilitarsi in modo disinteressato, cioè senza più difendere singole cause territoriali, nazionali o di categoria, ma schierandosi in modo permanente a tutela dei diritti dell’umanità, in ogni continente». Lasciata l’intelligence Usa (l’agenzia resa tristemente celebre dallo scandaloso “datagate” spionistico del governo Obama), Madsen è divenuto un fiero accusatore di un sistema manipolatorio che a Genova, dice, richiedeva un preciso tributo di sangue: la morte di Carlo Giuliani, la “macelleria messicana” dei ragazzi inermi nella scuola Diaz (col pretesto di bombe molotov introdotte dagli stessi agenti) e poi l’incubo delle torture inflitte ai “prigionieri” nella caserma di Bolzaneto. Tutta quella violenza barbarica sembra portare la stessa “firma” della mano segreta che, di lì a un paio di mesi, avrebbe pilotato l’immane attentato delle Torri Gemelle a New York, dando inizio alla “guerra infinita” contro il “terrorismo”. Un nome? Il massone “controiniziato” George W. Bush. Esponente, secondo Gioele Magaldi, della “Hathor Pentalpha”, definita “loggia del sangue e della vendetta”. La costola più nera e tenebrosa dell’élite globalista, formata da “signori della guerra” che «non hanno esitato a reclutare, tra i loro affiliati, prima Osama Bin Laden e poi Abu Bakr Al-Baghdadi».Da Al-Qaeda all’Isis, stesso copione (opaco) del terrore, scatenato contro civili, polizia e militari – ma non all’insaputa di precisi settori dell’intelligence. Prove? «Dispongo di 6.000 pagine di documenti», assicura Magaldi, autore del saggio “Massoni”. «Entro due anni certe carte verranno rese pubbliche», afferma Gianfranco Carpeoro, che ha firmato il volume “Dalla massoneria al terrorismo”, fornendo anche – insieme allo stesso Magaldi – un’accurata lettura della simbologia non certo islamica, ma “templare”, del recentissimo terrorismo targato Isis che ha insanguinato l’Europa a cominciare dalla Francia. Identico lo stile degli attentati: colpire nel mucchio, sparare sulla folla per terrorizzare tutti (e rendere accettabili le leggi d’emergenza, sul modello del Patriot Act statunitense disegnato per confiscare libertà e diritti). Genova? Una pietra miliare: il Rubicone varcato da un potere globalista “medievale”, neo-feudale, smisuratamente avido e bugiardo, estremamente feroce. Lo sostiene Madsen, intervistato da Franco Fracassi nel saggio “G8 Gate”. Una vera e propria confessione: «Mesi prima, per la tragica “riuscita” di quel G8 – dice – la Nsa mise a disposizione 1.500 funzionari, e a Genova (oltre alla polizia italiana) c’erano 700 agenti dell’Fbi».Nessuno lo sapeva, all’epoca, ma tutti videro lo stesso spettacolo: i reparti antisommossa si accanivano contro manifestanti inermi, ignorando deliberatamente i famosi “black bloc” spuntati dal nulla, liberi di devastare impunemente la città. I “neri” colpivano i loro obiettivi e poi si disperdevano rapidamente tra i vicoli. «E’ una tattica di guerriglia insegnata nelle scuole Nato: si chiama “swarming”», afferma – sempre nel libro di Fracassi – il generale dei paracadutisti Fabio Mini, già comandante della missione atlantica Kfor in Kosovo. «Esistono precise strutture – rivela Mini – in grado di far affluire in piena sicurezza centinaia di persone, da tutta Europa, senza il rischio di subire controlli alle frontiere, neppure dopo l’evento». Lo strascico del G8 di Genova è ancora fatto essenzialmente di rabbia e di dolore: le vittime denunciano omissioni e indulgenze, il nuovo capo della polizia (che ha preso le distanze da De Gennaro) giura che, oggi, simili episodi non potrebbero più ripetersi. Carlo Giuliani, intanto, a piazza Alimonda è morto. E la meccanica delle ricostruzioni difficilmente va oltre i dettagli del crimine. Una coltre di silenzio protegge ancora gli aspetti più decisivi: il movente e i mandanti.Per questo è importante la voce di un uomo come Madsen. «I mandanti sono le multinazionali – dice – che erano letteralmente terrorizzate dal crescente consenso di quei ragazzi: il movimento NoGlobal andava stroncato. E il loro uomo, Bush, ha semplicemente eseguito gli ordini». Com’era, il mondo, nel 2001? Stava molto meglio di adesso, secondo tutti gli indicatori. Archiviata la storica sfida con l’Urss, la guerra era praticamente assente. Anche per gli italiani, all’epoca, l’Unione Europea poteva sembrare un’istituzione amica. Si pagava ancora in lire: l’euro avrebbe iniziato a circolare solo l’anno seguente. In Afghanistan c’erano già i Talebani, ai quali si opponeva solo un leader laico e nazionalista come Ahmad Shah Massud: quando l’Alleanza del Nord entrò in azione, per prima cosa fu assassinato l’ingombrante Massud, autorevole interprete della sovranità afghana. Ucciso da un certo Hekmathyar, collegato ai servizi del Pakistan addestrati dalla Cia. «Il governo di Islamabad ha sostenuto Al-Qaeda in accordo con Bush», denunciò Benazir Bhutto, a sua volta assassinata nel 2007 per impedirle di vincere le elezioni e smascherare le trame che legavano Bush e Bin Laden al generale Musharraf, dittatore “americano” del Pakistan. Da anni, ormai, la “guerra infinita” era diventata la nuova normalità fondata su bombe e menzogne, fino all’attuale conflitto siriano.Un film dell’orrore, sostiene Madsen, grazie al quale nessuno si è più sognato di contestare frontalmente lo strapotere delle corporation e dell’oligarchia finanziaria, che in Europa è riuscita a ridurre alla fame un paese come la Grecia, senza più medicinali per i bambini, e a destituire con un golpe bianco il governo italiano democraticamente eletto. Si arrivò a insediare a Palazzo Chigi uno spettro come Mario Monti, cioè l’essere umano più lontano possibile dall’antropologia di una rockstar come Manu Chao, eroe del “social forum” che a Genova nel 2001 sognava una fratellanza universale capace di opporsi alle diseguaglianze create dalla rapina sistematica del mondo, quella che oggi spinge verso l’Europa milioni di migranti in fuga dalle loro economie sapientemente disastrate dal nostro apparato economico e politico, finanziario e militare. Un mondo migliore è possibile, recitava lo slogan dei ragazzi che guardavano al mito del “subcomandante” Marcos, esotico e mediatico custode di una biodiversità civile fondata sui diritti. Oggi, il dibattito pubblico è precipitato sotto terra, tra le rovine dell’Ue e della Bce: si parla al massimo di soldi, di Flat Tax e reddito di cittadinanza. Siamo caduti in basso? Il primo passo, sostiene Wayne Madsen, è stato il corpo esanime del militante che i grandi poteri economici, dai loro palazzi, volevano morto. E’ toccato a Carlo Giuliani. Forse, riletta così, può sembrare meno oscura la ragione (mostruosa) di quella fine così atroce.(Giorgio Cattaneo, “G8 Genova, il vero motivo della morte di Carlo Giuliani”, dal blog “Petali di Loto” del 17 aprile 2018).Non sparate a casaccio sulla polizia, si raccomanda Franco Gabrielli dalle pagine del “Manifesto”, ripercorrendo l’inferno del G8 di Genova rievocato dal “quotidiano comunista”, secondo cui «la credibilità della polizia è da ricostruire». A stretto giro, la risposta – durissima – del padre di Carlo Giuliani, affidata al blog “Contropiano” dopo che, scrive, il “Manifesto” ha rifiutato di pubblicargliela. La tesi del capo della polizia: c’erano anche i carabinieri, a Genova, insieme ad altri organi dello Stato; per questo non è giusto criminalizzare un’istituzione che, assicura Gabrielli, si è ampiamente emendata dai gravi errori commessi. Giuliano Giuliani concorda solo in parte: è oggi questore di Pesaro, scrive, il funzionario che a piazza Alimonda accusò un manifestante di aver ucciso suo figlio, «completando così l’indegna azione di un carabiniere che con una pietra ha spaccato la fronte di Carlo agonizzante». Paura e odio, furore, guerriglia: sotto i riflettori, per anni, gli attori di quella spaventosa pagina italiana, per la quale si è parlato di “sospensione della democrazia”. D’accordo, ma il movente? Perché trasformare Genova nel teatro di una carneficina? Lo spiega un ex dirigente della Nsa, Wayne Madsen. L’intelligence Usa, rivela, ha piegato le forze dell’ordine italiane a un disegno oscuro: quel sangue doveva servire a seppellire per sempre il movimento NoGlobal, di cui le multinazionali avevano il terrore, all’alba del nuovo millennio.
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Mini: tutto quello che non ci dicono, sul Califfo Al-Baghdadi
Mentre Russia e Turchia si scambiano insulti e accuse è tornata di moda la madre di tutte le accuse: il sedicente Califfo Al-Baghdadi sarebbe il prodotto “involontario” del sistema di detenzione adottato dagli americani. Avrebbe ideato e creato il mostro Isis sotto il naso dei suoi secondini. La tesi è suggestiva, ma non convince. Su Al-Baghdadi si sa poco o nulla e la stessa ex moglie appena liberata in Libano dopo uno scambio di prigionieri con Al Nusra ha dichiarato: «Dicono che sono la moglie ma io non lo so. Ho divorziato da mio marito sette anni fa», (2008?) «e non era quello che è ora». C’è da crederle. Perchè l’alternativa è credere alle biografie più o meno ufficiali e più o meno fantasiose che in realtà sembrano riferirsi a persone diverse. Prima della guerra Al-Baghdadi era forse un introverso imam in una piccola moschea di provincia, forse era un impiegato di bassa categoria, forse un ladruncolo di periferia. Un compagno all’università islamica lo definisce “insignificante”.Questo profilo collima con la descrizione dei guardiani del campo di detenzione statunitense di Camp Bucca che lo ebbero ospite nel 2004. Secondo i registri del Pentagono la Commissione di revisione e rilascio lo propose per la liberazione alla fine dello stesso anno in quanto “prigioniero di basso livello”. Altre fonti, tra cui le dichiarazioni del colonnello Kenneth King già comandante di Camp Bucca affermano che Al-Baghdadi fu detenuto dal 2005 al 2009. Nei centri di detenzione come Camp Bucca e Camp Addler stazionavano comuni cittadini, delinquenti e attivisti islamici. Al-Baghdadi non sembrava appartenere a questi ultimi. Tuttavia in quel periodo nasceva l’esigenza americana di organizzare milizie sunnite per contrastare il nascente potere sciita in Iraq. Furono addestrati centinaia di ex miliziani, militari ed ex agenti segreti di Saddam Hussein. Nei luoghi di detenzione furono reclutati jihadisti, mercenari e soprattutto sunniti in funzione antisciita.Inoltre, una buona parte degli internati iracheni rilasciati dalle commissioni di verifica furono arruolati nelle file degli stessi gruppi di fuoco e d’informatori al servizio degli americani o delle compagnie private di sicurezza. Di fatto, quando gli americani iniziarono a sostenere e organizzare le bande anti Assad in Siria, alcuni gruppi jihadisti come Al Nusra si trovarono mescolati ai militari siriani defezionisti, ai ribelli organizzati e ad altri gruppi di tagliagole. Non è detto che avessero un centro comune al quale rispondere, ma non era neppure necessario. Avevano l’addestramento per fare da soli in nome di chiunque. Se Al-Baghdadi non fu arruolato e indottrinato non si capisce cosa gli abbiano dato da mangiare, bere e fumare perché improvvisamente un predicatore da quattro soldi o un oscuro impiegato diventa un genio.Si dice che nel 2006 (mentre era in galera) fosse membro del comitato sharia dei Mujiaheddin dell’Msc che in quell’ anno divenne Isi: emanazione di al Qaeda e futuro Isis o Isil. Probabilmente esercitava l’autorità all’interno dello stesso campo di detenzione. Forse era un abile mediatore e doppiogiochista. Comunque era un fenomeno. Una volta uscito, questo Al-Baghdadi assunse la direzione dell’Isi. Dal 2010 organizzò e diresse centinaia di attacchi terroristici, sfidò apertamente l’autorità di al Qaeda, assorbì i foreign fighters di Al Nusra e combattè contro le odiate milizie sciite di Muqtada al Sadr. Fu dato per assassinato nel 2012, ma le stesse autorità irachene lo smentirono. Nel 2014 cacciò da Raqqa la fazione di Al Nusra ancora fedele ad Al Qaeda e si proclamò Califfo. Apparentemente fece tutto da solo. La moglie ha ragione, non è lui.(Fabio Mini, “Cosa non sappiamo del Califfo”, dal “Fatto Quotidiano” del 5 dicembre 2015, intervento ripreso da “Megachip”).Mentre Russia e Turchia si scambiano insulti e accuse è tornata di moda la madre di tutte le accuse: il sedicente Califfo Al-Baghdadi sarebbe il prodotto “involontario” del sistema di detenzione adottato dagli americani. Avrebbe ideato e creato il mostro Isis sotto il naso dei suoi secondini. La tesi è suggestiva, ma non convince. Su Al-Baghdadi si sa poco o nulla e la stessa ex moglie appena liberata in Libano dopo uno scambio di prigionieri con Al Nusra ha dichiarato: «Dicono che sono la moglie ma io non lo so. Ho divorziato da mio marito sette anni fa», (2008?) «e non era quello che è ora». C’è da crederle. Perchè l’alternativa è credere alle biografie più o meno ufficiali e più o meno fantasiose che in realtà sembrano riferirsi a persone diverse. Prima della guerra Al-Baghdadi era forse un introverso imam in una piccola moschea di provincia, forse era un impiegato di bassa categoria, forse un ladruncolo di periferia. Un compagno all’università islamica lo definisce “insignificante”.
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Bin Laden morto anni prima del blitz Usa, eccovi le prove
Gli Usa non hanno mia ucciso Osama Bin Laden. Un diabete degenerato in una nefrite terminale nel presunto terrorista (mai processato) lo ha ucciso, e quasi certamente diversi anni prima della colossale menzogna del blitz americano nel 2011 in Pakistan. Come lo so? La mia fonte fu il terzo più alto executive di Al Qaeda dopo Ayman Al-Zawahri e Bin Laden stesso fino alla fine degli anni ‘90. Sono rimasto scioccato dall’ingenuità della pur eccellente inchiesta del mitico reporter americano Seymour Hersh sui retroscena della morte di Bin Laden, versione Casa Bianca. Essa è pubblicata QUI. Hersh ci rivela la solita montagna di balle, complotti, mistificazioni messe in piedi dalla presidenza Usa, dal Pentagono e dalle agenzie dei servizi sulla ‘prestigiosa’ operazione Abbottabad, la presunta uccisione di Bin Laden il 2 di maggio 2011 in Pakistan. Ottimo lavoro, ma cose risapute per chi ha vissuto la storia contemporanea fuori dal Tg1 o da Facebook. Dall’incidente del Tonchino (Vietnam), ai “carpet bombing” genocidi di Laos e Cambogia, da Cuba a El Mozote, a Suharto e a Pinochet, dall’Iraq a Israele alla Libia ecc., la politica estera di Washington può essere raccontata con prove alla mano come un scia criminale di menzogne talvolta al limite del grottesco (la gggènte ci crede sempre, così come i – conato – giornalisti).Ma Hersh ha fatto qui l’errore più triste della sua carriera di colosso del mio mestiere: egli dà comunque per scontato che il poveraccio letteralmente smembrato vivo da oltre 600 proiettili degli Us Navy Seals in una camera da letto di Abbottabad fosse Osama Bin Laden. Al 99,9% non lo era. Ecco come lo so. Nel 2003, mentre filmavo l’inchiesta di “Report” (Rai3) “L’Altro Terrorismo”, fui messo in contatto con un fondatore di Al Qaeda in una capitale del Medioriente che ancora non posso nominare. Ecco chi era costui, il mio insider: fu per quattordici anni ai vertici della Jihad islamica internazionale, la culla di Al Qaeda. Sedeva con Bin Laden e Hasan Al-Turabi nei palazzi governativi di Khartoum in Sudan, fu il Dawa numero uno di Al Qaeda, il loro ‘Pontefice’ islamico. Decadi prima, nel 1981, lui si trovava al Cairo, e poche ore dopo l’assassinio del presidente Anwar Sadat per mano di membri dalla Jihad islamica egiziana, si ritrovò sbattuto sul pavimento di una cella buia accanto ad altri estremisti religiosi, fra i quali vi sarà anche un giovane medico che rispondeva al nome di Ayman Al Zawahri, oggi capo di Al Qaeda.Fetore, grida terribili, ossa spezzate, testicoli arrostiti, due anni così, parte della più violenta repressione dell’integralismo religioso nella storia dell’Egitto, per poi essere scarcerato assieme ad altri sopravvissuti e insieme deportati oltre il confine col Sudan. Una banda di giovani esiliati con una cosa in comune: un odio implacabile per il regime egiziano apostata e per ogni suo alleato, Israele, Stati Uniti ed Emirati Arabi in testa. Formano una grande famiglia che vaga senza sosta: prima Khartoum in Sudan, poi Sanaa nello Yemen, poi Peshawar e Islamabad in Pakistan, dove lui in particolare stringe rapporti con la leadership talebana. L’insider mi conferma che fu in Pakistan, molti anni dopo, nel 1998, che avvenne ufficialmente la fusione fra due componenti dell’Islam belligerante che, prese singolarmente, erano relativamente pericolose, ma che messe a contatto si rivelarono micidiali: le finanze di Bin Laden e la manovalanza specialistica degli uomini di Al Zawahri, in altre parole la ‘nuova’ Al Qaeda.L’incontro con lui durò 7 ore, tutte passate in auto a vagare per le periferie di questa capitale, al buio. Paranoici, terrorizzati. Mi disse: «La mia specializzazione (la formazione spirituale dei membri di Al Qaeda) era tale che nel 1995, in Sudan, Osama Bin Laden e Al-Turabi fecero a gara per tenermi; Osama mi offrì un budget illimitato per addestrare i suoi uomini». Parlammo di tante cose (riportate nel mio “Perché ci odiano”, Rizzoli Bur 2006), ma di una non ho mai dato conto. Prima di arrivare al punto, vi rivelo che al montaggio del servizio per “Report” in Rai; chiamammo il traduttore arabo ufficiale della nostra Tv pubblica, un docente universitario egiziano a Roma, il quale dopo appena 10 minuti d’ascolto di questo insider di Al Qaeda si alzò nel panico e gridò che si rifiutava di continuare… Preciso infine che il rango e la veridicità dell’insider di Al Qaeda che incontrai mi fu confermata dal reporter americano Alan Cullison del “Wall Street Journal”, autore di uno scoop per aver scoperto in Afghanistan il pc dell’allora numero due di Al Qaeda, Ayman Al Zawahri, dove il mio insider (volto e altri dettagli) compariva fra i nomi top.Ecco ciò che non ho mai rivelato. In breve, l’insider mi disse nel 2003 che Bin Laden era vivo, ma in condizioni drammatiche. L’ultimo corriere che lo vide dopo il noto ‘incidente di Karachi’ – dove i servizi pakistani Isi intercettarono un altro corriere, Ramzi bin al-Shibh, nel settembre 2002 – vide un uomo in fin di vita, non si reggeva in piedi, devastato da diabete e nefrite, ovviamente impossibilitato a curarsi con la complessa specialistica necessaria perché nascosto sulle montagne, probabilmente sulla soglia della morte. Ciò accadeva nei primi mesi del 2003. Ma ancora prima i reporter del “The Guardian” Jason Burke e Lawrence Joffe catturarono un video di Osama del 2001 dove già quest’uomo appariva «magro come un fantasma e disabile». Siamo fra il 2001 e il 2003, immaginate se un ammalato in quelle condizioni arriva sano e attivo al 2011, senza uno straccio di cure altamente specialistiche a fronte di patologie gravissime già alla fase finale otto anni prima.Notate ora una cosa di notevole spessore che avvalla la versione di un decesso naturale di Bin Laden anni prima del maggio 2011: l’ultimo video seriamente accreditato al vero Bin Laden risale al 2004, poi il buio totale. Le sue trasmissioni successive sono cassette audio o video irriconoscibili giudicate “quasi certamente dei falsi” dalla stessa Cia. Ogni altro video che da allora ci è giunto ci mostra il suo n. 2, Ayman Al Zawahri. Ora ci si chieda: come è possibile che negli anni cruciali per il sostegno morale di Al Qaeda, sottoposta a operazioni di annientamento globale, il loro leader carismatico non si fosse mai curato di apparire con veemente retorica a loro sostegno? Mai una singola volta. Be’, era morto. Stroncato dalla malattia come detto sopra. Seymour Hersh neppure esamina questi fatti. E peggio. Il presunto cadavere di Bin Laden viene sepolto in mare da una portaerei americana alla velocità della luce, cioè a poche ore dalla morte. Nessuno al mondo ha mai visto neppure una foto credibile almeno del volto del presunto terrorista (mai processato).Forse ricordate che vi fu un’insurrezione globale dei musulmani che chiedevano le prove sull’identità di Osama e un funerale islamico in tutta regola. Washington rifiutò entrambi. Eppure bastava poco. Bin Laden portava una cicatrice evidente a una caviglia, frutto di una battaglia a Jaji in Afghanistan ai tempi dell’invasione russa. Bastava una foto di essa per convincere il mondo che l’uomo ucciso ad Abbottabad nel 2011 era lui. Ma no. Perché Seymour Hersh si è incredibilmente scordato di questo dettaglio? Perché Hersh non sottolinea che se il poveraccio nella camera da letto di Abbottabad fosse stato veramente Osama Bin Laden, era tutto interesse della comunità internazionale averlo vivo? Cristo, una fonte d’informazioni infinita, o imbarazzante, eh Washington? Imbarazzante non perché quel tizio in Abbottabad era l’ex alleato/stipendiato degli Usa Bin Laden che poteva dirne tante…, ma perché quel tizio era un nessuno, un fantoccio umano. 600 proiettili su un corpo per renderlo irriconoscibile, letteralmente, come riporta anche Hersh, smembrato in pezzi, per non aver grane…In ultimo, gli scettici pro versione Usa obietteranno che dopo la millantata operazione Abbottabad sarebbe stato interesse di Al Qaeda smentire la versione di Washington con foto della vera sepoltura di Osama sulle montagne centro-asiatiche. La risposta è no, perché una tale rivelazione avrebbe esposto la leadership di Al Qaeda al ridicolo in tutto il mondo islamico, cioè ci avrebbe rivelato un’organizzazione allo sbando da anni senza figura leader. Chi capisce i jihadisti sa di cosa parlo. E gran finale. La farsa dell’operazione Abbottabad del 2011 esplode come un fuoco d’artificio fuori dalla Casa Bianca e verso i media alla vigilia della campagna elettorale di Obama nella primavera del 2011, appunto. Be’, concludo qui. Credo che ce ne sia abbastanza. Bin Laden non arrivò vivo neppure a mille miglia dalla menzogna Abbottabad.(Paolo Barnard, “Bin Laden era morto anni prima del blitz Usa, Seymour Hersh ha toppato”, dal blog di Barnard del 29 maggio 2015).Gli Usa non hanno mai ucciso Osama Bin Laden. Un diabete degenerato in una nefrite terminale nel presunto terrorista (mai processato) lo ha ucciso, e quasi certamente diversi anni prima della colossale menzogna del blitz americano nel 2011 in Pakistan. Come lo so? La mia fonte fu il terzo più alto executive di Al Qaeda dopo Ayman Al-Zawahri e Bin Laden stesso fino alla fine degli anni ‘90. Sono rimasto scioccato dall’ingenuità della pur eccellente inchiesta del mitico reporter americano Seymour Hersh sui retroscena della morte di Bin Laden, versione Casa Bianca. Essa è pubblicata qui. Hersh ci rivela la solita montagna di balle, complotti, mistificazioni messe in piedi dalla presidenza Usa, dal Pentagono e dalle agenzie dei servizi sulla ‘prestigiosa’ operazione Abbottabad, la presunta uccisione di Bin Laden il 2 di maggio 2011 in Pakistan. Ottimo lavoro, ma cose risapute per chi ha vissuto la storia contemporanea fuori dal Tg1 o da Facebook. Dall’incidente del Tonchino (Vietnam), ai “carpet bombing” genocidi di Laos e Cambogia, da Cuba a El Mozote, a Suharto e a Pinochet, dall’Iraq a Israele alla Libia ecc., la politica estera di Washington può essere raccontata con prove alla mano come un scia criminale di menzogne talvolta al limite del grottesco (la gggènte ci crede sempre, così come i – conato – giornalisti).
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Chi riportò l’Afghanistan al medioevo, più di trent’anni fa
«Questa sera, per la prima volta dall’11 Settembre, la nostra missione di guerra in Afghanistan è conclusa». Queste le parole di apertura del discorso di Obama sullo Stato dell’Unione del 2015. In realtà, circa 10.000 soldati e 20.000 appaltatori militari (leggi mercenari) rimangono in Afghanistan con incarichi imprecisati. «La guerra più lunga nella storia americana sta arrivando ad una conclusione responsabile», ha detto Obama. La verità è che più civili sono stati uccisi in Afghanistan nel 2014 che in qualsiasi anno da quando l’Onu tiene il conto. La maggior parte delle uccisioni – sia civili che militari – sono avvenute durante la presidenza di Obama. La tragedia dell’Afghanistan fa a gara con il crimine epico perpetrato in Indocina. Nel suo elogiato e più volte citato libro “La grande scacchiera: il primato americano e i suoi imperativi geostrategici”, Zbigniew Brzezinski, il padrino delle politiche americane dall’Afghanistan ad oggi, scrive che se l’obiettivo dell’America è quello di controllare l’Eurasia e di dominare il mondo, non può reggere una democrazia popolare, perché «la ricerca del potere non è un obiettivo che richiede passione popolare, la democrazia è nemica dell’impegno imperiale». Ha ragione.Come hanno rivelato “Wikileaks” e Edward Snowden, uno Stato di polizia e di controllo sta infatti soppiantando la democrazia. Nel 1976, Brzezinski, allora consigliere della sicurezza nazionale della presidenza Carter, ha dimostrato il suo punto di vista comminando un colpo mortale alla prima e unica democrazia dell’Afghanistan. Ma chi la conosce questa storia fondamentale? Nel 1960, una rivoluzione popolare dilagò in Afghanistan, il paese più povero della terra, riuscendo alla lunga nell’intento di rovesciare le vestigia del regime aristocratico nel 1978. Il Pdpa, Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan, formò un governo e compilò un programma di riforme che prevedeva l’abolizione del feudalesimo, la libertà per tutte le religioni, la parità di diritti per le donne e giustizia sociale per le minoranze etniche. Più di 13.000 prigionieri politici furono liberati e gli archivi di polizia pubblicamente bruciati. Il nuovo governo introdusse cure mediche gratuite per i più poveri; la condizione di bracciante fu abolita, un programma di alfabetizzazione di massa fu varato. I progressi che ci furono per le donne erano fino ad allora impensabili.Verso la fine del 1980, la metà degli studenti universitari erano donne, e le donne rappresentavano quasi la metà dei medici in Afghanistan, un terzo dei dipendenti pubblici e la maggior parte degli insegnanti. «Ogni ragazza», ricorda Saira Noorani, chirurga, «poteva andare a scuola e all’università. Potevamo andare dove volevamo e indossare quello che ci piaceva. Di venerdì andavamo al bar o al cinema a vedere l’ultimo film indiano e ascoltavamo la musica più in voga. Tutto cominciò ad andare storto quando i mujahedin iniziarono ad imporsi. Uccidevano gli insegnanti e bruciavano le scuole. Eravamo terrorizzati. Era strano e triste pensare che queste persone erano spalleggiate dall’Occidente». Il Pdpa al governo era sostenuto dall’Unione Sovietica, anche se, come l’ex segretario di Stato Usa, Cyrus Vance, ammise poi, non vi era alcuna prova di complicità sovietica [nella rivoluzione]». Preoccupato dalla crescente fiducia dei movimenti di liberazione in tutto il mondo, Brzezinski decise che, se l’Afghanistan avesse trionfato con il Pdpa, la sua indipendenza e il suo progresso avrebbero posto «la minaccia di un esempio promettente».Il 3 luglio 1979, la Casa Bianca segretamente autorizzò lo stanziamento di 500 milioni di dollari in armi e logistica per sostenere gruppi tribali “fondamentalisti”, conosciuti come i mujahedin. L’obiettivo era quello di rovesciare il primo governo laico e riformista dell’Afghanistan. Nel mese di agosto del 1979 l’ambasciata americana a Kabul segnalò che «gli interessi degli Stati Uniti sarebbero stati asserviti meglio [dalla scomparsa del Pdpa] malgrado ciò che questo avrebbe significato per le future riforme sociali ed economiche dell’Afghanistan». I mujaheddin furono i precursori di Al-Qaeda e dello Stato Islamico. Tra questi c’era Gulbuddin Hekmatyar, che ricevette decine di milioni di dollari in contanti dalla Cia. Le specialità di Hekmatyar erano il traffico di oppio e gettare acido in faccia alle donne che si rifiutavano di indossare il velo. Fu invitato a Londra e decantato dal primo ministro, Margaret Thatcher, come «combattente per la libertà». Forse questi fanatici sarebbero rimasti nel loro mondo tribale se Brzezinski non avesse promosso un movimento internazionale per favorire il fondamentalismo islamico in Asia centrale, così minando una politica laica di liberazione e “destabilizzando” l’Unione Sovietica, per creare, come scrisse poi nella sua autobiografia, «un po’ di musulmani esagitati».Il suo grande piano coincise con le ambizioni del dittatore pakistano, il generale Zia ul-Haq, per il dominio della regione. Nel 1986, la Cia e l’Isi, l’agenzia di intelligence del Pakistan, iniziarono a reclutare persone da tutto il mondo per promuovere la jihad afghana. Il multi-miliardario saudita Osama Bin Laden era tra questi. Agenti che un domani si sarebbero uniti ai Talebani e ad Al-Qaeda furono reclutati in un college islamico di Brooklyn, New York, e a loro fu impartita una formazione paramilitare in una zona di proprietà della Cia in Virginia. Questa fu chiamata “Operazione Ciclone” e il suo successo culminò nel 1996, quando l’ultimo presidente del Pdpa afghano, Mohammed Najibullah – che si era recato al cospetto dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per implorare aiuto – fu impiccato a un lampione dai Talebani. Il risultato dell’Operazione Ciclone e dei suoi “pochi musulmani esagitati” fu l’11 settembre 2001. L’“Operazione Ciclone” divenne la “guerra al terrore”, in cui innumerevoli uomini, donne e bambini avrebbero perso la vita in tutto il mondo musulmano, dall’Afghanistan all’Iraq, allo Yemen, alla Somalia e alla Siria. Il messaggio dei cosiddetti tutori dell’ordine era e rimane: “O sei con noi o contro di noi”.(John Pilger, estratto da “Perché l’avanzata del fascismo è nuovamente il problema”, post scritto il 26 febbraio sul proprio blog e ripreso il 3 marzo 2015 da “Come Don Chisciotte”).«Questa sera, per la prima volta dall’11 Settembre, la nostra missione di guerra in Afghanistan è conclusa». Queste le parole di apertura del discorso di Obama sullo Stato dell’Unione del 2015. In realtà, circa 10.000 soldati e 20.000 appaltatori militari (leggi mercenari) rimangono in Afghanistan con incarichi imprecisati. «La guerra più lunga nella storia americana sta arrivando ad una conclusione responsabile», ha detto Obama. La verità è che più civili sono stati uccisi in Afghanistan nel 2014 che in qualsiasi anno da quando l’Onu tiene il conto. La maggior parte delle uccisioni – sia civili che militari – sono avvenute durante la presidenza di Obama. La tragedia dell’Afghanistan fa a gara con il crimine epico perpetrato in Indocina. Nel suo elogiato e più volte citato libro “La grande scacchiera: il primato americano e i suoi imperativi geostrategici”, Zbigniew Brzezinski, il padrino delle politiche americane dall’Afghanistan ad oggi, scrive che se l’obiettivo dell’America è quello di controllare l’Eurasia e di dominare il mondo, non può reggere una democrazia popolare, perché «la ricerca del potere non è un obiettivo che richiede passione popolare, la democrazia è nemica dell’impegno imperiale». Ha ragione.
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Dacci oggi il nostro orrore quotidiano, come da contratto
La decapitazione di ostaggi americani e britannici a opera di un invasato tagliagole, e cioè di un “John il boia” qualunque (probabilmente nato, pasciuto e cresciuto in Inghilterra), sembra aver destato da un lungo letargo il premier britannico David Cameron, che finalmente si è accorto dell’esistenza di un esercito di jihadisti al cui interno militano centinaia di cittadini britannici. Un esercito che oggi si chiama Is (Islamic State), ieri si chiamava Isis (Islamic State of Iraq and Siria), ieri l’altro Isil (Islamic State of Iraq and Levant) e così via a ritroso fino alla denominazione iniziale di Al-Qaeda, frastagliatasi nel corso degli anni in una miriade di gruppi, sottogruppi affini & associati: diverse etichette ma tutte riconducibili alla nebulosa madre. Era quella nebulosa che l’ex ministro degli esteri britannico Robin Cook definiva così: «Per quanto ne so, Al-Qaeda (parola araba che significa “la base”) era il nome del database della Cia che conteneva l’elenco dei guerriglieri arruolati per combattere i russi in Afghanistan».Un provvidenziale infarto, un mese dopo, consegnò a un definitivo silenzio ogni possibile imbarazzante replica di Cook. Nel frattempo le legioni di miliziani irregolari si sono ricombinate in decine di scenari di guerra al servizio di qualcuno. Ora, che David Cameron si mostri inorridito per le decapitazioni è più che comprensibile, ma che si mostri stupito per la mostruosa deriva di un suddito di Sua Maestà è quantomeno bizzarro, visto che questo non è il primo “John il boia” che vediamo in azione. Che sia il caso di rinfrescargli la memoria ricordandogli la decapitazione del giornalista americano Daniel Pearl? Era stato rapito il 23 gennaio 2002 nelle strade di Karachi, il suo corpo rinvenuto smembrato in vari pezzi e la testa mozzata esibita a trofeo dal boia. Pearl era stato attirato a Karachi con l’offerta di un’intervista esclusiva, di uno scoop che in realtà era un’imboscata tesagli da Omar Saeed Sheikh, guarda caso un altro britannico.Nato nel 1973 a Londra da genitori pakistani, nel 1993 aveva abbandonato gli studi in economia per recarsi a combattere in Bosnia. Saeed Sheikh non era solo. Aveva ingrossato le fila di un contingente di jihadisti addestrati in campi pakistani gestiti dal gruppo terroristico “Harkat ul Mujaheddin” (Hum). Venivano poi spediti in Jugoslavia a combattere contro i serbi, come da richiesta dell’amministrazione Clinton e con la complicità dei servizi segreti britannici e americani (lo rivela l’ex deputato e ministro britannico Michael Meacher sul “Guardian” del 10 settembre 2005). Del gruppo facevano parte ben 200 pakistani residenti in Gran Bretagna, fra i quali, appunto, Saeed Sheikh, all’epoca già un astro nascente nella galassia del terrorismo. Anni dopo avrebbe versato 100.000 dollari sul conto di Mohammed Atta, il capo dei dirottatori dell’attentato dell’11 settembre 2001 contro le Torri Gemelle. Un versamento effettuato per conto di Osama bin Laden, penserete. Giusto? No. Era per conto del generale Mahmoud Ahmed, il capo dell’Isi, e cioè quel servizio segreto pakistano che aveva sponsorizzato i campi di addestramento di “Harkat ul Mujaheddin” (Hum), il gruppo jihadista dal quale Saeed Sheikh era stato reclutato in Bosnia. Curioso, no?Il reclutamento di immigrati pakistani con passaporto britannico era gestito a Londra da “Al-Muhajiroun”, organizzazione definita il «braccio di reclutamento di Al-Qaeda» da John Loftus, ex ufficiale dell’intelligence americana, ex procuratore generale e noto esperto in materia di contro-terrorismo. Loftus aveva rivelato che “Al-Muhajiroun” era usato dai servizi segreti britannici per assoldare islamisti da spedire a combattere in Bosnia e Kosovo contro i serbi. A “Fox News” dichiarò: «Che ci crediate o meno, l’intelligence britannica ha arruolato militanti di Al-Qaeda per difendere i diritti dei musulmani in Kosovo». Ci crediamo, ci crediamo… L’organizzazione era diretta da Sheikh Omar Bakri Mohammed, invasato predicatore arrivato nel 1986 nella capitale britannica, da dove ha reclutato e seminato odio quasi per un ventennio. Indisturbato, naturalmente. In “Al-Muhajiroun” operava anche Haroon Rashid Aswat, altro fanatico islamista nato e cresciuto in Inghilterra, legato ad Al-Qaeda e… apparentemente reclutato dall’intelligence britannica. Secondo John Loftus era un doppio agente. In seguito sarebbe assurto alla ribalta delle cronache in quanto ritenuto la mente dell’attentato di Londra del 7 luglio 2005, costato la vita a 52 persone e ufficialmente attribuito a quattro islamisti britannici che ruotavano attorno ad “Al-Muhajiroun”.Londra, chiamata “Londonistan” per il suo contributo alla diffusione dell’islamismo, pullulava di questi personaggi. A Manchester viveva Abu Anas al Liby, luogotenente libico di Osama bin Laden ed esperto informatico di Al-Qaeda che, dopo aver soggiornato in Sudan fino al 1995 col “principe del terrore”, aveva ottenuto asilo polito in Gran Bretagna nonostante le sue credenziali. Ritenuto implicato negli attentati di Kenya e Tanzania del 1998, che avevano lasciato oltre 200 morti sul terreno, nel maggio del 2000 era svanito nel nulla, non prima però di essere stato arrestato e poi sorprendentemente rilasciato. Secondo la polizia di Manchester mancava la “pistola fumante”. Anas al Liby era in forza al “Libyan Islamic Fighting Group” (Lifg), gruppo terroristico salafita il cui obiettivo era rovesciare il regime di Muhammar Gheddafi, in quanto secolare e, pertanto, reo di apostasia. E qui la storia si fa interessante. Secondo Guillaume Dasquié e Charles Brisard (consigliere quest’ultimo dell’ex presidente francese Jacques Chirac), esperti di intelligence e autori del best-seller “La Verité Interdite”, Anas al Liby sarebbe stato assoldato dall’intelligence britannica per assassinare il Colonnello: un’informazione avuta da David Shayler, un ex agente dell’Mi5.Londra smentiva, naturalmente, ma nel 2002 il “Guardian” era in grado di fornire nuovi particolari sulla vicenda, inclusi i nomi di altri due agenti britannici coinvolti nel complotto. Conosciamo tutti la naturale “evoluzione” della così detta “primavera araba” in Libia, sfociata nel trionfo dell’islamismo: esecuzioni di massa, massacri e pulizie etniche di cui le varie “Cnn” e “Bbc” non hanno teletrasmesso gli orrori. E sappiamo che, a missione compiuta, i quadri del Lifg si sono spostati in Siria, dove si sono posti alla guida dell’“Esercito Siriano Libero” (Esl), peraltro inizialmente finanziato e armato dallo stesso Lifg. Viste dunque le premesse, risulta quantomeno sospetto il fatto che i vari Cameron, Obama & associati si accorgano solo ora, quando siamo alla vigilia di nuove avventure militari, della reale mostruosità di un fenomeno che esiste da decenni.Un fenomeno che loro stessi hanno contribuito a creare e lasciato gonfiare, che hanno ignorato, enfatizzato, sponsorizzato e strumentalizzato a fasi alterne per aggredire o destabilizzare: un fenomeno che è sempre stato una tigre da cavalcare. Una tigre che nel corso dei decenni ha cambiato nome e oggi si chiama “Esercito Siriano Libero”, un esercito di “moderati” il cui unico scopo è rovesciare un altro regime secolare, la stessa eterogenea accozzaglia che il presidente Obama avrebbe deciso di appoggiare per fronteggiare la minaccia dell’Isis. Oggi non si sa più nemmeno chi siano, ma si sa che hanno dichiarato un patto di non aggressione proprio con l’Isis. E anche questa è una storia già scritta. Magari firmeranno il loro patto sui cofani dei loro Humvee nuovi di zecca, rigorosamente made in Usa.(Germana Leoni, “David Cameron, Isis e Londonistan”, da “Megachip” del 20 settembre 2014).La decapitazione di ostaggi americani e britannici a opera di un invasato tagliagole, e cioè di un “John il boia” qualunque (probabilmente nato, pasciuto e cresciuto in Inghilterra), sembra aver destato da un lungo letargo il premier britannico David Cameron, che finalmente si è accorto dell’esistenza di un esercito di jihadisti al cui interno militano centinaia di cittadini britannici. Un esercito che oggi si chiama Is (Islamic State), ieri si chiamava Isis (Islamic State of Iraq and Siria), ieri l’altro Isil (Islamic State of Iraq and Levant) e così via a ritroso fino alla denominazione iniziale di Al-Qaeda, frastagliatasi nel corso degli anni in una miriade di gruppi, sottogruppi affini & associati: diverse etichette ma tutte riconducibili alla nebulosa madre. Era quella nebulosa che l’ex ministro degli esteri britannico Robin Cook definiva così: «Per quanto ne so, Al-Qaeda (parola araba che significa “la base”) era il nome del database della Cia che conteneva l’elenco dei guerriglieri arruolati per combattere i russi in Afghanistan».
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Berezovsky, il padrino che inventò la guerra in Cecenia
«Cosa penso della guerra in Cecenia? Quello che so è che un bel giorno ho scoperto che i miei vicini di ombrellone, in Costa Azzurra, erano famosi comandanti della cosiddetta resistenza cecena». Così Mikhail Gorbaciov nel corso di un’intervista, a Torino, in occasione del World Political Forum del 2003, presente anche Benazir Bhutto (poi assassinata in un attentato), pronta a denunciare come “terrorista” l’allora presidente del Pakistan, Pervez Musharraf, alleato di Bush: «Non credete a quello che vi raccontano, Musharraf è un dittatore e il network che chiamate Al-Qaeda non si sarebbe mai radicato in Afghanistan senza l’appoggio dell’Isi, il servizio segreto militare pachistano, addestrato dalla Cia». Fiabe tragiche, come quella sull’origine del conflitto ceceno: non una rivolta popolare separatista, ma una secessione artificiale organizzata proprio da Mosca. Per la precisione, dall’allora onnipotente Boris Berezovsky.
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Sangue e menzogne, scandalo mondiale senza fine
All’alba del fatidico 11 settembre 2001, la data che ha cambiato in peggio la storia del mondo scatenando una guerra dopo l’altra col pretesto della lotta al terrorismo internazionale, il cielo degli Stati Uniti era l’area più controllata del pianeta, ma in modo clamorosamente anomalo: qualcuno si era infatti premurato di organizzare ben 7 esercitazioni militari, tutte concentrate nello stesso giorno, in modo da allontanare l’aviazione e lasciar libero il corridoio aereo utilizzato dai dirottatori diretti alle Torri Gemelle. La sicurezza americana ha mentito su tutto: sono le ultime conclusioni del “Consensus Panel”, la commissione indipendente di esperti convocata sulla strage del secolo. Smentita, dati alla mano, l’incredibile versione ufficiale: una cortina di menzogne, stesa dal governo e dai media per impedire al pubblico di scoprire dove fossero e cosa stessero davvero facendo, in quelle ore, i quattro uomini-chiave dell’apparato Usa
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Pakistan, ucciso reporter: svelò i rapporti tra 007 e Al Qaeda
Ucciso dagli 007 del Pakistan per aver ipotizzato legami tra l’intelligence di Islamabad e Al-Qaeda? Si chiude tragicamente la vicenda del giornalista Syed Saleem Shahzad, corrispondente per media italiani, scomparso nella capitale pachistana il 29 maggio: il suo cadavere è stato ritrovato, con segni di tortura, nei pressi della sua auto a 150 chilometri dalla città. “Human Rights Watch” punta il dito contro l’Isi, il servizio segreto militare per Pakistan, addestrato dalla Cia: «Solo loro avrebbero potuto sequestrare un giornalista nella capitale e farlo sparire senza lasciare tracce: e Shahzad era minacciato proprio dall’Isi». Il sospetto: aveva indagato sulle “relazioni pericolose” tra gli 007 e i Talebani, in passato al centro di inquietanti interrogativi anche su attentati ufficialmente attribuiti ad Al Qaeda.
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Il generale: basta trucchi, l’uomo ucciso non era Bin Laden
L’uomo ucciso ad Abbottabad non era Osama Bin Laden, e non è escluso che i servizi segreti pachistani riescano a dimostrarlo, smentendo clamorosamente Barack Obama davanti al mondo intero. Lo sostiene il generare Hamid Gul, potente ex capo dell’Isi, l’intelligence di Islamabad, uomo-chiave per anni dei rapporti con gli Usa per le operazioni tra Pakistan e Afghanistan. Il generale Gul non crede alla versione ufficiale sul blitz di Abbottabad, che fa acqua da tutte le parti, a cominciare dalla inaccettabile sparizione del cadavere, “sepolto in mare”. Ma se un giorno Obama dovesse riuscire a dimostrare – esibendo foto e video autentici – che l’uomo ucciso era davvero Bin Laden, sarebbe peggio: come “martire”, sarebbe più pericoloso da morto che da vivo.