Archivio del Tag ‘italianità’
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L’ex Fiat pretende 6 miliardi da un paese che sta morendo
Fca chiede un mega-prestito di 6,3 miliardi di euro allo Stato. Gli Agnelli controllano “Repubblica” che ha una linea nettamente pro-Fca (basta vedere la lite tra il cdr e il direttore Molinari). Conflitto di interessi? Sono francamente sconcertato dalla vicenda Fiat e dalla richiesta di finanziamento allo Stato. Poi non so se in questo caso ci sia un conflitto di interessi, è l’eterna storia della Fiat che ha sempre usato i suoi giornali per fare lobbying e per curare i propri interessi. Quello che stiamo vedendo in questi giorni è solo un altro capitolo di una storia antica. Perché sono sconcertato dalla richiesta di finanziamento allo Stato? Quando un’azienda si sgancia dal paese portando il domicilio legale e fiscale all’estero vuol dire che non sopporta l’onere di essere italiana, però ne vuole i vantaggi e torna attraverso la banca che controlla in buona parte, Intesa San Paolo, e pretende un prestito dallo Stato. Poi l’alibi è che riguarda gli stabilimenti italiani.
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Le altre foibe: furono i fascisti a inaugurare l’orrenda strage
Inizio con tre brani di un discorso pronunciato al Teatro Ciscutti di Pola da Benito Mussolini il 20 settembre 1920, dando inizio alle brutali violenze contro le popolazioni della Venezia Giulia: «Qual è la storia dei Fasci? Essa è brillante! Abbiamo incendiato l’Avanti! di Milano, lo abbiamo distrutto a Roma. Abbiamo revolverato i nostri avversari nelle lotte elettorali. Abbiamo incendiato la casa croata di Trieste, l’abbiamo incendiata a Pola…»…«Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini italiani devono essere il Brennero, il Nevoso e le (Alpi) Dinariche. Dinariche, sì, le Dinariche della Dalmazia dimenticata!… Il nostro imperialismo vuole raggiungere i giusti confini segnati da Dio e dalla natura, e vuole espandersi nel Mediterraneo. Basta con le poesie. Basta con le minchionerie evangeliche». Dopo quel discorso, l’Istria fu messa a ferro e fuoco. Venti anni dopo quel discorso le truppe di Mussolini invasero Dalmazia, Slovenia e Montenegro, dando inizio a nuove stragi in nome della civiltà italiana.Dalle terre annesse all’Italia dopo la prima guerra mondiale – cioè all’ampliamento ad est dei territori di Trieste e di Gorizia, all’Istria intera, alla provincia di Fiume detta del Quarnaro ed all’enclave dalmata di Zara – le violenze fasciste e la snazionalizzazione forzata costrinsero ad andarsene più di 80.000 sloveni, croati, tedeschi e ungheresi, ma anche alcune migliaia di italiani antifascisti. Nel 1939, un anno prima che l’Italia fosse gettata nella seconda guerra mondiale, le autorità fasciste della Venezia Giulia attuarono in segreto un censimento della popolazione di quelle terre annesse venti anni prima, accertando che in esse vivevano 607.000 persone, delle quali 265.000 italiani e cioè il 44%, e 342.000 slavi detti allogeni, ovvero il 56%. Una cifra notevole nonostante l’esodo degli ottantamila, nonostante che agli slavi fossero stati italianizzati i cognomi, fosse stato vietato di parlare la loro lingua, fossero state tolte le scuole e qualsiasi diritto nazionale.Nonostante le persecuzioni subite, nonostante che migliaia di loro fossero finiti nelle carceri o al confino, e che alcuni dei loro esponenti – Vladimir Gortan, Pino Tomazic ed altri – fossero stati fucilati in seguito a condanne del Tribunale speciale fascista oppure uccisi dalle squadre d’azione fasciste a Pola (Luigi Scalier), a Dignano (Pietro Benussi), a Buie (Papo), a Rovigno (Ive) e in altre località istriane. Emblematici di queste persecuzioni contro slavi e antifascisti italiani in Istria e Venezia Giulia sono i sistemi coercitivi per inviare i contadini al lavoro nelle miniere di carbone di Arsia-Albona dove, per duplicare la produzione senza però adeguate protezioni dei minatori sui posti di lavoro, nel 1938 ci fu una tragedia (allora taciuta dalla stampa) in cui persero la vita 180 minatori, lasciando oltre mille vedove ed orfani. Emblematica di quel periodo in Istria è anche una canzoncina cantata dei gerarchi che diceva: “A Pola xe l’Arena / la Foiba xe a Pisin: butaremo zo in quel fondo / chi ga certo morbin”. E alludendo alle foibe, un’altra poesiola minacciava chi si opponeva al regime: “… la pagherà / in fondo alla Foiba finir el dovarà”.Nell’aprile del Quarantuno, infine, si arrivò all’aggressione alla Jugoslavia senza dichiarazione di guerra, seguita dall’occupazione di larghe regioni della Slovenia e della Croazia, dall’intero Montenegro e del Kosovo, infine dall’annessione al Regno d’Italia di una grossa fetta della Slovenia ribattezzata Provincia di Lubiana, di una lunga fascia della costa croata che formò il Governatorato della Dalmazia con tre provincie da Zara fino alle Bocche di Cattaro, e la creazione della nuova provincia allargata di Fiume detta “Provincia del Quarnaro e dei Territori annessi della Kupa” comprendente tutta la parte montana della Croazia alle spalle del Quarnero più le isole di Veglia ed Arbe che si univano a quelle di Cherso e Lussino. Così l’Italia incorporò nel proprio territorio nazionale regioni abitate al 99% da sloveni e croati con una popolazione di oltre mezzo milione di persone che si aggiungevano al 342.000 “allogeni” già assoggettati all’Italia ed al fascismo italiano da due decenni. Il Montenegro intero fu trasformato a sua volta in un Governatorato italiano. Il Kosovo, territorio della Macedonia, fu annesso invece alla cosiddetta Grande Albania che già dal ’39 era una colonia dell’Italia.Le violenze contro i civili dei territori annessi o occupati furono compiuti in base a “una ben ponderata politica repressiva” come ci rivela una ben nota circolare del generale Roatta del marzo 1942 nella quale si legge: «Il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato nella formula dente per dente, ma bensì da quella testa per dente». A sua volta il generale Robotti, ordinando rastrellamenti a tappeto nel giugno e agosto 1942, indicava queste soluzioni alle truppe dell’XI Corpo d’Armata: «Internamento di tutti gli sloveni per rimpiazzarli con gli italiani» e per «far coincidere le frontiere razziali e politiche»: «Esecuzione di tutte le persone responsabili di attività comunista o sospettate tali». Infine, «Si ammazza troppo poco!». Mi limiterò a un piccolo territorio alle spalle di Fiume e ad un solo mese, luglio del 1942. Nelle borgate di Castua, Marcegli, Rubessi, Viskovo e Spincici furono incendiate centinaia di case e fucilate decine di persone come “avvertimento”. Nel Comune di Grobnik, il villaggio di Podhum fu completamente raso al suolo per ordine del prefetto Temistocle Testa.All’alba del 13 luglio, per “vendicare” due fascisti scomparsi il giorno prima da quel villaggio, furono dapprima saccheggiate e poi incendiate 484 case, portati via mille capi di bestiame grosso e 1300 pecore, deportati nei campi di concentramento in Italia 889 persone (412 bambini, 269 donne e 208 uomini anziani) e fucilate altre 108 persone. Uno sterminio. I fascisti italiani, passati al servizio del tedeschi dopo il settembre 1943, continuarono a battersi “per l’italianità” dei territori ceduti al Terzo Reich. Fra tanti sia ricordato l’episodio di Lipa (30 aprile 1944) dove 269 vecchi, donne e bambini sorpresi quel giorno in paese, furono sterminati: parte fucilati, parte rinchiusi in un edificio e dati alle fiamme. Di tali eccidi ce ne furono a centinaia in Istria, nel territorio quarnerino, in Slovenia, in Dalmazia, in Montenegro, ovunque arrivarono i militari fascisti e le altre formazioni inviate da Mussolini. Nei miei scritti ho documentato lo sterminio di 340.000 civili slavi fucilati e massacrati dall’aprile 1941 all’inizio di settembre 1943 nel corso dei cosiddetti “rastrellamenti” ed operazioni di rappresaglia contro le forze partigiane insorte.Ho anche scritto, ma non sono stato il solo in Italia, di altri 100.000 civili montenegrini, croati e sloveni deportati nei capi di concentramento approntati dalla primavera all’estate del 1942 dall’esercito italiano per rinchiudervi vecchi, donne e bambini colpevoli unicamente di essere congiunti e parenti dei “ribelli”. In quei campi disseminati dalle isole di Molat e Rab/Arbe in Dalmazia fino a Gonars nel Friuli ed altri in tutto lo Stivale, morirono di fame, di stenti e di epidemie circa 16.000 persone nel giro di poco più di un anno di deportazione. Tutto questo viene taciuto nella Giornata del Ricordo che si celebra in Italia da una decina d’anni. Si ricordano soltanto le nostre perdite: il dolore dei nostri connazionali costretti a lasciare le terre concesse all’Italia dopo la prima guerra mondiale, il dolore delle famiglie degli infoibati nel settembre 1943 in Istria e nel maggio 1945 a Trieste, Gorizia e Fiume subito dopo l’ingresso delle truppe di Tito.È giusto, è doveroso ricordare foibe ed esodo, le nostre vittime, i nostri dolori, ma non si dovrebbero tacere il contesto storico, le colpe del fascismo che portarono alla sconfitta ed alla perdita di quelle regioni. Non si dovrebbero tacere o volutamente ignorare le vittime delle popolazioni slave oppresse, martoriate e decimate dapprima nel ventennio fascista in Istria ed a Zara, ma soprattutto nella seconda guerra mondiale. Sulla bilancia e nel contesto storico vanno messi, dunque, anche i dolori che noi abbiamo arrecato agli altri.(Giacomo Scotti, estratto dal’articolo “Sulle Foibe un giorno per tutti i ricordi”, apparso sul “Manifesto” il 5 febbraio 2014 e ora ripubblicato integralmente il 10 febbraio 2020, vista la sua scottante attuatità. Saggista e storico, da giovane antifascista emigrò in Istria e visse tra Pola e Fiume. Dal 1986 vive tra Italia e Croazia, dove ha ricevuto numerosi riconoscimenti).Inizio con tre brani di un discorso pronunciato al Teatro Ciscutti di Pola da Benito Mussolini il 20 settembre 1920, dando inizio alle brutali violenze contro le popolazioni della Venezia Giulia: «Qual è la storia dei Fasci? Essa è brillante! Abbiamo incendiato l’Avanti! di Milano, lo abbiamo distrutto a Roma. Abbiamo revolverato i nostri avversari nelle lotte elettorali. Abbiamo incendiato la casa croata di Trieste, l’abbiamo incendiata a Pola…»…«Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini italiani devono essere il Brennero, il Nevoso e le (Alpi) Dinariche. Dinariche, sì, le Dinariche della Dalmazia dimenticata!… Il nostro imperialismo vuole raggiungere i giusti confini segnati da Dio e dalla natura, e vuole espandersi nel Mediterraneo. Basta con le poesie. Basta con le minchionerie evangeliche». Dopo quel discorso, l’Istria fu messa a ferro e fuoco. Venti anni dopo quel discorso le truppe di Mussolini invasero Dalmazia, Slovenia e Montenegro, dando inizio a nuove stragi in nome della civiltà italiana.
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Sapelli: all’Italia servono l’Ilva e una Lega non più anti-Ue
Mai come in questo momento l’Italia ha bisogno della produzione di Taranto. Perché quegli acciai piani sono, qualitativamente, tra i migliori al mondo. Perché, in un paese fatto di piccole e medie imprese, coprono il 70% del fabbisogno nazionale a un prezzo inferiore rispetto all’oligopolio internazionale. E perché servono a costruire i rapporti con la Mesopotamia, ossia la Siria e l’Iraq ma anche la Libia, e per ricucirci un nuovo ruolo in Europa. Il problema più urgente sembra che per Mittal sia il cattivo affare di un’azienda che perde 2 milioni al giorno? E per il governo quello di arrivare a un compromesso (l’entrata di Cdp, l’accettazione di una parte degli esuberi)? Il governo non mi pare che sia all’altezza. Perché non ha le competenze, e perché nel suo stesso interno ha una forte componente antiindustriale, a sua volta divisa in un’ala esoterica dei 5 Stelle, che vede qualunque elemento d’industria come una connotazione del male, e in un’altra, non necessariamente ambientalista ma legata a certa concezione ideologica del capitalismo.Dati i suoi stabilimenti nel resto d’Europa, Mittal si è buttata su Ilva non per salvarla, ma per chiuderla? Finora, questo tipo di strategia, i grandi investitori tendono raramente a perseguirla. In molti casi, come General Electrics e Avio, si sono sempre mantenuti gli impianti produttivi. E, a dirla tutta, nel lungo periodo, non vedo in giro una sovracapacità produttiva dell’acciaio, anzi. E se ne ha bisogno anche per ragioni strategiche industriali verso l’Africa. Ma di cosa ci stupiamo ora, quando a Venezia assistiamo tranquillamente ogni giorno al transito delle grandi navi a due passi da piazza San Marco? È un atteggiamento italiano. Come il fatto che continuiamo a non avere la separazione delle carriere in magistratura, una giustizia che è quello che è, un apparato tecnocratico abnorme. Dovremmo finirla di fare gli ipocriti. Si parla tanto di investimenti in infrastrutture. Ma se si esclude un accenno alla “golden rule” (lo scorporo dal calcolo del deficit, appunto, degli investimenti pubblici), il governo, almeno sulla carta, ci sta mettendo meno di 1 miliardo. Si cresce, così? Paolo Savona, che è un tecnico inoppugnabile, parla di un alto numero di opere pubbliche già cantierizzate. Mi domando, dato che per esse i soldi sono già stati stanziati, perché non vadano avanti.Il ministro dell’economia Gualtieri conta molto sul decreto fiscale, sulle tasse ecologiche e sul fatto che l’Europa ci dia flessibilità per 12-14 miliardi. Troppo timido e ottimista? Gualtieri è persona molto competente, è uno storico che ha scritto una bella tesi sull’Europa e ha la fortuna di non essere un economista con la testa riempita di sciocchezze. Ma rischia di avere una spiccata visione della manovra influenzata da ideologie del passato, diciamo così. Cos’ho pensato quando si è tornato a parlare di Alitalia? Con Alitalia la situazione non è inedita. Eppure si era arrivati, fondamentalmente, ad un ottimo contratto. Ma i sindacati hanno fatto votare anche i non iscritti (ma come si fa?) e quel contratto è stato respinto. A questo punto bisognerebbe aprire un dibattito pubblico su domande fondamentali: interessa davvero conservare l’italianità? O meglio, un rilancio di proprietà straniera in cui solo la sede legale e produttiva rimangano in Italia? E le risposte non sono semplici, specie considerando che siamo il paese in cui l’alta velocità sulla tratta ferroviaria Milano-Roma ha, di fatto, distrutto la tratta aerea; o dove s’ è scelto di usare Malpensa invece di optare per l’aeroporto di Verona. E posso andare avanti…Una notte, nel 2018, mi proposero di fare il presidente del Consiglio. Semplicemente, un amico mi chiese di mettermi a disposizione per Palazzo Chigi. Siccome io sono piemontese, con un alto senso dello Stato, l’ho fatto. La prospettiva di impedire che Di Maio diventasse premier mi avrebbe spinto a fare qualunque cosa. Il governo reggerà fino alla legge di bilancio? Della manovra interessa a pochi. In realtà i partitelli appena nati, ma anche tutti gli altri, stanno aspettando le nomine degli enti pubblici (circa 500) per applicare lo spoil system e “bassaninizzare” la pubblica amministrazione. E la Lega? Penso che Lega abbia degli ottimi amministratori locali e lavori egregiamente sul territorio. Ma la sua vera strategia per fare la differenza è quella di liberarsi dei suoi estremismi e abbracciare l’Europa. Deve parlare con la Merkel e con quelli che lì contano. Io non concepisco l’idea di sovranismo se non nell’ottica filosofica di Jean Bodin («potere assoluto e perpetuo dello Stato» nell’ambito della tolleranza e della libertà religiosa).(Giulio Sapelli, dichiarazioni rilasciate nell’ambito dell’intervista “La profezia sull’Ilva: salvarla è vitale, ma il governo non è all’altezza”, realizzata da Francesco Specchia per “Libero” il 19 novembre 2019).Mai come in questo momento l’Italia ha bisogno della produzione di Taranto. Perché quegli acciai piani sono, qualitativamente, tra i migliori al mondo. Perché, in un paese fatto di piccole e medie imprese, coprono il 70% del fabbisogno nazionale a un prezzo inferiore rispetto all’oligopolio internazionale. E perché servono a costruire i rapporti con la Mesopotamia, ossia la Siria e l’Iraq ma anche la Libia, e per ricucirci un nuovo ruolo in Europa. Il problema più urgente sembra che per Mittal sia il cattivo affare di un’azienda che perde 2 milioni al giorno? E per il governo quello di arrivare a un compromesso (l’entrata di Cdp, l’accettazione di una parte degli esuberi)? Il governo non mi pare che sia all’altezza. Perché non ha le competenze, e perché nel suo stesso interno ha una forte componente antiindustriale, a sua volta divisa in un’ala esoterica dei 5 Stelle, che vede qualunque elemento d’industria come una connotazione del male, e in un’altra, non necessariamente ambientalista ma legata a certa concezione ideologica del capitalismo.
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Autopsia degli italiani: il nostro sistema-paese sta sparendo
Cos’hanno in comune le coppie che non vogliono avere figli, i ragazzi che se ne vanno all’estero, i pensionati che prendono la cittadinanza in paesi dove il costo della vita e delle tasse è più basso; oppure quanti rigettano i simboli viventi della vita italiana, dal crocifisso al presepe, quelli che chiedono di abbattere le frontiere e di lasciar entrare chiunque decida di vivere da noi e i censori che condannano chiunque voglia tutelare la nostra identità nazionale? Concorrono tutti, spesso a loro insaputa, al suicidio degli italiani o se preferite alla loro eutanasia. Corale, anche se spesso individuale. Molti di loro hanno buone ragioni personali, concrete e contingenti per le loro scelte e le loro rinunce. Non fanno figli perché si sentono precari, non hanno lavoro stabile né casa adeguata né sostegni di alcun tipo per metterli al mondo. Oppure vanno via dall’Italia perché qui non trovano lavoro, non vedono riconosciuti i loro studi, i loro meriti, la loro capacità. O ancora, abbandonano il paese perché sono tartassati e qui non ce la fanno a mantenere uno standard di vita adeguato, non si sentono garantiti come pensionati, temono la criminalità e sono disamorati del loro paese.Altri considerano l’Italia un corridoio umanitario, un luogo di transito e di approdo per chiunque voglia; reputano sacrosanto accogliere tutti, anche se sbarcati clandestinamente, perché sono umanitari, si mettono nei panni di chi parte, di chi arriva e sempre meno nei panni di chi fu, è o sarà italiano. O ancora: vogliono aprirsi al mondo e dar posto ad altri modi e modelli di vita, sono xenofili, desiderano le storie d’altri, sono stanchi delle proprie. Ragioni diverse tra loro, assolutamente non accorpabili e diseguali anche sul piano etico, diversamente rispettabili, ma il risultato è uno solo: si pongono mentalmente o fisicamente fuori dal loro paese, contribuiscono alla fine degli italiani, a cominciare da se stessi. Ciascuno a suo modo, spesso in buona fede e con le migliori intenzioni, stacca la spina all’Italia, concorre alla scomparsa degli italiani, si dimette da italiani o non ne garantisce la prosecuzione; accelera la cessazione della nazione e dell’identità collettiva. Per non dire dell’autodenigrazione nazionale e del diffuso vizio di rappresentare il mondo sempre a rovescio: i buoni sono quelli che vengono da fuori, i cattivi sono quelli di dentro.E tralascio la cornice di un paese in via di dismissione, marchi distintivi che vanno all’estero, aziende che chiudono, l’Italia che perde l’auto, il burro e l’acciaio, l’auto. Si cambia paese come si cambia gestore telefonico perché è più vantaggioso. Il dispatrio diventa solo una voltura. Sopravvivono come individui, come cittadini del mondo, come nomadi, utenti e consumatori, come esuli o profughi dal nostro paese, ma si cancellano come italiani, come famiglie, come abitati di una terra, di una città, scelgono l’evacuazione, la desertificazione, alimentano la sostituzione di popolo. Non riusciamo più a vedere le cose dal punto di vista sociale, comunitario, nazionale e tantomeno con lo sguardo storico e connesso al rapporto tra le generazioni; le vediamo solo dal punto di vista individuale, soggettivo, utilitario e contingente. O peggio, ideologico. Non riusciamo più a capire il senso storico di quel che stiamo vivendo e facendo, ci occupiamo solo dell’occasione del momento, siamo interamente immersi nella situazione, non siamo in grado di proiettare le scelte immediate nel futuro, di capirne gli effetti e di rapportarli al mondo circostante.Eppure sta avvenendo un processo storico importante e letale. È l’eutanasia di un popolo, di una nazione, di una civiltà. Ma se lo dici rischi pure di essere perseguitato a norma di legge come se la preoccupazione per la vita del tuo paese e del tuo popolo, fosse una forma di odio, di razzismo e di disprezzo nei confronti degli altri. È chiaro che l’italianità non si misura dal colore della pelle, e nemmeno da altri indicatori superficiali. Anzi, chi si affida solo a quelli già è estraneo allo spirito di una nazione, non capisce l’importanza di un’identità, di una cultura, di una tradizione nazionale. Ci sono bianchissimi e purissimi italiani che sono meno italiani nella testa e nel cuore di tanti altri, oriundi o sopraggiunti. Come si fronteggia il suicidio degli italiani? Innanzitutto assumendone coscienza, diventando consapevoli di quel che sta accadendo; poi cercando con realismo, senza velleità, possibili rimedi e possibili alternative ai percorsi ritenuti obbligati della deitalianizzazione in automatico; infine studiando, sollecitando e promuovendo iniziative, programmi, politiche, per rispondere al fenomeno e incoraggiarne la ripresa, a ogni livello.Invece non vedo niente di tutto questo, se non qualche scaramuccia di basso livello su qualche minchiata secondaria, come il caso Balotelli o poco altro. In particolare trovo sconfortante un’area politica che pure è maggioritaria nel paese ma si lascia dettare l’agenda dalla dittatura del politically correct e si limita a saltare o a non saltare al comando dei circensi. L’ultimo è stato il caso Segre, con la relativa commissione anti-odio, così prefabbricato. Prendete voi iniziative in senso inverso piuttosto che limitarvi a discutere se acconsentire, astenervi o respingere le iniziative altrui, nate al puro scopo di mettervi in difficoltà, spaccarvi e mantenere il bastone del comando, imponendo il loro canone. Anche perché nel caso in questione, non è in gioco una parte politica o una spicciola convenienza elettorale. È in gioco un popolo, una storia, una patria; il loro passato e il loro futuro.(Marcello Veneziani, “Il suicidio degli italiani”, da “La Verità” del 7 novembre 2019; articolo ripreso dal blog di Veneziani).Cos’hanno in comune le coppie che non vogliono avere figli, i ragazzi che se ne vanno all’estero, i pensionati che prendono la cittadinanza in paesi dove il costo della vita e delle tasse è più basso; oppure quanti rigettano i simboli viventi della vita italiana, dal crocifisso al presepe, quelli che chiedono di abbattere le frontiere e di lasciar entrare chiunque decida di vivere da noi e i censori che condannano chiunque voglia tutelare la nostra identità nazionale? Concorrono tutti, spesso a loro insaputa, al suicidio degli italiani o se preferite alla loro eutanasia. Corale, anche se spesso individuale. Molti di loro hanno buone ragioni personali, concrete e contingenti per le loro scelte e le loro rinunce. Non fanno figli perché si sentono precari, non hanno lavoro stabile né casa adeguata né sostegni di alcun tipo per metterli al mondo. Oppure vanno via dall’Italia perché qui non trovano lavoro, non vedono riconosciuti i loro studi, i loro meriti, la loro capacità. O ancora, abbandonano il paese perché sono tartassati e qui non ce la fanno a mantenere uno standard di vita adeguato, non si sentono garantiti come pensionati, temono la criminalità e sono disamorati del loro paese.
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Veneziani: non è col sovranismo che si sconfigge il Mostro
Pontida, Atreju e poi? Tweet, selfie, comizi, talk show, magari un corteo. Ma qual è la consistenza di quel fenomeno pur maggioritario nel nostro paese che è chiamato sovranismo? Dico la consistenza oltre l’apparenza mediatica, le opinioni espresse, le facce dei leader. Sapete come la penso, sapete che la sintesi del peggio che comanda l’Italia suscita in me come in molti di voi, qualcosa di più del dissenso e dell’opposizione. Disgusto, indignazione, a tratti perfino schifo al solo vederli e sentirli. Quando il peggior settarismo si unisce al peggior trasformismo in un progetto che è agli esatti antipodi di quel che pensano, dicono, vogliono gli italiani e di quel che il puro buon senso, la realtà, non hai voglia di sottoporre a critica chi si oppone a loro. Puro sfascismo, inavvertenza del declino verso cui ci portano al galoppo, negazione di ogni senso d’italianità, di civiltà, di priorità legate alla vita reale delle persone, delle famiglie, dei popoli. Però possiamo chiederci una volta, almeno una volta, che altro c’è di solido, di credibile, di fondato oltre le facce, gli slogan e le dichiarazioni dei leader sul versante dei sovranisti?Sapete che vuol dire governare l’Italia, e sapete che vuol dire farlo avendo il mondo contro, i potentati veri, i media, Papi, i giudici d’assalto, i presidenti e i tecnocrati, le classi dominanti europee? Nessuno pensa che all’opposizione si possa disporre di mezzi e risorse adeguate ad affrontare una sfida così grande; si sa che c’è uno squilibrio clamoroso, che parliamo di Davide contro Golia, con l’unica forza che ci sono milioni di Davide a tendere la fionda del medesimo puntata contro il gigante. Ma si può costruire una credibile alternativa ai poteri armati e accessoriati solo con la biblica fionda e il tifo intorno? Può bastare l’uso dei social per combattere una vera battaglia di civiltà? Si può far rinascere un paese, rifondare una nazione sovrana con qualche palliativo, qualche piccola battaglia simbolica e poi nient’altro? No, non può bastare.Sì, qualcosa magari c’è, qualche buon amministratore locale, qualcuno che se la cava, qualche faccia credibile e rispettabile. Ma poi basta, il vuoto; nessuna classe dirigente, nessuna struttura, nessun quartier generale, nessuna vera strategia oltre la solita tattica elettorale più contorno di sondaggi. Il deserto, e gli slogan nel deserto. Non tornerò a ripeterlo, magari lo scriverò una volta su “La Verità” o su “Panorama”; per ora lo dico solo a voi, amici della pagina. Non mi va di far la cassandra; e poi, se consideri chi c’è al potere, chi abita il Palazzo, tutti gli altri se, ma, boh, finiscono in un angolo; non puoi perder tempo a “sottilizzare” sulla reale consistenza di quell’alternativa se hai la certezza che quel potere fa male. Ma ogni tanto, a bassa voce, in un orecchio, diciamocelo pure noi. Non bastano due facce, quattro slogan e tanta rabbia per costruire una seria alternativa di governo. Ce lo siamo detti, non ce lo ripeteremo. Ma dovevamo dircelo, senza ipocrisia. Con la speranza di sbagliarci o di vederla noi troppo negativamente.(Marcello Veneziani, “Detto tra noi”, da “La Verità” del 21 settembre 2019; articolo ripreso sul blog di Veneziani).Pontida, Atreju e poi? Tweet, selfie, comizi, talk show, magari un corteo. Ma qual è la consistenza di quel fenomeno pur maggioritario nel nostro paese che è chiamato sovranismo? Dico la consistenza oltre l’apparenza mediatica, le opinioni espresse, le facce dei leader. Sapete come la penso, sapete che la sintesi del peggio che comanda l’Italia suscita in me come in molti di voi, qualcosa di più del dissenso e dell’opposizione. Disgusto, indignazione, a tratti perfino schifo al solo vederli e sentirli. Quando il peggior settarismo si unisce al peggior trasformismo in un progetto che è agli esatti antipodi di quel che pensano, dicono, vogliono gli italiani e di quel che il puro buon senso, la realtà, non hai voglia di sottoporre a critica chi si oppone a loro. Puro sfascismo, inavvertenza del declino verso cui ci portano al galoppo, negazione di ogni senso d’italianità, di civiltà, di priorità legate alla vita reale delle persone, delle famiglie, dei popoli. Però possiamo chiederci una volta, almeno una volta, che altro c’è di solido, di credibile, di fondato oltre le facce, gli slogan e le dichiarazioni dei leader sul versante dei sovranisti?
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Magaldi: il coraggio di una vera rivoluzione per il XXI secolo
Da Berlusconi in avanti, passando per Monti e soprattutto per Renzi, sono tutti piuttosto bravini a raccogliere il consenso, ma poi non sanno che farne: per impiegarlo in modo utile, e soprattutto mantenerlo, bisognerebbe operare con coraggio in direzioni precise – e questo non accade. Se oggi si può avere coraggio senza rischiare la vita, come invece Olof Palme e Thomas Sankara, è perché si è seduti sulle spalle di questi giganti: loro sono stati assassinati, ma le loro idee sono qui, pronte per essere usate. Un governo italiano che avesse davvero coraggio e determinazione dovrebbe dire, agli altri paesi e alle istituzioni Ue: in democrazia si parte da una Costituzione e da politiche unitarie, e questo oggi in Europa non c’è. Quindi: o avviamo una fase costituente di questo tipo, tenendo conto del fatto che il modello dell’austerità neoliberista ha fallito miseramente, oppure – se i partner non ci stanno – l’Italia sospende la vigenza dei trattati europei e inizia a organizzare in modo diverso la propria società, auspicando in tutte le sedi possibili un processo costituzionale e federativo. Non è molto difficile né da dire né da spiegare alla pubblica opinione. Per farlo, però, bisogna appunto avere quel coraggio che hanno avuto personaggi come Rosselli, Palme e Sankara.Coraggio che manca ai nostri politicanti di oggi, tutti preoccupati di abbaiare e di litigare per avere qualche percentuale irrisoria in più alle elezioni europee. Ma poi – una volta al potere – si limitano a vegetare, facendo i propri affari, dimenticandosi di quello che avevano promesso per raccogliere il consenso elettorale. Palme e Sankara sono stati assassinati quando il neoliberismo non voleva ostacoli davanti a sé, nemmeno ideologici, e men che meno da parte di statisti influenti e capaci di bloccare quello che doveva accadere all’inizio degli anni ‘90. Oggi, soffiare sul fuoco della violenza per fermare una rivoluzione anti-neoliberista non appare più una soluzione percorribile, per tante ragioni. C’è ormai una platea di cittadini, in Italia e nel mondo, che vedono ormai con chiarezza quello che non funziona. Tutti i politici che parlano di cambiamento, e poi si dimostrano essere dei bluff, ci mettono poco a essere sbugiardati dal corpo elettorale.Paolo Becchi, già ideologo dei 5 Stelle, oggi – con il libro “Italia sovrana” – si presenta come ideologo di un nuovo sovranismo, interessante nella sua declinazione intellettuale: la contrapposizione tra globalismo e sovranismo. Ma una volta scelto il sistema, globale o nazionale, poi tutto cambia se viene gestito con presupposti neoliberisti o keynesiani, post-democratici o democratici, liberal-conservatori o social-liberali. Di quale ideologia e cultura politica vogliamo nutrire il nostro futuro, nel XXI secolo? Quella dell’inganno neoliberista, secondo cui socialismo e liberalismo sono antitetici, e quella dell’inganno neoaristocratico, secondo cui basta servire su un piatto ai cittadini la ritualità della democrazia, dimenticando la sostanza? Oppure vogliamo richiedere un’idea equilibrata di gestione delle nostre società, nella quale il libero mercato e lo stesso capitalismo non siano demonizzati, ma trovino una complementarità nelle istanze sociali, cioè in un socialismo che è fatto di integrazioni, contrappesi e di una ritrovata autorevolezza di ciò che è pubblico?Pubblico e privato non sono antitetici. La narrazione neoliberista è stata all’insegna della svalutazione di ciò che è pubblico e statuale, della lentezza dei processi democratici rispetto all’esigenza di trattare la cosa pubblica come un’azienda che produce efficienza e profitti. Il mondo della libera impresa, che è storicamente collegato all’affermarsi delle democrazie, è un mondo diverso da quello della sfera pubblica, dove il core business non è la produttività in senso economicistico, bensì quella rete di servizi sociali, civili e materiali, infrastrutturali, che consente lo sviluppo di una vita felice, equilibrata. Le istituzioni pubbliche sono adatte a offrire un’uguaglianza delle opportunità, distinguendosi così dalle (giuste) leggi competitive del libero mercato. Le istituzioni pubbliche parlano di cooperazione, non di competitività.Il Movimento Roosevelt intende offrire un orizzonte ideologico nuovo, da abitare, per i cittadini del XXI secolo. Serve una rivoluzione culturale, perché non basta una semplice riforma dell’esistente. C’è bisogno di affrontare, pacificamente ma in modo deciso e forte, tutta una serie di poteri che non gradiscono questa conversione verso la democrazia sostanziale. La globalizzazione in atto è un processo che offre, piano piano, una disabitudine alla democrazia. E le contrapposizioni violente – su scala locale e internazionale – servono proprio a impedire un approccio di pace e armonia sociale. Quelli come noi vogliono costruire un orizzonte di eliminazione del conflitto sociale, attraverso una compesazione per le diseguaglianze prodotte dal mercato: va bene la disparità generata dal merito individuale, ma in cambio bisogna offrire a tutti i cittadini del globo gli elementi di base che consentono di avere un progetto di vita dignitoso. E’ una cosa che sembra semplice, ma in realtà oggi è rivoluzionaria. Esiste una nuova ideologia, il socialismo liberale, declinabile anche da angolazioni politiche diverse. E l’Italia può fare con orgoglio quello che ha già fatto nei secoli passati: offrire per prima una pietanza politico-culturale e ideologica agli altri popoli, agli altri paesi.Dall’Italia sono sempre partite le primizie – buone e cattive – che poi hanno influenzato il resto del mondo: la civiltà giuridica promana da Roma, l’universalismo giuridico viene dall’Italia romanizzata. E non dimentichiamo la lezione del Rinascimento, una sorta di manifesto ideologico-culturale che diventò poi storia concreta, trasformando le istituzioni e il modo stesso di concepire la realtà. Quel grande italiano che fu Giovanni Pico della Mirandola, con la “Oratio de hominis dignitate” costruì una nuova antropologia: l’antropologia dell’uomo artista, mago e scienziato, che non si limita a chinare il capo come creatura peccaminosa, bisognosa di redenzione, che quindi non ardisce conoscere e mettersi in rapporto dialettico con la natura. Da lì nasce l’idea dell’uomo che può trasformare le cose – la società, la natura stessa. Poi c’è il Risorgimento: i nostri eroi risorgimentali erano presi a modello in tutto il mondo, da popoli che anelavano all’autodeterminazione.C’è stato anche il fascismo, naturalmente: altra primizia italiana. Una dottrina post-democratica e di fatto neoaristocratica, tuttavia affascinante per i tanti che si lasciarono influenzare da quella che – per me, che sono fieramente democratico – non è che una perversione. Siamo orogliosi di essere italiani, senza che questo ci spinga a pensare che abbia davvero un futuro la contrapposizione tra sovranismo e globalismo. Sto molto apprezzando il libro di Paolo Becchi, “Italia sovrana”, e il senso in cui lui parla di sovranismo. Però credo che la sfida vera sia quella di “glocalizzare” la democrazia, uscendo da questo film che contrappone i nazionalismi alle oligarchie globali, come se globalizzare i rapporti fosse per ciò stesso sinonimo di diminuzione della democrazia. Io credo piuttosto che si possano globalizzare anche i diritti universali. Ma come fare, se non si ha una visione globale di questi diritti, e se ciascuno si preoccupa soltanto di recuperare la sovranità del proprio Stato e del proprio popolo?Alla fine, questo è un nazionalismo non aggressivo, teso a sottrarre alle oligarchie apolidi il controllo della moneta, dell’economia, della società e delle istituzioni. Ma come possiamo però immaginare un XXI secolo in cui non ci curiamo di tanti territori, dove le popolazioni non sono mai nemmeno passate per processi democratici?In fondo, anche il processo risorgimentale italiano metteva insieme più Stati e staterelli coi propri usi, tradizioni, dialetti e lingue. Eppure c’era un sentimento di italianità che univa tutti. Ma la lingua italiana era quasi artificiale, creata per unire popoli che parlavano lingue diverse, e si è affermata definitivamente solo dopo la Seconda Guerra Mondiale, grazie alla Rai. Il Movimento Roosevelt è convinto che l’Italia possa insegnare molto a molti, e che l’orgoglio patriottico (non nazionalistico) del nostro paese possa essere un fattore coesivo, per una proposta politico-culturale convincente.(Gioele Magaldi, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella video-chat su YouTube del 6 maggio 2019. Presidente del Movimento Roosevelt, Magaldi ripercorre le tappe di quella che chiama “rivoluzione rooseveltiana”: dopo il convegno a Londra il 30 marzo sul New Deal keynesiano di cui avrebbe bisogno l’Europa, è seguita l’assise milanese del 3 maggio sul socialismo liberale, in omaggio a Rosselli, Palme e Sankara. Il 14 luglio, a Roma, lo stesso Magaldi sarà tra i promotori del “Partito che serve all’Italia”, cantiere politico per offrire un’alternativa agli elettori, superando le timidezze del governo gialloverde, incapace di opporsi al paradigma neoliberista del rigore Ue).Da Berlusconi in avanti, passando per Monti e soprattutto per Renzi, sono tutti piuttosto bravini a raccogliere il consenso, ma poi non sanno che farne: per impiegarlo in modo utile, e soprattutto mantenerlo, bisognerebbe operare con coraggio in direzioni precise – e questo non accade. Se oggi si può avere coraggio senza rischiare la vita, come invece Olof Palme e Thomas Sankara, è perché si è seduti sulle spalle di questi giganti: loro sono stati assassinati, ma le loro idee sono qui, pronte per essere usate. Un governo italiano che avesse davvero coraggio e determinazione dovrebbe dire, agli altri paesi e alle istituzioni Ue: in democrazia si parte da una Costituzione e da politiche unitarie, e questo oggi in Europa non c’è. Quindi: o avviamo una fase costituente di questo tipo, tenendo conto del fatto che il modello dell’austerità neoliberista ha fallito miseramente, oppure – se i partner non ci stanno – l’Italia sospende la vigenza dei trattati europei e inizia a organizzare in modo diverso la propria società, auspicando in tutte le sedi possibili un processo costituzionale e federativo. Non è molto difficile né da dire né da spiegare alla pubblica opinione. Per farlo, però, bisogna appunto avere quel coraggio che hanno avuto personaggi come Rosselli, Palme e Sankara.
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Marella Agnelli: c’era una volta la Fiat, oggi non più italiana
Fiat fuit. Con la morte dell’ultima imperatrice, Marella Caracciolo-Agnelli, finisce la dinastia Fiat, tragicamente decimata dal destino. Nella sua figura regale si sintetizzava l’incontro della dinastia imperiale delle Auto e del Capitalismo nostrano con la dinastia principesca-editoriale dei Caracciolo, già proprietari de “La Repubblica-l’Espresso”. Per il mondo radical che l’ha salutata, la Signora era la sintesi perfetta dell’Impero Fiat e del mondo progressista-liberal. Così l’hanno ricordata Gianni Riotta, Nicola Caracciolo, Ezio Mauro ed altri. Marella Agnelli simboleggiava, con classe e sensibilità, va detto, l’incontro tra la saga padronale e il mondo della sinistra venuto dal comunismo, dalle lotte operaie contro i “padroni”. Fiat e Martello, auto, aiuti di Stato e stampa progressista. Poi, magari la signora aveva altre sensibilità, amava l’Oriente, Jung e Hillman, pativa con ammirevole self control alcune intemperanze di suo Marito, il Re Gianni. Ma viene celebrata nel suo ruolo di cerniera tra il mondo dei ricchi e la sinistra, tra il piccolo mondo snob e la sinistra a mezzo stampa. Con Marchionne era già finito l’ultimo residuo di mezza italianità della Fiat. Manca l’Italia nella nuova Fiat. Resta il marchio della Ferrari, del Cavallino rosso, ma non più l’Azienda-Regime.La Fiat manca come sede, manca come leadership, manca come orizzonte di riferimento, manca l’I d’Italia nel nuovo nome, Fca, anche per evitare sigle oscene, almeno da noi. Come è noto, l’ex Fiat è ora un’azienda italo-statunitense con domicilio fiscale legale in Olanda e sede centrale a Londra, guidata da un inglese e presieduta da John Elkann che avremmo difficoltà a definire italiano, per nome, origine e visione. Resta come sottomarca la Fiat, piccolo gadget per il vintage e per gli acquirenti nostalgici; quel marchietto antico che sa tanto di miracolo economico, anni Cinquanta, famiglie italiane, film in bianco e nero. Una dopo l’altra le aziende italiane se ne vanno all’estero. Il paradigma resta la Fiat che lasciò l’Italia cinque anni fa. Ricordo cosa dissero i nostri media quando la Fiat s’imparentò a Chrysler. Gran Torino, caput mundi; che trionfo, la Fiat si è pappata la Chrysler, Obama assunto come maggiordomo di colore da Marchionne, gli Stati Uniti aspettano trepidanti che l’azienda torinese porti la modernità nel loro paesone e risolva la crisi economica mondiale.È il giorno dell’orgoglio italiano, titolavano perturbati e commossi i grandi giornali italiani, tutti o quasi partecipati Fiat, in un modo o nell’altro. Gli Usa andranno in 500, profetizzavano euforici gli editoriali e le tv, l’Italia ricolonizza l’America, come ai tempi di Colombo e di Vespucci. Momento storico, ripetevano solenni i Tg, gli italiani della Fiat portano l’auto ecologica in America. Ma la Fiat non era in un mare di guai, non l’aiutava lo Stato, incluso il governo Berlusconi? Ma non si erano dimezzate le vendite delle auto? E che fine avevano fatto i giudizi sulla qualità delle auto Fiat? Poi, come è noto, andò diversamente. Oggi a malapena la Fiat è la nonnina di paese della Fca global. Ma guardiamo il diritto e il rovescio. A centoventi anni dalla nascita nel 1899, il diritto dice che la Fiat è parte notevole della storia d’Italia del Novecento e la sua Famiglia Reale è stata l’altra dinastia torinese che ha dominato l’Italia dopo i Savoia.La Fiat è stata il simbolo, la metafora e il veicolo italiano dell’industrializzazione e della modernizzazione, dell’immigrazione da sud a nord e dell’immaginario collettivo e privato, fino a colonizzare lo sport, tramite l’egemonia della Juve, ancora perdurante, arrivando a disegnare l’assetto dei trasporti su gomma del nostro paese. La Fiat non è mai stata solo una grande azienda privata ma ha sempre agito all’ombra della pubblica protezione: anche ai tempi del fascismo godette del sostegno del regime e del duce in persona; poi in guerra le tresche bilaterali con nazisti e partigiani, ad esempio, per boicottare la socializzazione delle aziende promossa dalla Rsi che non piaceva né ai comunisti né ai “padroni”. Poi, l’aiuto governativo ai tempi della cassa integrazione, dalle agevolazioni in ogni campo ai grandi ammortizzatori delle sue perdite. E’ proverbiale il detto che la Fiat socializzava le perdite e privatizzava i profitti.(Marcello Veneziani, “C’era una volta la Fiat”, da “La Verità” del 26 febbraio 2019; articolo ripreso sul blog di Veneziani).Fiat fuit. Con la morte dell’ultima imperatrice, Marella Caracciolo-Agnelli, finisce la dinastia Fiat, tragicamente decimata dal destino. Nella sua figura regale si sintetizzava l’incontro della dinastia imperiale delle Auto e del Capitalismo nostrano con la dinastia principesca-editoriale dei Caracciolo, già proprietari de “La Repubblica-l’Espresso”. Per il mondo radical che l’ha salutata, la Signora era la sintesi perfetta dell’Impero Fiat e del mondo progressista-liberal. Così l’hanno ricordata Gianni Riotta, Nicola Caracciolo, Ezio Mauro ed altri. Marella Agnelli simboleggiava, con classe e sensibilità, va detto, l’incontro tra la saga padronale e il mondo della sinistra venuto dal comunismo, dalle lotte operaie contro i “padroni”. Fiat e Martello, auto, aiuti di Stato e stampa progressista. Poi, magari la signora aveva altre sensibilità, amava l’Oriente, Jung e Hillman, pativa con ammirevole self control alcune intemperanze di suo Marito, il Re Gianni. Ma viene celebrata nel suo ruolo di cerniera tra il mondo dei ricchi e la sinistra, tra il piccolo mondo snob e la sinistra a mezzo stampa. Con Marchionne era già finito l’ultimo residuo di mezza italianità della Fiat. Manca l’Italia nella nuova Fiat. Resta il marchio della Ferrari, del Cavallino rosso, ma non più l’Azienda-Regime.
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L’antifascismo dei cretini: puro odio, in assenza di fascismo
Abbiamo sempre avuto pazienza con i cretini non cattivi e con i cattivi ma intelligenti. Non riusciamo però ad averne con i cretini cattivi, magari in origine solo cretini poi incattiviti oppure solo cattivi poi rincretiniti. Ma sono cresciuti a dismisura e si sono aggravati. Sto parlando del nuovo antifascismo, collezione autunno-inverno, che si alimenta di fascistometri per misurare il grado di fascismo che è in ciascuno di noi e di istruzioni per (non) diventare fascisti, di Anpi posticce che sventolano l’antifascismo anche il 4 Novembre, non più costituite da partigiani ma da militanti dell’odio perenne; e poi di mobilitazioni, manifestazioni e mascalzonate, veicolate da giornaloni, telegiornaloni, talk show e da tante figurine istituzionali. Come quel Figo che alterna dichiarazioni d’antifascismo a dichiarazioni surreali d’amore a proposito degli stupri e i massacri tossico-migranti. Per lui le violenze si combattono con l’amore, come dicevano i più sfigati figli dei fiori mezzo secolo fa. Lui ci arriva adesso, cinquant’anni dopo e a proposito di un fatto così terribile come uno stupro mortale a una ragazzina.
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Le verità di Marchionne, il silenzio della politica neoliberista
Agganciando il mercato americano con lo sbarco negli Usa attraverso la Chrysler, ha evitato che il tramonto storico della Fiat si trasformasse in una catastrofe. Ha impedito quindi che l’Italia uscisse dal club dei produttori di auto, cioè da quella che nei decenni passati è stata anche un’aristocrazia operaia e sindacale, avanguardia di importanti diritti sociali. Il super-manager improvvisamente scomparso a 66 anni ha saputo guardare oltre l’orizzonte, lo piange Sergio Mattarella, trascurando lo scontro con la Fiom di Landini che a Marchionne contestò il drastico, brutale smantellamento dei diritti del lavoro, il prezzo (salatissimo) per rilanciare un marchio come l’Alfa Romeo da opporre al dominio tedesco, e per paracadutare la Jeep nel mercato cinese. Ma il problema di fondo – ripeteva Marchionne – è il declino della classe media: chi se la compra più, la Panda, se crolla il potere d’acquisto delle famiglie italiane? Interamente neoliberista il credo globale del salvatore provvisorio dell’ex Fiat: al mercato non si comanda, il lavoro sparisce e deve necessariamente emigrare là dove ci sono compratori. L’alternativa sarebbe una sola, la politica: e proprio la scomparsa della politica, fondata sull’investimento pubblico, ha scolpito la grandezza di Marchionne in un Occidente desolatamente solo e impoverito, esposto al ricatto finanziario dello spread – quello che decreta, anche, il tracollo delle vendite di auto in Europa e in Italia.
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Avete idea di cos’era l’Italia, quando aveva la Montedison?
Probabilmente ci sarebbero un milione di posti lavoro in più in Italia, se non fosse stata “suicidata” la Montedison di Raul Gardini. Era il primo gruppo industriale privato italiano, ricorda Mitt Dolcino: la Fiat, all’epoca, era ben lontana dalle vette dei grandi gruppi di Stato come Eni, Stet (Telecom), Enel e forse la stessa Sme (agroindustriale). «Oggi che si è insediato il primo governo eletto non a seguito di influenze esterne – inclusa l’ingerenza della magistratura (ossia Tangentopoli) – dobbiamo ragionare freddamente su cosa successe veramente con Raul Gardini», scrive Dolcino su “Scenari Economici”. «La situazione oggi è talmente grave che qui ci giochiamo l’italianità». Infatti non è un caso – aggiunge l’analista – che Montedison alla fine fu conquistata e spolpata proprio dai francesi, guardacaso gli stessi che, secondo il giudice Rosario Priore, attentarono alla sovranità italiana durante “l’incidente” di Ustica, e che oggi «sembrano distribuire la Legion d’Onore ad ogni notabile italiano che va contro gli interessi del Belpaese». Caduto il Muro di Berlino, di fatto, l’Italia perse la protezione degli Usa. «E l’Europa, la stessa che oggi ci bastona, organizzò il banchetto dato dalle privatizzazioni italiane a saldo (con Draghi, che casualmente fece una fulgida carriera, ad organizzare il piano sul Britannia)».
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Austerity, fine della farsa? Se l’Italia si svegliasse davvero
Matteo Renzi bluffava, quando prometteva nuovi miracoli italiani, ma non è stato cestinato per questo: la sua rottamazione, franatagli addosso col referendum costituzionale, è stata decretata dall’ostilità istintiva nutrita da milioni di elettori. Colpa del suo stile troppo disinvolto, arrogante, spaccone. E colpa, anche, del quasi-plebiscito incassato nel 2014 alle europee, con il 40% dei suffragi al Pd: raramente, in Italia, si perdona il successo. Così, Renzi è riuscito a dissipare un patrimonio elettorale enorme, proprio come fece Berlusconi negli anni ‘90 e poi nel 2001, quando annunciò la sua rivoluzione liberale – mai neppure avviata, in vent’anni. Non a caso, come osserva Aldo Giannuli, Berlusconi e Renzi potrebbero sedere, insieme, nel futuro gruppo parlamentare del Partito della Nazione (sconfitta). Sono entrambi ridotti alla quasi-irrilevanza: il vecchio Silvio anche per ragioni anagrafiche, il giovane Matteo per via della sua ambizione sfrenata e basata sul nulla di un programma neoliberista, tristemente identico a quelli dell’atroce Monti e dell’esile Enrico Letta, il premier detronizzato nel modo più sleale. In altre parole: l’estinzione del Pd non corrisponde affatto a un’occasione perduta, per l’Italia, se non per un aspetto solo virtuale – la perdita di un efficace comunicatore come Renzi, che però ha sempre e solo fatto finta di fare il sindacalista degli italiani di fronte all’Europa.In realtà il programma politico di Renzi – puro neoliberismo globalista, sapientemente truccato da presunta italianità – era la fotocopia dell’agenda Monti, poi distillata nei governi Letta e Gentiloni. Niente di diverso, peraltro, dall’azione degli esecutivi Berlusconi e Prodi: la cosiddetta Seconda Repubblica, anticipata nel ‘91 dal referendum Segni (legge elettorale, maggioritario) era stata lungamente preparata da uomini come Andreatta, Ciampi, Dini, Giuliano Amato e Massimo D’Alema. Un quarto di secolo veramente infelice: nient’altro che un lungo commissariamento dell’Italia, vittima numero uno dell’oligarchia eurocratica che ha appaltato l’Unione Europea all’ordoliberismo teutonico, affamato di tagli al welfare e svalutazione dei salari per poter imporre il suo mercantilismo primitivo e ottocentesco, fondato sull’export. L’Europa di Bruxelles è quella non-comunità di paesi che ha potuto assistere, impassibile, alla crocifissione della Grecia: un supplizio senza anestesia, delle cui vittime – anziani senza pensione, bambini senza medicine – non importa assolutamente nulla né alla Bce né all’Ecofin. Non una lacrima, sul martirio ellenico, da nessuna cancelleria: dettaglio tutt’altro che scontato, che mandanti e killer hanno annotato sul loro diario. Vittoria piena: si uccide un innocente, e nessuno protesta. Luce verde, quindi, per altri analoghi delitti seriali.Riuscirà sempre a farla franca, l’assassino? Senz’altro, almeno fino a quando il poliziotto si chiamerà Renzi, oppure Hollande. Bravi a parole, ma smentiti dai fatti: hanno entrambi sparso il veleno dei loro Jobs Act, su richiesta del criminale a cui fingevano di dare la caccia in nome del riscatto sociale delle rispettive nazioni. Sono stati travolti: l’incolore Hollande liquidato dall’inquietante Macron, uomo Rothscild (in Francia il padrone ha occupato direttamente l’Eliseo, senza più intermediari), mentre Renzi e Berlusconi sono stati “asfaltati” da Di Maio e Salvini, cioè l’ex steward dello stadio San Paolo e l’ex hoolingan leghista, già a capo dei “comunisti padani”. Accorti, abili, flessibili, tempestivi: oggi, Di Maio e Salvini stanno sul pezzo. Sotto l’aspetto tattico sembrano all’altezza della situazione. Dispongono di 17 milioni di voti. Sanno perfettamente che, a eleggerli, è stata un’Italia prostrata dalla crisi, ormai insofferente ai bugiardi, cioè ai professorini del rigore e ai loro politici di complemento, ai partiti-sciagura che hanno eroso il paese per 25 anni, allontanandolo dal vertice europeo e mondiale del benessere. Tenteranno, i nuovi poliziotti, di aprire un’indagine seria sull’accaduto? Oseranno filare a sirene spiegate verso Bruxelles? L’unica certezza è che un muro di rassegnazione sta crollando. Per ora Bruxelles sta a guardare, cercando di capire il da farsi: provare a “comprare” anche questi nuovi politici, o sfrattarli brutalmente (come Berlusconi nel 2011). Sempre che il grande dormiente – il popolo – non si svegli del tutto, dopo il primo segnale del 4 marzo.Matteo Renzi bluffava, quando prometteva nuovi miracoli italiani, ma non è stato cestinato per questo: la sua rottamazione, franatagli addosso col referendum costituzionale, è stata decretata dall’ostilità istintiva nutrita da milioni di elettori. Colpa del suo stile troppo disinvolto, arrogante, spaccone. E colpa, anche, del quasi-plebiscito incassato nel 2014 alle europee, con il 40% dei suffragi al Pd: raramente, in Italia, si perdona il successo. Così, Renzi è riuscito a dissipare un patrimonio elettorale enorme, proprio come fece Berlusconi negli anni ‘90 e poi nel 2001, quando annunciò la sua rivoluzione liberale – mai neppure avviata, in vent’anni. Non a caso, come osserva Aldo Giannuli, Berlusconi e Renzi potrebbero sedere, insieme, nel futuro gruppo parlamentare del Partito della Nazione (sconfitta). Sono entrambi ridotti alla quasi-irrilevanza: il vecchio Silvio anche per ragioni anagrafiche, il giovane Matteo per via della sua ambizione sfrenata e basata sul nulla di un programma neoliberista, tristemente identico a quelli dell’atroce Monti e dell’esile Enrico Letta, il premier detronizzato nel modo più sleale. In altre parole: l’estinzione del Pd non corrisponde affatto a un’occasione perduta, per l’Italia, se non per un aspetto solo virtuale – la perdita di un efficace comunicatore come Renzi, che però ha sempre e solo fatto finta di fare il sindacalista degli italiani di fronte all’Europa.
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Sarkozy e la Hathor Pentalpha, superloggia del terrorismo
La lapidazione pubblica di un politico di rango non ha mai un’unica paternità: di solito sono tante le nubi che, a un certo punto, si trasformano in tempesta. E per un ex presidente della Francia, cioè di una delle cinque potenze atomiche con diritto di veto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, il solo fatto di essere trattenuto in stato di fermo in una stazione di polizia, alla stregua di un criminale comune, costituisce l’atto d’inizio – il più eclatante – di una vera e propria demolizione a reti unificate. I giornali parlano di vendetta a distanza da parte degli ex fedelissimi di Gheddafi: prima di essere assassinato “su ordine dei servizi francesi”, il raiss di Tripoli avrebbe finanziato sottobanco, in modo cospicuo, la campagna elettorale di Sarkozy per le presidenziali del 2007 (in cambio di cosa?). Gli italiani ricordano ancora l’irridente impudenza con cui l’allora capo dell’Eliseo, insieme ad Angela Merkel, seppellì in mondovisione il moribondo Berlusconi, incalzato da mille inchieste e travolto dallo scandalo delle “olgettine”. Un sinistro preludio, per l’Italia, all’austerity di lì a poco imposta con il diktat della Bce firmato Draghi e Trichet, corroborato dal crollo delle azioni Mediaset e dall’esplosione pilotata dallo spread. «Gli italiani sono dei bambinoni deficienti, non si sono nemmeno accorti che siamo stati noi a inviargli il “fratello” Mario Monti, il nostro uomo», con l’incarico di sabotare l’economia del Belpaese, precipitandolo nel baratro della crisi: legge Fornero, pareggio di bilancio in Costituzione.Lo dicono, nell’appendice del bestseller “Massoni” (edito da Chiarelettere a fine 2014), quattro pesi massimi della supermassoneria internazionale, protetti dall’anonimato ma «pronti a manifestarsi, nel caso qualcuno ne contestasse le affermazioni». Non ce n’è stato bisogno: Monti, Napolitano e gli altri si sono ben guardati dal chiedere all’autore del saggio, Gioele Magaldi, di rendere pubblica l’identità di quei quattro “vecchi saggi” del massimo potere in vena di rivelazioni. Accanto a un mediorientale e a un asiatico, a parlare sono uno statunitense (che ricorda da vicino lo stratega Zbigniew Brzezinski, da poco scomparso) e un francese, il cui identikit di eminenza grigia potrebbe benissimo corrispondere a quello di Jacques Attali, già plenipotenziario di Mitterrand e poi “padrino” e king-maker di Emmanuel Macron. La tesi del libro, assolutamente dirompente, è stata oscurata dai media mainstream: da decenni, il mondo sarebbe nelle mani di 36 Ur-Lodges, potentissime superlogge massoniche sovranazionali. Dopo l’iniziale dominio delle organizzazioni di ispirazione progressista, dall’era Roosevelt fino ai Kennedy, il potere sarebbe passato all’ala neo-conservatrice (Kissinger, Rockefeller, Rothschild) dopo il duplice omicidio di Bob Kennedy e del “fratello” Martin Luther King.A seguire: una guerra segreta senza risparmio di colpi – da un lato il Cile del massone Pinochet e la Grecia dei colonnelli, ma anche i ripetuti tentativi di golpe in Italia con la complicità della P2 di Gelli, e dall’altro la Rivoluzione dei Garofani in Portogallo scattata non a caso il 25 aprile (del ‘74). Poi, lo sciagurato patto “United Freemanson for Globalization” per spartirsi la torta mondiale sdoganando il neoliberismo. Con in più una scheggia impazzita: la Ur-Lodge “Hathor Pentalpha”, nella quale – secondo Magaldi – figura anche il nome di Sarkozy, accanto a quelli del turco Erdogan, protagonista degli odierni orrori in Medio Oriente, e del britannico Tony Blair, l’indimenticato inventore delle inesistenti “armi di distruzone di massa” di Saddam Hussein, ovvero “la madre di tutte le fake news”. Saddam e la guerra in Iraq, cioè Bush junior, dopo la prima Guerra del Golfo scatenata da Bush senior. Il Rubicone è stato varcato con l’opaco, devastante maxi-attentato dell’11 Settembre (e la conseguente invasione dell’Afghanistan, seguita dalle guerre in Iraq e in Libia, dalla “primavera araba”, dall’atroce conflitto in Siria).Terrorismo “false flag”, sotto falsa bandiera – da Al-Qaeda all’Isis – secondo un copione basato sulla più accurata disinformazione, fotografato alla perfezione dall’immagine di Colin Powell che, alle Nazioni Unite, agita una prova falsa come la celebre “fialetta di antrace” per raccontare che il regime di Baghdad sarebbe pronto a sterminare l’umanità. Non fu solo una drammatica sterzata politica imposta dai “neocon” Usa, sostiene Magaldi: la strategia della tensione internazionale, che produce guerre in Medio Oriente e leggi speciali negli Usa e in Europa per rispondere agli attentati “islamici”, corrisponde alla sanguinosa strategia della “Hathor Pentalpha”, la «loggia del sangue e della vendetta» creata da Bush (padre) dopo la bruciante sconfitta alle primarie repubblicane inflittagli nel 1980 da Ronald Reagan. In questo modo, Magaldi spiega anche i due attentati simmetrici che seguirono, nel 1981: qualcuno sparò a Reagan il 30 marzo, e – per rappresaglia – i sostenitori occulti di Reagan armarono la mano di Ali Agca, che il 13 maggio sparò a Papa Wojtyla, eletto al soglio pontificio con il determinante appoggio di Brzezinski, allora vicino a Bush. Due minacciosi avvertimenti, con firme opposte ma identico stile: né a Washington né a Roma si sparò per uccidere.Fantapolitica? Ne ha tutta l’aria: a patto di rassegnarsi all’idea che sia proprio la geopolitica a esser diventata “fanta”, rendendo possibile l’impensabile. «Dispongo di 6.000 pagine di documenti che comprovano quanto affermato nel mio libro», ribadisce Magaldi, a scanso di equivoci. Il problema? Nessuno, finora, gliene ha chiesto conto: meglio la congiura del silenzio, di fronte a pagine così sconcertanti e imbarazzanti. Le grandi scelte strategiche del pianeta – sottolinea l’autore – sono state messe a punto negli ultimi 30-40 anni da superlogge storicamente neo-aristocratiche come la “Three Eyes” e la “Compass Star-Rose”, insieme alla “Edmund Burke”, alla “Leviathan”, alla “White Eagle”. Sono loro a dominare ministeri, banche, università, istituzioni internazionali finanziarie “paramassoniche” come il Fmi e la Bce. Obiettivo: sdradicare Keynes dalla politica economica dell’Occidente: via il welfare e i diritti del lavoro, guerra alla sinistra sindacale, demonizzazione del debito pubblico, privatizzazione universale, fine dello Stato sociale come garante del benessere diffuso. Svuotare la democrazia, per restituire il potere all’oligarchia – finanza, industria, multinazionali – secondo un modello neo-feudale: solo un’élite “illuminata” ha il diritto di governare il popolo. E la tenebrosa “Hathor Pentalpha”?«Semplicemente, la “Hathor” ha ritenuto che tutto questo non bastasse: il nuovo ordine antidemocratico andava imposto con la guerra e il terrorismo, a partire proprio dall’11 Settembre». Specchietto le allodole, il saudita Osama Bin Laden reclutato dalla Cia in Afghanistan negli anni ‘70, in funzione anti-sovietica. «Bin Laden fu iniziato alla “Three Eyes”: me lo confidò proprio l’uomo che lo affilò, Brzezinski». Lo stesso Brzezinski, aggiunge Magaldi, rimase deluso dalla scelta di Bin Laden di passare poi alla “Hathor Pentalpha”, la superloggia dei Bush. Simboli eloquenti: Hathor è uno dei nomi della dea egizia Iside, cara ai massoni, e il suo nome in inglese è, appunto, Isis. «Anche l’uomo che si fa chiamare Abu Bakr Al-Baghdadi, stranamente rilasciato nel 2009 dal campo di prigionia iracheno nel quale era detenuto, è stato affiliato alla “Hathor Pentalpha”». Al-Baghdadi, il presunto capo del sedicente Isis: organizzazione terroristica che, quando ha perso terreno in Siria sotto il colpi dell’offensiva militare russa, ha cominciato a colpire l’Europa. Charlie Hebdo e Bataclan, Bruxelles, la strage di Nizza. «Tutti attentati spaventosamente stragistici, “firmati” con una simbologia nacosta e nient’affatto islamica, ma saldamente ancorata alle date-simbolo del martirio dei Templari nel 1300».Ne parla nel saggio “Dalla massoneria al terrrorismo” (Revoluzione) l’esperto simbologo Gianfranco Carpeoro, massone come Magaldi, altrettanto critico rispetto al potente mileu “latomistico” globalizzato, pronto anche a fare l’uso più cinico e spregiudicato di vasti settori dei servizi segreti, ridotti a strumenti di una “sovragestione” pericolosa, che sottomette gli Stati (e i governi eletti) ai disegni di una ristretta oligarchia. «Tutto quel sangue, in Europa, è nato da una rottura all’interno dell’ala reazionaria dell’élite supermassonica», ha ripetuto Carpeoro, in trasmissioni web-streaming come quelle di “Border Nights”. Chi ha premuto sul tasto del neo-terrorismo interno – è la sua tesi – l’ha fatto per intimidire quegli elementi che, in seno all’oligarchia, si erano mostrati titubanti di fronte alla “linea dura”, quella delle stragi nelle piazze europee. «E’ in corso un’escalation, prepariamoci al peggio: in Europa potrebbe verificarsi un maxi-attentato come quello dell’11 Settembre». Previsione fortunatamente inesatta: «E’ vero», ammette Carpeoro, «le stragi sono cessate». Ma questo – spiega – dipende dal fatto che, “lassù”, si sono rimessi d’accordo su come agire, a cominciare proprio dalla Francia.Ieri, all’Eliseo c’era Hollande, un politico da intimidire (come socialista ma anche come supermassone “di sinistra”, esponente della Ur-Lodge progressista “Fraternité Verte”), a capo di un establihment incalzato dal “populismo” di Marine Le Pen. Poi invece le elezioni hanno incoronato Macron, «che a differenza di Hollande – sostiene Carpeoro – è espressione diretta di quei circoli, responsabili della “sovragestione”», fino a ieri anche terroristica, all’occorrenza. E’ lo stesso Macron che, a giorni alterni, fa l’amicone dell’Italia, promettendo a Gentiloni – in cambio di cospicue cessioni di italianità – di difendere il Belpaese dai “cattivi” tedeschi. E’ cronaca: soldati italiani spediti in Niger a far la guardia all’uranio per conto dei francesi, voci sul ridisegno delle acque territoriali a favore dei pescatori francesi, vistosa ascesa del management transalpino nel cuore del “made in Italy”. Con Gentiloni e Macron, sostiene Federico Dezzani, l’Italia si auto-declassa al rango di neo-colonia francese, nell’illusione di trovare riparo dal rigore imposto dall’ordoliberismo teutonico. Sta davvero succedendo qualcosa di strano, “lassù”, se un big come Sarkozy finisce sotto interrogatorio in un commissariato di Nanterre? Significa che la superloggia (già terrorista) “Hathor Pentalpha” è in discesa libera, nei piani alti della “sovragestione”? Inutile sperare in spiegazioni esaurienti: il mainstream si limiterà alle fonti giudiziarie sul caso Libiagate, mentre il pubblico assiste alla strana caduta di un ex superpotente come Sarkozy, in una Francia senza più attentati né stragi, dove l’oligarca Jacques Attali ha battezzato il nuovo regno di Macron, l’ex ragazzo prodigio della Banca Rothschild.La lapidazione pubblica di un politico di rango non ha mai un’unica paternità: di solito sono tante le nubi che, a un certo punto, si trasformano in tempesta. E per un ex presidente della Francia, cioè di una delle cinque potenze atomiche con diritto di veto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, il solo fatto di essere trattenuto in stato di fermo in una stazione di polizia, alla stregua di un criminale comune, costituisce l’atto d’inizio – il più eclatante – di una vera e propria demolizione a reti unificate. I giornali parlano di vendetta a distanza da parte degli ex fedelissimi di Gheddafi: prima di essere assassinato “su ordine dei servizi francesi”, il raiss di Tripoli avrebbe finanziato sottobanco, in modo cospicuo, la campagna elettorale di Sarkozy per le presidenziali del 2007 (in cambio di cosa?). Gli italiani ricordano ancora l’irridente impudenza con cui l’allora capo dell’Eliseo, insieme ad Angela Merkel, seppellì in mondovisione il moribondo Berlusconi, incalzato da mille inchieste e travolto dallo scandalo delle “olgettine”. Un sinistro preludio, per l’Italia, all’austerity di lì a poco imposta con il diktat della Bce firmato Draghi e Trichet, corroborato dal crollo delle azioni Mediaset e dall’esplosione pilotata dallo spread. «Gli italiani sono dei bambinoni deficienti, non si sono nemmeno accorti che siamo stati noi a inviargli il “fratello” Mario Monti, il nostro uomo», con l’incarico di sabotare l’economia del Belpaese, precipitandolo nel baratro della crisi: legge Fornero, pareggio di bilancio in Costituzione.