Archivio del Tag ‘Jp Morgan’
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Falchi, Wall Street e Israele: tutti pazzi per Hillary Clinton
Aiuto, arriva Hillary Clinton. Facile fare i cinici, di fronte all’inevitabile e imminente campagna presidenziale dell’ex first lady, avverte Glenn Greenwald, che la definisce «una veterana dei giochi di potere di Washington», una persona «squallidamente senz’anima, priva di principi, assetata di potere». A prenotare la Casa Bianca dopo Obama è «il politico americano più banale che possa esserci». Unica qualità teorica: sarebbe la prima presidente donna. Aspetto che verrà sfruttato al massimo, «per oscurare il suo ruolo di guardiana dello status quo», neoliberista e imperiale. Non è solo amica dei grandi “bankster” di Wall Street: è la loro candidata numero uno. In più è la moglie di Bill: «Che sia la beneficiaria di una successione dinastica la rende ancora più invitante, per un mix di noia e disprezzo». Per il “Washington Post”, lei e il marito hanno “guadagnato” decine di milioni di dollari, «in gran parte parlando a globalisti, gruppi industriali, fondi avvoltoio». Il peggio di Wall Street tifa Hillary, a cominciare dal famigerato boss della Goldman Sachs, Lloyd Blankfein.Se la propaganda presenterebbe la candidatura come opportunità di ringiovanimento e simbolo di speranza e cambiamento, ci pensa “Politico Magazine” a chiarire “perché Wall Street ama Hillary”, spiega Greenwald, in un post ruipreso da “Controinformazione”. «Giù a Wall Street non credono alla retorica populista della Clinton neanche per un minuto», scrive il magazine. «Mentre l’industria finanziaria effettivamente odia Warren, i grandi banchieri amano la Clinton e in linea di massima la vogliono a tutti i costi come presidente». Tra i super-banchieri dalla sua parte, oltre a Blankfein, spiccano James Gorman e Tom Nides (Morgan Stanley), nonché i capi di Jp Morgan Chase e Bank of America. «Considerano la Clinton una pragmatica risolutrice di problemi poco propensa alla retorica populista», scrive “Politico Magazine”. «Per loro è una che ha l’idea che tutti beneficiamo se Wall Street e il business americano prosperano». Ardente retorica populista? «Nessuno di loro pensa che lei faccia sul serio». La sostanza: «Wall Street, soprattutto, ama i vincitori, tanto più quelli che difficilmente toccheranno troppo il suo salvadanaio».Altro caposaldo della scalata di Hillary, la lobby israeliana. «Se dovesse diventare presidente, rapporti migliori con Israele sarebbero praticamente garantiti», assicura “Foreign Policy”. «Non dimentichiamo che i Clinton hanno già trattato con Bibi primo ministro». Non è mai stato facile, ma il rapporto con Netanyahu era chiaramente «molto più produttivo di quanto vediamo adesso», con Obama. Hillary? «E’ buona per Israele e si relaziona al paese in un modo in cui questo presidente non fa». La Clinton «è di un’altra generazione, e ha lavorato in un mondo politico in cui essere buoni per Israele era sia obbligatorio che intelligente», cioè conveniente. «Siamo chiari: quando si tratta di Israele, non esiste un Bill Clinton 2.0». L’ex presidente è stato probabilmente “unico”, sia «per la profondità dei suoi sentimenti per Israele» che per «la sua disponibilità a mettere da parte le proprie frustrazioni per certi aspetti del comportamento di Israele, come gli insediamenti». Ma questa intesa vale anche per Hillary, garantisce “Foreign Policy”. «Sia Bill che Hillary sono così innamorati dell’idea di Israele e della sua storia unica che sono propensi a fare certe concessioni sul comportamento del paese, come la continua costruzione di insediamenti».Poi ci sono loro, gli interventisti (ovvero i fanatici della guerra). Come Robert Kagan, il super-falco dell’entourage di Obama, marito di Victoria Nuland, architetto del golpe di Kiev per rovesciare il governo ucraino regolarmente eletto e aprire la sfida anche militare con Mosca. Molti “interventisti” come Kagan ripongono le loro speranze proprio nella Clinton, conferma il “New York Times”. «Mi sento a mio agio con lei in politica estera», ha ammesso Kagan, aggiungendo che il prossimo passo, dopo l’approccio “realista” di Obama, «potrebbe in teoria essere qualsiasi cosa Hillary porti in tavola», se eletta alla presidenza. «Se perseguirà la politica che noi crediamo perseguirà», ha aggiunto Kagan, «è qualcosa che si potrebbe chiamare neoconservatrice, ma chiaramente i suoi sostenitori non la definiranno così, la chiameranno in modo diverso». Di fatto, però, le idee sono quelle dei neo-con. Che sempre il “New York Times” ipotizza siano pronti ad allearsi con Hillary, «dopo quasi un decennio di esilio politico». Ovvero: «Mentre castigano Obama, i neo-con forse si stanno preparando per un’impresa più sfrontata: allinearsi con Hillary Rodham Clinton e la sua nascente campagna presidenziale, nel tentativo di tornare al posto di comando della politica estera americana». Lo conferma Max Boot, membro del Council on Foreign Relations: «Nei consigli dell’amministrazione, Hillary era una voce di principio per una posizione forte su questioni controverse, che fosse a supporto dell’insorgenza afghana o dell’intervento in Libia».Esatto: «La signora Clinton ha votato per la guerra in Iraq, ha supportato l’invio di armi ai ribelli siriani, ha paragonato il presidente russo Putin ad Adolf Hitler», scrive il “New York Times. Tuttora, Hillary «supporta appassionatamente Israele e sottolinea l’importanza di “promuovere la democrazia”». Dunque, «è facile immaginare che la signora Clinton nella sua amministrazione farà spazio ai neo-con. Nessuno la potrebbe incolpare di essere debole, nella sicurezza nazionale, con uno come Robert Kagan a bordo». Nel 1972, il primo a tracciare l’identità trasversale della lobby neo-con fu Robert Bartley, editorialista del “Wall Street Journal”, vicino ai neo-con: Bartley, dice il “New York Times”, «definì acutamente il movimento come “un gruppo altalenante tra i due maggiori partiti”», nonostante la decantata democrazia dell’alternanza bipolare. «Perciò beccatevi questo, cinici», conclude Greenwald. «Ci sono sacche di vibrante eccitazione politica che si stanno entusiasmando nel paese per una presidenza di Hillary Clinton. Si fanno poster, si attaccano distintivi, si preparano assegni, si bramano appuntamenti. I costituenti uniti, alleati, sinergici della plutocrazia e della guerra senza fine hanno la loro beneamata candidata. Ed è davvero difficile argomentare che la loro eccitazione ed affetto non sia giustifica».Aiuto, arriva Hillary Clinton. Facile fare i cinici, di fronte all’inevitabile e imminente campagna presidenziale dell’ex first lady, avverte Glenn Greenwald, che la definisce «una veterana dei giochi di potere di Washington», una persona «squallidamente senz’anima, priva di principi, assetata di potere». A prenotare la Casa Bianca dopo Obama è «il politico americano più banale che possa esserci». Unica qualità teorica: sarebbe la prima presidente donna. Aspetto che verrà sfruttato al massimo, «per oscurare il suo ruolo di guardiana dello status quo», neoliberista e imperiale. Non è solo amica dei grandi “bankster” di Wall Street: è la loro candidata numero uno. In più è la moglie di Bill: «Che sia la beneficiaria di una successione dinastica la rende ancora più invitante, per un mix di noia e disprezzo». Per il “Washington Post”, lei e il marito hanno “guadagnato” decine di milioni di dollari, «in gran parte parlando a globalisti, gruppi industriali, fondi avvoltoio». Il peggio di Wall Street tifa Hillary, a cominciare dal famigerato boss della Goldman Sachs, Lloyd Blankfein.
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Magaldi: super-fratelli d’Italia, élite occulta del vero potere
Esistono i massoni e i supermassoni, le logge e le superlogge. Lo rivela Gioele Magaldi, quarantenne “libero muratore” di matrice progressista, nel libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”, pubblicato da Chiarelettere, editrice che figura tra gli azionisti del “Fatto Quotidiano”. Proprio sul “Fatto”, Gianni Barbacetto e Fabrizio D’Esposito presentano l’operazione editoriale, soffermandosi sul sottititolo dell’opera di Magaldi, basata su documenti custoditi a Londra, Parigi e New York: “La scoperta delle Ur-Lodges”. Magaldi, che anni fa ha fondato in Italia il Grande Oriente Democratico in polemica con il Goi (Grande Oriente d’Italia, la più grande obbedienza massonica del nostro paese), in 656 pagine apre ai profani un mondo segreto e invisibile: «Tutto quello che accade di importante e decisivo nel potere è da ricondurre a una cupola di superlogge sovranazionali, le Ur-Lodges, appunto, che vantano l’affiliazione di presidenti, banchieri, industriali. Non sfugge nessuno a questi cenacoli. Le Ur-Lodges citate sono 36 e si dividono tra progressiste e conservatrici, e da loro dipendono le associazioni paramassoniche tipo la Trilateral Commission o il Bilderberg Group. Altra cosa infine sono le varie gran logge nazionali, ma queste nel racconto del libro occupano un ruolo marginalissimo. Tranne in un caso, quello della P2 del Venerabile Licio Gelli».Laura Maragnani, giornalista di “Panorama” che ha collaborato con Magaldi e scrivendo anche una lunga prefazione, spiega che il libro è frutto di un lavoro durato quattro anni, nei quali Magaldi ha consultato gli archivi di varie Ur-Lodges. Tuttavia, come scrive l’editore nella nota iniziale, in caso di “contestazioni” Magaldi si impegna a rendere pubblici gli atti segreti, depositati in studi legali in Europa e negli Usa. «Tra le superlogge progressiste – premette il “Fatto” – la più antica e prestigiosa è la Thomas Paine (cui è stato iniziato lo stesso Magaldi) mentre tra le neoaristocratiche e oligarchiche, vero fulcro del volume, si segnalano la Edmund Burke, la Compass Star-Rose, la Leviathan, la Three Eyes, la White Eagle, la Hathor Pentalpha». Tutto il potere del mondo sarebbe contenuto in queste Ur-Lodges. E persino i vertici della fu Unione Sovietica, da Lenin a Breznev, sarebbero stati superfratelli di una loggia conservatrice, la Joseph de Maistre, creata in Svizzera proprio da Lenin. «Può sembrare una contraddizione, un paradosso, ma nella commedia delle apparenze e dei doppi e tripli giochi dei grembiulini può finire che il più grande rivoluzionario comunista della storia fondi un cenacolo in onore di un caposaldo del pensiero reazionario».In questo filone, secondo Magaldi, s’inserisce pure l’iniziazione alla Three Eyes, a lungo la più potente Ur-Lodges conservatrice, di Giorgio Napolitano, attuale presidente della Repubblica e per mezzo secolo esponente di punta della destra del Pci: «Tale affiliazione avvenne nello stesso anno il 1978, nel quale divenne apprendista muratore Silvio Berlusconi», scrive Magaldi. «E mentre Berlusconi venne iniziato a Roma in seno alla P2 guidata da Licio Gelli nel gennaio, Napolitano fu cooptato dalla prestigiosa Ur-Lodge sovranazionale denominata Three Architects o Three Eyes appunto nell’aprile del 1978, nel corso del suo primo viaggio negli Stati Uniti». Più tardi, Berlusconi avrebbe poi creato una sua Ur-Lodge, la Loggia del Drago. Altri affiliati eccellenti, sempre secondo Magaldi, sarebbero Papa Giovanni XXIII, Bin Laden e l’Isis, Martin Luther King e i Kennedy. «C’è da aggiungere, dettaglio fondamentale, che nel libro di Magaldi la P2 gelliana è figlia dei progetti della stessa Three Eyes, quando dopo il ‘68 e il doppio assassinio di Martin Luther King e Robert Kennedy, le superlogge conservatrici vanno all’attacco con una strategia universale di destabilizzazione per favorire svolte autoritarie e un controllo più generale delle democrazie», osservano Barbacetto e D’Esposito.La tesi: il vero potere è massone. E, descritto nelle pagine di Magaldi, «spaventa e fa rizzare i capelli in testa». Dal fascismo al nazismo, dai colonnelli in Grecia alla tecnocrazia dell’Ue, tutto sarebbe venuto fuori dagli esperimenti di questi superlaboratori massonici: persino il “papa buono”, Giovanni XXIII (“il primo papa massone”), Osama Bin Laden e il più recente fenomeno dell’Isis. «In Italia, se abbiamo evitato tre colpi di Stato avallati da Kissinger lo dobbiamo a Schlesinger jr., massone progressista». Nell’elenco di tutti gli italiani attuali spiccano D’Alema, Passera e Padoan. Il capitolo finale è un colloquio tra Magaldi e altri confratelli collaboratori con quattro supermassoni delle Ur-Lodges. Racconta uno di loro, a proposito del patto unitario tra grembiulini per la globalizzazione: «Ma per far inghiottire simili riforme idiote e antipopolari alla cittadinanza, la devi spaventare come si fa con i bambini. Altrimenti gli italiani, se non fossero stati dei bambinoni deficienti, non avrebbero accolto con le fanfare i tre commissari dissimulati che abbiamo inviato loro in successione: il fratello Mario Monti, il parafratello Enrico Letta, l’aspirante fratello Matteo Renzi».Per non parlare del “venerabilissimo” Mario Draghi, governatore della Bce, affiliato a ben cinque superlogge. Secondo Magaldi, Draghi sarebbe peraltro in ottima compagnia. Le Ur-Lodges, infatti, sarebbero gremite di italiani importanti. Come l’ex banchiere centrale e poi ministro Fabrizio Saccomanni, l’industriale Gianfelice Rocca (Techint), l’economista e già ministro Domenico Siniscalco, Giuseppe Recchi (Eni, Exor, Confindustria), Marta Dassù (Aspen Institute, già sottosegretario agli esteri). E poi l’attuale governatore di Bankitalia Ignazio Visco, il banchiere Enrico Tommaso Cucchiani (Intesa Sanpaolo), Alfredo Ambrosetti (patron del summit di Cernobbio), l’ex presidente confindustriale Emma Marcegaglia. E infine il banchiere Matteo Arpe (Lehman Brothers, Capitalia), l’ex ministro Vittorio Grilli (ora Jp Morgan), l’ammiraglio Giampaolo Di Paola (marina militare) e Federica Guidi, ministro dello sviluppo economico del governo Renzi. Ma fino a ieri il dominus della vita italiana non era un certo Berlusconi? In attesa di conferme o smentite, se non altro, il libro di Magaldi contribuisce a dare un volto preciso ai componenti dell’élite: un affollatissimo ritratto di famiglia.(Il libro: Gioele Magaldi, “Massoni. Società a responsabilità illimitata. La scoperta delle Ur-Lodges”, Chiarelettere, 656 pagine, 19 euro).Esistono i massoni e i supermassoni, le logge e le superlogge. Lo rivela Gioele Magaldi, quarantenne “libero muratore” di matrice progressista, nel libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”, pubblicato da Chiarelettere, editrice che figura tra gli azionisti del “Fatto Quotidiano”. Proprio sul “Fatto”, Gianni Barbacetto e Fabrizio D’Esposito presentano l’operazione editoriale, soffermandosi sul sottititolo dell’opera di Magaldi, basata su documenti custoditi a Londra, Parigi e New York: “La scoperta delle Ur-Lodges”. Magaldi, che anni fa ha fondato in Italia il Grande Oriente Democratico in polemica con il Goi (Grande Oriente d’Italia, la più grande obbedienza massonica del nostro paese), in 656 pagine apre ai profani un mondo segreto e invisibile: «Tutto quello che accade di importante e decisivo nel potere è da ricondurre a una cupola di superlogge sovranazionali, le Ur-Lodges, appunto, che vantano l’affiliazione di presidenti, banchieri, industriali. Non sfugge nessuno a questi cenacoli. Le Ur-Lodges citate sono 36 e si dividono tra progressiste e conservatrici, e da loro dipendono le associazioni paramassoniche tipo la Trilateral Commission o il Bilderberg Group. Altra cosa infine sono le varie gran logge nazionali, ma queste nel racconto del libro occupano un ruolo marginalissimo. Tranne in un caso, quello della P2 del Venerabile Licio Gelli».
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Il marcio Juncker? Perfetto per imporre all’Europa il Ttip
Imbarazzante, impresentabile, ricattabile. Cioè perfetto, per eseguire ordini senza discutere. E’ l’increscioso profilo del lussemburghese Jean-Claude Juncker, imposto dalla Germania alla guida della Commissione Europea. A tracciare il “nuovo” identikit di Juncker, massimo protettore europeo dell’evasione fiscale per i super-ricchi, è l’esplosivo dossier realizzato da Icij, consorzio internazionale di giornalisti basato negli Usa. In realtà, precisa Paolo Raffone, l’indagine svela una realtà già arcinota: da piccolo paese agricolo, il Lussemburgo si è trasformato in potenza finanziaria, collegata sia alla Svizzera sia alla corona britannica, e dagli anni ‘70 ha accomodato convenientemente gli interessi finanziari, con la massima discrezione, di Stati, imprese e facoltose famiglie. Semmai, l’offensiva anche mediatica contro l’indifendibile Juncker – a sua volta a capo di un’istituzione ormai famigerata come la Commissione Europea – può solo preludere a una stretta finale della finanza e delle multinazioni anglosassoni, che attraverso le loro potentissime lobby premeranno sul lussemburghese per ottenere la capitolazione dell’Europa di fronte al Ttip, il Trattato Transatlantico che metterebbe fine alla residua sovranità europea sulle merci e sulla tutela del suolo, della salute e della sicurezza alimentare.L’anello debole, oggi, si chiama innanzitutto Juncker. Qualcuno, scrive Raffone sul “Sussidiario”, dovrebbe ricordarsi dello scandalo Clearstream (“flusso pulito”), esploso grazie a un giornalista tra il 2001 e il 2002, che dimostrava come dagli anni ‘70 era stata creata una “camera di compensazione” per rendere non tracciabili le transazioni finanziarie. «Clearstream serviva da piattaforma “legale” per le compensazioni inter-bancarie (attività perfettamente illegale) che offriva soluzioni mondiali per l’evasione fiscale e il riciclaggio di denaro». Finite nel nulla le prime inchieste giudiziarie avviate in Lussemburgo e in Francia. Seguì una seconda indagine francese, nota come “Clearstream 2”, che attorno alla costituzione di fondi neri dell’industria franco-tedesca della difesa, Eads, coinvolse il presidente Jacques Chirac e il ministro Dominique De Villepin, ma anche indirettamente il presidente Nicolas Sarkozy e numerosi membri dell’establishment francese, oltre a oligarchi russi e narcotrafficanti colombiani. Nel 2013 si concluse con l’assoluzione dei molti politici coinvolti e la condanna di alcuni alti dirigenti della Eads.Un’indagine parlamentare, diretta dall’ex ministro socialista Arnaud Montebourg (poi silurato da Hollande perché contrario al rigore della Troika) si è limitata alla pubblicazione di un rapporto sul riciclaggio, mentre un’indagine del Parlamento Europeo «ricevette l’incredibile risposta dell’allora commissario Frits Bolkestein che ritenne che “non vi erano ragioni di non credere alle autorità del Lussemburgo”». Nel 2006, continua Raffone, l’eurodeputato olandese Paul Van Buitenen, famoso per aver denunciato lo scandalo di corruzione che fece cadere la Commissione Santer, contestò a Barroso la presenza di Frits Bolkestein nella Commissione, visto che lo stesso era nel consiglio di amministrazione della Shell che aveva conti “occulti” con Clearstream. La risposta di Barroso? Burocraticamente evasiva, in pieno stile Ue: un altro lussemburgese, Jacques Santer, nel 1999 fu costretto a dimettersi da presidente della Commissione Europea per un caso di corruzione. Dal 2002, aggiunge Raffone, Clearstream è controllata al 100% da Deutsche Borse. E, insieme alla consorella Euroclear, che fu di Jp Morgan, è il secondo oligopolista mondiale come “depositario centrale internazionale”, cioè dove si trattano tutti gli eurobond e si opera la “clearence” delle transazioni, dai derivati ai conti bancari.Nel 2011, dopo 10 anni, Clearsteram ha perso tutte le cause contro Denis Robert, il giornalista che aveva reso nota la “lavanderia del Lussemburgo”. Clearstream è da sempre legalmente basata in Lussemburgo, continua Raffone, mentre Euroclear è in Belgio, dove dal 1973 risiede anche Swift, cioè il monopolista mondiale della rete di telecomunicazione per le relazioni finanziarie interbancarie, con oltre 9.000 istituzioni collegate in più di 209 paesi. «Coincidenze o il Benelux ha qualcosa di “speciale”?». Per Raffone, l’offensiva anti-Juncker coincide con la grave sconfitta di Obama nelle elezioni di midterm. E i finanziatori della Icij sono tutti anglosassoni, «ampiamente membri delle élites della mondializzazione e del “nuovo ordine mondiale”», mai teneri con l’Europa. Tra loro spiccano la Open Society Foundation (americana, legata a Soros), la Ford Foundation (americana, con collegamenti israeliani), la Adessium Foundation (famiglia Van Vliet, olandese naturalizzata americana e specializzata in asset management), il Sigrid Rausing Trust (famiglia di origine svedese proprietaria della Tetra Pack, basata nel Regno Unito), la David and Lucile Packard Foundation (la famiglia americana fondatrice di Hp), e poi Pew Charitable Trusts (americana, svolge attività di lobbying nel settore pubblico e possiede il terzo più influente think tank di Washington) e la Waterloo Foundation (britannica, impegnata nelle cause ambientaliste).Quanto allo scandalo attuale, che coinvolge «la reputazione e la credibilità di Jean-Claude Juncker nella sua nuova funzione di presidente della Commissione Europea», per Raffone bisogna partire dal passato recente di Juncker che, nel luglio 2013, dopo 18 anni da primo ministro del Lussemburgo, ha dovuto rassegnare le sue dimissioni in seguito allo scandalo delle “intercettazioni segrete” che, per sua negligenza e omesso controllo e vigilanza, i servizi segreti del Granducato avevano compiuto per alcuni anni. «I fatti dell’inchiesta riferiscono che tra il 2004 e il 2009, oltre alle 300 schede personali di politici e imprenditori e almeno 13.000 “fiches d’information” sui 500.000 abitanti, erano state eseguite violando tutte le leggi vigenti». Secondo il capo dei servizi lussemburghesi, durante la guerra fredda erano oltre 300.000 le “note d’ascolto” collezionate dall’agenzia statale. «Inoltre, sono emerse anche commistioni tra il mondo dell’intelligence lussemburghese, gli affari finanziari, il dipartimento delle imposte e alcune aziende che forniscono beni di lusso».Decisamente grave, per il leader di un paese fondatore dell’Ue. «Possibile che nessuno abbia trovato che già questo evento fosse sufficiente a far dubitare dell’onorabilità di Jean-Claude Juncker prima della sua recente elezione a capo della Commissione Europea?». Eppure era persona ben conosciuta, premier dal 1995 al 2013, poi ministro delle finanze, e infine (dal 2005 al 2013) primo presidente dell’Eurogruppo. «Nessuno sapeva? La spiegazione – afferma Raffone – è che a livello dell’Unione Europea vige la regola dell’omertà, che si cristallizza nella relazione incestuosa tra le alte burocrazie nazionali e le tecnocrazie europee». Pletoriche e tardive le proteste di politici come Gianni Pittella o del belga Guy Verohstadt, del gruppo Alde. Juncker dovrebbe “fare chiarezza” al Parlamento Europeo? «È una farsa che avrebbero potuto risparmiarci. Più dignitosa è stata la difesa d’ufficio del capogruppo Ppe, il tedesco Manfred Weber, che reclama “l’imparzialità” di Juncker.», mentre «la voce più chiara è stata quella di Marine Le Pen, del Fn francese, che ha chiesto le dimissioni incondizionate di Juncker e della sua Commissione».Strada senza uscita, scrive Raffone: se Juncker cade, crolla tutto. Ma se resta al suo posto, la credibilità delle istituzioni europee «sarà indecentemente rovinata». Ipotesi: «Un aiuto a quella creazione del “caos” che a certa parte dell’establishment americano, soprattutto dopo la vittoria dei repubblicani, fa molto comodo per “disciplinare” gli europei nell’alleanza transatlantica?». Scandaloso non è solo il regime fiscale del Lussemburgo, ma anche il fatto che Juncker, come premier, abbia concluso oltre 340 accordi con multinazionali perché la loro tassazione fosse inesistente oppure dell’1%. E ancor più grave, aggiunge Raffone, è che questi accordi fossero segreti. «Le solite società di auditing hanno fatto il resto. La patetica difesa della Pwc ricorda quella della blasonata Arthur Andersen quando nel 2007 esplose il caso della Aig americana, che portò alla chiusura di quella “casa di contabili”. Perché Juncker lo ha permesso? E per conto di chi?». Niente di nuovo, comunque: «Per qualsiasi piccolo investitore che cercasse di “ottimizzare” la propria tassazione, era ben noto che in Lussemburgo si potesse “triangolare” con estrema facilità e compiacenza del governo per fare schemi di elusione fiscale trans-europei, coinvolgendo società di comodo in Belgio, Olanda, Polonia, Germania, Italia, Spagna e Regno Unito, senza disdegnare la Svizzera e lo Stato americano del Delaware. Insomma, un gioco fai da te, disponibile anche su Internet».C’è da chiedersi perché la Germania abbia fatto la voce grossa con il principato del Liechtenstein – i famosi nomi trafugati dai servizi tedeschi – mentre sul “suo” Lussemburgo tace. Probabilmente, ipotizza Raffone, il Liechtenstein era uno specchietto per le allodole, mentre la “ciccia” era chiaramente nel Granducato. «Nella guerra finanziaria in corso tra il sistema angloamericano, che in Europa è rappresentato dalla City di Londra, e quello “Ost” rappresentato dalla Germania, per capirci tra Euroclear e Clearstream, questa volta i falchi anglosassoni hanno colpito l’Ue per punire la Germania». Quest’ultima è rea di pensare a un eventuale “Eurogruppo 2” e si è permessa di sfidare il Regno Unito, chiedendo che «decida subito cosa fare, se stare o meno nell’Ue». Detto fatto, reazione puntuale: «A farne le spese non sarà solo la Germania, ma tutti i paesi dell’Eurozona». Juncker? «E’ stato una pessima scelta anche per la Germania», che si è affidata a un politico iper-ricattabile da troppi poteri. Per esempio, gli americani: «Obama deve rabbonire i suoi falchi, ormai vincitori a casa sua. Quindi può avere una sola possibilità per farlo: la resa incondizionata e definitiva dell’Unione Europea all’egemone americano. Primo passo, la firma del Ttip prima del prossimo Consiglio Europeo di dicembre». Forse, conclude Raffone, Renzi e la Mogherini lo avevano intuito, e quindi sin da subito avevano dichiarato che «il Ttip non è solo un accordo commerciale, ma strategico, una scelta culturale».Imbarazzante, impresentabile, ricattabile. Cioè perfetto, per eseguire ordini senza discutere. E’ l’increscioso profilo del lussemburghese Jean-Claude Juncker, imposto dalla Germania alla guida della Commissione Europea. A tracciare il “nuovo” identikit di Juncker, massimo protettore europeo dell’evasione fiscale per i super-ricchi, è l’esplosivo dossier realizzato da Icij, consorzio internazionale di giornalisti basato negli Usa. In realtà, precisa Paolo Raffone, l’indagine svela una realtà già arcinota: da piccolo paese agricolo, il Lussemburgo si è trasformato in potenza finanziaria, collegata sia alla Svizzera sia alla corona britannica, e dagli anni ‘70 ha accomodato convenientemente gli interessi finanziari, con la massima discrezione, di Stati, imprese e facoltose famiglie. Semmai, l’offensiva anche mediatica contro l’indifendibile Juncker – a sua volta a capo di un’istituzione ormai famigerata come la Commissione Europea – può solo preludere a una stretta finale della finanza e delle multinazioni anglosassoni, che attraverso le loro potentissime lobby premeranno sul lussemburghese per ottenere la capitolazione dell’Europa di fronte al Ttip, il Trattato Transatlantico che metterebbe fine alla residua sovranità europea sulle merci e sulla tutela del suolo, della salute e della sicurezza alimentare.
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Barnard: fuga dai nostri bond, lo spread tornerà a ucciderci
Dai giorni di Monti, quando Berlusconi fu suicidato dalla Bce, abbiamo tutti visto lo spread e i tassi d’interesse che l’Italia paga sui suoi titoli di Stato abbassarsi man mano. E naturalmente tutti i buffoni del “Corriere” o del “Sole 24” ad attribuire il merito a Mario Macellaio-umano Monti, a Letta, alle riforme, a Renzi, all’Italia che obbedisce al rigore ecc. Pagliacciate, menzogne da conati. L’unico, e ripeto L’UNICO l’unico, motivo per cui lo spread è calato assieme agli interessi sui titoli di Stato in Italia (e altrove), sono state le dichiarazioni del defunto Draghi che promise ai Mercati di intervenire “senza limiti” (“whatever it takes”) per sostenere l’euro e il valore di qualsiasi titolo in euro. Quindi avrebbe fatto sortilegi come il Ltro, Omt, Tltro, Abs Purchases e, alla fine, un bel Quantitative Easing all’americana, il Qe! Ok, hanno detto gli investitori dei Mercati, se questa è la promessa ottima occasione: oggi compriamo un titolo Eurozona a 10, poi quando la Bce spara quelle cartucce il titolo ci va a 30 e ci facciamo su una fortuna!Ok, compriamoli, e tanti, subito, anche quelli italiani, a man bassa. E siccome la regola è che più si comprano titoli di Stato più si abbassano gli interessi che quello Stato ci paga sopra, allora abbiamo visto scendere lo spread e appunto gli interessi da pagare. La marmaglia di puzze parlamentari o governative italiane non HA NESSUN MERITO non ha nessun merito in questo, ZERO zero. Ma adesso arrivano quelli seri, i Veri Padroni – non le puzzette renziane alla Poletti e Padoan, Serra e scemi assortiti (inclusi i giornalisti) – ma Goldman Sachs e Morgan Stanley a pubblicare un rapporto dove semplicemente si dice che, mentre appunto fino a oggi il Mercato ha dato il lancio di Omt, Tltro, Abs Purchases e Qe (il regalino di Natale ai Mercati) come certo all’80-100%, per cui ci compravano i titoli di Stato a quintalate…… No signori, non sarà così per una bella serie di serissime ragioni (fra cui il “no” della Germania). Firmato Goldman Sachs e Morgan Stanley. Ops.E siccome hanno ragione, quando finalmente i Mercati capiranno che non ci sarà nessun regalino di Natale per la montagna di titoli di Stato italiani e spagnoli che stanno comprando, semplicemente li butteranno al cesso svendendoli come pazzi. E, siccome ho detto che la regola è che più si comprano titoli di Stato più si abbassano gli interessi che quello Stato ci paga sopra, vale anche la regola contraria: più si svendono titoli di Stato più SI ALZANO si alzano gli interessi che quello Stato ci paga sopra, e schizza su lo spread. Quindi, cari amici che siete tutti attenti alla popò di piccione dello Sblocca Italia, i Vampiri dello spread e dei tassi alle stelle torneranno e ci taglieranno la gola ancora. Disoccupazione, deficit negativo alle stelle, aziende a puttane, agenzie di rating che ci macellano ecc. ecc. Ma come sempre un boato gastrico di Grillo ci salverà. Per non dire gli 80 euro al mese. Knock, knock… is there anybody out there?(Paolo Barnard, “Lo spread tornerà e vi taglierà la gola”, dal blog di Barnard del 1° novembre 2014).Dai giorni di Monti, quando Berlusconi fu suicidato dalla Bce, abbiamo tutti visto lo spread e i tassi d’interesse che l’Italia paga sui suoi titoli di Stato abbassarsi man mano. E naturalmente tutti i buffoni del “Corriere” o del “Sole 24” ad attribuire il merito a Mario Macellaio-umano Monti, a Letta, alle riforme, a Renzi, all’Italia che obbedisce al rigore ecc. Pagliacciate, menzogne da conati. L’unico, e ripeto l’unico, motivo per cui lo spread è calato assieme agli interessi sui titoli di Stato in Italia (e altrove), sono state le dichiarazioni del defunto Draghi che promise ai Mercati di intervenire “senza limiti” (“whatever it takes”) per sostenere l’euro e il valore di qualsiasi titolo in euro. Quindi avrebbe fatto sortilegi come il Ltro, Omt, Tltro, Abs Purchases e, alla fine, un bel Quantitative Easing all’americana, il Qe! Ok, hanno detto gli investitori dei Mercati, se questa è la promessa ottima occasione: oggi compriamo un titolo Eurozona a 10, poi quando la Bce spara quelle cartucce il titolo ci va a 30 e ci facciamo su una fortuna!
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Cercasi leader che ci porti in salvo, lontano dall’euro
Cercasi politica per uscire dall’euro. Servirebbe un premier. Ci vorrebbe un governo dalla parte degli italiani, non asservito ai poteri forti tecno-finanziari, quelli che impongono il rigore, il suicidio a rate dello Stato, la privatizzazione di tutto. Moneta sovrana, unica arma per la ricostruzione dell’economia. Domanda: si può uscire dalla trappola dell’euro e dell’Europa a guida tedesca o saremo costretti a rimanere per sempre legati alle catene dell’Eurozona, cioè dell’euro-marco che affossa l’Italia? La risposta, ammette Enrico Grazzini, è squisitamente politica: «Dopo il dollaro, l’euro è la seconda valuta di riserva per le banche centrali di tutti i paesi del mondo e la sua rottura potrebbe provocare non solo la crisi della Ue ma una crisi geopolitica internazionale». Non a caso l’euro è sostenuto, in quanto valuta internazionale non competitiva nei confronti del dollaro, anche dall’amministrazione Obama. Peccato che, per noi europei, la moneta unica della Bce sia una autentica tragedia. L’ingresso nell’euro? «Un errore enorme e grossolano».Ormai è chiaro a tutti: l’ingresso dell’Italia nell’euro è stato «un escamotage inventato dalle classi dirigenti nazionali per tentare di vincolare l’economia italiana a quella europea, di riportare a bada l’inflazione e i sindacati, e di domare il lavoro e la spesa pubblica». Risultato: l’economia precipita, la comunità nazionale vacilla e gli Stati sono completamente in balia della speculazione internazionale, visto che non possono più emettere moneta e si finanziano solo attraverso la cessione di titoli di Stato, con la mediazione monopolistica del sistema bancario privato. «Purtroppo l’Unione Europea è ormai fondata soprattutto sulla moneta unica, sull’euro che divide», scrive Grazzini su “Micromega”. «E la Ue ha abbandonato ogni prospettiva di cooperazione e di benessere sociale». Diciamoci la verità: «Gli Stati Uniti d’Europa – invocati in Italia da un ampio ed eterogeneo schieramento, da Matteo Renzi a Giorgio Squinzi, da Nichi Vendola a Barbara Spinelli – sono solo una chimera, e sotto l’ombrello dell’euro-marco e dell’egemonia tedesca sarebbero comunque un vero e proprio incubo».Il problema, continua Grazzini, è che una moneta unica per 18 paesi estremamente diversi sul piano competitivo – inflazione, tecnologie, costo del lavoro – è un vero e proprio «insulto al buon senso». L’euro-marco? «E’ una moneta troppo forte e soprattutto troppo rigida, una moneta straniera, una trappola che provoca crisi non solo perché è scioccamente unica (e quindi rigida) ma perché è costruita su istituzioni e politiche monetarie intrinsecamente deflattive, modellate a somiglianza del marco e della Bundesbank». Così, la moneta unica nata dichiaratamente per unire l’Europa «è diventata lo strumento principe di una politica neo-coloniale che le élite finanziarie e industriali tedesche e dei paesi del nord Europa conducono per egemonizzare l’Europa». Impedendo le svalutazioni competitive ai paesi deboli e la rivalutazione monetaria dei paesi forti, la moneta della Bce ha favorito solo la Germania, che ha potuto esportare manufatti e capitali in tutti i paesi europei, indebolendoli e indebitandoli. Poi, i deficit commerciali dei paesi deboli hanno generato i debiti verso i paesi forti. E i paesi creditori dettano legge.I trattati europei imposti dalla Germania – da Maastricht in poi (Fiscal Compact, Six Pack, Two Pack) sono sempre più soffocanti. Più che governare, la Troika regna e scavalca i Parlamenti eletti. E’ un disegno neo-feudale, perfettamente realizzato, per moltiplificare i profitti dell’élite finanziaria al prezzo della devastazione dei sistemi economici, sociali e produttivi. Si va avanti a suon di diktat: via i diritti del lavoro, tagli al welfare, tassazione folle. E la democrazia è ormai un ricordo. «La Germania non abbandonerà queste politiche recessive e suicide – dice Grazzini – semplicemente perché le convengono e perché l’ideologia monetarista è connaturata alla Bundesbank». Niente illusioni: «Non ci sarà alcuna solidarietà o cooperazione europea, e nemmeno flessibilità. Con questo euro non usciremo dalla crisi, anche se la Bce ogni tanto concede un po’ di ossigeno per non soffocare del tutto la moribonda economia europea. La stagnazione-recessione potrebbe proseguire, provocando gravi crisi sociali fino a riportare l’Europa a un equilibrio economico assestato al livello più basso – con la rovina del welfare, del lavoro e dei paesi e delle regioni deboli – o potrebbe deflagrare in una nuova disastrosa crisi finanziaria europea e globale».Come uscire dalla trappola? Secondo Emiliano Brancaccio, dopo la svalutazione iniziale causata dall’abbandono dell’euro, i lavoratori potrebbero recuperare i loro salari in pochi anni. Addio Bce? «Cambierà tutto se la rottura dell’euro sarà in qualche maniera concordata con la Ue e con la Germania o se invece sarà del tutto unilaterale», sostiene Grazzini, «e se la mossa italiana avrà in qualche modo il consenso o anche solo la neutralità delle potenze globali o regionali extraeuropee, come gli Usa, la Cina, la Russia (e le grandi potenze private, le banche d’affari come Jp Morgan e Goldman Sachs e i fondi speculativi) o se invece le grandi potenze saranno contrarie». E’ chiaro che l’Italia, come potenza industriale e manifatturiera con vocazione esportatrice, «potrebbe più di altri paesi beneficiare dall’uscita dall’euro e dalla conseguente svalutazione della sua ritrovata moneta nazionale». Il momento sarebbe propizio: oggi il bilancio statale è in attivo e la bilancia commerciale è in sostanziale pareggio, quindi il nostro paese non avrebbe bisogno dell’aiuto di nessuno, né della Bce né della finanza internazionale.A pesare è l’ingombro del peso storico del deficit, «2300 miliardi di euro di debito pubblico verso l’estero». Oggi, in mancanza di moneta sovrana, lo si potrebbe finanziare solo «con le tasse dei cittadini o con i tagli di spesa», due strade che, come si vede, conducono nel vicolo cieco della depressione cronica. Tutto cambierebbe, invece, se si disponesse della nuova lira: «Senza il peso del debito pubblico verso l’estero – che è stato emesso secondo le leggi italiane e che quindi potrebbe essere riconvertito abbastanza facilmente e legalmente in moneta nazionale – non ci sarebbe bisogno di aumentare il deficit: e nessuno proporrebbe di aumentare le tasse o di tagliare selvaggiamente la spesa pubblica nazionale, che è minore della media europea», osserva Grazzini. Con la svalutazione della nuova lira, secondo Alberto Bagnai, l’economia diventerebbe più competitiva, gli investimenti e la produzione riprenderebbero, così come l’occupazione. Alla fine anche i redditi da lavoro aumenterebbero, dopo la svalutazione iniziale. «In questo senso, l’ipotesi di uscire unilateralmente dall’euro ristrutturando i debiti verso l’estero avrebbe un senso economico apparentemente positivo».In più, aggiunge Grazzini, «la svalutazione della lira non sarebbe una disgrazia o un fatto vergognoso, come molti economisti anche di sinistra ci dicono: infatti tutti i paesi – Usa, Giappone, Cina – stanno svalutando la loro moneta per recuperare competitività sul piano internazionale e crescita sul fronte nazionale». Quindi, «la svalutazione non è un peccato di cui vergognarsi: è solo un riallineamento dei prezzi verso l’estero». Secondo Grazzini, però, è sbagliato limitarsi al profilo economico e finanziario sottovalutando quello politico internazionale: «Nessun modello econometrico e quantitativo potrebbe stabilire che cosa succederà realmente se un paese come l’Italia, o anche solo un paese più piccolo come la Grecia, uscisse dell’euro». La moneta della Bce «rappresenta all’incirca un quarto delle valute di riserva mondiali, per un valore complessivo pari a oltre 2.000 miliardi, cioè al 25% del totale delle valute di riserva, mentre il dollaro è al 60% circa». Per questo, «molti Stati hanno un preminente interesse economico a salvaguardare l’euro», la cui drastica svalutazione o rottura comporterebbe «sconvolgimenti tellurici per quanto riguarda le riserve valutarie di Stati come Cina, Russia, Giappone, India e Brasile».Inoltre, agli Usa converrebbe «mantenere l’euro come moneta internazionale debole, cioè come improbabile alternativa al suo dollaro», cioè al dollaro che gli Stati Uniti possono «stampare all’infinito per pagare i loro debiti e comprare ciò che vogliono nel mondo». Vivecersa, sempre secondo Grazzini, Washington appoggerebbe la fine dell’euro per motivi geopolitici, «per esempio per punire la Germania e l’Europa se si avvicinassero troppo alla Russia». Purtroppo, però, la sensazione è che sia Wall Street che la Casa Bianca puntino sulla sopravvivenza dell’Eurozona, calcolando che l’euro impiegherà ancora qualche anno prima di completare la distruzione definitiva dell’economia europea. Pessime notizie, dunque, perché «l’euro non conviene all’Italia, né alle sue industrie, né alle sue banche, né ai lavoratori né al ceto medio, né al sud né al nord», sottolinea Grazzini. «E’ convenuto solo alle multinazionali finanziarie e industriali per eliminare i rischi di cambio. Ma ora è una gabbia anche per le imprese medio-grandi, perché impedisce la crescita».In più, una volta entrati nella moneta unica «è molto difficile uscirne senza danni e senza sofferenze, proprio perché l’euro è una valuta di riserva mondiale e non una moneta nazionale qualsiasi». Per Grazzini, una rottura unilaterale è rischiosa: «Se l’Italia si trovasse contro tutti gli Stati e tutta la finanza europea e mondiale, l’uscita unilaterale provocherebbe prevedibilmente una svalutazione a catena e un disastro nazionale (e globale) difficilmente valutabile e recuperabile». Peggio: «La tragedia è che attualmente non sembrano esserci via di uscita», perché «le scelte alternative sono comunque tragiche». Infatti, «se da una parte l’uscita unilaterale appare difficilmente proponibile, dall’altra – rimanendo nella prigione dell’euro-marco – la condizione europea e italiana peggiorerà a causa del Fiscal Compact». Questo sarebbe dunque il paradiso europeo profetizzato dai vari Prodi, Visco, Bassanini, Padoa-Schioppa. Non uno dei dirigenti decisivi del centrosinistra italiano, responsabile della consegna del paese alla sciagura dell’Eurozona, ha finora pronunciato una sola parola di autocritica.Se la politica tace, per Grazzini c’è solo da sperare nel blackout: «Prima o poi il sistema dell’euro-marco imploderà, perché è intrinsecamente insostenibile a causa della sua assoluta inefficienza economica e dei pesantissimi costi sociali e politici che comporta». Tutto è possibile, però: persino che l’euro «sopravviva con il sostegno della finanza internazionale», o che «gli Stati europei si adeguino alla rovina economica e alla subordinazione economica e politica imposte dall’egemonia tedesca». Difficile, però, che i paesi sopportino a lungo questa situazione: «Nonostante la stupefacente inettitudine di François Hollande, perfino una parte dei socialisti francesi – che certamente non brillano per acume e progressismo ma appaiono piuttosto propensi al suicidio elettorale – hanno cominciato a reagire dopo il successo travolgente dell’antieuro partito del Front National». Anche le potenze extraeuropee sono preoccupate del possibile contagio derivante dalla malattia europea, e la speculazione è sempre in agguato: prima o poi la finanza anglosassone «interverrà per trarre profitto dai conflitti tra i diversi Stati europei in modo da affossare la moneta unica».E’ certo che la crisi si prolungherà perché i paesi europei non crescono, la disoccupazione aumenta e i debiti pubblici continuano a crescere. Se poi i paesi del sud Europa – Francia e Italia – riuscissero ad allentare i vincoli imposti dalle regole Ue, allora la stessa Germania potrebbe abbandonare l’euro e ritornare al marco per difendere la forza della sua moneta. Secondo Grazzini, «la sinistra italiana ed europea dovrebbe battersi fin da ora per una rottura concordata dell’euro in modo da minimizzare i danni e permettere ai popoli e ai governi democraticamente eletti di perseguire una via di uscita dalla crisi». Ma forse Grazzini ha in mente una sinistra immaginaria: quella italiana ed europea è esattamente la forza che più di ogni altra ha collaborato al disegno eurocratico, antidemocratico e anti-sovranista. In Germania la riforma Harz contro i sindacati è stata condotta dalla Spd di Schroeder, in Gran Bretagna i lavoratori sono stati “sistemati” dai laburisti di Blair. E in Italia, liquidati i partiti della Prima Repubblica, le principali riforme strutturali contro il lavoro e la sovranità nazionale sono state progettate e realizzate da Ciampi, Prodi e D’Alema.Oggi, Grazzini riconosce che se si resta nell’euro si sprofonda nella crisi. E per uscire dalla moneta unica nel modo meno doloroso possibile è necessario «ricreare una banca centrale nazionale responsabile verso il governo e il Parlamento», una Banca d’Italia «in grado di sostenere una politica espansiva, ovvero di comprare i titoli del debito pubblico nazionale». Va ricordato che a disabilitare Bankitalia come “prestatore di ultima istanza” non fu certo il bieco Berlusconi, all’epoca non ancora “sceso in campo”, ma furono il governatore Carlo Azeglio Ciampi e il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta, esponente di quella sinistra Dc che mirava – insieme ai politici del futuro centrosinistra – a consegnare a Bruxelles la cassaforte del paese, per sottrarla alla nomenklatura dei Craxi, degli Andreotti e dei Forlani. A più di trent’anni dal “misfatto” del 1981, oggi si ammette che solo una banca centrale in grado di emettere moneta sovrana potrebbe finanziare il governo e gli investimenti produttivi, sostenere la spesa pubblica strategica, controllare i movimenti di capitali, convogliare il risparmio nazionale verso lo sviluppo del paese.Per Grazzini, «bisognerebbe copiare l’esperienza dei paesi emergenti, come Cina e Brasile, che mantengono vincoli forti sulla finanza e la valuta ma incentivano gli investimenti industriali esteri». E attenzione: «Bisognerebbe nazionalizzare – anche con difficili misure di prestito forzoso – il debito pubblico, in modo che la nazione sia indebitata quasi esclusivamente con se stessa (come il Giappone, che ha il più alto debito al mondo ma lo sostiene perché è debito interno)». Il problema maggiore, aggiunge Grazzini, verrebbe però dal debito privato pagabile solo in euro, e soprattutto dal debito estero delle grandi banche. Dunque, «occorrerebbe nazionalizzare le maggiori banche anche per rilanciare il credito verso le piccole e medie aziende». Di pari passo, «per proteggere i salari e gli stipendi e rilanciare la domanda interna bisognerebbe ripristinare meccanismi analoghi alla scala mobile e agganciare automaticamente i salari all’inflazione e alla crescita della produttività».Un percorso impervio, tenendo conto del personale politico italiano: partiti e leader sono stati completamente “colonizzati” dal capitale finanziario straniero, da cui dipende la protezione delle loro carriere. La parola chiave, dunque, è democrazia: solo nuove leve e nuovi politici, non ancora presenti sulla scena odierna, potrebbero progettare l’uscita dall’euro mettendo a punto innanzitutto una politica di alleanze internazionali, «non solo con gli altri paesi del sud Europa e la Francia, ma anche con le banche centrali dei paesi extraeuropei». Servirebbe anche «una moneta comune (ma non più unica, come l’euro) contro la speculazione internazionale», come l’euro-bancor proposto da Keynes «come moneta comune europea da fare valere verso il dollaro e le altre valute internazionali».Qualcuno lo vede, un governo italiano in grado di compiere questi difficili passi? «Non solo non esiste attualmente – ammette Grazzini – ma è molto dubbio che esisterà mai». Un governo anti-euro, cioè di salvezza nazionale, «dovrebbe avere un grande consenso sociale, la capacità di imporre sacrifici temporanei ai ceti medi e soprattutto vincoli stretti ai settori privilegiati. Dovrebbe essere autonomo dalle élite dei potenti e dall’alta finanza e avere l’appoggio di gran parte della società civile e dei sindacati». Abbiamo una sola certezza: così non si può andare avanti. «Non è possibile che le politiche economiche vengano decise a Berlino, Francoforte, Bruxelles e Washington. I governi nazionali, come quello di Matteo Renzi, agiscono sempre più sotto dettatura».Cercasi politica per uscire dall’euro. Servirebbe un premier. Ci vorrebbe un governo dalla parte degli italiani, non asservito ai poteri forti tecno-finanziari, quelli che impongono il rigore, il suicidio a rate dello Stato, la privatizzazione di tutto. Moneta sovrana, unica arma per la ricostruzione dell’economia. Domanda: si può uscire dalla trappola dell’euro e dell’Europa a guida tedesca o saremo costretti a rimanere per sempre legati alle catene dell’Eurozona, cioè dell’euro-marco che affossa l’Italia? La risposta, ammette Enrico Grazzini, è squisitamente politica: «Dopo il dollaro, l’euro è la seconda valuta di riserva per le banche centrali di tutti i paesi del mondo e la sua rottura potrebbe provocare non solo la crisi della Ue ma una crisi geopolitica internazionale». Non a caso l’euro è sostenuto, in quanto valuta internazionale non competitiva nei confronti del dollaro, anche dall’amministrazione Obama. Peccato che, per noi europei, la moneta unica della Bce sia una autentica tragedia. L’ingresso nell’euro? «Un errore enorme e grossolano».
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Ttip: nel regno di Cosmopolis, lo Stato sarà fuorilegge
«Di certo non torneremo indietro. Guarderemo crescere la soglia di povertà da una parte, mentre dall’altra alcuni di noi potranno anche arricchirsi, viaggiare in limousine, guardare il caos fuori dai loro vetri. E dentro, sulle proprie fronti, tutto l’individualismo e la solitudine della contemporaneità. Avranno capito che il lavoro è limitante come lo Stato che una volta lo garantiva. Il capitale, invece – quello poco umano e molto finanziario – dà più sicurezze di arricchimento, è più veloce, più flessibile, più adatto alla propria volontà di potenza». Secondo Nicolas Fabiano, più che gli economisti e i politici sono proprio i visionari, gli scrittori come il Don DeLillo di “Cosmopolis”, a capire meglio i possibili orizzonti dell’umanità. Il libro, illuminato dalla trasposizione cinematografica di David Cronenberg, racconta un giorno poco quotidiano nella vita di un giovane miliardario. Si attraversa il quartiere di una città americana a bordo di un’auto di lusso. Sullo sfondo, il caos: il crollo dei mercati finanziari, la disoccupazione, la soglia sempre più alta tra chi ha e chi non ha. Ci stiamo arrivando, dopo vent’anni di globalismo esasperato.L’accordo di Marrakech del 1994 segnò l’inizio di un nuovo viaggio per l’umanità, scrive Fabiano nel blog “L’Intellettuale Dissidente”, ricordando la nascita del Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio. Fine della guerra fredda e inizio del mondialismo. Dettaglio fondamentale: «Con il Wto in pratica si stabilivano regole “superiorem non recognoscens” rispetto a quelle degli Stati, l’inizio di una fase economica della politica: se una multinazionale americana riteneva la norma di un altro paese ostacolo per i propri prodotti, chiedeva al suo governo di porre la questione al tribunale del Wto». Una possibilità di pressione senza precedenti nella storia. Ma «c’era ancora una presenza, un vaglio dello Stato in questione, seppur assoggettato a un interesse privato qual è quello della multinazionale». Ora, vent’anni dopo, le norme “sfavorevoli al mercato” sono state per buona parte rimosse. «L’Occidente, piegato alla volontà del mercato, aveva fretta di coinvolgere nel Wto anche la Cina: e così, a partire dal 2001, abbiamo aperto la porta a più di un miliardo di persone. Ora ci stiamo accorgendo dei mali di quel vaso di Pandora che vorremmo tanto richiudere».La globalizzazione selvaggia, continua Fabiano, non ha solo provocato danni irreversibili alle politiche economiche degli Stati. Non sta soltanto erodendo il potere politico esercitato negli ultimi secoli dallo Stato nazionale. Proprio «per la sua vocazione internazionale ed esportatrice», la globalizzazione «sta formando dei vuoti di potere proprio nelle zone del mondo che non si vogliono assoggettare ad essa», come il Medio Oriente. E l’Europa, anziché fare retromarcia, «sta accelerando il mercatismo grazie alla “Transatlantic Trade and Investment Partnership”, il famigerato Ttip o Trattato Transatlantico per il commercio. Lo sta negoziando a porte chiuse «l’organo più elitario dell’Unione Europea, la Commissione», insieme alle maggiori lobby occidentali, al vertice della finanza (Jp Morgan, Goldman Sachs) e alle grandi corporations, come la Microsoft. E in arrivo il capitalismo terminale: le multinazionali potranno farsi giustizia da sole, piegando gli Stati al loro volere.Il Ttip infatti decreterà «la scomparsa del vaglio dello Stato su richiesta della multinazionale di turno». Con questo trattato, infatti, «le multinazionali potranno fare da sé, aggredendo con cause costosissime i paesi che cercano, o meglio cercavano, di fare protezionismo». Tutto questo ovviamente «avvantaggerà i colossi economici, a discapito dei territori dove sono vissute le piccole medie imprese, le stesse che nel secondo dopoguerra hanno generato benessere in un paese come per esempio il nostro, l’Italia». Ciò che più rammarica, aggiunge Fabiano, «è la totale sconfitta della politica, la quale non conterà più niente: infatti, con la nascita del Ttip vengono messe a repentaglio non solo famiglie e imprese, ma l’idea stessa di Stato. E questa volta in modo definitivo». Il passo successivo non lo conosce ancora nessuno. «Ma il neoliberismo, la recessione degli ultimi anni, l’ossessione politico-economica di mantenere a bada i prezzi fino alla deflazione a discapito dell’occupazione, i pronostici di quest’ultimo trattato tra Europa e America che ci dicono come il Pil avrà una crescita dello 0,01%, fanno presagire il peggio». Giorno per giorno, “Cosmopolis” si avvicina.«Di certo non torneremo indietro. Guarderemo crescere la soglia di povertà da una parte, mentre dall’altra alcuni di noi potranno anche arricchirsi, viaggiare in limousine, guardare il caos fuori dai loro vetri. E dentro, sulle proprie fronti, tutto l’individualismo e la solitudine della contemporaneità. Avranno capito che il lavoro è limitante come lo Stato che una volta lo garantiva. Il capitale, invece – quello poco umano e molto finanziario – dà più sicurezze di arricchimento, è più veloce, più flessibile, più adatto alla propria volontà di potenza». Secondo Nicolas Fabiano, più che gli economisti e i politici sono proprio i visionari, gli scrittori come il Don DeLillo di “Cosmopolis”, a capire meglio i possibili orizzonti dell’umanità. Il libro, illuminato dalla trasposizione cinematografica di David Cronenberg, racconta un giorno poco quotidiano nella vita di un giovane miliardario. Si attraversa il quartiere di una città americana a bordo di un’auto di lusso. Sullo sfondo, il caos: il crollo dei mercati finanziari, la disoccupazione, la soglia sempre più alta tra chi ha e chi non ha. Ci stiamo arrivando, dopo vent’anni di globalismo esasperato.
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Cremaschi: Jobs Act, l’atroce legge del regime in arrivo
Il governo Renzi concede alle imprese libertà di spionaggio sui dipendenti, con telecamere e quant’altro. E questa violazione elementare dei diritti della persona viene da quegli stessi politici che si indignano di fronte a intercettazioni telefoniche della magistratura che tocchino loro o le loro amicizie. Con il demansionamento si afferma la licenza di degradare il lavoratore dopo una vita di fatiche per migliorarsi. E questo lo sostengono coloro che ogni secondo sproloquiano sulla necessità di premiare il merito. Con la riforma degli ammortizzatori sociali si tagliano la cassa integrazione e l’indennità di disoccupazione e per il futuro le si dimensiona in rapporto alla anzianità di lavoro effettivo. Cioè i giovani e le donne prenderanno meno degli anziani maschi. E questo in nome di un modello sociale scandinavo sbandierato dagli estensori del Jobs Act per ignoranza o per pura menzogna. Infine si aggiunge agli altri contratti precari, che al di là delle chiacchiere restano e con i voucher si estendono, quello a “tutele crescenti” per i nuovi assunti.Costoro in realtà nella loro crescita non incontreranno mai più l’articolo 18, quindi il loro contratto a tempo indeterminato in realtà sarà finto, perché essi saranno licenziabili in qualsiasi momento. Un contratto a termine al minuto, una ipocrita beffa. L’articolo 18 resterà come patrimonio personale dei vecchi assunti, quindi non solo mano mano si ridurrà la platea di chi usufruisce di quel diritto, ma saranno la stesse imprese a essere poste in tentazione di accelerare il ricambio dei loro dipendenti. Perché tenersi il lavoratore che ha ancora la tutela dell’articolo 18, quando se ne può assumere uno senza, pagato un terzo in meno? Renzi non fa niente di nuovo, anzi applica il principio classico degli accordi di concertazione: il “doppio regime”. I diritti contrattuali, le retribuzioni, le condizioni di orario e le qualifiche, l’accesso alla pensione, son stati negli ultimi trenta anni ridotti per tutti, ma ai nuovi assunti venivano negati completamente, a quelli con più anzianità di lavoro invece un poco restavano.I diritti non potevano più essere trasmessi da una generazione all’altra, ma diventavano una sorta di rendita personale per le generazioni che abbandonavano il lavoro. Questi accordi, sottoscritti dai sindacati confederali e applauditi dagli innovatori ora fan di Renzi, hanno creato l’apartheid. Renzi stesso mente sapendo di mentire quando sostiene di voler abolire la disparità di diritti, invece tutti i suoi provvedimenti la rafforzano ed estendono. Il Jobs Act aggiunge ferocia a ferocia, non cambierà nulla nelle dimensioni della disoccupazione, anzi i disoccupati aumenteranno, come è avvenuto in Grecia e Spagna che hanno per prime seguito la via oggi percorsa dal governo. Il Jobs Act non risolverà uno solo dei problemi produttivi delle imprese, soprattutto di quelle più piccole che non hanno mai avuto l’articolo 18, ma che sono in crisi più delle grandi. E allora perché si fa?Perché come scrivevano il 5 agosto 2011 Draghi e Trichet e come aggiungeva nel 2013 la banca Morgan, la protezione costituzionale del lavoro è un lusso che l’Italia non può più permettersi. I padroni d’Europa e della finanza vogliono un lavoro low cost in una società low cost, e tutto ciò che si oppone a questo loro disegno va trattato come un nemico. Cgil, Cisl e Uil in questi anni han lasciato passare tutto, sono state di una passività che il presidente del consiglio Monti arrivò persino a vantare all’estero. Eppure a Renzi non basta ancora, per lui i sindacati devono generosamente suicidarsi per fare spazio al nuovo. E questa è la seconda vera ragione del Jobs Act e del fanatismo con cui viene sostenuto: il valore simbolico reazionario dell’attacco all’articolo 18, che Renzi fa proprio per mettersi a capo di un regime.Un regime che non è il fascismo del secolo scorso, ma è un sistema autoritario che nega la sostanza sociale della nostra Costituzione e riduce la democrazia ad una parvenza formale, fondata sul plebiscitarismo mediatico e sull’assenza di diritti veri. Il Jobs Act è parte di una restaurazione sociale e politica peggiore di quella della signora Thatcher, perché fatta trent’anni dopo. Una restaurazione con la quale si pensa di affrontare la crisi economica per rendere permanenti le politiche di austerità, che, secondo la signora Lagarde direttrice del Fondo Monetario Internazionale, in Europa non son neppure cominciate. Una restaurazione che nel paese del gattopardo richiede un ceto politico avventuriero disposto a interpretarla come il nuovo che avanza. Per questo il governo Renzi è il governo della menzogna e l’affermazione della verità è il primo atto di resistenza contro il regime che vuole costruire.(Giorgio Cremaschi, “Jobs Act, un manifesto della malafede”, da “Micromega” del 22 settembre 2014).Il governo Renzi concede alle imprese libertà di spionaggio sui dipendenti, con telecamere e quant’altro. E questa violazione elementare dei diritti della persona viene da quegli stessi politici che si indignano di fronte a intercettazioni telefoniche della magistratura che tocchino loro o le loro amicizie. Con il demansionamento si afferma la licenza di degradare il lavoratore dopo una vita di fatiche per migliorarsi. E questo lo sostengono coloro che ogni secondo sproloquiano sulla necessità di premiare il merito. Con la riforma degli ammortizzatori sociali si tagliano la cassa integrazione e l’indennità di disoccupazione e per il futuro le si dimensiona in rapporto alla anzianità di lavoro effettivo. Cioè i giovani e le donne prenderanno meno degli anziani maschi. E questo in nome di un modello sociale scandinavo sbandierato dagli estensori del Jobs Act per ignoranza o per pura menzogna. Infine si aggiunge agli altri contratti precari, che al di là delle chiacchiere restano e con i voucher si estendono, quello a “tutele crescenti” per i nuovi assunti.
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E Draghi si arrese a Keynes: lo Stato torni a spendere
Debito pubblico, spesa pubblica, deficit positivo. Tradotto: o lo Stato finanzia direttamente l’economia, o è la fine per tutti. Chi l’ha detto? John Maynard Keynes, ovviamente, il padre dell’economia democratica moderna. Ma la notizia bomba, rileva Paolo Barnard, è che la stessa identica verità l’ha finalmente ammessa l’uomo-simbolo dell’infinita austerity europea, il “signor no” per eccellenza, il massimo esponente della dottrina del rigore senza via di scampo: Mario Draghi, nientemeno. Una storica inversione di rotta, dice Barnard, esternata solo grazie a un cronista del “Wall Street Journal”: viceversa, «tutto questo non l’avremmo mai saputo, dai nostri quotidiani». La data “storica” è quella del 9 settembre, in cui Draghi ha presenziato all’Eurofi di Milano. Per dire, al giornalista statunitense, che – nonostante il dogma neoliberista ripetuto all’infinito, quello dell’autosufficienza del mercato – senza l’intervento dello Stato l’economia muore, come dimostra la crisi europea. «Mario, quanto ci hai messo! Ma come ci insegna il Figliol Prodigo… welcome fra noi».«Alla fine neppure lui ce l’ha fatta», scrive Barnard nel suo blog. Lui, Draghi, definito «’sto cadavere telecomandato dal neofeudalesimo e cresciuto a scudisciate neoliberiste», la scuola austriaca della destra economica europea, quella di Friedrich von Hayek (lasciare i poveri in miseria, aiutarli solo quel tanto che basta per evitare che la loro rabbia si trasformi in rivolta) e la dottrina iperliberista di Milton Friedman, altro nemico giurato dello Stato come fondamentale istituzione economica a guardia del benessere della comunità nazionale. Cattivi maestri, «da cui escono anche gli Alesina, Serra, Taddei, Boldrin o Giavazzi», vale a dire «gli unici tordi rimasti al mondo della serie “l’euro ha fatto tutto giusto, guai mollarlo”, cui seguono sbadigli e sghignazzi di Goldman Sachs, Jp Morgan, Krugman e altri principianti di questa sorta». Per una volta, il sovranista Barnard canta vittoria: «Draghi ha fatto outing, e si è strappato la camicia mostrando sul petto il tatuaggio di John Maynard Keynes. Ebbene sì!». L’ha fatto, aggiunge Barnard, perché ormai sconfitto dai numeri impietosi della recessione europea.Quello che di colpo sconfessa come un fallimento catastrofico dopo lunghi decenni di linea dura (e suicida), secondo Barnard è un Draghi «ormai fucilato alla schiena dalla Germania», che l’ha appena «bocciato a morte». Un Draghi «ormai sepolto da un’irrimediabile deflazione dell’Europa, cui non ha mezzi per rimediare». Un banchiere centrale «ormai umiliato come l’uomo che ha presidiato la distruzione di una civiltà economica». E a quanto pare si arrende all’evidenza, «senza più mezzi per fare nulla». Così, ha improvvisamente abbracciato Keynes, e insieme al grande economista inglese anche «la Mosler Economics, che è Keynes adattato al terzo millennio». Infatti, a Milano, Mario Draghi ha ammesso che «i governi devono agire con forza per incoraggiare gli investimenti, includendo garanzie di Stato per le piccole e medie imprese», riassume Barnard. «E, quando i conti glielo permettono, i governi devono spendere soldi di Stato», checché ne pensino i liberisti alla Giavazzi.Inoltre, aggiunge Barnard citando Draghi, «solo se le politiche monetarie saranno affiancate da politiche strutturali e da politiche economiche di spesa di Stato, vedremo gli investimenti tornare in Ue», perché la Bce «non può fare tutto da sola». E’ esattamente quanto affermano Barnard e gli attivisti della Mmt, la Modern Money Theory sintetizzata dallo statunitense Warren Mosler: «Senza politiche economiche di spesa di Stato, la politica monetaria non può fare niente». Da almeno trent’anni, agitando lo spauracchio dell’inflazione, il super-potere dell’élite economica europea ha imposto, attraverso la finanza e la tecnocrazia di Bruxelles, l’amputazione progressiva dello Stato, a cui è stato tolto il potere di sostenere l’economia. Oggi, di fronte allo sfacelo dell’Europa, persino Draghi alza bandiera bianca. Meglio tardi che mai, dice Barnard, sostenitore del ritorno alla sovranità monetaria come unica possibilità di risollevare l’economia, ripristinando l’interesse pubblico e la capacità di investimenti strategici mediante iniezioni di denaro: non alle banche ma all’economia reale, puntando alla piena occupazione.Debito pubblico, spesa pubblica, deficit positivo. Tradotto: o lo Stato finanzia direttamente l’economia, o è la fine per tutti. Chi l’ha detto? John Maynard Keynes, ovviamente, il padre dell’economia democratica moderna. Ma la notizia bomba, rileva Paolo Barnard, è che la stessa identica verità l’ha finalmente ammessa l’uomo-simbolo dell’infinita austerity europea, il “signor no” per eccellenza, il massimo esponente della dottrina del rigore senza via di scampo: Mario Draghi, nientemeno. Una storica inversione di rotta, dice Barnard, esternata solo grazie a un cronista del “Wall Street Journal”: viceversa, «tutto questo non l’avremmo mai saputo, dai nostri quotidiani». La data “storica” è quella del 9 settembre, in cui Draghi ha presenziato all’Eurofi di Milano. Per dire, al giornalista statunitense, che – nonostante il dogma neoliberista ripetuto all’infinito, quello dell’autosufficienza del mercato – senza l’intervento dello Stato l’economia muore, come dimostra la crisi europea. «Mario, quanto ci hai messo! Ma come ci insegna il Figliol Prodigo… welcome fra noi».
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Merkel, bugie e orrori Ue. E gli italiani? Non pervenuti
I governi Berlusconi, Monti, Letta, Renzi saranno ricordati come quelli che hanno dimostrato la maggiore incapacità nel governare l’economia in un periodo di crisi. I dati sono impietosi. Dal 2009 ad oggi il Pil è calato di dieci punti. Qualcosa come 160 miliardi sottratti ogni anno all’economia. L’industria ha perso un quarto della sua capacità produttiva. La produzione di autovetture sul territorio nazionale è diminuita del 65%. L’indicatore più scandaloso dello stato dell’economia, quello della disoccupazione, insieme con quelli relativi alla immensa diffusione del lavoro precario, ha raggiunto livelli mai visti. La scuola e l’università sono in condizioni vergognose. Sei milioni di italiani vivono sotto la soglia della povertà assoluta, il che significa che non sono in grado di acquistare nemmeno i beni e i servizi di base necessari per una vita dignitosa. Il rapporto debito pubblico-Pil sta viaggiando verso il 140%, visto che il primo ha superato i 2.100 miliardi.Questo fa apparire i ministri che si rallegrano perché nel corso dell’anno saranno di sicuro trovati tre o quattro miliardi per ridurre il debito dei tristi buontemponi. Ultimo tocco per completare il quadro del disastro, l’Italia sarà l’unico paese al mondo in cui la compagnia di bandiera ha i colori nazionali dipinti sulle ali, ma chi la comanda è un partner straniero. Si possono formulare varie ipotesi circa le origini del disastro. La più nota è quella avanzata da centinaia di economisti europei e americani sin dai primi anni del decennio. È un grave errore, essi insistono, prescrivere al cavallo maggiori dosi della stessa medicina quando è evidente che ad ogni dose il cavallo peggiora. La medicina è quella che si compendia nelle politiche di austerità, richieste da Bruxelles e praticate con particolare ottusità dai governi italiani. Essa richiede che si debba tagliare anzitutto la spesa pubblica: in fondo, a che cosa servono le maestre d’asilo, i pompieri, le infermiere, i ricercatori universitari? In secondo luogo bisogna privatizzare il maggior numero possibile di beni pubblici.Il privato, dicono i medici dell’austerità, è sempre in grado di gestire qualsiasi attività con superiore efficienza: vedi, per dire, i casi Ilva, Alitalia, Telecom. Infine è necessario comprimere all’osso il costo del lavoro, rendendo licenziabile su due piedi qualunque tipo di lavoratore. I disoccupati in fila ai cancelli sono molto più disposti ad accettare qualsiasi lavoro, a qualsiasi condizione, se sanno che al minimo sgarro dalla disciplina aziendale saranno buttati fuori come stracci. Altro che articolo 18. Nell’insieme la diagnosi appare convincente. Le politiche di austerità sono un distillato delle teorie economiche neoliberali, una macchina concettuale tecnicamente agguerrita quanto politicamente misera, elaborata dagli anni 80 in poi per dimostrare che la democrazia non è che una funzione dell’economia. La prima deve essere limitata onde assicurare la massima espansione della libertà di mercato (prima di Draghi, lo hanno detto senza batter ciglio Lagarde, Merkel e perfino una grande banca, Jp Morgan).La mente e la prassi di tutto il personale che ha concorso a governare l’economia italiana negli ultimi anni è dominata sino al midollo da questa sofisticata quanto grossolana ideologia; non c’è quindi da stupirsi che essa abbia condotto il paese al disastro. Domanda: come mai, posto che tutti i governanti europei decantano e praticano i vantaggi delle politiche dell’austerità, molti dei loro paesi se la passano meglio dell’Italia? La risposta è semplice: perché al di sotto delle coperture ideologiche che adottano in pubblico, le iniziative che essi prendono derivano piuttosto da una analisi spregiudicata delle reali origini della crisi nella Ue. In Italia, non si è mai sentito un membro dei quattro “governi del disastro” proporre qualcosa di simile a una tale analisi, con la conseguenza che oltre a praticare ciecamente le politiche neoliberali, i nostri governanti ci credono pure. Facendo di loro il personale politico più incompetente della Ue.Si prenda il caso Germania; non a caso, perché la Germania è al tempo stesso il maggior peccatore economico d’Europa (copyright Flassbeck), e quello cui è meglio riuscito a far apparire virtuoso se stesso e peccatori tutti gli altri. Il motivo del successo tedesco è noto: un’eccedenza dell’export sull’import che col tempo ha toccato i 200 miliardi l’anno. Poco meno di due terzi di tale somma è dovuta ad acquisti da parte di altri paese Ue. Prodigio della tecnologia tedesca? Nemmeno per sogno. Prodigio, piuttosto, della formula “vai in malora te e il tuo vicino” (copyright Lapavitsas) ferreamente applicata dalla Germania a tutti i paesi Ue. Grazie alle “riforme” dell’Agenda 2010, dalla fine degli anni ‘90 i lavoratori tedeschi non hanno visto un euro in più affluire ai loro salari; il considerevole aumento complessivo della produttività verificatosi nello stesso periodo si è tradotto per intero nella riduzione dei prezzi all’esportazione.In un regime di cambi fissi come quello imposto dall’euro, questo meccanismo ha trasformato la Germania in un paese a forte surplus delle partite correnti e tutti gli altri paesi dell’Eurozona in paesi deficitari. Ha voglia la cancelliera Merkel di decantare le virtù della “casalinga dello Schlewig-Holstein”, che spende soltanto quel che incassa e non fa mai debiti. La virtù vera dei tedeschi è consistita, comprimendo i salari interni per favorire le esportazioni, nel diventare l’altezzoso creditore d’Europa, mettendo in fila tutti gli altri paesi come debitori spreconi. È vero che negli incontri ufficiali è giocoforza che ognuno parli la neolingua del regime neoliberale che domina la Ue. Invece negli incontri dove si decidono le cose serie bisognerebbe chiedere ai governanti tedeschi che anziché della favola della casalinga si discuta magari delle politiche del lavoro – quelle tedesche – che hanno disastrato la Ue. Potrebbe essere utile quanto meno per condurre trattative per noi meno jugulatorie. Tuttavia per fare ciò bisogna avere una nozione realistica della crisi, e non è chiaro se esiste un solo governante italiano che la possegga.Nei discorsi con cui verso metà agosto Matteo Renzi ha occupato gran parte delle reti tv, si è profuso in richiami alla necessità di guardare con coraggio alla crisi, di non lasciarsi prendere dalla sfiducia, di contare sulle risorse profonde del paese. Sarà un caso, o uno spin doctor un po’ più colto, ma questi accorati richiami alla fibra morale dei cittadini ricordano il discorso inaugurale con cui Franklin Delano Roosevelt inaugurò la sua presidenza nel marzo 1933. In Usa le conseguenze furono straordinarie. Ma non soltanto perché i cittadini furono rianimati di colpo dalle parole del presidente. Bensì perché nel giro di poche settimane Roosevelt creò tre agenzie per l’occupazione che in pochi mesi diedero un lavoro a quattro milioni di disoccupati, e attuò la più grande ed efficace riforma del sistema bancario che si sia mai vista in Occidente, la legge Glass-Steagall. Ci faccia vedere qualcosa di simile, Matteo Renzi, in tempi analoghi, e cominceremo a pensare che il suo governo potrebbe anche risultare meno disastroso di quanto oggi non sembri.(Luciano Gallino, “Quattro anni sprecati”, da “La Repubblica” del 19 agosto 2014, ripreso da “Megachip”).I governi Berlusconi, Monti, Letta, Renzi saranno ricordati come quelli che hanno dimostrato la maggiore incapacità nel governare l’economia in un periodo di crisi. I dati sono impietosi. Dal 2009 ad oggi il Pil è calato di dieci punti. Qualcosa come 160 miliardi sottratti ogni anno all’economia. L’industria ha perso un quarto della sua capacità produttiva. La produzione di autovetture sul territorio nazionale è diminuita del 65%. L’indicatore più scandaloso dello stato dell’economia, quello della disoccupazione, insieme con quelli relativi alla immensa diffusione del lavoro precario, ha raggiunto livelli mai visti. La scuola e l’università sono in condizioni vergognose. Sei milioni di italiani vivono sotto la soglia della povertà assoluta, il che significa che non sono in grado di acquistare nemmeno i beni e i servizi di base necessari per una vita dignitosa. Il rapporto debito pubblico-Pil sta viaggiando verso il 140%, visto che il primo ha superato i 2.100 miliardi.
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L’agenda del governo? Scritta dall’ambasciata Usa
Cari elettori italiani, sapevate che il programma di governo – qualsiasi governo – lo scrive direttamente l’ambasciatore Usa a Roma? Fateci caso: l’attuale politica economica di Renzi – rottamare lo Stato e svendere l’Italia – è esattamente quanto richiesto dall’“amico americano”. «Quando, allevato, sostenuto e finanziato, si ritenne Renzi pronto, scattò l’operazione “Renzi al governo”», scrive Stefano Ali. «Goldman Sachs, McKinsey, Morgan Stanley, Ubs e perfino la nostrana Unicredit si sperticarono in “endorsement”». È noto il caso Ubs che, in un report per l’Eurozona nel gennaio 2014 individuava già Renzi quale capo del governo. «È evidente che un report di quel genere non potesse essere prodotto in una settimana: erano già mesi, quindi, che Renzi era il capo del governo predestinato. Sulle stesse “primarie” (tanto discusse sotto l’aspetto della trasparenza) si allunga l’ombra di una sovra-organizzazione a sostegno di Renzi. L’ultima spinta a Napolitano venne data con lo “scandalo Friedman”: a proposito, ne avete mai più sentito parlare, dopo l’incarico a Renzi?».Col “rottamatore”, scrive Ali in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, gli Usa «hanno costruito lo strumento finale: il rottamatore ha definitivamente rottamato la sinistra italiana, oltre che impegnarsi strenuamente nel rottamare la democrazia». E’ una vicenda che parte da lontano. Per la precisione dal 2008, quando si arena il secondo governo Prodi e Veltroni fonda il Pd. A parlare sono due cablo di “Wikileaks”, che si riferiscono alle imminenti elezioni italiane. L’8 aprile, l’ambasciatore Ronald Spogli riferisce a Washington che «Berlusconi e Veltroni hanno fatto una campagna elettorale noiosa», dominata «dalle loro personalità» ma «non dalle proposte politiche». I programmi? Identici: «Entrambi promettendo tagli alle spese governative, aumento delle pensioni, abbassamento delle tasse e taglio alla burocrazia per le imprese». La stampa italiana? Nebbia: «Si è focalizzata sulle discussioni circa l’organizzazione elettorale e i commenti volgari del frequentemente volgare alleato di Berlusconi, Umberto Bossi». Il peggio, però, arriva col secondo “cablo”, l’11 aprile: dovendo proprio scegliere, gli Usa preferirebbero Vetroni, più pronto a eseguire gli ordini di Washington.«E’ un vero e proprio programma di governo», annota Ali, «con tanto di indicazione sui ministri». Le elezioni, scrive Spogli, «ci daranno l’opportunità di spingere il nostro programma con rinnovato vigore», dopo mesi di crisi e il fastidio rappresentato da Rifondazione Comunista, spina nel fianco dell’esecutivo Prodi. «Se le nostre relazioni con il governo Prodi erano buone, le nostre relazioni con il prossimo governo promettono ancora meglio. Forse molto meglio», scrive Ronald Spogli. «Si può anticipare che faremo progressi sul programma, se dovesse vincere a sorpresa Veltroni, ed eccellenti progressi se Berlusconi tornasse al potere». Molto esplicito, l’ambasciatore: «A prescindere da chi vince, ci incontreremo con i probabili membri del nuovo governo appena possibile dopo le elezioni, durante il periodo di formazione del governo in aprile e nei primi giorni di maggio per marcare le nostre priorità politiche chiave e la direzione che ci piacerebbe prendesse la politica italiana. Ci piacerebbe che esponenti del governo Usa venissero per far pressioni sul programma, incluso il periodo tra le elezioni e l’insediamento del nuovo governo».In particolare, Spogli vorrebbe «sollevare le questioni» relative al “tono delle relazioni”, all’Iran, all’Afganistan, alla sicurezza energetica e quindi la Russia, e poi l’Iraq, il “processo di pace” in Medio Oriente, gli sviluppi in Libano e Siria, le basi militari Usa in Italia. E infine «competitività economica, assistenza estera, cambiamenti climatici e leggi di rafforzamento della cooperazione» tra Roma e Washington. Ma l’ambasciatore Spogli non si ferma qui: per ciascuna voce redige un dettagliato piano di intervento. Riguardo al “miglioramento delle relazioni”, ad esempio, scrive: «Sebbene il governo Prodi abbia seguito le politiche che supportiamo, sentiva il bisogno di fare gratuite dichiarazioni anti-americane per puntellare la componente di estrema sinistra. Tali commenti distraevano da discussioni importanti come il Medio Oriente, i Balcani e l’Iran. Anche se entrambi i leader candidati alle elezioni sono pro-America, dovremmo comunque incoraggiare il nuovo governo a riconoscere che i toni hanno importanza, nelle relazioni bilaterali». Meglio quindi «esercitare la disciplina, per evitare retorica inutile». Politici italiani: attenti a come parlate,A Ronald Spogli, già nel 2008, premeva che l’Italia prendesse le distanze dalla Russia in materia di energia: «Incoraggeremo il nuovo governo italiano a impostare come prioritaria la formulazione di una politica energetica nazionale che affronti realisticamente il crescente fabbisogno energetico e la preoccupante dipendenza dalla Russia». Consigli per gli acquisti: «Energia nucleare e energie rinnovabili dovrebbero fare parte del piano. L’Italia dovrebbe esercitare leadership a livello europeo, spingendo per una politica energetica che si occupi dell’estremamente preoccupante dipendenza dalla Russia». È un caso, si domanda Ali, se dopo vent’anni Berlusconi rispolverò l’energia nucleare? Spogli insiste: «Suggeriremo di usare l’influenza che promana dalla comproprietà del governo italiano in Eni per fermare la compagnia dall’essere la punta di lancia di Gazprom. Questo probabilmente richiederà una nuova leadership in Eni». Spogli conta ovviamente sull’Italia anche per la gestione americana del conflitto israelo-palestinese. E, ancora sull’energia, aggiunge: «Quando ci occuperemo di negoziare accordi vincolanti e avremo bisogno che l’Ue scenda a compromessi per arrivare a un accordo che sia accettabile per il Congresso Usa, avremo bisogno di un interlocutore affidabile nel governo italiano che comprenda le ragioni dell’economia, oltre che quelle dell’ambiente».Scontati, dice Ali, i diktat americani sulla politica estera – il comportamento italiano rispetto a Iran e Iraq, Russia e Afghanistan, nonché il “disappunto” che avrebbe creato il ritiro delle forze italiane dalle “missioni di pace”. Rivelatore, il cuore del “cablo” dell’11 aprile 2008: Berlusconi o Veltroni, l’Italia avrebbe fatto le medesime scelte, dettate dagli Usa. Cosa accadde dopo? Lo sappiamo: Berlusconi venne «accusato di troppe cose», tra cui «pedofilia, corruzione, evasione fiscale, collusioni con la mafia», tutte accuse che in Usa avrebbero determinato la fine di qualsiasi uomo politico. «Troppo, perché gli Usa continuassero a considerare Berlusconi un alleato fidato, perfino se a capo di un paese rammollito e corrotto come l’Italia». Per cacciarlo non bastarono le pressioni degli ex alleati che lo mollarono, da Casini a Fini. A metterlo da parte ci volle «la tempesta sui titoli Mediaset del 2011». Dopodiché, come da copione, seguirono Monti e Letta: «Tutte persone di “provata fede” filo-americana». Nel frattempo, «cresceva in provetta l’esperimento finale: Renzi, con la sua rete di amicizie particolari in Usa e in Israele (Carrai, Serra, Gutgeld, Bernabè, Kerry e, sopra tutti, Michael Ledeen)».Riposi in pace, conclude Stefano Ali, «chi rimane convinto di essere di sinistra e non si accorge che la politica di riferimento è ben più di destra perfino rispetto a quella di Berlusconi». A parlare sono i fatti. E chi ancora si crede di sinistra «non riesce ad accettare di essere li a supportare – suo malgrado e contro la sua volontà cosciente – una politica liberista e imperialista». A nulla vale far presente che questa “sinistra” ha ammainato tutte le “bandiere” della sinistra per sostituirle con quelle un tempo sventolate dall’estrema destra: non più la Dc (che, nella sua mastodontica struttura correntizia, compensava al suo interno destra, sinistra e centro per far emergere una linea tutto sommato moderatamente popolare), ma il vecchio Partito Liberale Italiano e il vecchio Movimento Sociale Italiano». Berlusconi e il Pd non erano rivali nemmeno del 2008, come conferma l’ambasciatore Spogli. Amara conclusione: «Chi si ritiene di sinistra prenda atto che una agenda politica redatta fin nei dettagli dall’ambasciata Usa non è esattamente il programma di un governo di sinistra. Rassegnatevi, la vostra sinistra oggi è questa».Cari elettori italiani, sapevate che il programma di governo – qualsiasi governo – lo scrive direttamente l’ambasciatore Usa a Roma? Fateci caso: l’attuale politica economica di Renzi – rottamare lo Stato e svendere l’Italia – è esattamente quanto richiesto dall’“amico americano”. «Quando, allevato, sostenuto e finanziato, si ritenne Renzi pronto, scattò l’operazione “Renzi al governo”», scrive Stefano Ali. «Goldman Sachs, McKinsey, Morgan Stanley, Ubs e perfino la nostrana Unicredit si sperticarono in “endorsement”». È noto il caso Ubs che, in un report per l’Eurozona nel gennaio 2014 individuava già Renzi quale capo del governo. «È evidente che un report di quel genere non potesse essere prodotto in una settimana: erano già mesi, quindi, che Renzi era il capo del governo predestinato. Sulle stesse “primarie” (tanto discusse sotto l’aspetto della trasparenza) si allunga l’ombra di una sovra-organizzazione a sostegno di Renzi. L’ultima spinta a Napolitano venne data con lo “scandalo Friedman”: a proposito, ne avete mai più sentito parlare, dopo l’incarico a Renzi?».
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Ledeen, l’amico americano che tiene al guinzaglio il Pd
Se ieri le nostre piazze saltavano in aria perché l’Italia era lo scudo occidentale contro il comunismo sovietico, e si doveva impedire a tutti i costi che il Pci di Berlinguer andasse al governo con Moro, oggi la situazione dello Stivale è persino peggiorata, dato il progressivo esaurimento delle risorse fossili. Questo spiega l’instabilità sul fronte est (lo scontro tra Usa e Russia in Ucraina) e quella sul fronte sud (il massacro di Gaza, motivato anche dall’enorme giacimento di gas, il “Leviatano”, nelle acque palestinesi). «Gli interessi geopolitici del “Gruppo di Georgetown” e del Mossad, quindi, sono identici», sostiene Stefano Ali, mentre «gli interessi economici e militari della destra conservatrice e interventista Usa in Italia sono sensibilmente incrementati», come dimostra l’installazione del Muos a Niscemi o anche l’insistenza sull’acquisto dei disastrosi F-35. «Continuiamo ad essere un paese anomalo, servo della Nato e solo apparentemente democratico, ad opera degli stessi spettri del passato». Da Kissinger a Renzi, passando per Michael Ledeen, indicato come consigliere-ombra del giovane premier per la politica estera.In un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, Ali evoca una lobby come il “Gruppo di Georgetown”, capitanato da quel Kissinger che definì Napolitano «il mio comunista preferito», corretto immediatamente da Napolitano (ex comunista, prego). «E Renzi. Matteo Renzi con la sua rete di amicizie internazionali, attraverso Marco Carrai. Davide Serra (con forti interessi in Israele e che porta in dote i legami con la Morgan Stanley), Marco Bernabè (sempre con Tel Aviv con il fondo Wadi Ventures e il padre, Franco, e le sue dorsali telefoniche Italia-Israele), Yoram Gutgeld (israeliano e suo consulente economico – porta in anche dote l’esperienza McKinsey di cui era socio anziano fino al marzo 2013)». Ma sopratutto Ledeen, cioè «la figura più inquietante», che «si allunga dietro tutte le stragi, tutti i depistaggi che hanno attraversato l’Italia e non solo». L’ammiraglio Fulvio Martini, all’epoca capo del Sismi, lo definì «non gradito all’Italia». Ledeen, racconta Ali, fu «sdoganato da Berlusconi appena giunto al potere», e così «imperversò nelle sue televisioni sotto la forma di “commentatore politico internazionale”».Secondo Ali, Ledeen è stato in grado di «ordinare a Matteo Renzi» la cessione degli aeroporti toscani al magnate argentino Eduardo Eurnekian. Secondo il blogger, «Henry Kissinger, Michael Ledeen e le strutture israeliane sono di nuovo (e da sempre) i padroni della scena». C’è chi dice che il Pd è la nuova Dc? Peggio: il partito fondato da Veltroni «ha ormai da tempo tradito le origini, ma con il binomio Renzi-Napolitano è diventato l’antitesi della storia della sinistra». Secondo Stefano Ali, «è l’erede di tutto quel fronte anticomunista che si asservì e asservì l’Italia alla destra conservatrice Usa di Kissinger e Ledeen e del Mossad». Il “muro di gomma” delle stragi impunite? Frutto del blocco di potere «“garante” della subalternità e della sottomissione dello Stato italiano agli interessi del “Gruppo di Georgetown”». Linea diretta coi rottamatori? «Per le referenze su Federica Mogherini, Renzi dice: “Chiedete a John Kerry”». L’esponente Pd fu «ammessa agli incontri segreti con agenti Usa sin dal 2006», scrive Ali, che illumina il retroterra del presunto potere occulto di ieri e di oggi basandosi anche sul testimonianze come quelle del senatore Giovanni Pellegrino, fino al 2001 presidente della Commissione Stragi, autore del libro-denuncia “Segreto di Stato”.«Ciò che può sembrare intreccio di fantascienza complottistica è solo il frutto di un lavoro certosino fatto dalla Commissione Stragi», avverte Ali. «Teniamolo sempre a mente, anche quando sembra di precipitare nelle allucinazioni ansiogene». Nella sua analisi, Pellegrino parte da una premessa ancora attuale: l’Italia non è mai stata una democrazia “normale”, perché – dal Trattato di Yalta – è stata sempre considerata “marca di frontiera”, al doppio crocevia est-ovest e nord-sud. Sovranità limitata: «Una specie di portaerei Nato nel Mediterraneo». A questo, oltre alla pesante presenza del Vaticano, si aggiunga «una spaccatura verticale interna, determinata da post-fascismo e post-Resistenza», tra italiani «anticomunisti» e italiani «antifascisti». Tutta la storia del dopoguerra, secondo Pellegrino, va interpretata in quest’ottica. E’ per questo che certi fili non si spezzano: l’attuale capogruppo del Pd al Senato, Luigi Zanda, figlio dell’ex capo della polizia e allora giornalista dell’“Espresso”, secondo un report del Sisde risalente al lontano 1984 ebbe «rapporti molto stretti» con Ledeen, dopodiché fu promosso consigliere di amministrazione dell’“Editoriale L’Espresso” e ricoprì l’incarico di addetto stampa di Francesco Cossiga durante il sequestro Moro. Stefano Ali parla di connessioni sotterranee con la P2, che faceva da tramite col super-potere Usa, di cui il Mossad israeliano sarebbe stato un braccio operativo nella stagione della strategia della tensione, fra attentati e depistaggi.Se la stagione della guerra fredda aveva permesso lo sviluppo della cosiddetta “Gladio Rossa”, formata da “Lotta Continua”, “Potere Operaio” e le prime Brigate Rosse, fino cioè all’arresto di Curcio e Franceschini, «con la svolta parlamentare del Pci, l’isolamento di Secchia e soprattutto la morte di Feltrinelli», di fatto l’eversione “rossa” «si dissolse, per confluire nelle Brigate Rosse», che però finirono sotto il controllo di Mario Moretti, scampato alla retata che fruttò la cattura dei fondatori grazie a Silvano Girotto, in arte “Frate Mitra”, un classico infiltrato. Da quel momento, scrive Ali, al di là della facciata “di sinistra” delle Br di Moretti, «connotazione ideologica utilizzata solo per fomentare i militanti», i vertici delle strutture “eversive” passarono – tutti – sotto il controllo «degli ambienti della destra repubblicana Usa». Versione controversa: secondo altri analisti, rimase forte anche l’influenza dell’Urss, attraverso la Stasi, l’intelligence della Germania Est. L’Italia, in ogni caso, era un campo di battaglia. E gli attori – sulla sponda occidentale – sono ormai noti. La notizia? Un vecchio arnese come Ledeen, molto «vicino» a Zanda in quegli anni secondo il Sisde, è un super-consigliere di Renzi.«Mossad e destra repubblicana Usa – continua Ali – erano già riusciti a instaurare (in Grecia, Spagna e Portogallo) regimi fascisti». Le stragi italiane, fino al 1969 dovevano quindi servire «affinché, nel dicembre del 1969, Mariano Rumor dichiarasse lo “stato d’emergenza” che ne consentisse l’instaurazione anche in Italia». Rumor, però, non dichiarò lo stato d’emergenza. E il tentato “golpe Borghese” del 1970 fu l’ultimo tentativo, anche quello andato a vuoto. «Da notare che già dagli anni ‘60 la P2 di Gelli era molto attiva: con la sua rete di iscritti soprattutto nelle forze armate e nei servizi segreti, era nelle condizioni di garantire tutta la copertura necessaria». Secondo Ali, da vari documenti risulta che Kissinger e Ledeen «fossero iscritti alla P2 nel “Comitato di Montecarlo” (o “Superloggia”)», un “braccio” della P2 «che si occupava di traffico internazionale di armi e al quale venne fatta risalire in modo diretto l’organizzazione della strage di Bologna». Se Gelli era «solo una sorta di segretario», significa che «le “menti” stavano altrove». Il vero leader? Rimasto nell’ombra, fino ad oggi. In compenso, conclude Ali, molti nomi di allora sono rimasti al loro posto. E qualcuno, oggi, è vicinissimo al governo Renzi. Pronti a tutto, nel caso gli eventi precipitassero in Ucraina con l’offensiva Usa contro la Russia di Putin?Se ieri le nostre piazze saltavano in aria perché l’Italia era lo scudo occidentale contro il comunismo sovietico, e si doveva impedire a tutti i costi che il Pci di Berlinguer andasse al governo con Moro, oggi la situazione dello Stivale è persino peggiorata, dato il progressivo esaurimento delle risorse fossili. Questo spiega l’instabilità sul fronte est (lo scontro tra Usa e Russia in Ucraina) e quella sul fronte sud (il massacro di Gaza, motivato anche dall’enorme giacimento di gas, il “Leviatano”, nelle acque palestinesi). «Gli interessi geopolitici del “Gruppo di Georgetown” e del Mossad, quindi, sono identici», sostiene Stefano Ali, mentre «gli interessi economici e militari della destra conservatrice e interventista Usa in Italia sono sensibilmente incrementati», come dimostra l’installazione del Muos a Niscemi o anche l’insistenza sull’acquisto dei disastrosi F-35. «Continuiamo ad essere un paese anomalo, servo della Nato e solo apparentemente democratico, ad opera degli stessi spettri del passato». Da Kissinger a Renzi, passando per Michael Ledeen, indicato come consigliere-ombra del giovane premier per la politica estera.
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Se Renzi avesse la lira, governerebbe fino a 80 anni
Se Matteo Renzi avesse la lira invece che l’euro, sarebbe un uomo felice. Perché il suo 41% sarebbe saldo e diventerebbe imbattibile. Se Matteo Renzi e l’Italia oggi avessero la lira, la manovra degli “80 euro” avverrebbe senza bisogno di imporre tagli e tasse equivalenti per l’intera somma (tra i 6 e i 10 miliardi annui), annullandone di fatto l’illusorio effetto, che difatti non si sta manifestando. Se Matteo Renzi avesse la lira, la manovra ridicola e di sola comunicazione sugli “80 euro” sarebbe anzi raddoppiata, con detrazioni di 150 euro al mese per ogni lavoratore; e anzi sarebbero coinvolti anche coloro che non beneficiano di un contratto da lavoratore dipendente, oramai la maggioranza dei lavoratori specialmente giovani. Potrebbe dunque detassare imposte sul lavoro fino a 20 miliardi senza coperture di nuove tasse e riduzione spesa. Se Matteo Renzi avesse la lira, lui e il suo sottosegretario Delrio non dovrebbero inventare e sperare in inutili contabilità su astratti fogli di carta ma prive di sostanza pratica, del tipo non contabilizzare nel debito gli investimenti pubblici.Perché con l’euro ogni centesimo speso dallo Stato, contabilizzato o meno che si voglia, è un centesimo di debito contratto con 19 grandi istituti di credito che oggi prendono a prestito dalla Bce allo 0,15% e poi prestano agli Stati al 3, 4, 5%, contraendo utili sulle rendite finanziarie colossali e sicuri (Banca Imi, Barclays, Bnp Paribas, Citigroup, Commerzbank, Crédit Agricole, Credit Suisse, Deutsche Bank, Goldman Sachs, Hsbc, Ing, Jp Morgan, Merrill Lynch, Monte dei Paschi, Morgan Stanley, Unicredit, Société Générale, Nomura, Ubs). Se Matteo Renzi avesse la lira, potrebbe dunque finanziare gli investimenti con moneta monopolio di Stato e non delle banche private, e dunque finanziare tutti gli investimenti che vuole. Non dovrebbe imporre le tasse per coprire questi investimenti, e dunque non sarebbe costretto a restituire il denaro speso come avviene adesso, per la somma capitale più gli interessi; tanto che se non applicasse politiche di austerità l’insieme di monopolisti privati della moneta sopra elencati potrebbero impedire in pochi giorni il flusso di denaro nelle casse dello Stato.Matteo Renzi ora è ricattabile e anzi ricattato e consenziente; invece sarebbe autonomo. Quindi un vero democratico come stabilito dalla Costituzione e non un colono. Se Matteo Renzi avesse la lira non dovrebbe elemosinare a commissari o ministri stranieri la possibilità di cambiare le politiche di bilancio, e non dovrebbe rispettare assurdi parametri come quello del 3% deficit/pil (diventato 2,6% grazie alle promesse sue e di Padoan, è bene specificarlo: Renzi è più realista del Re, più austero della Merkel) o del 60% debito/pil. Potrebbe agire liberamente sulla base delle esigenze del suo paese e ridurre la tassazione rispetto alla spesa pubblica fino alla piena occupazione e al pieno rilancio dell’economia e della cultura. Se Matteo Renzi avesse la lira non dovrebbe versare all’Unione Europea quasi 10 miliardi all’anno; il Patto di Stabilità finirebbe subito e gli enti locali italiani potrebbero immediatamente pagare i loro fornitori; non dovrebbe elemosinare modifiche ai principi di co-finanziamento dei fondi europei che obbligano gli enti locali a sborsare ingenti somme per realizzare i progetti presentati, e spesso rinunciare per impossibilità di impiegare i fondi pur disponibili (il cane che morde la coda: Patto di Stabilità).Se Matteo Renzi avesse la lira non dovrebbe circondarsi di bei volti giovani e pop e dalla parlantina spigliata quanto vuota, perché tanto, oltre a raccattare voti, non si deve decidere nulla se non tenere buoni i cittadini; anzi meno capiscono e più tweet insensati scrivono tanto è meglio. No, se Matteo Renzi avesse la lira dovrebbe selezionare una classe politica capace di capire la forza di una moneta sovrana siffatta, e quindi le sue potenzialità per realizzare piena occupazione, piena democrazia, pieno benessere senza inflazione. Perché se invece occorre ascoltare i Gozi, le Bonafè, le Moretti e compagnia cantante, un partito avverso consapevole (quindi non M5S, quindi non lo sbrindellato centrodestra italiano di oggi, quindi non i timorosi di Tsipras) sbaraglierebbe il campo una volta vinte le elezioni (infatti la Dc governò 40 anni senza problemi nonostante la forte opposizione del Pci, perché sapeva come attivare la ricchezza, e un popolo con la pancia piena e la testa sgombra di pensieri non fa mai salti nei buio; ma negli ultimi 10 anni affondò, tra gli altri motivi, perché lo strumento di azione, la lira sovrana, era stato disattivato con la complicità di Ciampi e Andreatta).Se Matteo Renzi avesse la lira non dovrebbe mandare lettere a tutti i sindaci d’Italia per selezionare gli interventi di edilizia scolastica, ma imporrebbe a tutti i sindaci d’Italia i massimi standard di servizi, di sicurezza e di istruzione da raggiungere nel comparto scolastico (e non solo), stanzierebbe i fondi necessari, stabilirebbe in quanto tempo realizzare i lavori e poi, una volta scaduti i termini, bloccherebbe i finanziamenti e istituirebbe commissioni di inchiesta per valutare i motivi dell’inefficienza nel caso le opere non fossero realizzato a dovere. Se Matteo Renzi avesse la lira non dovrebbe contribuire con 125 miliardi per garantire i debiti pubblici dell’Eurozona, né, come farfuglia Del(i)rio, garantire il debito di Stato con beni immobili.Se Matteo Renzi avesse la lira, il debito pubblico non sarebbe un “debito” pubblico da ripagare come se lo Stato fosse un’azienda e una famiglia privata (e dunque aumentare il debito annuo del 5% ad esempio anziché il 3% significherebbe davvero far gravare sui figli la spesa di oggi, ed è quindi politica per pigliare due voti ma senza strategia), ma sarebbe una “ricchezza finanziaria” dei cittadini, ed ogni aumento di debito pubblico equivarrebbe ad un aumento dei risparmi di famiglie e imprese. Se Matteo Renzi avesse la lira governerebbe fino ad 80 anni, l’Italia tornerebbe un paese invidiato in tutto il mondo, la disoccupazione sarebbe un problema occasionle e molto temporaneo, le imprese italiane tornerebbero a produrre in Italia grazie ad una imposizione fiscale via via più bassa.Se Matteo Renzi avesse la lira i tassi di interesse sui titoli di Stato scenderebbero, dal 2/4% reale di oggi, ad un tasso prossimo allo zero o addirittura negativo. Gli 85 miliardi di spesa per interessi non sarebbero una zavorra per i conti pubblici ma una delle vie con le quali si manifesta la spesa pubblica, che potrebbe essere ridotta o aumentata sulla base delle scelte discrezionali di uno Stato. Invece: «Tornare alla lira? Per i giovani è uno strumento musicale». E allora, sentirai che musica, Matté: «Manovra correttiva di 10 miliardi inevitabile». Gira la ruota, va’.(“Se Renzi avesse la lira, ma non la vuole e non la capisce”, dal sito MeMmt del 14 luglio 2014).Se Matteo Renzi avesse la lira invece che l’euro, sarebbe un uomo felice. Perché il suo 41% sarebbe saldo e diventerebbe imbattibile. Se Matteo Renzi e l’Italia oggi avessero la lira, la manovra degli “80 euro” avverrebbe senza bisogno di imporre tagli e tasse equivalenti per l’intera somma (tra i 6 e i 10 miliardi annui), annullandone di fatto l’illusorio effetto, che difatti non si sta manifestando. Se Matteo Renzi avesse la lira, la manovra ridicola e di sola comunicazione sugli “80 euro” sarebbe anzi raddoppiata, con detrazioni di 150 euro al mese per ogni lavoratore; e anzi sarebbero coinvolti anche coloro che non beneficiano di un contratto da lavoratore dipendente, oramai la maggioranza dei lavoratori specialmente giovani. Potrebbe dunque detassare imposte sul lavoro fino a 20 miliardi senza coperture di nuove tasse e riduzione spesa. Se Matteo Renzi avesse la lira, lui e il suo sottosegretario Delrio non dovrebbero inventare e sperare in inutili contabilità su astratti fogli di carta ma prive di sostanza pratica, del tipo non contabilizzare nel debito gli investimenti pubblici.