Archivio del Tag ‘Jobs Act’
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Cofferati: all’Italia serve una sinistra, non il Pd di Renzi
Renzi, fin dal suo insediamento, ha teorizzato l’inutilità del confronto con i corpi intermedi decidendo di non confrontarsi con sindacati, associazioni di categoria, cittadini organizzati e imprese. Per ultimo, il governo in maniera testarda si è rifiutato di ascoltare le piazze in mobilitazione contro la riforma della scuola. Siamo di fronte ad un decisionismo non condivisibile, che passa per una relazione diretta con una indistinta opinione pubblica dove non c’è rispetto per i cittadini. Così si espone il paese a rischi di conflitti rilevanti, quindi l’autoritarismo non porta vantaggi a nessuno, nemmeno a Renzi. Da mesi ho espresso pubblicamente dubbi sulla linea del Pd, ad esempio sul Jobs Act. E quando, oltre ai dissapori sulle scelte economiche e sociali, nel partito ci si rifiuta di discutere anche di legalità – valore fondativo della carta costituente del Pd – sono arrivato alla sofferta decisione di rompere. Definitivamente. In Liguria, durante le primarie, si sono consumati brogli conclamati, tanto che è intervenuta addirittura la magistratura. E invece c’è stata la testarda volontà di rimuovere il tema e di non affrontarlo, nonostante le sollecitazioni ripetute. La legalità dovrebbe essere un valore di qualsiasi forza politica. Il Pd ha cambiato la sua natura.Io responsabile per la vittoria di Toti? È una sciocchezza clamorosa. Una penosa giustificazione di chi non ha più il consenso dei cittadini liguri. Ad analizzare i flussi elettorali si vede chiaramente che Paita ha perso le elezioni perché ha incarnato la continuità con Burlando. Nessun cambiamento rispetto ad una giunta che è stata bocciata dai cittadini. Inoltre Pastorino ha sottratto voti all’astensionismo e al M5S. Senza la sua candidatura, il movimento di Grillo avrebbe superato Paita, che sarebbe arrivata terza. Il Pd non è più il partito che abbiamo fondato, ha rinunciato a quei valori perdendo la sua configurazione di sinistra. Le torsioni neocentriste del governo Renzi sono numerose e su più campi. Prima accennavo al Jobs Act: come si può sostenere che togliere diritti e protezione sociale ai lavoratori sia un’azione di sinistra? Il mercato del lavoro è diviso tra garantiti e non garantiti, tra persone che hanno alcune tutele e un’altra area che ne ha meno o niente affatto. Un’azione di sinistra è estendere a tutti gli stessi diritti, non toglierli in maniera generalizzata per parificare a ribasso.In un paese come il nostro, credo sia importante avere delle forze politiche di sinistra. Il Pd non è in grado di assolvere a questa funzione. Per questo, ritengo centrale mettere in campo una discussione sui valori, il punto dal quale partire per dare un’indicazione e creare coinvolgimento e partecipazione popolare. Se vediamo ai numeri sull’astensionismo, molte, troppe, sono le persone disilluse dall’attuale quadro politico. Non si sentono rappresentate da nessuno. Chi darà loro i valori nei quali identificarsi e per i quali tornare a votare, avrà svolto una funzione utile per la democrazia e avrà realizzato un’area di consenso importante. Vogliamo riunificare persone diverse – e con storie diverse – che sentono il bisogno di appartenenza e di identità a quei valori condivisi. Cosa vuol dire essere di sinistra? Noi indichiamo quali siano le politiche coerenti con quei valori e intorno ad essi cominciamo a creare delle aggregazioni territoriali che permettano il confronto e la ricerca. Con pazienza. Senza far precipitare la discussione nel “contenitore” politico. Insisto: capiamo prima i valori di una moderna sinistra di governo, al passo coi tempi.Rovesciamo l’approccio di intenti. Discutere ora di partito significa mettere assieme frammenti o piccoli partiti già esistenti. Noi dobbiamo avere un’ambizione molto più alta e imboccare un percorso oggettivamente più difficile. Lo spazio c’è, ed è ampio. Pensiamo al risultato dell’Emilia-Romagna, dove alle regionali ha votato soltanto il 37% degli aventi diritto. Fino a qualche anno fa, si arrivava alla soglia del 90. Bisogna evitare l’errore della mera sommatoria tra i soggetti a sinistra del Pd e ripartire da una serie di temi: beni comuni, il lavoro, la Rete. Nel mentre bisogna costruire una classe dirigente che non può essere connotata e condizionata dalla mia generazione, che ha la sola funzione di stimolare questa ricerca e crescita, non di proporsi come dirigente di tale processo. Avvieremo una discussione senza la presunzione di assegnarsi o di autoassegnarsi funzioni di leadership che personalmente non ho mai avuto, ma che in questa fase secondo me non dovrebbe avere nessuno. Per il giurista Rodotà la sinistra deve ripartire dalle realtà associative, i partiti esistenti sono delle “zavorre”: concordo sull’importanza di relazionarsi col mondo associativo e le realtà territoriali. È un lavoro necessario. Tale posizione non è alternativa né in contrasto con la discussione che bisogna aprire sui valori identitari della sinistra.La “coalizione sociale” di Landini? Rispetto al nostro, sono due progetti distinti che devono avere un rapporto stretto e dialettico. E camminare insieme, perché abbiamo un tessuto ricchissimo, a volte addirittura fondamentale, di associazionismo che non ha una rappresentanza politica. Landini come leader della nuova sinistra? La cosa è molto più complessa ed eviterei facili semplificazioni o scorciatoie sul leader. I tempi saranno oggettivamente lunghi e non bisogna farsi condizionare dalle scadenze elettorali. Poi di volta in volta e di luogo in luogo si ragionerà sul da farsi. Un’intesa con il M5S in chiave antirenziana? Grillo ha deciso purtroppo di auto-isolarsi. Nel Parlamento Europeo, dove siedo, non essendoci la dinamica di governo c’è una collaborazione su alcune battaglie con gli esponenti grillini; in Italia, Grillo ha deciso di stare all’opposizione, da solo, e senza interagire con nessuno. Il M5S ha sottratto molti voti all’elettorato tradizionale della sinistra; speriamo di creare un progetto tale, e innovativo, da poterlo riconquistare. Appelli a Cuperlo e Bersani perché trovino il coraggio di uscire dal Pd? Non faccio appelli, ma una costatazione: se una opposizione interna a un partito, oltre ad non ottenere risultati nella linea politica, non ha nemmeno il rispetto del gruppo dirigente, si va per forza di cose ad esaurire, con una perdita di credibilità delle persone che l’hanno esercitata.(Sergio Cofferati, dichiarazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “Il Pd ha cambiato natura, ripartiamo dai valori della sinistra”, pubblicata su “Micromega” il 3 luglio 2015).Renzi, fin dal suo insediamento, ha teorizzato l’inutilità del confronto con i corpi intermedi decidendo di non confrontarsi con sindacati, associazioni di categoria, cittadini organizzati e imprese. Per ultimo, il governo in maniera testarda si è rifiutato di ascoltare le piazze in mobilitazione contro la riforma della scuola. Siamo di fronte ad un decisionismo non condivisibile, che passa per una relazione diretta con una indistinta opinione pubblica dove non c’è rispetto per i cittadini. Così si espone il paese a rischi di conflitti rilevanti, quindi l’autoritarismo non porta vantaggi a nessuno, nemmeno a Renzi. Da mesi ho espresso pubblicamente dubbi sulla linea del Pd, ad esempio sul Jobs Act. E quando, oltre ai dissapori sulle scelte economiche e sociali, nel partito ci si rifiuta di discutere anche di legalità – valore fondativo della carta costituente del Pd – sono arrivato alla sofferta decisione di rompere. Definitivamente. In Liguria, durante le primarie, si sono consumati brogli conclamati, tanto che è intervenuta addirittura la magistratura. E invece c’è stata la testarda volontà di rimuovere il tema e di non affrontarlo, nonostante le sollecitazioni ripetute. La legalità dovrebbe essere un valore di qualsiasi forza politica. Il Pd ha cambiato la sua natura.
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Lavoratori sotto minaccia, eccoci nel fascismo aziendale
Il quotidiano “Il Sole 24 Ore” anticipa i contenuti del decreto sul demansionamento, che il governo si prepara a varare. «Non è una notizia – afferma Giorgio Cremaschi – perché è oramai scontato che gli esperti ministeriali di Renzi e Poletti operino sotto la dettatura dei tecnici della Confindustria», il cui quotidiano «ci comunica la gioia delle imprese e dei loro uffici legali per il fatto di poter finalmente fare tutto ciò che era proibito dall’articolo 13 dello Statuto dei Lavoratori, senza dover incorrere in costose e spesso perdenti azioni legali». Un regalo ai profitti d’impresa, ai danni dei diritti e del salario dei lavoratori. Di fatto, «una sanatoria per tutti gli abusi ai danni della professionalità delle persone», e cioè «la licenza di mobbizzare e ricattare». Questa, per Cremaschi, «l’infamia di un provvedimento che realizza un altro sogno della Confindustria e produrrà incubi per chi deve subire il potere dell’impresa», amche perché ora «si potrà degradare il lavoratore per ragioni tecniche e organizzative, cioè quando al padrone serve».In teoria, scrive Cremaschi su “Micromega”, il salario dovrebbe rimanere lo stesso, ma senza le indennità. E un operaio montatore che fa i turni o va in trasferta potrà essere degradato a facchino nei magazzini e si vedrà ridotta la paga del 30%. I lavoratori licenziati per ragioni economiche? Potranno conciliare con l’azienda se accettano di riprendere a lavorare a mansione inferiore. «Questo è proprio il corollario che mancava al contratto senza articolo 18. Una misura che farà risparmiare alle imprese sull’indennità di licenziamento, rispondendo chiaramente ad un calcolo preciso degli uffici studi confindustriali». Come si sa, aggiunge Cremaschi, gli incentivi di 8.000 euro all’anno – che sono alla base delle assunzioni, secondo il Jobs Act – presto finiranno. «A quel punto le imprese si troveranno lavoratori licenziabili sì, ma pagando una indennità. Se però quei lavoratori verranno licenziati e poi riassunti con il demansionamento, l’indennità la pagherà il lavoratore con la qualifica più bassa, e per l’impresa sarà come se gli incentivi continuassero».Infine, conclude Cremaschi, se il padrone può degradare quando vuole, il lavoratore non può rivendicare la promozione. Con l’articolo 13 dello Statuto, se si operava per 3 mesi in mansioni superiori si aveva diritto alla qualifica corrispondente. Con il demansionamento, invece, bisognerà aspettare il doppio del tempo, salvo accordi peggiorativi nei contratti. «Insomma, dopo il diritto alla tutela contro il licenziamento ingiusto salta anche quello alla qualifica, e in ogni azienda le direzioni potranno fare di tutto ai propri sottoposti. E questo è il risultato più importante per i padroni: la licenza di mobbing. Le minacce di licenziamento o degradazione in molti caso saranno sufficienti per imporre di lavorare di più e peggio senza chiedere nulla. Il sadismo di certi capi e capetti avrà piena possibilità di dispiegarsi». Inutile girarci attorno: «Quando si dice che quello di Renzi e del suo sponsor Marchionne è fascismo, per ora aziendale, non si esagera: si descrive semplicemente quello che si sta giuridicamente realizzando misura dopo misura con il Jobs Act».Il quotidiano “Il Sole 24 Ore” anticipa i contenuti del decreto sul demansionamento, che il governo si prepara a varare. «Non è una notizia – afferma Giorgio Cremaschi – perché è oramai scontato che gli esperti ministeriali di Renzi e Poletti operino sotto la dettatura dei tecnici della Confindustria», il cui quotidiano «ci comunica la gioia delle imprese e dei loro uffici legali per il fatto di poter finalmente fare tutto ciò che era proibito dall’articolo 13 dello Statuto dei Lavoratori, senza dover incorrere in costose e spesso perdenti azioni legali». Un regalo ai profitti d’impresa, ai danni dei diritti e del salario dei lavoratori. Di fatto, «una sanatoria per tutti gli abusi ai danni della professionalità delle persone», e cioè «la licenza di mobbizzare e ricattare». Questa, per Cremaschi, «l’infamia di un provvedimento che realizza un altro sogno della Confindustria e produrrà incubi per chi deve subire il potere dell’impresa», amche perché ora «si potrà degradare il lavoratore per ragioni tecniche e organizzative, cioè quando al padrone serve».
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Renzi ha dimezzato i suoi voti: va rottamato, in tre mosse
Se nel Pd c’è ancora qualche testa pensante anche vagamente sensibile ai valori di “libertà e giustizia” che definiscono la sinistra (due condizioni che escludono d’emblée Bersani, D’Alema e compagnia cantando) già avrà individuato il “che fare”. In tre mosse. Primo: far cadere Renzi in una delle numerose fiducie che sarà costretto a porre per far passare in Parlamento le sue pimpanti controriforme. Secondo: chiedere allora un immediato congresso del Pd, con le stesse modalità e procedure che portarono Renzi a impadronirsi del partito, partecipazione/iscrizione dei cittadini anche al momento del gazebo, ecc. Terzo, in contrapposizione a Renzi candidare per la segreteria del Pd Maurizio Landini, e parallelamente chiedere al presidente Mattarella che al posto del governo sfiduciato, anziché sciogliere le camere, venga insediato un governo di “tregua repubblicana”, affidato tutto a personalità della società civile e capace di ottenere le convergenze autonome di parlamentari Pd, M5S e altri “volenterosi” sul programma e la credibilità dei ministri preposti a realizzarlo.La razionalità di questo “che fare” non è difficile da riscontrare. Renzi si accinge a completare la distruzione del Pd mutandolo in comitato elettorale personale, intenzione che del resto non aveva mai occultato. La sua politica, per profonda convinzione, è quella di realizzare la contro-rivoluzione di liberismo autocratico vagheggiata da Berlusconi ma restata in panne per i conflitti d’interesse e i crimini nell’armadio (sfociati finalmente in una condanna definitiva, dopo le tante sventate da leggi ad hoc e inciuci) e soprattutto per l’ondata di lotte civili, sociali, d’opinione, con cui la parte migliore della società civile ha saputo fare argine. In realtà il progetto politico di Renzi è la marchionizzazione del paese e delle istituzioni, e la contro-riforma della scuola ne costituisce la più luttuosa evidenza.Renzi è in questo momento debolissimo, malgrado il fumo negli occhi della quasi totalità dei mass media (mai come oggi a “bacio della pantofola” verso l’establishment: ma il “marchionnismo” non è anche questo?). In un anno ha perso la metà dei consensi. La metà, il 50%, un voto su due rispetto al bottino elettorale delle europee, ci rendiamo conto?! Si è letto che sono due milioni di voti, ma nelle sette regioni in cui si è votato. In proiezione nazionale sono cinque milioni e mezzo. Non un’emorragia, un dissanguamento da mattatoio. In un solo anno: quello che passa tra la fiducia dei cittadini al renziano dire, mirabolante, e il giudizio sul renziano fare, miserabile. Perdere in un anno un voto su due non è una “non sconfitta” o una “non vittoria”, è un tracollo, una disfatta, una gogna e rottamazione civica impietosa.Che quanto resti di “opposizione” nel Pd non colga l’attimo dimostrerebbe definitivamente che è ormai ridotta al livello del saracino Alibante di Toledo che “del colpo non accorto / Andava combattendo ed era morto” (Francesco Berni, “L’Orlando innamorato”, LII, 60). Se a questa “opposizione” resta invece ancora un barlume di “spiriti animali”, lucidità vuole che senza coltivare patetici propositi di riprendersi la ditta, decida di uscire di scena con un ultimo gesto di vitalità anziché nel vociare strozzato di un melmoso affondare. Alla vecchia nomenklatura non è data la rivincita, la vendetta sì. A Landini, l’unica vendetta a disposizione di questi burocrati che nessuno rimpiange, può riuscire, da posizioni opposte, di società civile “giustizia e libertà”, l’Opa sul Pd che è riuscita a Renzi or non è guari. La nemesi è nelle possibilità della situazione attuale, ma implica lucidità in tutti i soggetti qui evocati, e razionalità e coraggio sono i pregi che da più tempo latitano presso quanti si dichiarano di sinistra.(Paolo Flores d’Arcais, “Come rottamare Renzi, in tre mosse”, da “Micromega” del 2 giugno 2015).Se nel Pd c’è ancora qualche testa pensante anche vagamente sensibile ai valori di “libertà e giustizia” che definiscono la sinistra (due condizioni che escludono d’emblée Bersani, D’Alema e compagnia cantando) già avrà individuato il “che fare”. In tre mosse. Primo: far cadere Renzi in una delle numerose fiducie che sarà costretto a porre per far passare in Parlamento le sue pimpanti controriforme. Secondo: chiedere allora un immediato congresso del Pd, con le stesse modalità e procedure che portarono Renzi a impadronirsi del partito, partecipazione/iscrizione dei cittadini anche al momento del gazebo, ecc. Terzo, in contrapposizione a Renzi candidare per la segreteria del Pd Maurizio Landini, e parallelamente chiedere al presidente Mattarella che al posto del governo sfiduciato, anziché sciogliere le camere, venga insediato un governo di “tregua repubblicana”, affidato tutto a personalità della società civile e capace di ottenere le convergenze autonome di parlamentari Pd, M5S e altri “volenterosi” sul programma e la credibilità dei ministri preposti a realizzarlo.
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Renzi azzoppato, all’élite non serve più. E intorno, il nulla
Anche questo meccanismo si è rotto. E ora chi “ha messo lì” Renzi e il suo staff di grembiulini creativi starà interrogandosi se vale la pena di insistere su un cavallo che ha portato a casa, sì, numerosi risultati reazionari (Jobs Act, Italicum, abolizione del bicameralismo, distruzione scuola pubblica, emarginazione dei sindacati, ecc), ma appare incapace di costruire un vero consenso attorno alle politiche dettate dalla Troika. La macchina da corsa trionfante un anno fa alle europee è diventata un carrozzone ansimante, che perde visibilmente olio e pezzi. La pensata degli 80 euro non ha avuto eredi. Il Tfr in busta paga, che doveva replicare quel successo di pubblico, si è rivelato un flop assoluto. Il trucco “ti dò più soldi subito, me li riprendo con gli interessi un po’ alla volta” è stato capito e bocciato da oltre metà della popolazione. Ovvero da quelli che a votare non ci sono proprio andati (solo il 53% e spiccioli ha infilato la scheda nell’urna) più quelli che hanno espresso un voto “contro” (per Salvini o per Grillo).Il Pd resta primo partito, ma senza più la spinta propulsiva che sembrava farne il perno del vagheggiato “partito della nazione”, formula peraltro davvero ridicola nel momento in cui la “nazione” risulta poco più di una macroregione che deve rispettare i “patti di stabilità” elaborati dai funzionari dell’Unione Europea. Renzi doveva sbaragliare i “populismi” facendo il populista. E ha perso questa partita in modo netto. Si salva momentaneamente solo per l’assenza di un vero progetto politico alternativo. Doveva coagulare intorno al proprio modo di apparire e fare una “fiducia” acritica, empatica, insomma una delega in bianco. Nonostante la sterminata legione di mass media schierati in suo favore non c’è riuscito. Doveva spazzare via ciò che restava del vecchio “riformismo” compromissorio. Ed è l’unico successo che può per ora vantare. Il laboratorio ligure gli consegna una “sinistra” troppo fragile e inconsistente per ambire alla vittoria – neanche uno straccio di programma alternativo – ma sufficentemente radicata da farlo perdere.Da quella parte non possono arrivare veri pericoli, perché il personale politico che esprime porta il marchio di infamia di centomila scelte di “austerità”, cancellazione dei diritti (pacchetto Treu, tre riforme delle pensioni – da Dini a Fornero, ecc), corruzione. Al contrario, può esser perfino utile per impedire l’emersione di una soggettività politica indipendente e radicale. Ma Renzi non convince più. E ora i suoi autori devono scegliere: insistiamo su un cavallo zoppo, incapace di creare una nuova “classe politica” minimamente credibile, oppure cambiamo cavallo e discorso dominante? Non c’è fretta, dal loro punto di vista. La botta è dura, ma si può tirare avanti qualche mese mettendo il ronzino al passo, usando questo tempo per costruire figure nuove. Ma cambiare discorso pubblico è più complicato. Quel mix tra “nuovismo senza motivazioni”, rapidità decisionista, battute in dialetto, ammiccamenti e tweet, sembrava davvero una mossa vincente e duratura. Bisognerà inventarsene un altro. I “creativi” vengono pagati per questo…A livello parlamentare non c’è problema. La massa di nominati è tale da non porre dubbi sulla composizione di una maggioranza purchessia. Anzi, la battuta d’arresto del guitto di Pontassieve può compattare ulteriormente una banda di mercenari che vede a questo punto la scadenza della legislatura come la fine delle vacche grasse e il ritorno al grigio lavoro. Ma la faglia tra “politica istituzionale” e soggetti sociali si va allargando a dismisura. Quell’astensionismo che è stato persino incoraggiato, negli ultimi anni, non contiene più soltanto la neutralità indifferente di chi si estranea dal contendere politico. Nasconde ormai un “mugugno” collettivo, potente, incontrollato, che è in cerca di espressione. Su questo fronte si gioca la partita per il cambiamento radicale. Ma non è una partita adatta per chi soffre di “braccino corto”, autoreferenziale, atrofizzato. Serve il cambio di passo, prima possibile.(Alessandro Avvisato, “Nemmeno Renzi convince più”, da “Contropiano” del 1° giugno 2015).Anche questo meccanismo si è rotto. E ora chi “ha messo lì” Renzi e il suo staff di grembiulini creativi starà interrogandosi se vale la pena di insistere su un cavallo che ha portato a casa, sì, numerosi risultati reazionari (Jobs Act, Italicum, abolizione del bicameralismo, distruzione scuola pubblica, emarginazione dei sindacati, ecc), ma appare incapace di costruire un vero consenso attorno alle politiche dettate dalla Troika. La macchina da corsa trionfante un anno fa alle europee è diventata un carrozzone ansimante, che perde visibilmente olio e pezzi. La pensata degli 80 euro non ha avuto eredi. Il Tfr in busta paga, che doveva replicare quel successo di pubblico, si è rivelato un flop assoluto. Il trucco “ti dò più soldi subito, me li riprendo con gli interessi un po’ alla volta” è stato capito e bocciato da oltre metà della popolazione. Ovvero da quelli che a votare non ci sono proprio andati (solo il 53% e spiccioli ha infilato la scheda nell’urna) più quelli che hanno espresso un voto “contro” (per Salvini o per Grillo).
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Renzi completa il Rigor Montis: diktat Ue, ma con l’inganno
Nel 1953 quella che fu allora chiamata legge elettorale truffa non scattò perché la Democrazia Cristiana ed i suoi alleati non raggiunsero il quorum richiesto del 50%+1 dei voti validi. Quella che doveva essere un’alleanza al centro in grado di acchiappare consenso in tutte le direzioni perse invece voti ad ampio raggio, alla sua sinistra prima di tutto, ma anche alla sua destra. Il progetto autoritario allora aveva respinto, invece che attrarre. Oggi l’Italicum è molto più pericoloso della legge truffa del ‘53, che comunque assegnava un premio parlamentare consistente a chi già avesse conseguito la maggioranza assoluta dei voti. Oggi, grazie al trucco del ballottaggio che aggira la sentenza della Corte Costituzionale, un partito come il Pd che, aldilà dell’exploit delle europee, si attesta normalmente attorno al 30% dei voti validi, potrà conseguire una maggioranza assoluta priva di contrappesi e controlli. Ho detto il Pd ma in realtà avrei più correttamente dovuto dire il suo segretario presidente Renzi, che si è costruito un sistema di governo che gli darà un potere praticamente assoluto.Come ha notato eufemisticamente Eugenio Scalfari siamo a una democrazia che affida il potere all’esecutivo. Che è ciò che normalmente avviene in ogni dittatura. Renzi sarà eletto direttamente dal ballottaggio come un sindaco e godrà di un parlamento esautorato, composto da una netta maggioranza di nominati o fedelissimi. Ci sarà una sola Camera che decide su tutto sulla base degli ordini del capo del governo. Camera che nominerà gli organismi di controllo senza, scusate il bisticcio, controlli. E se pensiamo che la recente sentenza della Corte Costituzionale sulle pensioni sembra sia stata decisa sei contro sei, con il voto determinante del presidente, possiamo tranquillamente concludere che al nuovo Parlamento renziano basterà nominare un solo nuovo giudice costituzionale per cambiare gli orientamenti di tutta la corte.Un potere pressoché assoluto, dunque, per fare che? Quello che sta costruendo Renzi in realtà è un sistema autoritario che non è in proprio, ma è fondato su una sorta di fideiussione bancaria. Il programma fondamentale del governo è sempre quello della lettera del 5 agosto 2011 firmata da Trichet e da Draghi. Che come presidente della Bce continua a vigilare meticolosamente che quel programma stilato assieme al suo predecessore sia scrupolosamente attuato. Il 28 maggio 2013 la Banca Morgan ha presentato un documento politico che metteva sotto accusa la Costituzione italiana assieme a quelle di tutti i paesi europei “periferici” e in crisi. Queste Costituzioni, secondo quel documento, nate dopo la vittoria sul fascismo, sono segnate dal peso eccessivo della sinistra e del pensiero socialista, e per questo ostacolano le riforme liberali che servono a salvare l’euro.Con toni più brutali un editoriale de “Il Sole 24 Ore”, pochi giorni fa, polemizzava con la sentenza della Corte Costituzionale, affermando che con il pareggio di bilancio come vincolo costituzionale, gli obblighi del Fiscal Compact e il primato dei mercati globali, non ha più senso parlare di diritti indisponibili. Non crediate di avere dei diritti, si diceva una volta. I poteri forti, le grandi multinazionali, la finanza e le banche hanno da tempo deciso che il sistema di diritti sociali europeo è, per i loro concreti interessi, insostenibile. La crisi è stata un grande occasione per realizzare compiutamente un obiettivo cui si lavora da oltre trenta anni, e le riforme politiche autoritarie ne sono lo strumento. Renzi si è quindi trovato al posto giusto nel momento giusto. Guai a fare nei suoi confronti lo stesso errore di sottovalutazione compiuto dalla sinistra democratica verso Berlusconi; e non solo per il compatto sostegno che riceve dai poteri forti italiani ed europei e da tutto il sistema dei mass media. Anche Monti aveva questo stesso sostegno, per fare sostanzialmente la stessa politica, ma non ce l’ha fatta.La forza di Renzi sta proprio nella posizione e nella rappresentanza politica assunta. È un errore credere che egli sia un democristiano. No, la sua formazione politica non è tanto rilevante quanto il ruolo che ha deciso di interpretare. È questo ruolo è tutto all’interno della sconfitta e della rassegnazione della sinistra tradizionale. Matteo Renzi ha scalato il Pd, che è bene ricordare inizialmente lo aveva respinto, dopo che il vecchio e inconcludente riformismo era stato sconfitto. Egli ha usato spregiudicatezza e populismo con una classe politica disposta a tutto pur di non perdere il potere. Per capire quello che è successo dobbiamo pensare ad altri fenomeni di trasformismo di massa nella storia della sinistra del nostro paese. Crispi alla fine dell’800, Mussolini, Craxi e naturalmente Berlusconi sono tutti predecessori non casuali di Matteo Renzi.Il nostro è diventato il secondo paese cavia dell’esperimento liberista dopo la Grecia. In quel paese la Troika ha esagerato e ne è consapevole, per questo in Italia il progetto è diverso. Non negli obiettivi, che sono gli stessi, dal lavoro, alla scuola, alla sanità, alle pensioni, a tutti i diritti sociali. Si vuole arrivare alla stessa società di mercato brutalmente imposta alla Grecia, ma evitando la stessa reazione politica. Quindi più furbizia e anche tempo nelle misure da adottare e soprattutto lavoro per costruire un blocco di consenso politico attorno ad esse. A questo serve la mutazione genetica del Pd in partito della nazione. Che in realtà è un partito collaborazionista con la Troika e con tutti i poteri economici finanziari internazionali.Il partito della nazione che collabora costruisce così le sue cordate di consenso, da Marchionne ai sindacati complici, da Farinetti alla nuova Milano da bere, dai presidi a tutto quel mondo politico e sociale proveniente dalla sinistra il cui sentire di fondo può essere così riassunto: abbiamo speso tanto senza risultati, ora si guadagna. Non è vero che Renzi voglia liquidare i corpi intermedi, non è così sciocco sa che sarebbe impossibile. Quello che vuole il segretario del Pd è un corpo di organizzazioni addomesticate e funzionali e a questo sta concretamente lavorando, come dopo il Jobs Act e la “Buona scuola”, mostra il progetto di legge Civil Act sul terzo settore.Renzi è l’espressione di un progetto politico reazionario di adattamento dell’Italia ai più duri vincoli della peggiore globalizzazione, per questo battere lui ed il suo partito della nazione non sarà opera breve, né facile, ma è la condizione perché il paese possa riprendere davvero a progredire. Oggi contro Renzi sta un destra disfatta, nella quale lo stesso sistema mediatico renziano fa emergere il nazista dell’Illinois Matteo Salvini come avversario di comodo. Poi c’è il Movimento 5 Stelle che conduce lotte importanti, ma in evidente difficoltà di fronte al populismo anticasta fatto proprio dal renzismo. E infine c’è l’arcipelago delle forze della sinistra politica e sociale. La forza di Renzi è la debolezza di questo fronte, il che permette alla sua politica di destra di contare su un vasto consenso elettorale nel popolo della sinistra.Gli insegnanti che sfilavano in corteo il 5 maggio gridavano di non votare più Pd. È un segnale importante, ma insufficiente. Occorre un rottura più profonda. Occorre che tutto il corpo sociale e politico della sinistra consideri il renzismo non come un gruppo di compagni che sbagliano, ma come il primo e principale avversario. Le ambiguità ed i compromessi di chi si dichiara contro Renzi ma poi si allea con il Pd nelle elezioni locali, o dei dirigenti sindacali che lo criticano ma poi lo votano, o degli ambientalisti che sostengono Expo, tutto questo opportunismo porta solo fieno nella cascina del partito della nazione. Ci vogliono scelte nette per costruire l’alternativa a Renzi e al suo progetto, la prima e in fondo più semplice è non votare in ogni caso ed in ogni situazione per il Pd ed i suoi alleati.(Giorgio Cremaschi, “Non votare Pd, unico antidoto al potere assoluto renziano”, da “Micromega” del 21 maggio 2015).Nel 1953 quella che fu allora chiamata legge elettorale truffa non scattò perché la Democrazia Cristiana ed i suoi alleati non raggiunsero il quorum richiesto del 50%+1 dei voti validi. Quella che doveva essere un’alleanza al centro in grado di acchiappare consenso in tutte le direzioni perse invece voti ad ampio raggio, alla sua sinistra prima di tutto, ma anche alla sua destra. Il progetto autoritario allora aveva respinto, invece che attrarre. Oggi l’Italicum è molto più pericoloso della legge truffa del ‘53, che comunque assegnava un premio parlamentare consistente a chi già avesse conseguito la maggioranza assoluta dei voti. Oggi, grazie al trucco del ballottaggio che aggira la sentenza della Corte Costituzionale, un partito come il Pd che, aldilà dell’exploit delle europee, si attesta normalmente attorno al 30% dei voti validi, potrà conseguire una maggioranza assoluta priva di contrappesi e controlli. Ho detto il Pd ma in realtà avrei più correttamente dovuto dire il suo segretario presidente Renzi, che si è costruito un sistema di governo che gli darà un potere praticamente assoluto.
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Votate chiunque tranne il Pd, vero nemico storico dell’Italia
Probabilmente chi simpatizza per il Pd, una volta letto il titolo, non leggerà il pezzo, indignato. Ma farebbe molto male, perché la lettura potrebbe risultargli utile per capire il clima con il quale il Pd (ma forse il “Partito della Nazione”) dovrà misurarsi sempre più nei prossimi anni e perché. Comunque, fate pure come vi pare, sono abituato a dire quello che penso senza giri di parole. E allora, perché sostengo che il Pd sia il nemico peggiore? Per tre ragioni fondamentali: la politica economica, la politica sociale, la democrazia e la corruzione. Politica economica: il Pd, sin dal suo appoggio al governo Monti di infelice memoria, poi con il governo Letta e ora con il governo Renzi, sta perseguendo una politica fiscale che sarebbe demenziale, se non fosse deliberatamente finalizzata alla svendita del paese. Le aziende grandi e piccole soffocano e muoiono sotto il peso del prelievo fiscale e dei tassi giugulatori delle banche, l’occupazione si assesta a livello drammatici e, pur se di poco, peggiora costantemente, incurante della cosmesi dei conti fatta dal governo.Il Pd è il partito del capitale finanziario straniero che deve liquidare il patrimonio immobiliare degli italiani, per poi fare ugualmente fallimento. E’ il partito che ha svenduto Bankitalia e si appresta a svendere i pezzi nobili di Eni e Finmeccanica. L’Italia è, per colpa del Pd, terreno di caccia dei capitali francesi, americani, cinesi, quatarioti ecc. Peggio non potrebbe fare. La politica sociale non ha bisogno di commenti: il Jobs Act e la recente riforma della scuola fanno quello che la destra berlusconiana non osava neppure immaginare. La democrazia: il Pd – e prima di lui il Pds e i Ds – da venti anni guida l’attacco alla Costituzione, liquidando prima di tutto la legge elettorale proporzionale, che ne era l’architrave, poi intaccandone più pezzi, ora con un disegno organico di sistema costituzionale da repubblica del centro America. Il Partito si è conseguentemente evoluto in “partito del leader”, avendo trovato in Renzi il volenteroso Caudillo.Nel campo della giustizia ha osato anche più di Berlusconi, con una politica punitiva dei magistrati, finalizzata non ad un miglioramento della macchina giudiziaria del nostro paese ma, al contrario ad un suo peggioramento e alla subordinazione del potere giudiziario all’esecutivo. La corruzione: per anni il Pci-Pds-Ds-Pd ha goduto di una sorta di rendita di posizione di “partito della questione morale” che lo ha messo al riparo dalle ondate di protesta e dalle inchieste di una magistratura amica, troppo amica. Il risultato è stato che, al confortevole riparo di questo scudo è crescita una classe politica di lestofanti peggiore di quella del Pdl di triste memoria. Mose, Expo, Mafia Capitale, Cooperative: tutti i maggiori casi più recenti di corruzione hanno visto gli uomini del Pd in prima fila e talvolta esclusivi attori. Ora piovono avvisi di garanzia, ma in troppi fanno ancora finta di niente. Possiamo continuare così?C’è poi un motivo in più, di ordine per così dire “estetico” che mi induce a guardate la Pd come al peggiore di tutti i mali: che la destra faccia il mestiere della destra è giusto che sia così, non mi indigno certo se Salvini fa certe sparate sugli immigrati, sono un suo avversario politico dichiarato e combatto le sue deliranti proposte, allo stesso modo in cui riconosco in Berlusconi un aperto avversario da contrastare senza incertezze, ma il Pd è peggiore perché non è meno di destra degli altri, anzi lo è di più, ma si ammanta di un falso sembiante di sinistra per abbindolare quei babbei che ancora ci credono e lo votano, pensando di sostenere la reliquia del Pci. Svelare il trucco e spezzare l’imbroglio diventa una operazione di pulizia morale, prima ancora che politica. Tutto ciò premesso – e aspettando di essere contestato nel merito delle accuse che muovo al partito di Renzi – non vi sembra che sarebbe molto salutare per il paese un voto che segni una inversione di tendenza, con un iniziale calo elettorale del Pd? Qualcosa che lo avvii alla sconfitta nelle prossime politiche?Per anni abbiamo vissuto sotto l’eterno ricatto del “se-no-vince-la-destra”. Il risultato è stata la fine della sinistra. Non vi sembra l’ora di rigettare il ricatto e colpire la destra peggiore? Io, come si sa, voto M5S: non ve la sentite? Va bene, non votate M5S, votate Sel, ma, se non siete di sinistra, votate Forza Italia (tanto siamo alla fine) e persino Salvini, Fratelli d’Italia (tanto non vanno al di là di una certa soglia e, comunque, siamo ad elezioni amministrative) o chi vi pare (dipende da quanto sono orrendi i vostri gusti). Arrivo a dire persino Alfano o Sc: è un voto perfettamente inutile, ma è innocuo e comunque sono voti sottratti al Pd. E magari, se proprio non sapete chi possa essere il “meno peggio”, disperdete il voto scegliendo la classica lista del fiasco (evitate però cose come Forza Nuova o Casa Pound: non esageriamo!). Tutto, ma puniamo il Pd. E’ probabile che il lettore del Pd non sia arrivato sino a questo punto dell’articolo, vinto dal mal di stomaco: pazienza, come dire: “ce ne faremo una ragione”. Ma agli altri, a chi sente di poter condividere questo punto di vista, chiedo una cosa: segnalate il pezzo agli amici per mail o nei social, fatelo vostro e riprendetene le argomentazioni, non mi interessa neppure essere citato, ma iniziamo insieme una campagna virale contro il Pd.(Aldo Giannuli, “Perché il nemico da battere è il Pd”, dal blog di Giannuli del 10 maggio 2015).Probabilmente chi simpatizza per il Pd, una volta letto il titolo, non leggerà il pezzo, indignato. Ma farebbe molto male, perché la lettura potrebbe risultargli utile per capire il clima con il quale il Pd (ma forse il “Partito della Nazione”) dovrà misurarsi sempre più nei prossimi anni e perché. Comunque, fate pure come vi pare, sono abituato a dire quello che penso senza giri di parole. E allora, perché sostengo che il Pd sia il nemico peggiore? Per tre ragioni fondamentali: la politica economica, la politica sociale, la democrazia e la corruzione. Politica economica: il Pd, sin dal suo appoggio al governo Monti di infelice memoria, poi con il governo Letta e ora con il governo Renzi, sta perseguendo una politica fiscale che sarebbe demenziale, se non fosse deliberatamente finalizzata alla svendita del paese. Le aziende grandi e piccole soffocano e muoiono sotto il peso del prelievo fiscale e dei tassi giugulatori delle banche, l’occupazione si assesta a livello drammatici e, pur se di poco, peggiora costantemente, incurante della cosmesi dei conti fatta dal governo.
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Il Fmi: precarizzare il lavoro (Jobs Act) affonda l’economia
Renzi bocciato anche dal Fmi: il Jobs Act che penalizza i lavoratori trasformandoli in precari a vita non migliora in alcun modo l’economia. Anche se la Commissione Europea e la Bce di Draghi continuano a raccomandare le “riforme strutturali” e in particolare la deregulation del mercato del lavoro, dopo gli orrori della “austerità espansiva” incarnata da proconsoli come Mario Monti, nel suo “Word Economic Outlook” (aprile 2015) è il Fondo Monetario Internazionale a smentire gli eurocrati: non vi è alcuna evidenza circa un effetto positivo della flessibilità sul potenziale produttivo. «Un’ammissione piuttosto sbalorditiva, se si pensa che la deregolamentazione del mercato del lavoro è sempre stata tra le condizioni dello stesso Fmi per l’assistenza finanziaria, compresa quella ai paesi in crisi dell’Unione Europea», annotano Guido Iodice e Daniela Palma. Secondo il Fmi, gli effetti delle riforme strutturali sulla produttività sono importanti solo se si parla di deregolamentazione del mercato dei beni e dei servizi, di utilizzo di nuove tecnologie e di forza lavoro più qualificata, di maggiore spesa per le attività di ricerca e sviluppo. Al contrario, la deregolamentazione del mercato del lavoro non funziona.Per questo, scrivono Iodice e Palma su “Left”, il Fmi suggerisce alle economie avanzate un costante sostegno alla domanda per «incoraggiare investimenti e crescita del capitale», nonché «l’adozione di politiche e di riforme che possano aumentare in modo permanente il livello del prodotto potenziale». Politiche di segno diametralmente opposte rispetto a quelle attualmente adottate dai vari governi, di centrodestra e centrosinistra, tutti allineati ai diktat austeritari dei grandi padroni del mercato, l’élite finanziaria che impiega i suoi tecnocratici e i suoi politici per condurre la grande privatizzazione colpendo l’economia reale, lavoratori e imprese. Il Fondo Monetario raccomanda politiche diverse, per «coinvolgere le riforme del mercato dei prodotti, dare maggiore sostegno alla ricerca e allo sviluppo e garantire un uso più intensivo di manodopera altamente qualificata», oltre che «di beni capitali derivanti dalle tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni». Si richiedono inoltre «più investimenti in infrastrutture per aumentare il capitale fisico» e, infine, «politiche fiscali e di spesa progettate per aumentare la partecipazione della forza lavoro».Secondo Iodice e Palma, «il Fmi arriva buon ultimo, dopo che in moltissimi – anche tra gli economisti mainstream – hanno sottolineato che la “via bassa” alla flessibilità, vale a dire ridurre le garanzie e le tutele e agevolare i contratti precari, è nei fatti un incentivo per le imprese a non innovare, sostituendo il capitale e le tecnologie con più lavoro mal retribuito». In altri termini, «con la flessibilità si indebolisce quel “vincolo interno” che costringe le imprese a trovare modi migliori per produrre, invece che vivacchiare grazie all’abbattimento dei costi della manodopera», come sembra suggerire l’italico Jobs Act creato da Renzi per accontentare la Confindustria. «Nonostante ciò – aggiungono i due analisti di “Left” – l’incrollabile convinzione che una maggiore flessibilità porti ad accrescere la produttività la fa da padrona nel dibattito pubblico. Ma l’idea che la deregolamentazione del mercato del lavoro abbia effetti espansivi nel lungo periodo non è meglio fondata dell’ipotesi – dimostratasi ampiamente fallimentare – che il consolidamento fiscale produca maggiore crescita del Pil».Renzi bocciato anche dal Fmi: il Jobs Act che penalizza i lavoratori trasformandoli in precari a vita non migliora in alcun modo l’economia. Anche se la Commissione Europea e la Bce di Draghi continuano a raccomandare le “riforme strutturali” e in particolare la deregulation del mercato del lavoro, dopo gli orrori della “austerità espansiva” incarnata da proconsoli come Monti e Fornero, nel suo “Word Economic Outlook” (aprile 2015) è il Fondo Monetario Internazionale a smentire gli eurocrati: non vi è alcuna evidenza circa un effetto positivo della flessibilità sul potenziale produttivo. «Un’ammissione piuttosto sbalorditiva, se si pensa che la deregolamentazione del mercato del lavoro è sempre stata tra le condizioni dello stesso Fmi per l’assistenza finanziaria, compresa quella ai paesi in crisi dell’Unione Europea», annotano Guido Iodice e Daniela Palma. Secondo il Fmi, gli effetti delle riforme strutturali sulla produttività sono importanti solo se si parla di deregolamentazione del mercato dei beni e dei servizi, di utilizzo di nuove tecnologie e di forza lavoro più qualificata, di maggiore spesa per le attività di ricerca e sviluppo. Al contrario, la deregolamentazione del mercato del lavoro non funziona.
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Cremaschi: chi spacca vetrine e chi sta sfasciando l’Italia
Le reazioni delle istituzioni, dei mass media e dell’opinione pubblica agli incidenti innescati dai black bloc a Milano per l’inaugurazione dell’Expo «hanno mostrato quanto sia oramai devastato lo spirito democratico in questo paese», nonostante la comprensibile indignazione per le 50 auto incendiate e le 15 vetrine devastate. Quanto accaduto, comunque, non è minimamente paragonabile ad altri disordini in città europee: molto peggiore il bilancio a Francoforte all’apertura della nuova sede della Bce, per non parlare di quello che ormai accade normalmente negli Usa, o della rivolta nelle strade di Rio alla vigilia dei mondiali di calcio. Compassionevoli e comprensivi coi problemi lontani, ma «appena questo disagio è comparso in casa nostra, i più moderati tra i commentatori di palazzo hanno chiesto la legge marziale», osserva Giorgio Cremaschi. «Il peggiore mi è apparso il sindaco di Milano. Il grido di sapore biblico da lui lanciato, “nessuno tocchi Milano”, che cosa vuol dire, che altrove si può? E quando la città è stata devastata da ruberie, tangenti, mafie, disoccupazione, devastazioni ambientali, vetrine a migliaia chiuse in periferia per lo strangolamento della crisi e delle banche, non è stata toccata allora Milano?».Certo, continua Cremaschi su “Micromega”, scendere in piazza in quei frangenti «era più duro e rischioso, magari si sarebbero pestati i piedi a qualche potere forte». Ma la vera indignazione, aggiunge l’ex dirigente sindacale della Fiom, è stata in realtà per l’immagine dell’Expo offuscata dai disordini. “L’Expo dà lavoro”, ha detto rabbioso uno dei pulitori volontari, rivolto a una ragazza coraggiosa che provava a discutere con i cittadini indignati. “Modello Expo” si disse da destra e da sinistra quando Confindustria e istituzioni insieme a Cgil, Cisl e Uil firmarono l’accordo che autorizzava poco lavoro sottopagato e tanto gratuito. “Modello Expo” si aggiunge ora, «quando gli ipocriti della sinistra benpensante e ancora meglio retribuita hanno presentato la fiera come una specie di Social Forum di sei mesi, impegnato a trovare e ricette contro la fame nel mondo». “Modello Expo” ha chiarito Renzi, «celebrando la fiera come occasione di grandi affari, proprio per questo appaltata a quelle multinazionali che, dice Vandana Shiva, affamano il pianeta».L’Expo è una fiera che serve a mostrare quanto è vendibile il nostro paese, il suo ambiente, il suo lavoro: l’Italia è sul mercato, e Expo ne è la vetrina. «Questa è la vera risposta alla crisi che Renzi propone e sulla quale, assieme a tutto il potere economico che lo sostiene, gioca la partita del consenso». Ovvero: «Basta con i vecchi scrupoli, i lacci e lacciuoli che frenano lo sviluppo. Basta con l’articolo 18 e con i vincoli ambientali, ha promesso Renzi alla Borsa. Basta con i diritti, rimbocchiamoci le maniche e mettiamoci al lavoro. E chi pone ostacoli è contro la nazione». Un «messaggio reazionario di massa», che di fatto «ha conquistato un Pd sconfitto e rassegnato nei suoi valori, sottomesso al capitalismo globalizzato e alla ricchezza, ma abbarbicato al potere». Renzi? «E’ la sintesi perfetta di questa storia politica e per questo ridicolizza ogni opposizione interna, così come rende oramai inutile la vecchia destra berlusconiana». Con il Jobs Act, la “buona scuola” e l’Italicum, «il governo ha devastato ciò che restava dei principi e delle regole fondanti la nostra Costituzione: resta solo da cambiare l’articolo uno, sostituendo “lavoro” con “mercato” e “popolo” con “leader”, e poi tutto è fatto».Questa Italia sul mercato è quella che ha assunto l’Expo come bandiera, continua Cremaschi. La maggioranza del paese è d’accordo? «Può essere, ma essa non è tutto e chi è contro non è piccola cosa. Solo che chi non accetta questo modello sociale e politico non ha diritto a veder riconosciute le proprie posizioni. La controriforma costituzionale di Renzi afferma la dittatura della maggioranza, anzi della più grossa minoranza. E sopra questo governo neoautoritario sta il potere delle Troika finanziaria e burocratica che comanda in Europa». La Grecia? «Non può decidere liberamente di non far morire di fame i disoccupati, perché, come si diceva una volta, è un paese a sovranità limitata». Nei fatti, «un potere sempre più chiuso e autoritario è poi sostenuto da un sistema mediatico embedded, come la stampa che seguiva sui carri armati le guerre di Bush». Che gli incidenti abbiano oscurato le ragioni dei manifestanti della Mayday di Milano non è vero, obietta Cremaschi: «Il 28 febbraio in diecimila abbiamo manifestato a Milano contro il Jobs Act e il lavoro gratuito per Expo. Eravamo in gran parte militanti del sindacalismo di base e della corrente di opposizione in Cgil, moltissimi erano i migranti. È stata una manifestazione serena e viva che si è conclusa con una assemblea popolare in piazza S.Babila. Non abbiamo lasciato per terra neppure le carte delle caramelle e siamo stati semplicemente ignorati dal circuito dei mass media». D’altra parte, dove mai ci sono stati pubblici confronti sulle ragioni dei NoExpo? Dove si sono potute liberamente confrontare le due diverse posizioni?«Non facciamo gli ipocriti, chi è contro il dominio di imprese e mercato nell’Italia di oggi è sostanzialmente clandestino, e se prova a metter fuori la testa c’è chi minaccia di tagliargliela». I tranvieri di Milano hanno scioperato il 28 aprile contro i turni gravosi e pericolosi imposti per Expo. Apriti cielo, ministri della Repubblica han chiesto di liquidare il diritto di sciopero e i più moderati hanno aggiunto: solo durante le fiere. In questi giorni, aggiunge Cremaschi, in Germania i macchinisti dei treni scioperano per sei giorni di seguito bloccando il paese, ma nessun governante chiede leggi speciali. «Da noi avremmo talkshaw ove tra gli applausi si invocherebbe la galera». Subito dopo i fatti di Milano, Renzi è stato contestato pacificamente a Bologna, «ma non uno dei telegiornali ha fatto vedere gli insegnanti precari bastonati duramente dalla polizia». Per Cremaschi, «c’è una sordità e una prepotenza del potere che porta naturalmente alla ribellione di chi non ci sta. E chi si ribella lo fa nei modi che questa società stessa offre». Quindi, «non si può distruggere la Costituzione nata dalla Resistenza, ridurre tutto a merce e mercato e poi usare il linguaggio della Prima Repubblica quando si spaccano le vetrine». La fine dei partiti di massa, dei diritti sindacali, del welfare? Una catastrofe. Per loro, invece, è “il progresso”. «Di questo progresso i fatti di Milano sono inevitabile conseguenza».Le reazioni delle istituzioni, dei mass media e dell’opinione pubblica agli incidenti innescati dai black bloc a Milano per l’inaugurazione dell’Expo «hanno mostrato quanto sia oramai devastato lo spirito democratico in questo paese», nonostante la comprensibile indignazione per le 50 auto incendiate e le 15 vetrine devastate. Quanto accaduto, comunque, non è minimamente paragonabile ad altri disordini in città europee: molto peggiore il bilancio a Francoforte all’apertura della nuova sede della Bce, per non parlare di quello che ormai accade normalmente negli Usa, o della rivolta nelle strade di Rio alla vigilia dei mondiali di calcio. Compassionevoli e comprensivi coi problemi lontani, ma «appena questo disagio è comparso in casa nostra, i più moderati tra i commentatori di palazzo hanno chiesto la legge marziale», osserva Giorgio Cremaschi. «Il peggiore mi è apparso il sindaco di Milano. Il grido di sapore biblico da lui lanciato, “nessuno tocchi Milano”, che cosa vuol dire, che altrove si può? E quando la città è stata devastata da ruberie, tangenti, mafie, disoccupazione, devastazioni ambientali, vetrine a migliaia chiuse in periferia per lo strangolamento della crisi e delle banche, non è stata toccata allora Milano?».
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Maastricht? Non ci risulta: la rovina dell’Italia siamo noi
L’Italia sprofonda in una crisi senza uscita? Tutta colpa nostra. Siamo pigri, ignoranti, poco innovativi e anche disonesti, vista l’elevata evasione fiscale. Per non parlare del debito pubblico, troppo elevato rispetto al Pil. Nonostante le analisi di prestigiosi economisti, ormai diventate un coro di fronte allo sfacelo planetario dell’Ue e dell’Eurozona, resta ben viva sui media la voce del mainstream, secondo cui il debito sovrano è un problema, anziché un insostituibile motore di sviluppo. Visione alla quale non si sottraggono osservatori come Guglielmo Forges Davanzati, per i quali, semplicemente, l’Italia ha perso il passo già negli anni ‘90. Il male oscuro? Non il Trattato di Maastricht, non lo storico divorzio fra Tesoro e Bankitalia con la “privatizzazione” del debito, consegnato alla speculazione finanziaria internazionale, ma la mancanza di adeguate politiche industriali per consentire al made in Italy di continuare a competere col resto del mondo.I governi che si sono succeduti a partire dagli anni ottanta, scrive Davanzati su “Micromega”, hanno rinunciato ad attuare politiche industriali, confidando nella presunta “vitalità” della nostra imprenditoria, fidando nella filosofia del “piccolo è bello”. La costante riduzione della domanda interna, aggiunge l’analista, è derivata non solo dalla riduzione di consumi e investimenti privati, «ma soprattutto da riduzioni della spesa pubblica e continui aumenti della pressione fiscale». Chi e perché ha indotto quelle politiche? Davanzati non lo spiega, preferendo concentrarsi sul loro esito disastroso: i tagli alla spesa hanno indebolito il sistema e il declino della domanda interna ha ridotto i mercati di sbocco, mettendo in crisi la maggioranza delle aziende (medio-piccole), fortemente dipendenti dal credito bancario. Poi, la crisi dei mutui subprime negli Usa è rimbalzata nella cosiddetta crisi dei debiti sovrani nell’Eurozona, con caduta della domanda globale, riduzioni dell’export, austerity, esplosione paurosa della disoccupazione.Unica mossa tentata: detassare e precarizzare il lavoro. Misura ingiusta e comunque insufficiente: «Se le aspettative sono pessimistiche gli investimenti non vengono effettuati e il solo effetto che può verificarsi è un aumento dei profitti netti». Giocare al ribasso, inoltre, disincentiva l’innovazione delle imprese. Servirebbe il contrario del Jobs Act, e cioè regole rigide e tutele per i dipendenti. Davanzati cita Keynes: «Se si paga meglio una persona si rende il suo datore di lavoro più efficiente, forzandolo a scartare metodi e impianti obsoleti, affrettando la fuoriuscita dall’industria degli imprenditori meno efficienti, elevando così lo standard generale». In altri termini, sostiene Davanzati, politiche di alti salari combinate con maggiore rigidità del rapporto di lavoro possono generare una condizione che aiuta le imprese a migliorare e crescere, puntando proprio sull’innovazione, senza contare che salari più alti «contribuiscono a tenere elevata la domanda aggregata, generando un potenziale circolo virtuoso di alta domanda ed elevata produttività».E’ esattamente il contrario di quanto è accaduto in Italia nell’ultimo ventennio, chiosa Davanzati. Già, ma perché è accaduto? Italiani pasticcioni o traviati da manovratori occulti? Nino Galloni, economista della Sapienza e già super-tecnico al ministero del bilancio, chiarisce: prima ancora del terremoto della globalizzazione, i guai veri per l’Italia sono cominciati nel 1981, quando la Banca d’Italia ha cessato di fare da “bancomat del governo”, costringendo l’esecutivo ad avvalersi dei titoli di Stato, acquistati dalla finanza internazionale, come fonte primaria di finanziamento pubblico. Immediata l’esplosione del debito, divenuta catastrofica con l’adozione dell’euro, moneta non più emessa dall’Italia. Galloni sintetizza: l’Italia non stava sulla luna, ma nell’Europa in cui la Francia di Mitterrand impose l’euro alla Germania che voleva la riunificazione tedesca del 1989. Kohl accettò a una condizione: che venisse sabotato il sistema industriale italiano, cioè il maggior concorrente dell’export di Berlino. A valle, quindi, gli inevitabili “errori” nella politica industriale, gli “incomprensibili” ritardi, i fallimenti a catena.Craxi fu il primo a profetizzare che, con Maastricht, l’Italia ci avrebbe rimesso le penne. Andreotti provò a resistere. E Galloni racconta che lo stesso Kohl fece pressioni, personalmente, per allontanare dal governo i funzionari come Galloni, che i “titoli di coda” per l’economia nazionale li avevano già visti alla fine degli anni ‘80. Fino a qualche anno fa, il fatidico meeting del Britannia per la svendita dell’Italia e la sua deindustrializzazione forzata era relegato tra le pieghe della letteratura “cospirazionista”, così come le pagine di libri usciti in questi anni, per esempio “Il golpe inglese”, di Giovanni Fasanella e Mario José Cereghino (Chiarelettere). A bordo del Britannia nel ‘92 c’era Draghi, allora al Tesoro, poi promosso governatore di Bankitalia e oggi alla guida della Bce. Ciampi, al vertice della Banca d’Italia all’epoca del divorzio dal governo, venne eletto addirittura al Quirinale. Nessi impossibili da ignorare, a proposito di “strano” declino del made in Italy.Un altro luogo comune, citato dallo stesso Davanzati che parla di “ipertrofia” dell’apparato pubblico (in linea con la retorica padronale di Renzi), riguarda il presunto peso della pubblica amministrazione: secondo l’Eurispes, in Italia si contano 58 impiegati pubblici ogni 1.000 abitanti contro i 135 della Svezia, i 94 della Francia, i 92 del Regno Unito, i 65 della Spagna e i 54 della Germania. Inoltre, negli ultimi 10 anni l’Italia ha visto diminuire i propri dipendenti pubblici del 4,7%, mentre tutti gli altri hanno assunto: +36,1% in Irlanda, +29,6% in Spagna, +12,8% in Belgio e +9,5% nel Regno Unito. Il pubblico impiego da noi pesa per l’equivalente dell’11,1% del Pil. Anche in questo caso, la vituperata burocrazia pubblica italiana si attesta in realtà su numeri tra i più bassi in Europa: in Danimarca il costo del pubblico impiego è pari al 19,2% del Pil, in Svezia e Finlandia al 14,4% mentre Francia, Belgio e Spagna spendono, rispettivamente, il 13,4%, il 12,6% e l’11,9% del Pil. Tutti, ma proprio tutti, più dell’Italia.Paolo Barnard ha spesso citato analoghe statistiche sul tasso di produttività: quello dei lavoratori italiani surclassa, storicamente, la capacità produttiva dei mitici lavoratori tedeschi. Com’è noto, Barnard si distingue per l’acutezza spietata dall’analisi: il sabotaggio dell’economia italiana a vantaggio dell’élite finanziaria straniera, con la necessaria complicità di “collaborazionisti” nostrani ricompensati con carriere d’oro, si sviluppa negli ultimi decenni in perfetta ottemperanza del famigerato “Memorandum” di Lewis Powell, l’avvocato di Wall Street incaricato già all’inizio degli anni ‘70 di stilare un vademecum per consentire agli oligarchi di liquidare la sinistra negli Usa e in Europa. Istruzioni eseguite alla lettera: “comprare” i leader di partiti e sindacati per indurli a varare norme contro i lavoratori, infiltrare università, giornali, televisioni e sistema editoriale per forgiare il dogma del pensiero unico neoliberista, cioè la fine dello Stato sovrano, la Costituzione democratica nata dalla Resistenza per tutelare i cittadini con pari diritti e pari opportunità.Con Renzi siamo all’atto finale, la privatizzazione universale definitiva. Non manca chi invoca una politica diversa e magari salari più alti. Già, ma con che soldi? Senza più moneta sovrana, lo Stato ora è in bolletta ed è costretto a super-tassare: lo Stato “risparmia”, quindi condanna aziende e famiglie. Siamo arrivati al puro delirio del pareggio di bilancio: lo Stato ridotto a colonia, impossibilitato a spendere, costretto a restituire ogni centesimo e con gli interessi, come se non fosse più un ente pubblico ma una semplice azienda privata, una normale famiglia alle prese con un debito contratto con la banca. Eppure, il mainstream continua a trascurare la portata termonucleare dell’euro-cataclisma, la fine dell’interesse pubblico, la morte clinica degli investimenti capaci di produrre occupazione. E in pieno 2015 preferisce continuare a parlare di errori, ataviche pigrizie e imperdonabili miopie nella piccola e provinciale Italietta, incapace – per tara genetica – di sviluppare una seria politica industriale.L’Italia sprofonda in una crisi senza uscita? Tutta colpa nostra. Siamo pigri, ignoranti, poco innovativi e anche disonesti, vista l’elevata evasione fiscale. Per non parlare del debito pubblico, troppo elevato rispetto al Pil. Nonostante le analisi di prestigiosi economisti, ormai diventate un coro di fronte allo sfacelo planetario dell’Ue e dell’Eurozona, resta ben viva sui media la voce del mainstream, secondo cui il debito sovrano è un problema, anziché un insostituibile motore di sviluppo. Visione alla quale non si sottraggono osservatori come Guglielmo Forges Davanzati, per i quali, semplicemente, l’Italia ha perso il passo già negli anni ‘90. Il male oscuro? Non il Trattato di Maastricht, non lo storico divorzio fra Tesoro e Bankitalia con la “privatizzazione” del debito, consegnato alla speculazione finanziaria internazionale, ma la mancanza di adeguate politiche industriali per consentire al made in Italy di continuare a competere col resto del mondo.
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Mentono e vi derubano ogni giorno, e voi gli credete ancora?
I dati forniti dall’Istat smentiscono l’interessato ottimismo sparso a piene mani dal premier Matteo Renzi e dal suo ministro del lavoro Giuliano Poletti. La disoccupazione, con buona pace del Jobs Act, continua ad aumentare, mentre la crescita resta un miraggio. Da quasi quattro anni, dall’arrivo cioè di Mario Monti sul trono d’Italia, i grandi media annunciano senza sosta l’imminente ripresa di un’Italia sempre più povera, stanca e sfiduciata. Chi di voi ricorda le promesse del professore di Varese, ridicolo fino al punto da ipotizzare un aumento del Pil prossimo al 10% in virtù delle famose liberalizzazioni riguardanti quattro tassisti e qualche farmacista? E chi di voi ha dimenticato il “piano giovani” varato da Enrichetto Letta, approvato in teoria per dare un futuro a generazioni intere senza speranze né prospettive? E come sarà possibile scordare in fretta le tante menzogne veicolate dell’attuale premier Matteo Renzi, degno successore dei vari Monti e Letta? Il gioco è semplice e scoperto: mentire, mentire e poi mentire ancora. Anche di fronte all’evidenza, anche a costo di sfidare la logica e di umiliare la verità e il buon senso.Mentire ad oltranza. Questo fanno i nostri governanti, etero-diretti dall’esterno dal ghigno malefico del Venerabile Maestro Mario Draghi, osannato dai servi di regime per avere varato un quantitative easing che serve solo per prolungare il più possibile l’agonia di questo mostro di Europa a trazione tecnocratica. Quando, e se, la cosiddetta pubblica opinione capirà di essere stata per anni raggirata e truffata, sarà oramai troppo tardi. Ma come può un uomo sano di mente credere che l’abolizione dei diritti possa avere un qualche effetto benefico sull’occupazione? Ma dove sono vissuti gli italiani negli ultimi venti anni, caratterizzati da un contestuale aumento di precarietà e disoccupazione? Ma come si fa a credere ancora che l’austerità serva per abbattere il debito, quando il debito di tutti i paesi dell’area euro è esploso proprio in virtù dell’applicazione cieca delle famose politiche del rigore? Come si fa a non capire che è in atto un progetto politico (definito “complotto” dai meno lucidi), gestito e supervisionato da una manipolo di burocrati illuminati, volto a regolare i conti una volta per tutte con le “masse plebee”?Non siete stanchi di sentire che la ripresa arriverà l’anno prossimo, e poi l’anno prossimo ancora? A nessuno sorge il dubbio che le famigerate “riforme strutturali” rappresentino poco più che un espediente retorico per giustificare la prosecuzione di una crisi in realtà voluta ed indotta? Non è dai tempi di Mani Pulite che il sistema di potere promuove senza sosta (destra o sinistra poco cambia) riforme destinate a colpire le pensioni, la rappresentanza democratica, i diritti dei lavoratori, il welfare e i salari? Non vi sono bastati venti anni di sbornia neoliberista, caratterizzati da una colossale svendita di Stato, per smascherare i trucchi usati da uomini senza scrupoli né morale? Resto sbigottito, incredulo e allibito. Noi del Movimento Roosevelt non ci stancheremo di dirvi che dalla crisi non usciremo mai fino a quando il popolo, per mezzo di rappresentanti democraticamente eletti, non intenderà riappropriarsi della sovranità che gli spetta.Bisogna riportare la Banca centrale sotto il controllo del potere politico per rifuggire dal continuo ricatto dei “fantomatici mercati”; bisogna varare su scala europea un piano per la piena occupazione al fine di rilanciare i consumi e ridare fiato alle imprese; bisogna rafforzare il welfare ed investire nella ricerca, e bisogna infine favorire la partecipazione dei cittadini nella formazione dei processi decisionali allargando e non comprimendo il perimetro democratico. Questo bisogna fare, avendo cura di coniugare libertà economica e interesse generale, giustizia sociale e meritocrazia. Ma bisogna farlo al più presto. Perché ogni giorno che passa i vari Draghi, Schaeuble, Hollande, Renzi e Merkel sradicano impunemente un albero dal nostro giardino. E se nessuno riuscirà a fermarli, in berve tempo il Vecchio Continente si trasformerà in un deserto di malinconia, rimpianto, cattiveria e depressione.(Francesco Maria Toscano, “Mentire sempre, comunque e a qualsiasi costo”, dal blog “Il Moralista” del 31 marzo 2015. Toscano è segretario del Movimento Roosevelt, co-fondato con Gioele Magaldi).I dati forniti dall’Istat smentiscono l’interessato ottimismo sparso a piene mani dal premier Matteo Renzi e dal suo ministro del lavoro Giuliano Poletti. La disoccupazione, con buona pace del Jobs Act, continua ad aumentare, mentre la crescita resta un miraggio. Da quasi quattro anni, dall’arrivo cioè di Mario Monti sul trono d’Italia, i grandi media annunciano senza sosta l’imminente ripresa di un’Italia sempre più povera, stanca e sfiduciata. Chi di voi ricorda le promesse del professore di Varese, ridicolo fino al punto da ipotizzare un aumento del Pil prossimo al 10% in virtù delle famose liberalizzazioni riguardanti quattro tassisti e qualche farmacista? E chi di voi ha dimenticato il “piano giovani” varato da Enrichetto Letta, approvato in teoria per dare un futuro a generazioni intere senza speranze né prospettive? E come sarà possibile scordare in fretta le tante menzogne veicolate dell’attuale premier Matteo Renzi, degno successore dei vari Monti e Letta? Il gioco è semplice e scoperto: mentire, mentire e poi mentire ancora. Anche di fronte all’evidenza, anche a costo di sfidare la logica e di umiliare la verità e il buon senso.
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Superlavoro e licenziamenti, la Cgil vi condanna al peggio
Con la firma dei contratti del commercio e dei bancari la Cgil, fieramente schierata contro il Jobs Act, lo ha nei fatti sottoscritto, applicato e persino interpretato creativamente. Il contratto del terziario peggiora i due contratti precedenti che la Cgil aveva avuto il coraggio di non sottoscrivere. Si potrebbe fare un elenco di tante piccole e grandi angherie verso i lavoratori che vengono confermate, ma credo basti sottolineare che il lavoro domenicale diventa regola e obbligo. Particolare attenzione è stata poi rivolta alla clausola di flessibilità, che consente all’impresa di obbligare il lavoratore a lavorare 44 ore settimanali per 16 settimane senza neanche pagargli lo straordinario. Con 5 milioni di disoccupati, aumentare l’orario di lavoro è proprio una bella sensibilità sociale, ma c’è di peggio. A livello aziendale o territoriale sarà possibile concordare orari di 48 ore per 24 settimane in un anno. Metà dell’anno si lavorerà con gli orari previsti dalla legge del 1923, senza neppure che sia riconosciuto lo straordinario.La Cgil nel passato si arrabbiò molto con il ministro berlusconiano Sacconi che aveva promosso il regime delle deroghe aziendali ai contratti nazionali. Ora sottoscrive una doppia deroga sugli orari di lavoro, realizzando un altro punto della famosa lettera di Draghi e Trichet, che nel 2011 dettarono ciò che si doveva fare in Italia per obbedire alla Troika. Il Jobs Act prevede il demansionamento, cioè la possibilità per la aziende di degradare i lavoratori. Il contratto del commercio lo permette in via anticipata, cioè si potranno assumere a termine disoccupati con due qualifiche al di sotto della mansione effettivamente svolta. Cosa non si fa pur di dare lavoro, Poletti e i supermercati sono commossi. Naturalmente gli enti bilaterali, cioè gli strumenti del peggiore consociativismo sindacale, e mi fermo qui, vengono rafforzati. Quello di fare enti è l’unico diritto che resta, perché è dei sindacati e non dei lavoratori. Se il contratto del commercio è soprattutto il veicolo di ogni flessibilità a carico di chi lavora, quello dei bancari corre in soccorso di una esigenza di fondo delle imprese, quella di tagliare il personale e ristrutturarsi con meno costi possibili. Uno privilegia la flessibilità in entrata, l’altro quella in uscita, ma la logica è sempre la stessa.Tutti sappiamo che la politica economica dei governi italiani ed europei ha un occhio di particolare riguardo per il sistema bancario, che viene sostenuto in tutti i modi con i nostri soldi. Lo stesso sostegno ai poveri banchieri lo fornisce per la sua parte l’accordo appena sottoscritto. Le banche potranno più serenamente licenziare, perché assumono l’impegno di prendere in considerazione i licenziati per eventuali nuove assunzioni. Hanno il via libera per le terziarizzazioni in tante belle newco, realizzate magari con la fusione di quelle banche popolari scalabili grazie alla riforma di Renzi. Si riducono i costi e il valore delle liquidazioni dei dipendenti così le banche risparmiano, ma per dare un contentino si afferma che i lavoratori dismessi in nuove società continueranno ad avere l’articolo 18. E qui c’è una mela avvelenata, perché con questa clausola il contratto dei bancari riconosce di fatto il rapporto di lavoro a tutele crescenti. Se infatti si esclude di applicarlo ai terziarizzati e solo a quelli, si accetta che sia pienamente applicabile a tutti gli altri che verranno assunti. Come sempre le eccezioni confermano la regola.È questa la realizzazione di quanto il gruppo dirigente della Cgil aveva promesso nelle piazze del 12 dicembre scorso? La lotta al Jobs Act si riduce a individuare le persone esentate dai suoi danni? Questi contratti distruggono bel po’ di diritti in cambio di un aumento di 85 euro lordi distribuiti su diversi anni. Un aumento mensile di 13 euro netti nella busta paga ogni anno non mi pare uno scambio equo rispetto a ciò che i lavoratori restituiscono. In effetti per un dipendente di un grande magazzino e di una banca sarebbe molto più conveniente vedersi prolungare il contratto precedente con zero aumenti, piuttosto che un rinnovo come questo. E infatti sono le aziende che festeggiano gli accordi. Perché allora i grandi sindacati firmano queste porcherie? Semplice, lo fanno per sopravvivere come grandi organizzazioni burocratiche, ma questo loro modo d’agire finisce proprio per rafforzare Renzi e le sue politiche.Non so se Landini si riferisse ad accordi come questi quando ha parlato di crisi sindacale, però non l’ho sentito contestare una frottola che oggi va per la maggiore e che serve a giustificare le politiche di flessibilità e precarietà. In ogni talkshow ad un certo punto c’è chi afferma che la colpa principale delle grandi confederazioni sia quella di difendere i sindacalizzati e non i precari. È falso. Cgil, Cisl e Uil in questi anni hanno firmato accordi che progressivamente hanno ridotto i diritti dei propri rappresentati, e per questo non hanno difeso neanche i precari. Come facevano ad estendere ciò a cui un po’ alla volta rinunciavano? Oggi più che mai il lavoro in tutte le sue forme ha bisogno di organizzarsi in sindacato per difendersi. Ma il sindacato che serve non è certo quello che firma contratti come quelli del commercio e dei bancari. No, quei sindacati che senza un minuto di sciopero firmano la resa e poi affermano di avere vinto fanno solo danno. Per ricostruire i diritti del lavoro ci vogliono organizzazioni e strategie diverse da quelle che ci hanno portato sino al disastro attuale.(Giorgio Cremaschi, “La finta opposizione della Cgil che firma il Jobs Act”, da “Micromega” del 2 aprile 2015).Con la firma dei contratti del commercio e dei bancari la Cgil, fieramente schierata contro il Jobs Act, lo ha nei fatti sottoscritto, applicato e persino interpretato creativamente. Il contratto del terziario peggiora i due contratti precedenti che la Cgil aveva avuto il coraggio di non sottoscrivere. Si potrebbe fare un elenco di tante piccole e grandi angherie verso i lavoratori che vengono confermate, ma credo basti sottolineare che il lavoro domenicale diventa regola e obbligo. Particolare attenzione è stata poi rivolta alla clausola di flessibilità, che consente all’impresa di obbligare il lavoratore a lavorare 44 ore settimanali per 16 settimane senza neanche pagargli lo straordinario. Con 5 milioni di disoccupati, aumentare l’orario di lavoro è proprio una bella sensibilità sociale, ma c’è di peggio. A livello aziendale o territoriale sarà possibile concordare orari di 48 ore per 24 settimane in un anno. Metà dell’anno si lavorerà con gli orari previsti dalla legge del 1923, senza neppure che sia riconosciuto lo straordinario.
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Robecchi: e bravo Renzi, che ora privatizza pure le elezioni
Fate la prova renzino. Non è difficile e non serve nemmeno un laboratorio, basta il tavolino di un bar. Procuratevi soltanto una mezz’oretta e un devoto seguace del premier, di quelli acritici e ultramoderni, di quelli che sono per la “disintermediazione”, parola difficile che serve a descrivere, senza dirla, una gran voglia di discorsi dal balcone, o da Twitter, davanti a folle osannanti. Fatto? Ecco. Ora chiedetegli se Matteo Renzi, nel suo anno di governo, ha cambiato le cose, se ha fatto le riforme. Ne avrete in cambio un profluvio di argomenti entusiasti. Certo che sì! Matteo (lo chiamano così, è un vezzo moderno) ha fatto in un anno quello che lui (lui il renzino) aspettava da trent’anni (sentito dire anche da chi ne ha venticinque). Le Province, il Jobs Act, la pubblica amministrazione, il Senato… Insomma, avrete, in risposta alla vostra domanda, la granitica certezza dell’interlocutore: Renzi sta cambiando il paese. Ora passate alla seconda domanda: perché serve una legge elettorale come l’Italicum?La risposta sarà altrettanto convinta ed entusiasta: perché con l’attuale legge elettorale si è costretti a barcamenarsi e non si fanno le riforme. Ecco fatto: possiamo fermarci qui, a queste due risposte che sono la sostanza del problema. Punto uno: si fanno finalmente le riforme. Punto due: serve una legge elettorale che permetta di fare le riforme perché così non si riesce. È una contraddizione così palese che non meriterebbe commenti. Se Renzi è così bravo da fare tutte queste riforme anche con il risultato ottenuto da Bersani alle ultime elezioni – che tutti definiscono insufficiente, una “non vittoria” – perché vuole una legge elettorale che premi ancora di più l’esecutivo? Una legge che i migliori costituzionalisti descrivono come “pericolosa”? Il refrain non è nuovo e ha illustri precedenti. Bettino Craxi, da capo del governo, lamentava gli scarsi poteri del capo del governo. Berlusconi uguale. E ora Renzi dice lo stesso.Il disegno, insomma, è sempre quello: dare più poteri all’esecutivo a scapito della democrazia parlamentare o del voto dei cittadini (non si vota più per le Province, non si voterà più per il Senato…). E la motivazione è anche quella più o meno uguale: questo “eccesso di democrazia”, di pesi e contrappesi, impedisce di fare le riforme, cosa che si grida a gran voce proprio mentre si grida forte anche: “Ehi, stiamo facendo le riforme!”. Per corroborare questa tesi si descrive il paese come una palude immobile e putrescente, da cui ci salverà finalmente una nuova legge elettorale che annichilisca ogni opposizione. Insomma, mani libere, più potere e meno contrappesi. È l’identico meccanismo del capitalismo italiano, che per tradizione strepita che ci sono, a fermarne la luminosa marcia, troppi “lacci e lacciuoli”, mentre se avesse le mani totalmente libere, sai la cuccagna!Una filosofia che ha le sue varianti con la cosa pubblica: la si indebolisce con clientelismi e gestioni demenziali, si buttano i soldi dalla finestra, la si rende ingiusta e impresentabile, e poi – ultima e conseguente mossa – si chiede che venga privatizzata, un classico. Ecco, l’Italicum è questo: una privatizzazione. Poi uno pensa alle grandi riforme italiane, quelle vere, tipo il Servizio Sanitario Nazionale, e vede che si facevano, eccome, pure con il bicameralismo perfetto, pure con il proporzionale, con governi che cadevano ogni sei mesi e decine di partiti in Parlamento. Senza Italicum, insomma, e senza rischi per la democrazia.(Alessandro Robecchi, “Renzi ha fatto le riforme! E l’Italicum? Serve per le riforme”, da “Micromega” del 2 aprile 2015).Fate la prova renzino. Non è difficile e non serve nemmeno un laboratorio, basta il tavolino di un bar. Procuratevi soltanto una mezz’oretta e un devoto seguace del premier, di quelli acritici e ultramoderni, di quelli che sono per la “disintermediazione”, parola difficile che serve a descrivere, senza dirla, una gran voglia di discorsi dal balcone, o da Twitter, davanti a folle osannanti. Fatto? Ecco. Ora chiedetegli se Matteo Renzi, nel suo anno di governo, ha cambiato le cose, se ha fatto le riforme. Ne avrete in cambio un profluvio di argomenti entusiasti. Certo che sì! Matteo (lo chiamano così, è un vezzo moderno) ha fatto in un anno quello che lui (lui il renzino) aspettava da trent’anni (sentito dire anche da chi ne ha venticinque). Le Province, il Jobs Act, la pubblica amministrazione, il Senato… Insomma, avrete, in risposta alla vostra domanda, la granitica certezza dell’interlocutore: Renzi sta cambiando il paese. Ora passate alla seconda domanda: perché serve una legge elettorale come l’Italicum?