Archivio del Tag ‘Jugoslavia’
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Fasanella: sabotare l’Italia, tutti complici dei killer di Moro
Poi qualcuno si domanda com’è che siamo caduti così in basso – cioè con un tizio come Romano Prodi, il rottamatore dell’Iri, trasformato in paladino del popolo (s’intende: il popolo oppresso dall’Uomo Nero, quello delle tevisioni, delle olgettine e della P2). Al Cavaliere di Arcore, dagli anni ‘90 il copione oppose Prodi, advisor europeo della banca d’affari più famigerata del pianeta, la Goldman Sachs, nonché presidente dell’istituzione più medievale, l’infame Commissione Europea. Lo stesso Prodi che, quando ancora si stava posizionando nella galassia Dc, se ne uscì con una storia pittoresca su Aldo Moro: il nome “Gradoli”, presentato come possibile indizio sulla località della prigionia dello statista sequestrato dalle Brigate Rosse, disse che gli era stato rivelato nientemeno che nel corso di una seduta spiritica. Ancora oggi ci si domanda per quale servizio segreto lavorasse, quel famoso spiritello chiacchierone, mentre c’è chi – come Giovanni Fasanella, autore del bestseller “Il golpe inglese”, scritto con Mario José Cereghino – nel quarantennale della tragica scomparsa di Moro ha le idee più chiare. Dal suo lavoro emerge uno scenario ben poco “spiritico” e molto geopolitico: a eliminare il presidente della Dc sarebbero stati gli stessi poteri che ce l’avevano a morte con l’Italia, al punto da far assassinare il patron dell’Eni, Enrico Mattei, esploso in volo nel 1962 insieme al suo aereo dopo aver terrorizzato le Sette Sorelle offrendo condizioni eque ai paesi petrolieri.Tutta da riscrivere, la verità su Moro: ora lo sa anche la magistratura, che ha appena ricevuto la dirompente relazione della commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Giuseppe Fioroni. Nel suo nuovo lavoro, “Il puzzle Moro”, edito da Chiarelettere, Fasanella riassume le sconvolgenti conclusioni della commissione: tutti i grandi poteri concorsero al rapimento, affidato alla manovalanza Br. Ma l’autore aggiunge un elemento inedito, altrettanto pesante, tratto dalle carte desecretate dell’archivio di Stato britannico: rivela l’iniziativa di Londra per “sovragestire” l’Italia, con il concorso dei maggiori servizi segreti, a cui Moro (vivo) faceva paura. Fasanella ne ha parlato in due recenti interviste, con Claudio Messoria su “ByoBlu” e poi con Stefania Nicoletti a “Border Nights”, offrendo una sintesi decisamente vertiginosa. Punto primo: nel 1976, due anni prima del sequestro, la Gran Bretagna propone di organizzare un classico golpe militare, in Italia, per bloccare l’azione politica di Moro, considerato una minaccia mortale per gli interessi post-coloniali inglesi, in Medio Oriente e in Africa, dove l’Italia – come già all’epoca di Mattei – sta ridiventando un interlocutore privilegiato per i paesi poveri, in via di sviluppo, impegnati nella grande impresa della decolonizzazione. Seconda notizia: la Francia appoggia con entusiasmo l’idea di schierare carri armati nelle strade italiane. Ma a inglesi e francesi – terza notizia – si oppongono tedeschi e americani.La Germania, ancora divisa in due e impaurita dall’Urss, teme che possa vacillare lo scudo Nato di fronte alla prevedibile reazione della sinistra italiana, allora fortissima, di fronte a un colpo di Stato militare in stile greco. Quanto agli Usa, la loro intelligence ha ancora le ossa rotte dopo la scandalo Watergate che ha appena travolto Nixon: meglio non impelagarsi in qualcosa di orrendo (e imbarazzante) in Italia. Al che, racconta Fasanella, Londra fa scattare il Piano-B: un progetto “eversivo” per sabotare l’Italia, dall’interno. Il progetto è ancora protetto dal segreto, ammette il giornalista, ma il titolo del dossier compare negli archivi: è la prova che la Gran Bretagna ha programmato precise azioni per destabilizzare il nostro paese. «Non a caso, da allora, esplose in modo inaudito la violenza politica tra gli opposti estremismi». Fino alla crescita rapida ed esponenziale delle Brigate Rosse, che culmina con il caso Moro: un delitto perfetto. Soddisfatti gli inglesi, che insieme ai francesi hanno coronato il loro disegno neo-coloniale (amputare la politica estera italiana, filo-araba e filo-africana), e soddisfatti anche gli americani e i sovietici: i primi temevano che l’apertura di Moro al Pci trasformasse l’Italia in una nuova Jugoslavia, mentre i secondi vedevano in Berlinguer un pericoloso “eretico”, capace di allontanare dall’ortodossia di Mosca gli altri partiti comunisti europei.Questo spiegherebbe la sostanziale collaborazione di tutte le strutture di intelligence, amiche e nemiche: le une e le altre, interessate a incassare la fine di Moro come risultato politico. Obiettivo principale, in Europa: mortificare le aspirazioni dell’Italia, congelandone la politica. Non andò esattamente così: con Craxi, il paese divenne un protagonista del G7, e l’Italia rialzò la testa anche in politica estera (inaudita la crisi di Sigonella). Quindi, dopo l’inevitabile liquidazione del leader socialista ribelle, arrivò la normalizzazione definitiva: il rigore Ue, la camincia di forza dell’Eurozona, il vecchio Prodi rimesso in campo per raccontare agli italiani le meraviglie dell’euro. Caduto l’ultimo alibi (Berluconi, l’Uomo Nero da odiare) ora affiorano verità scomode, incresciose, che risalgono agli anni ‘70. La trama è sempre la stessa: l’ha raccontata anche Gioele Magaldi, nel bestseller “Massoni”. Tema: impedire, ad ogni costo, che l’Italia diventi importante. Tutte le volte che ci ha provato – con Mattei e Moro, persino con Craxi – ha mandato nel panico i “sovragestori”, i veri signori dell’élite finanziaria (ieri industriale) che detesta la democrazia. Gli unici italiani tollerati, nei salotti che contano, sono quelli prontissimi a obbedire: Prodi e Ciampi, Draghi e Napolitano. Ora – dopo 40 anni – si scoperchia la vera tomba di Moro. Compaiono i veri killer, e si scopre che i mandanti sono ancora in circolazione. Stanno lassù, come sempre, godendosi lo spettacolo del nostro “populismo” inconcludente: una protesta elettorale che non fa paura a nessuno.(Il libro: Giovanni Fasanella, “Il puzzle Moro”, Chiarelettere, 368 pagine, euro 17,60).Poi qualcuno si domanda com’è che siamo caduti così in basso – cioè con un tizio come Romano Prodi, il rottamatore dell’Iri, trasformato in paladino del popolo (s’intende: il popolo oppresso dall’Uomo Nero, quello delle tevisioni, delle olgettine e della P2). Al Cavaliere di Arcore, dagli anni ‘90 il copione oppose Prodi, advisor europeo della banca d’affari più famigerata del pianeta, la Goldman Sachs, nonché presidente dell’istituzione più medievale, l’infame Commissione Europea. Lo stesso Prodi che, quando ancora si stava posizionando nella galassia Dc, se ne uscì con una storia pittoresca su Aldo Moro: il nome “Gradoli”, presentato come possibile indizio sulla località della prigionia dello statista sequestrato dalle Brigate Rosse, disse che gli era stato rivelato nientemeno che nel corso di una seduta spiritica. Ancora oggi ci si domanda per quale servizio segreto lavorasse, quel famoso spiritello chiacchierone, mentre c’è chi – come Giovanni Fasanella, autore del bestseller “Il golpe inglese”, scritto con Mario José Cereghino – nel quarantennale della tragica scomparsa di Moro ha le idee più chiare. Dal suo lavoro emerge uno scenario ben poco “spiritico” e molto geopolitico: a eliminare il presidente della Dc sarebbero stati gli stessi poteri che ce l’avevano a morte con l’Italia, al punto da far assassinare il patron dell’Eni, Enrico Mattei, esploso in volo nel 1962 insieme al suo aereo dopo aver terrorizzato le Sette Sorelle offrendo condizioni eque ai paesi petrolieri.
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Limonov: Putin obbedisce a 30 famiglie. Skripal? False flag
«Ma quali russi! Questo Skripal non contava niente, era in pensione da 14 anni, insegnava storia dell’intelligence ai ragazzini delle scuole russe. Putin è molto intelligente, che interesse aveva a farlo fuori? Può crederci solo quella vecchia scopa di Theresa May, quest’inglese volgare che si crede Churchill, batte in arroganza Trump e dimentica cosa fecero i sovietici per aiutare i suoi padri». Così lo scrittore russo Eduard Limonov, intervistato da Francesco Battistini per il “Corriere della Sera”. «Questi avvelenamenti sono una commedia», dice. «Una guerra di parole». L’ex spia Sergej Skripal, avvelenato in Inghilterra col gas nervino? La Russia non c’entra: «Si ricorda il Dottor No di James Bond? È stato un diabolico Dottor No a fare il lavoro», sostiene Limonov, facendo eco all’ex ambasciatore britannico Craig Murray, che sospetta del Mossad israeliano, in rotta con Mosca per l’impegno russo in Siria. Secondo Murray, il Cremlino non avrebbe mai potuto firmare il simile autogol, immediatamente colto come pretesto dal Regno Unito, che ha coinvolto Francia e Usa nella nuova guerra contro Putin a colpi di sanzioni. «Il mondo delle spie l’ho conosciuto in prigione», racconta Limonov al “Corriere”. «In cortile c’era un ufficio dell’Fsb, l’ex Kgb, e quando sono uscito e mi seguivano 12 agenti, li conoscevo tutti. Li ho ancora dietro, anche se vado al ristorante. Ho 75 anni: perché non mi lasciano in pace?».Il quotidiano milanese presenta Limonov, protagonista della premiatissima biografia dedicatagli da Emmanuel Carrère, come «scrittore e politico, bolscevico e nazionalista, playboy e gay, combattente nei Balcani e punk newyorkese». Rifiuta categoricamente l’idea che i servizi segreti di Mosca abbiano avuto un ruolo nel caso Srkipal. Di Putin, che detesta, dice: «Nella sua famiglia vivono a lungo, i suoi genitori sono arrivati a 90 anni. Ma voi europei siete ossessionati, pensate che Putin sia il motore di tutto». Della Russia, offre la seguente rappresentazione: «Il paese è governato da 30 famiglie, l’1% che possiede il 74% delle ricchezze. Peggio che in India». Il nuovo Zar «è solo il loro brillante portavoce, una delle torri del Cremlino. Non gestisce la baracca. Ha padroni che si chiamano Mikhail Fridman, fondatore di Alfa Group», colosso finanziario. E gli oppositori? «Tutti finti. Navalny è uno che stava nel board dell’Aeroflot, raccomandato dal banchiere Lebedev. L’ambiziosa Ksenia Sobchak è parente di Putin: le hanno dato la parte della liberale, ha voluto perdere in partenza dicendo subito che la Crimea va restituita all’Ucraina. E poi c’ è quel furbastro Grudinin che si fa passare per comunista: un idiota, predica il socialismo e possiede una società per azioni, fa il padrone capitalista».In ogni caso, «il caso Skripal è una messa in scena», insiste Limonov, in un’intervista all’Ansa ripresa dall’“Huffington Post”. «La Russia non avrebbe avuto nessun tornaconto ad ammazzarlo, anzi: se fosse stato davvero pericoloso, non lo avrebbero liberato per poi tentare di ammazzarlo. Col nervino si muore in pochi minuti, mentre lui invece è ancora vivo». La Russia, argomenta Limonov, era stata “depennata” nel 1991 dalla lista degli avversarsi, causando frustrazione: la caccia al “nemico”, benché inventato, è la spiegazione dell’isteria anti-russa che si sta scatenando. «Basta vedere la caccia alle streghe in corso oggi negli Usa, e il modo in cui la Russia viene vista in Occidente, in modo ripugnante. È davvero senza precedenti. Anche perché un tempo esisteva la diplomazia, oggi non più». Secondo Limonov, l’Occidente ha un’idea semplificata del sistema politico russo e, soprattutto, sopravvaluta il potere di Vladimir Putin. «Le decisioni – dice – non le prende lui da solo, ma in modo collettivo. Il paese – ribadisce – è governato da circa 30 famiglie. E Putin, più che uno zar, è il portavoce di questo gruppo». Il sistema politico russo, insiste Limonov, «non si esaurisce con Putin».Secondo Igor Sibaldi, filologo e scrittore di madre russa, non si riflette mai con attenzione su un dettaglio: «Nel Kgb, Putin non era un generale, ma solo un colonnello». Come dire: un leader, certo, ma obbligato a rendere conto del suo operato ad altri soggetti. Uomini che restano nell’ombra, all’interno dell’impianto di potere creato da Yurij Andropov addirittura alla fine degli anni ‘60, pensato già allora per tenere in piedi la Russia dopo l’eventuale collasso dell’Urss, ritenuto inevitabile prima ancora dell’era Breznev. Se oggi i russi non c’entrano con il caso Skripal, sono comunque nella bufera – non a caso, a pochi giorni dall’annuncio del 1° marzo in cui Putin ha presentato le nuovissime super-armi di Mosca, destinate a ristabilire la parità strategica con gli Usa. Uno schiaffo ai “signori della gerra” – che poi, secondo Gianfranco Carpeoro (autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”) sono anche i veri registi occulti delle stragi europee firmate Isis. «Il neo-terrorismo – afferma Carpeoro – è nato da una spaccatura all’interno della supermassoneria più reazionaria: a un certo punto, qualcuno ha cessato di appoggiare quel tipo di strategia della tensione internazionale». Carpeoro, su “Border Nights”, ha spesso dichiarato di temere un super-attentato, in Europa, stile 11 Settembre – che però non c’è stato. «Vero, e questo significa che si sono rimessi d’accordo su come agire, a livello di “sovragestione”». Basta stragi “false flag” in Europa. Meglio la guerra a Putin?«Ma quali russi! Questo Skripal non contava niente, era in pensione da 14 anni, insegnava storia dell’intelligence ai ragazzini delle scuole russe. Putin è molto intelligente, che interesse aveva a farlo fuori? Può crederci solo quella vecchia scopa di Theresa May, quest’inglese volgare che si crede Churchill, batte in arroganza Trump e dimentica cosa fecero i sovietici per aiutare i suoi padri». Così lo scrittore russo Eduard Limonov, intervistato da Francesco Battistini per il “Corriere della Sera”. «Questi avvelenamenti sono una commedia», dice. «Una guerra di parole». L’ex spia Sergej Skripal, avvelenato in Inghilterra col gas nervino? La Russia non c’entra: «Si ricorda il Dottor No di James Bond? È stato un diabolico Dottor No a fare il lavoro», sostiene Limonov, facendo eco all’ex ambasciatore britannico Craig Murray, che sospetta del Mossad israeliano, in rotta con Mosca per l’impegno russo in Siria. Secondo Murray, il Cremlino non avrebbe mai potuto firmare il simile autogol, immediatamente colto come pretesto dal Regno Unito, che ha coinvolto Francia e Usa nella nuova guerra contro Putin a colpi di sanzioni. «Il mondo delle spie l’ho conosciuto in prigione», racconta Limonov al “Corriere”. «In cortile c’era un ufficio dell’Fsb, l’ex Kgb, e quando sono uscito e mi seguivano 12 agenti, li conoscevo tutti. Li ho ancora dietro, anche se vado al ristorante. Ho 75 anni: perché non mi lasciano in pace?».
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Moro, storia da riscrivere: prigioniero in una casa dello Ior
Tutto quello che abbiamo saputo fin qui (e sono passati quarant’anni anni) del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, è da riscrivere. Anzi, in gran parte è stato già riscritto dalla commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Giuseppe Fioroni. La terza e ultima relazione, scrive Maria Antonietta Calabrò sull’“Huffington Post”, spiega come e perché Moro non è stato ucciso sul pianale della Renault 4 rossa parcheggiata nel garage di via Montalcini 8. In base alle nuove perizie espletate dal Ris dei carabinieri, quell’auto non avrebbe potuto neppure avere il cofano aperto, tanto ristretto era il box dove secondo la versione dei brigatisti sarebbe stata eseguita la condanna a morte dello statista. Il documento spiega che il presidente della Dc avrebbe avuto la possibilità di rimanere in vita: la segnalazione di un possibile attentato, giunta a Roma un mese prima del sequestro dalle fonti palestinesi del colonnello del Sismi Stefano Giovannone, vicinissimo a Moro, era assolutamente attendibile. A evitare la tragedia sarebbe bastata una macchina blindata e una scorta. La commissione Fioroni rivela inoltre che il prigioniero Moro, prima di essere ucciso, ebbe la possibilità di ricevere la visita di un prete e di confessarsi. Il che «dimostra che in un modo o nell’altro uomini del mondo vaticano sono stati centrali nella vicenda».L’ombra del Vaticano spunta «a cominciare dall’individuazione, nella zona della Balduina, in via Massimi 91, di una palazzina di proprietà Ior, la cosiddetta banca vaticana, (posseduta attraverso la società Prato Verde srl, e gestita da Luigi Mennini), abitata (o frequentata) da cardinali (Vagnozzi e Ottaviani), da prelati e dallo stesso presidente dello Ior, Paul Marcinkus», scrive Maria Antonietta Calabrò. Nello stabile aveva sede una società americana che lavorava per la Nato, e vivevano in affitto esponenti tedeschi dell’Autonomia, finanzieri libici e due persone contigue alle Brigate Rosse. «Complesso edilizio che, anche alla luce della posizione, potrebbe essere stato utilizzato – si legge nel documento – per spostare Aldo Moro dalle auto utilizzate in via Fani a quelle con cui fu successivamente trasferito, oppure potrebbe aver addirittura svolto la funzione di prigione dello statista». La relazione, grazie a nuovi testimoni, dimostra addirittura che per alcuni mesi, nell’autunno del 1978, in quello stabile si sarebbe nascosto Prospero Gallinari (il britagatista carceriere di Moro) insieme alle armi usate dal commando che in via Fani sterminò la scorta di Moro. L’alloggio di via Massimi 91 è stato anche il covo-prigione in cui fu detenuto il presidente della Dc? E’ un’ipotesi che la commissione non scarta.Soprattutto, sottolinea l’“Huffington”, grazie alla declassificazione di una grande quantità di atti dei servizi segreti e delle forze dell’ordine, «la commissione ha accertato che la “narrativa” ufficiale sul sequestro e la morte di Moro, contenuta nel cosiddetto memoriale Morucci-Faranda, altro non è che una “versione ufficiale e di Stato” del caso Moro, preparata a tavolino molti anni prima che essa approdasse sul tavolo di Francesco Cossiga». In altre parole, «l’unica verità “dicibile” per chiudere l’epoca del terrorismo». Una verità di comodo, «messa a punto da magistrati (Imposimato, Priore: citati con nome e cognome), esponenti delle forze dell’ordine e naturalmente dai brigatisti». Valerio Morucci divenne addirittura consulente del Sisde, il servizio segreto interno di allora. La stessa vicenda del suo arresto e di quello di Adriana Faranda in casa di Giuliana Conforto (figlia «del più importante agente del Kgb in Italia», come l’ha definito il professor Christopher Andrew nel suo libro “L’Archivio Mitrokhin”), per la commissione «è stata oggetto di una completa rilettura, che ha consentito di mettere finalmente alcuni punti fermi sulla scoperta del rifugio di viale Giulio Cesare 47, ma anche di evidenziare uno scenario più complesso, che chiama in causa la possibilità che l’arresto di Morucci e Faranda sia stato negoziato».Alla luce delle indagini compiute, comunque, scrive Fioroni, «il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro non appaiono affatto come una pagina puramente interna dell’eversione di sinistra, ma acquisiscono una rilevante dimensione internazionale». Ancora: «Al di là dell’accertamento materiale dei nomi e dei ruoli dei brigatisti impegnati nell’azione di fuoco di via Fani e poi nel sequestro e nell’omicidio di Moro, emerge infatti un più vasto tessuto di forze che, a seconda dei casi, operarono per una conclusione felice o tragica del sequestro, talora interagendo direttamente con i brigatisti, più spesso condizionando la dinamica degli eventi, anche grazie alla presenza di molteplici aree grigie, permeabili alle influenze più diverse». Al riguardo, Fioroni parla di «martirio laico» di Moro, sacrificato sull’altare della guerra fredda: gli americani preoccupati dall’apertura al Pci, che avrebbe avvicinato l’Italia alla Jugoslavia di Tito, e i sovietici allarmati dall’eurocomunismo di Berlinguer, polemico con Mosca e virtualmente contagioso per gli altri partiti comunisti europei, a partire da quello francese.Un capitolo particolare, aggiunge Maria Antonietta Calabrò, è dedicato alle “protezioni” che hanno messo al sicuro la latitanza di uno dei brigatisti presenti in via Fani, Alessio Casimirri. «La primula rossa delle Br, tuttora latitante, prima di giungere in Nicaragua, riuscì più volte, in maniera rocambolesca, a sfuggire alla cattura. Per l’ex brigatista, di cui anche nei mesi scorsi è stata sollecitata l’estradizione, ci fu però un momento in cui mancò veramente un nulla ad ammanettarlo. A riconoscerlo, proprio nei dintorni di San Pietro, fu il padre di Jovanotti, al secolo Lorenzo Cherubini, uno dei più noti cantautori italiani». Mario Cherubini, che era un gendarme vaticano, riconobbe Casimirri, già latitante, per strada, «Corse a denunciarlo, ma non si riuscì a fermarlo», racconta Vero Grassi, vicepresidente della commissione Fioroni. Il cantante toscano ha raccontato a “Vanity Fair” di quando la famiglia Casimirri, a metà degli anni ‘70, invitava i Cherubini nella casa di campagna a Monterotondo, dove Alessio (provetto sub) gli mostrava i suoi trofei di pesca. Il padre di Casimirri, Luciano, è a sua volta un personaggio leggendario: sopravvissuto allo sterminio nazista della Divisione Acqui a Cefalonia dopo l’8 settembre del ‘43 (come il protagonista del film “Il mandolino del capitano Corelli”, con Nichoals Cage e Penelope Cruz), era poi stato responsabile della sala stampa vaticana sotto tre Papi: Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI, quello che rivolse lo storico appello agli “uomini delle Brigate Rosse” per la liberazione di Moro – sequestrato e trattenuto, si apprende ora, in un palazzo di proprietà del Vaticano.Tutto quello che abbiamo saputo fin qui (e sono passati quarant’anni) del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, è da riscrivere. Anzi, in gran parte è stato già riscritto dalla commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Giuseppe Fioroni. La terza e ultima relazione, scrive Maria Antonietta Calabrò sull’“Huffington Post”, spiega come e perché Moro non è stato ucciso sul pianale della Renault 4 rossa parcheggiata nel garage di via Montalcini 8. In base alle nuove perizie espletate dal Ris dei carabinieri, quell’auto non avrebbe potuto neppure avere il cofano aperto, tanto ristretto era il box dove secondo la versione dei brigatisti sarebbe stata eseguita la condanna a morte dello statista. Il documento spiega che il presidente della Dc avrebbe avuto la possibilità di rimanere in vita: la segnalazione di un possibile attentato, giunta a Roma un mese prima del sequestro dalle fonti palestinesi del colonnello del Sismi Stefano Giovannone, vicinissimo a Moro, era assolutamente attendibile. A evitare la tragedia sarebbe bastata una macchina blindata e una scorta. La commissione Fioroni rivela inoltre che il prigioniero Moro, prima di essere ucciso, ebbe la possibilità di ricevere la visita di un prete e di confessarsi. Il che «dimostra che in un modo o nell’altro uomini del mondo vaticano sono stati centrali nella vicenda».
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Colonia Italia: divisa e nata per esser governata da stranieri
Un sud pentastellato, un nord centroleghista e un’Etruria ancora (quasi) colorata di rosso, o almeno di rosa. Vista la palese ingovernabilità della penisola, butta lì Marco Della Luna, tanto varrebbe trasformare l’ennesimo voto inutile in un’occasione per spaccare il Belpaese in tre Italie, ciascuna con la sua economia. «Il dato fondamentale, confermato da questa tornata elettorale – premette Della Luna – è che l’Italia è un paese tanto diviso al suo interno, che può essere governato solo dal suo esterno, come un protettorato». E probabilmente, aggiunge, «gli architetti della City che progettarono e guidarono la costituzione del Regno d’Italia (e che poi assemblarono altri Stati-Arlecchino come Iraq, Siria, Cipro, Libano, Sudan, Jugoslavia) avevano proprio questo intendimento: creare un paese le cui divisioni interne consentissero di manipolarlo dall’esterno, e insieme incapace di una politica di interesse nazionale». Secondo Della Luna, avvocato e saggista, «l’Italia unificata è un artefatto dell’imperialismo britannico». E ora, dopo le elezioni, «non si può nemmeno dire che si sia realizzata una maggioranza in forma di convergenza antisistema tra M5S e Lega», perché il Sud allo stremo ha invocato l’aiuto statale dei 5 Stelle, mentre il Nord produttivo ha chiesto a Salvini meno tasse “per Roma”.Il Movimento 5 Stelle, sostiene Della Luna, «ha raccolto soprattutto voti di meridionali desiderosi di assistenza pubblica, intervento statale, reddito di cittadinanza a spese del Nord», mentre la Lega ha mietuto «soprattutto voti di settentrionali desiderosi di meno tasse, meno Stato, meno trasferimenti dal Nord al Sud, e più autonomia (vedi i recenti referendum di Veneto e Lombardia)». Se i 5 Stelle andassero al governo con parte della sinistra, ipotesi «possibile», secondo Della Luna l’eventuale esecutivo Di Maio «dovrà aumentare le tasse patrimoniali e successorie per finanziare il “reddito di cittadinanza” e altre generosità promesse al suo elettorato – e ciò produrrà una fortissima, forse dirompente tensione con il Nord, e un ulteriore decrescita economica». Di fatto, «nell’attuale Parlamento non si può formare alcuna maggioranza che non sia frutto di un inciucio, in beffa alle promesse fatte agli elettori». Una coalizione «anomala e intrinsecamente instabile». Istituzioni fragili: lo stesso Mattarella, oggi nei panni poco inviadibili di arbitro, è stato incoronato al Quirinale «da un Parlamento a sua volta eletto con una legge che egli stesso, come giudice costituzionale, giudicò incostituzionale».In un corpo elettorale tanto profondamente diviso, sostiene Della Luna, un eventuale premio di maggioranza sarebbe addirittura un rimedio peggiore del male: «Porterebbe una forza minoritaria (rappresentante il 35-40% dell’elettorato) nonché illegittima agli occhi di almeno metà dell’elettorato, a una posizione di potere autosufficiente non solo per l’attività di governo e di ordinaria legislazione, fisco compreso, ma anche per cambiare le regole del gioco (legge elettorale, cittadinanza, Costituzione) e per fare le nomine degli organi di garanzia (presidenti della Repubblica, delle Camere, delle autorità garanti)». Divisi gli elettori, sulla base di aree geografiche «con interessi oggettivamente contrapposti» (il Nord e il Sud), e spaccate anche le forze politiche, le quali «si negano reciprocamente la legittimazione politica e morale: “Berlusconi è un mafioso”, “il M5S è una setta pericolosa”, “la Lega e FdI sono razzisti-fascisti”, “il Pd è servo di banchieri delinquenti”, eccetera. In questo caos, una forza “dopata” dal premio di maggioranza «dovrebbe gestire periodi duri per la popolazione», e quindi «avrebbe presto una forte maggioranza popolare contro di sé». Unica via di uscita? «Una riforma costituzionale, che affidasse le funzioni di garanzia e regole comuni a un Senato eletto col metodo proporzionale puro, e le funzioni di legislazione ordinaria (e fiducia al governo) a una Camera eletta con un premio di maggioranza al ballottaggio».Sempre secondo Della Luna, la nuova Costituzione dovrebbe inoltre stabilire che il Senato «non possa essere sciolto, ma si sciolga solo alla scadenza ogni 5 anni», mentre la Camera dovrebbe sciolgiersi ogni 4 anni, se non prima (con elezioni anticipate). «In tal modo, il premio di maggioranza non comporterebbe che il partito o la coalizione che lo ottiene possa cambiare le regole di fondo a sua convenienza e nominarsi alle cariche di garanzia i personaggi che gli fanno comodo per coprire le trame dei suoi interessi». Ma persino una riforma simile non risolverebbe «il difetto fondamentale del paese», ovvero «le divisioni e contrapposizioni storiche, consolidate, oggettive, soprattutto tra Nord e Sud». L’ideale? Tre Italie distinte, indipendenti, «corrispondenti ciascuna alle rispettive caratteristiche sia politiche che economiche (Aree Monetarie Ottimali)». Ancora più semplice, chiosa Della Luna, sarebbe se il M5S e il Pd si alleassero per governare: «Allora basterebbe fare due repubbliche e il confine potrebbe correre sul crinale appenninico, se non lungo il Po».Un sud pentastellato, un nord centroleghista e un’Etruria ancora (quasi) colorata di rosso, o almeno di rosa. Vista la palese ingovernabilità della penisola, butta lì Marco Della Luna, tanto varrebbe trasformare l’ennesimo voto inutile in un’occasione per spaccare il Belpaese in tre Italie, ciascuna con la sua economia. «Il dato fondamentale, confermato da questa tornata elettorale – premette Della Luna – è che l’Italia è un paese tanto diviso al suo interno, che può essere governato solo dal suo esterno, come un protettorato». E probabilmente, aggiunge, «gli architetti della City che progettarono e guidarono la costituzione del Regno d’Italia (e che poi assemblarono altri Stati-Arlecchino come Iraq, Siria, Cipro, Libano, Sudan, Jugoslavia) avevano proprio questo intendimento: creare un paese le cui divisioni interne consentissero di manipolarlo dall’esterno, e insieme incapace di una politica di interesse nazionale». Secondo Della Luna, avvocato e saggista, «l’Italia unificata è un artefatto dell’imperialismo britannico». E ora, dopo le elezioni, «non si può nemmeno dire che si sia realizzata una maggioranza in forma di convergenza antisistema tra M5S e Lega», perché il Sud allo stremo ha invocato l’aiuto statale dei 5 Stelle, mentre il Nord produttivo ha chiesto a Salvini meno tasse “per Roma”.
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Le foibe che ingoiano la verità: l’Italia sterminò gli jugoslavi
Ci sono foibe dove, ancora oggi, sparisce la verità: inghiottita dalla propaganda. Se il comunismo è morto, perché l’anticomunismo scoppia di salute? Forse per seppellire (nelle nuove foibe mediatiche) la memoria dell’antifascismo storico, inteso come impegno a lottare contro un sistema ingiusto e dispotico. Traduzione: il potere ha sempre ragione, e chi lo contesta è un delinquente. E’ la tesi di Angelo d’Orsi, impegnato con altri studiosi in un convegno a Torino. Gli storici hanno protestato formalmente con Mattarella per la dichiarazione rilasciata in occasione del 10 febbraio, “Giorno del Ricordo” dedicato alle vittime delle feroci rappresaglie, contro gli italiani, attuate alla fine della Seconda Guerra Mondiale dai partigiani di Tito nella Jugoslavia che prima era stata sottoposta alla feroce occupazione dell’esercito fascista (di cui nessuno parla). «Quella delle “foibe” è una vera e propria operazione politico-culturale, che ha contribuito a creare o consolidare un senso comune anticomunista, e anti-antifascista, volto a favorire una memoria contraffatta», afferma d’Orsi insieme ai colleghi Andrea Martocchia, Alessandra Kersevan, Claudia Cernigoi, Sandi Volk e Davide Conti. «La menzogna viene propalata, ripetuta, ribadita, fino a che diventa senso comune».«I telegiornali, i talk show, i “programmi di approfondimento”, i docufilm, le pseudomemorie di pseudoreduci o pseudoesiliati, stanno realizzando una sorta di cortina fumogena, dietro la quale si erge come un totem (e insieme un tabù), “la foiba”: una sorta di gigantesco monumento alla menzogna», scrive d’Orsi su “Micromega”. Il bilancio storico degli eccidi è tuttora incerto: secondo Wikipedia oscilla tra le 5.000 e le 11.000 vittime. Dal ‘43 al ‘45, negli inghiottitoi carsici finirono fascisti e italiani comuni, anche non aderenti al regime. Sempre Wikipedia riassume sotto la voce “crimini di guerra italiani” l’occupazione fascista di Slovenia e Croazia, Dalmazia e Montenegro. Villaggi bombardati, popolazione civile trucidata, partigiani torturati. Fra il 1941 e il 1943, secondo “Storia XXI Secolo”, le truppe italiane fecero oltre 13.000 vittime jugoslave: 4.000 persone fucilate (di cui 1.500 ostaggi civili), 187 individui morti sotto tortura e ben 7.000 persone decedute nei campi di concentramento (anche donne e bambini). Pagina particolarmente infame, quella dei lager italiani in Jugoslavia. Esiste dunque una drammatica “proporzione” fra le atrocità commesse dall’occupante italiano e la successiva, spietata rappreseglia jugoslavia (esecuzioni sommarie e seppellimento, nelle foibe, di esseri umani spesso ancora vivi). Ma non ve n’è traccia nella propaganda attuale: gli jugoslavi erano semplicemente “cattivi”, in quanto “comunisti”. Combattevano a casa loro, per difendersi? Meglio non ricordarlo, nel Giorno del Ricordo.«Si è parlato di pulizia etnica nei confronti degli italiani quando le documentazioni riguardanti gli scomparsi indicano chiaramente che la gran parte furono colpiti sulla base della loro adesione al fascismo», protesta la storica Alessandra Keservan, maltrattata da Bruno Vespa durante la trasmissione “Porta a Porta”. Per la Kersevan si dovrebbe «studiare e conservare la memoria di tutte queste vicende ma nella parte più lunga e soprattutto precedente, quella che ha visto le gravi violenze italiane e fasciste contro sloveni e croati e contro gli italiani antifascisti». Dati che a giudizio della Kersevan non vengono neppure accennati in occasione delle commemorazioni, «disattendendo, in questo modo, anche le finalità della legge che ha istituito il Giorno del Ricordo», scrive il quotidiano on-line “Next”. «Si tratta di una disattenzione dovuta non ad ignoranza», secondo la storica, che parla di «censure» e denuncia un «uso propagandistico fatto delle foibe come evento unico paragonabile alla Shoah». Un “frame” comunicativo, quello sulle foibe, dove si è prodotta una colossale mole di falsificazioni. Lo dimostra uno sconcertante dossier presentato da “Wu Ming Foundation”: moltissime foto d’epoca, esibite al pubblico per suscitare orrore, non riguardano affatto le vittime delle foibe. Spesso, al contrario, sono vittime – anche civili – della brutale violenza italiana.La foto più famosa? E’ quella di una fucilazione. Immagine riciclata mille volte, per le commemorazioni ufficiali del Giorno del Ricordo e persino in televisione, da Vespa. Mostra un plotone di esecuzione, inquadrato di spalle, che prende di mira cinque civili, anch’essi di spalle. Feroci partigiani titini contro poveri italiani? Macché: italiani sono i soldati, i killer, mentre le vittime sono ostaggi sloveni rastrellati nel villaggio di Dane, nella Loška Dolina, a sud-est di Lubiana. Foto scattata il 31 luglio 1942, e si conoscono pure i nomi dei fucilati. Altro orrore: civili sorvegliati da armati scavano la fossa che ospiterà i loro corpi, dopo la fucilazione. Persino il Tg3 la presenta a corredo del caso-foibe. Ma, di nuovo, si tratta di ostaggi jugoslavi che si stanno scavando la fossa, sotto lo sguardo dei loro giustizieri italiani. “Wu Ming” mostra un corredo fotografico – impropriamente usato – veramente imbarazzante: cumuli di corpi (jugoslavi fucilati da italiani) vengono presentati come “italiani vittime della violenza titina”. C’è un soldato che si accanisce sui prigionieri, prendendoli a calci: stanno andando alla fucilazione, ma in Montenegro (il soldato è italiano, e i civili sono jugoslavi). Seguono primi piani, crudeli, dei cadaveri fucilati: sono stati presentati come “vittime delle foibe” a Cernobbio.Ad Arezzo, viene spacciata per “strage titina” quella documentata da una foto, scattata in Slovenia, che mostra una fucilazione collettiva: carneficina perpetrata dalle truppe di occupazione italiane. Nel 2015, addirittura, lo stesso Vespa – parlando di foibe – ha trasmesso l’immagine, terribile, di un’impiccagione di massa (ma le vittime sono partigiani, giustiziati in Friuli dai nazifascisti). E ancora: il “Piccolo” di Trieste – in tema di foibe – ha pubblicato una foto che documenta la strage di Srebrenica del 1995. Errori e orrori, all’infinito: la copertina di un libro (“Una grande tragedia dimenticata, la vera storia delle foibe”, di Giuseppina Mellace, Newton Compton) mostra un’atroce esecuzione: tre carnefici sgozzano la vittima. Ma niente foibe, nemmeno qui: i carnefici sono miliziani cetnici, che uccidono un collaborazionista serbo. Nell’iconografia delle “vittime italiane di Tito” c’è anche la foto, spaventosa, di un uomo ridotto a uno scheletro. In realtà si tratta di un deportato croato nel campo di concentramento italiano dell’isola di Arbe. L’immagine è addirittura sulla copertina del libro di Alessandra Kersevan “Lager italiani, pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi 1941-1943”, edito da Nutrimenti.«Se il comunismo è finito, perché l’anticomunismo prospera?», si domanda Angelo d’Orsi su “Micromega”. «A Kiev come a Roma, a Budapest come a Varsavia, a Washington come a Berlino, in Brasile come in Cile, governanti, magistrati, politici, giornalisti e professori emanano leggi, accendono polemiche, aprono processi, creano norme amministrative o si spingono a riscrivere la storia in un senso diligentemente revisionistico, e rovescistico». Obiettivo: mandare alla sbarra «il comunismo, i suoi teorici, i suoi esponenti storici, i suoi dirigenti e militanti», ignorando deliberatamente «l’ansia di liberazione di centinaia di milioni di esseri umani, schiacciati dai grandi potentati economici e vilipesi da una ingiustizia mostruosa», cioè le motivazioni – drammaticamente concrete – che alimentarono la speranza di riscatto sociale agitata dal comunismo nel ‘900. «Quell’ansia di liberazione dei subalterni è stata moltiplicata dagli svolgimenti del turbocapitalismo nel senso della disuguaglianza, dell’oppressione, dell’ingiustizia. Delle nuove povertà per le classi medie, delle accresciute povertà per i poveri, delle accresciute ricchezze per i ricchi». A questo serve la memoria dolorosa delle foibe degradata a propaganda: ad assolvere i potenti di oggi.«Berlusconi, Salvini, Meloni e loro adepti, non esitano a richiamare lo spauracchio comunista, convinti che quel richiamo porterà voti», scrive d’Orsi. Lo stesso Vespa, «tradendo ogni deontologia professionale», in una puntata di “Porta a Porta” dedicata alle foibe «scatena il proprio demone anticomunista, contro ogni verità accertata». Mattarella? Cita solo di striscio l’ombra – nerissima e insanguinata – della feroce occupazione della Jugoslavia da parte dell’Italia. Vespa e Mattarella, secondo d’Orsi, «in fondo colpiscono nel “comunismo titino” qualsiasi idealità comunista, ossia ogni esigenza di giustizia». E che per farlo «offendano la verità storica», poco importa. «Poco importa che centri di ricerca accreditati abbiano prodotto monografie, saggi, articoli, in grado di smontare le balle spaziali sulle foibe. Poco importa che gli italiani occupanti abbiano seminato morte e distruzione nella Jugoslavia». Inutile ricordare che l’esercito partigiano di Tito contribuì in modo determinante alla liberazione dell’Europa. «Se si prova a opporre ragionamenti argomentati alle più truci invettive, dati reali e certificati ai dati inventati, vicende storiche accertate alla propaganda becera – conclude d’Orsi – allora si viene sommersi dall’ingiuria e additati, una volta di più, con la stentorea accusa: “Comunista!”. Parola che vorrebbe essere il culmine dell’infamia, ma forse, a maggior ragione se si guarda a chi la proferisce, diventa un titolo di merito».Ci sono foibe dove, ancora oggi, sparisce la verità: inghiottita dalla propaganda. Se il comunismo è morto, perché l’anticomunismo scoppia di salute? Forse per seppellire (nelle nuove foibe mediatiche) la memoria dell’antifascismo storico, inteso come impegno a lottare contro un sistema ingiusto e dispotico. Traduzione: il potere ha sempre ragione, e chi lo contesta è un delinquente. E’ la tesi di Angelo d’Orsi, impegnato con altri studiosi in un convegno a Torino. Gli storici hanno protestato formalmente con Mattarella per la dichiarazione rilasciata in occasione del 10 febbraio, “Giorno del Ricordo” dedicato alle vittime delle feroci rappresaglie, contro gli italiani, attuate alla fine della Seconda Guerra Mondiale dai partigiani di Tito nella Jugoslavia che prima era stata sottoposta alla feroce occupazione dell’esercito fascista (di cui nessuno parla). «Quella delle “foibe” è una vera e propria operazione politico-culturale, che ha contribuito a creare o consolidare un senso comune anticomunista, e anti-antifascista, volto a favorire una memoria contraffatta», afferma d’Orsi insieme ai colleghi Andrea Martocchia, Alessandra Kersevan, Claudia Cernigoi, Sandi Volk e Davide Conti. «La menzogna viene propalata, ripetuta, ribadita, fino a che diventa senso comune».
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Magaldi: cara Bonino, più Europa? Non questa, degli zombie
Cosa c’è sotto il turbante di Emma Bonino? Possibile che, nel 2018, ci sia ancora qualcuno – radicale, per giunta – che crede alle favole del più decrepito neoliberismo thatcheriano? «Pensate ad una famiglia già super-indebitata, che continua a indebitarsi sempre più, pagando interessi sempre più onerosi alle banche: arriverà un giorno la bancarotta, che si lascerà ai figli», recita la campagna elettorale di “+Europa”. Parole che sembrano arrivare dall’oltretomba della politica, dalla notte dei morti viventi ravvivata dal fantasma di Mario Monti. «Il vero problema italiano è il debito pubblico al suo massimo storico», nientemeno. E certo: il debito, la famiglia. «Come se la famiglia fosse dotata di sovranità monetaria: per lei, come per l’azienda, il debito è certamente un problema», dice Marco Moiso, coordinatore del Movimento Roosevelt, in chat su YouTube con Gioele Magaldi. Incredulo, di fronte all’uscita della Bonino: com’è possibile, dopo il disastro dell’austerity europea, “bersi” ancora il dogma del neoliberismo che finge di non sapere che lo Stato, dotato di sovranità monetaria, ha una capacità di spesa (e di indebitamento) virtualemente illimitata? «Non è da radicali, appiattirsi su un dogmatismo così desolante, allineato all’ignoranza economica e all’insipienza generale del mainstream, politico e mediatico, affollato di presunti esperti del calibro di Alberto Alesina, in realtà un comico, che insieme a Francesco Giavazzi non ne ha azzeccata una, in tutti questi anni».
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Soldati italiani in Niger, a proteggere l’uranio dei francesi
Soldi e uranio, col rischio di finire in mezzo a una guerra. L’Italia in Niger con 500 soldati, su invito della Francia? Motivo ufficiale: fermare, nel Sahel, la tratta dei migranti e il fondamentalismo islamico. Ma attenzione: il Niger ha appena ottenuto, dalla conferenza parigina dei donatori, un super-finanziamento da 23 miliardi di dollari. Un pacchetto di aiuti, come si dice in gergo, “allo sviluppo e alla sicurezza”, i cui appalti sono destinati a imprese europee. «Di sicuro vedremo quindi imprese italiane su quel campo, per non parlare della fornitura di armi necessaria alla “stabilizzazione”», scrive il blog “Senza Soste”, che mette a fuoco anche l’altra possibile motivazione della strana missione italiana, annunciata da Gentiloni dal ponte di una portaerei. «Il punto è che in Niger, oltre ai 23 miliardi di dollari in aiuti che andranno trasformati in appalti, c’è qualcosa che vale, come sempre, una spedizione militare: qualcosa di serio, come quel tipico prodotto da green economy che è l’uranio». Non è certo una novità: proprio per l’uranio destinato al nucleare fu montato, nel 2002, il caso Nigergate. «In poche parole, si scrive Niger e si legge uranio. Stiamo parlando del quinto produttore di uranio al mondo ma con una popolazione, di venti milioni di persone, stimata tra le dieci più povere del pianeta».In Niger c’è anche Arlit, una delle capitali mondiali della produzione di uranio impoverito, continua il newsmagazine. E’ proprio il pericolosissimo materiale «che provocò la morte dei soldati italiani al ritorno dalle missioni coloniali in Kosovo, Afghanistan e Jugoslavia (340 morti, 4000 malati, una strage silenziata al massimo dai media, con D’Alema e Mattarella, all’epoca ministro della difesa, che in materia negarono l’impossibile)». Ma in Niger, continua “Senza Soste”, «se si scrive uranio si legge Areva, una multinazionale francese a proprietà pubblica, con un proprio distinto grattacielo al quartiere parigino della Défense». Il campo si fa quindi più chiaro: resta in mano francese lo sfuttamento e l’export dell’uranio del Niger, i cui proventi non vanno certo ad una popolazione ben al di sotto del livello di povertà. «L’export di uranio del Niger, oltre a non fruttare niente per il popolo di quel paese e inquinarne pesantemente le acque, fornisce energia per il 50 per cento della popolazione francese». E’ evidente quindi che «lo sviluppo drammaticamente ineguale in Niger è un affare interno della Francia». Ma anche esterno, «perchè nella fornitura di energia atomica in Ue, che è circa un terzo di quella complessiva, l’uranio permette alla Francia di essere la principale produttrice di energia del continente, con una quota del 17,1% sulla produzione totale Ue e davanti a Germania (15,3%) e Regno Unito (in calo, ma al 13,9%)».Così è tutto più chiaro, scrive “Senza Soste”: «Gli scafisti di un paese senza sbocco al mare c’entrano poco, se non come fake news all’amatriciana». L’Italia? Forse potrebbe ricavarne, in cambio, anche una quota di energia. Ma, al netto degli eventuali appalti per Roma – una possibile fetta dei 23 miliardi concessi in “aiuti” – il blog segnala che le nostre truppe saranno inserite in un disegno, interamente francese, di ristrutturazione “coloniale” dell’area, dopo la crisi apertasi nel 2011 per Areva, costretta a rivedere una serie di reattori dopo il disastro giapponese di Fukushima. Il 2011, ricorda la “Bbc”, è anche l’anno del cosiddetto “uranium-gate”, che coinvolge l’Areva in fenomeni di corruzione in Niger, con fondi neri finiti in Russia e in Libano, fuori dal controllo di Parigi. Altro obiettivo, per la Francia: contrastare la presenza della Cina sul terreno: «E visto che in Africa i cinesi non esistono, sul piano militare, non c’è niente di meglio che ristrutturare Areva dall’interno e far valere la propria presenza sul campo in termini di truppe, con l’aiuto dell’Italia». Il rischio? La guerriglia: dopo la sollevazione dei Tuareg che ha minacciato proprio le miniere di uranio, si è già fatta sentire una guerriglia definita “islamista”, che ha già colpito siti francesi nel 2013.«Secondo fonti africane in lingua inglese, la guerra dell’uranio in Niger sembra essere appena cominciata: una guerra con gli Usa che forniscono i droni, mentre la Francia e l’Italia sono sul campo – la prima a difendere i propri interessi diretti, la seconda a supporto», cercando di rimediare appalti o magari una posizione privilegiata nella produzione di energia. Gruppi islamisti? In un articolo seguito all’uccisione di quattro soldati americani nell’area, il “Guardian” parla di gruppi in grado di colpire ma difficili da identificare, «in una delle più remote e caotiche zone di guerra del pianeta». Ed è in questo tipo di zona che la Francia vuol rimettere ordine, con l’aiuto italiano, anche per fronteggiare la minacciosa concorrenza del Kazakhstan, super-produttore di uranio. «Se ne può stare certi: le mosse legate al Niger vedranno un piano di decisione politico, su più capitali dell’Occidente, e uno legato alla situazione sui mercati finanziari. Poi si potrà raccontare degli scafisti, dei progressi contro la guerriglia islamista», a beneficio dei grandi media e del loro pubblico ignaro. Non a caso, è già partito il ritornello degli “aiuti” per fronteggiare la devastante emergenza-siccità che sta flagellando l’area. «Per evitare tragedie nel Sahel, legate alla fuga dai territori, basterebbe intervenire sulle crisi idriche, favorendo le naturali economie locali, e non immaginare di creare fortezze da fantascienza».Se però andiamo a vedere la vastità della crisi idrica che tocca il Niger, aggiunge “Senza Soste”, vediamo che non comprende solo quel paese ma anche tutta la grande fascia sub-sahariana, dalla Mauritania all’Eritrea. E spesso, le zone toccate dalla crisi idrica coincidono con quelle interessate dalla cosiddetta guerriglia islamica: è il caso del Mali, oggetto di intervento francese a inizio 2013. «Parigi interviene, quando la crisi economica e politica precipita, per “stabilizzare” economia e situazione politica del paese e far valere gli interessi francesi. La novità è che, stavolta, interviene anche l’Italia», coinvolta anche nell’intricato dopoguerra in Libia. Riusciranno a pesare sulla crisi, i maxi-appalti in arrivo? «A essere cinici – scrive “Senza Soste” – con 150 milioni annui, e qualche cerimonia militare, l’Italia si dovrebbe garantire un po’ di appalti, per una cifra magari 20 o 30 volte superiore, per le proprie imprese dal settore infrastrutture a quello della fornitura». Secondo Gianandrea Gaiani di “Analisi Difesa”, non è né garantito l’affrancamento dalla subalternità militare a Parigi, già evidenziatosi con la crisi libica del 2011, né il processo di razionalizzazione dei flussi migratori. La politica italiana? Considera “naturale” «l’assenza di qualsiasi visione strategica sull’Africa, continente la cui sinergia tra miseria e boom demografico è ottima candidata ad essere un futuro problema per l’Europa».Soldi e uranio, col rischio di finire in mezzo a una guerra. L’Italia in Niger con 500 soldati, su invito della Francia? Motivo ufficiale: fermare, nel Sahel, la tratta dei migranti e il fondamentalismo islamico. Ma attenzione: il Niger ha appena ottenuto, dalla conferenza parigina dei donatori, un super-finanziamento da 23 miliardi di dollari. Un pacchetto di aiuti, come si dice in gergo, “allo sviluppo e alla sicurezza”, i cui appalti sono destinati a imprese europee. «Di sicuro vedremo quindi imprese italiane su quel campo, per non parlare della fornitura di armi necessaria alla “stabilizzazione”», scrive il blog “Senza Soste”, che mette a fuoco anche l’altra possibile motivazione della strana missione italiana, annunciata da Gentiloni dal ponte di una portaerei. «Il punto è che in Niger, oltre ai 23 miliardi di dollari in aiuti che andranno trasformati in appalti, c’è qualcosa che vale, come sempre, una spedizione militare: qualcosa di serio, come quel tipico prodotto da green economy che è l’uranio». Non è certo una novità: proprio per l’uranio destinato al nucleare fu montato, nel 2002, il caso Nigergate. «In poche parole, si scrive Niger e si legge uranio. Stiamo parlando del quinto produttore di uranio al mondo ma con una popolazione, di venti milioni di persone, stimata tra le dieci più povere del pianeta».
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Ma il nemico è comodo, per gli oligarchi del Medio Oriente
Quando la smetteranno, israeliani e palestinesi, di fornire alibi a chi campa da decenni speculando comodamente sul loro drammatico conflitto? Un accordo diretto e spettacolare che puntasse a una pace definitiva, oggi impensabile, spiazzerebbe di colpo tutte le diplomazie, regionali e mondiali, da sempre abituate a dare per scontata l’impossibilità di risolvere una buona volta quello scontro ormai antico, degenerato in cancrena. «Ci provò il massone progressista Yitzhak Rabin, ma sappiamo come finì». Fu assassinato a Tel Aviv il 4 novembre del ‘95 da un ebreo fondamentalista, contrario al processo di pace e spaventato dalla determinazione del primo ministro, un uomo che la pace la voleva davvero. «Gli eroi come Rabin, però, illuminano il percorso di quelli che verrano dopo», dice Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, a colloquio con David Gramiccioli di “Colors Radio” all’indomani della decisione di elevare Gerusalemme al rango di capitale dello Stato ebraico, con il placet della Casa Bianca, nonostante il prevedibile terremoto in corso, fatto di proteste e tensioni. «Deploro la metodologia utilizzata», chiarisce Magaldi: non è con simili alzate d’ingegno che si può trovare una soluzione, tantomeno nell’assenza (catastrofica) di una politica europea in grado di far sedere israeliani e palestinesi allo stesso tavolo.Sarebbe un bel sogno, dice Magaldi, veder sorgere la democrazia sia in Europa che in Medio Oriente: un’Europa «unita e finalmente democratica al posto dell’attuale Europa matrigna», e sull’altra sponda del Mediterraneo una convivenza-modello tra due Stati che si rispettano, Israele e Palestina. Ma se oggi questo sogno resta nel cassetto, aggiunge, è anche per colpa degli europei, dei loro leader inconsistenti: «L’alto commissario per gli affari esteri Ue è Federica Mogherini, scelta perché non avrebbe fatto ombra a nessuno. Ma non è che gli altri brillino per carisma e personalità: l’Ue è inesistente, lo si è visto nella crisi dell’ex Jugoslavia e lo si vede oggi nell’assoluta incapacità di fornire una voce univoca per la soluzione del problema israelo-palestinese». Magaldi si definisce filo-israeliano nella misura in cui resta minaccioso il fronte anti-istraeliano: «Quel piccolo Stato, un fazzoletto di terra, lo considero la maggior garanzia, anche psicologica, per tutti gli ebrei nel mondo: la sua esistenza certifica che non accadrà mai più quello che è accaduto in secoli e millenni, con persecuzioni e vessazioni materiali incise nella carne viva di tanti ebrei».Al tempo stesso, però, Magaldi è favore della costituzione di uno Stato palestinese che possa convivere pacificamente con Israele «e che però sia guidato, a differenza di quanto accaduto sin qui, da autorità governative garanti di un equilibrio democratico, laico e liberale». Ma attenzione: «Spesso gli attori del Medio Oriente non sono quello che sembrano e non pensano davvero di voler fare quello che dicono: c’è una narrazione infedele, spesso da decodificare, fatta di avvertimenti incrociati». Se la bandiera della pace ancora non sventola, fra Tel Aviv e Ramallah, è soprattutto per colpa di classi dirigenti caratterizzate da una visione «bieca e spregiudicata, spesso d’intesa con quelli che appaiono nemici». Troppe volte, insiste Magaldi, «tra settori israeliani e settori apparentemente anti-istraeliani ha pesato una segreta e occulta connivenza nel senso dello sfascio, attraverso progressive provocazioni che poi consentono agli uni e agli altri di perseguire propri interessi inconfessabili». Una politica a doppio fondo, nutrita di sangue (per lo più palestinese) e perfettamente impunita, anche grazie alla vergognosa assenza del vicino più potente, l’Europa.Quando la smetteranno, israeliani e palestinesi, di fornire alibi a chi campa da decenni speculando comodamente sul loro drammatico conflitto? Un accordo diretto e spettacolare che puntasse a una pace definitiva, oggi impensabile, spiazzerebbe di colpo tutte le diplomazie, regionali e mondiali, da sempre abituate a dare per scontata l’impossibilità di risolvere una buona volta quello scontro ormai antico, degenerato in cancrena. «Ci provò il massone progressista Yitzhak Rabin, ma sappiamo come finì». Fu assassinato a Tel Aviv il 4 novembre del ‘95 da un ebreo fondamentalista, contrario al processo di pace e spaventato dalla determinazione del primo ministro, un uomo che la pace la voleva davvero. «Gli eroi come Rabin, però, illuminano il percorso di quelli che verrano dopo», dice Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, a colloquio con David Gramiccioli di “Colors Radio” all’indomani della decisione di elevare Gerusalemme al rango di capitale dello Stato ebraico, con il placet della Casa Bianca, nonostante il prevedibile terremoto in corso, fatto di proteste e tensioni. «Deploro la metodologia utilizzata», chiarisce Magaldi: non è con simili alzate d’ingegno che si può trovare una soluzione, tantomeno nell’assenza (catastrofica) di una politica europea in grado di far sedere israeliani e palestinesi allo stesso tavolo.
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Sepúlveda: repubblica federale, o la Spagna non esisterà più
«Mariano Rajoy sta giustificando la brutalità dimostrata dalla Guardia Civil e dalla Policía Nacional contro una popolazione civile, contro cittadini che, con o senza ragione, volevano solo andare alle urne e votare». Luis Sepúlveda, scrittore cileno che ha scelto di vivere in Spagna il suo lungo esilio, e di cui è appena uscito in Italia il libro “Storie ribelli” (Guanda) parla con il “Corriere della Sera” mentre in televisione scorrono le immagini della conferenza stampa del premier spagnolo, che ha dato ordine ai reparti antisommossa di usare la forza contro la popolazione: oltre 700 persone ferite da pugni e calci, manganellate e proiettili di gomma. «Fino a pochi giorni fa, il numero dei catalani disposti a partecipare al referendum era la metà di quelli che hanno poi tentato di votare», osserva Sepúlveda, intervistato da Sara Gandolfi. I catalani «non hanno votato per o contro l’indipendenza», sostiene l’autore del bestseller “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare”. I cittadini di Barcellona e Girona «votavano per il diritto a decidere liberamente, e contro l’arroganza di un governo ottuso, troppo vicino al franchismo, troppo immobile e insensibile ai problemi che si devono risolvere in modo politico e mai con la forza della repressione».
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Limonov: combatto Putin, ma il vero traditore è Gorbaciov
Quando sono nato, in un paesino sovietico di poveri operai ucraini, non avevo alcuna chance. Sarei morto di vodka e disperazione lavorando in qualche fabbrica. (E invece, una lunga cavalcata sempre controcorrente. I circoli letterari di Mosca, i primi romanzi, la fuga in America e la scoperta che quello non era proprio un mondo ideale). Mai avuta tanta simpatia per l’America e per il suo stile di vita. Avessi potuto scegliere sarei andato in Italia, o comunque in Europa. Anche in America mi ritrovai a contestare il sistema. D’altra parte i miei riferimenti, i miei amici, erano tutti legati alla sinistra europea. Che allora era più antiamericana dell’Urss. Ho parlato spesso parlato malissimo dei dissidenti dell’epoca, come Aleksandr Solgenitsyn. In quegli anni non potevo soffrire i dissidenti di mestiere come Solgenitsyn e Andrej Sakharov. Li consideravo falsi, costruiti. Adesso però riconosco la loro grandezza. Ammetto che la loro influenza è stata utile. E mi fanno pena per quello che hanno lasciato. Solo macerie. Solgenitsyn, che vagheggiava l’unione panslava di Russia, Ucraina e Bielorussia, ha visto morire i suoi sogni già nel ‘91. Mi mette tristezza pensare ad un uomo che vede crollare in diretta il suo sogno filosofico.Sakharov? Lui almeno non ha potuto vedere come è finita la sua coraggiosa battaglia. Non saprà mai di aver contribuito a fare arricchire i nuovi ladruncoli democratici. Ho smesso di scrivere romanzi dopo i successi del periodo francese e mi sono dedicato alla mia guerra personale contro Putin tra le fila di un neo-partito bolscevico. Che voleva dire bolscevico nella Russia del 2012, nostalgia di un passato dimenticato? In un certo senso sì. Molte cose andavano cambiate, adeguate ai tempi. Ma la distruzione di tutto è stato un errore gravissimo. Un disastro. Per questo non perdonerò mai Gorbaciov e Eltsin. Gorbaciov in particolare. Per lui ci vorrebbe la ghigliottina, scrivetelo. Voi occidentali continuate a considerarlo un eroe. Ma qui in Russia non lo sopporta nessuno. Vi siete mai chiesti il perché? Perché ha smantellato il Patto di Varsavia, ci ha fatto perdere tutto quello che controllavamo. Ha fatto riunire la Germania devastando ogni equilibrio in Europa. E la Germania Unita ha per esempio fomentato la guerra in Jugoslavia. Le migliaia di vite perdute nella guerra dei Balcani sono tutte a carico del signor Gorbaciov.Su Putin ho un atteggiamento freddo. Ci ha tolto la libertà, è vero, e lo combatto per questo. Ma con lui almeno si sopravvive. Negli anni del caos di Eltsin, invece si faceva fatica pure a trovare il pane. Dunque Putin meglio di Eltsin? Diciamo che la priorità è il pane. Poi viene la libertà. Dunque prima ero contro Eltsin e adesso contro Putin per motivi diversi. Come proporre ancora un modello bolscevico? Il partito bolscevico nacque in Germania prima della Rivoluzione. È a quello che mi ispiro. Diciamo che è una via di mezzo tra libertà individuale e giustizia sociale. Le proteste di piazza in Russia? Non mi fido dei giovanotti piccolo-borghesi che protestano adesso. Sono confusi, velleitari, e sono manipolati da vecchi politicanti come Nemtsov che fanno il gioco del Cremlino. Tra un po’ la moda passerà. Il romanzo? E’ un genere letterario ormai superato. È nato nell’Ottocento, ma adesso non vale più niente. È una forma plebea di letteratura. E lo dico io che ne ho scritto 25 di buon livello. Adesso ho smesso. Mi dedico ai saggi. I romanzi sono ormai roba per adolescenti ignoranti.Cosa dovrebbe scrivere uno scrittore moderno? La verità nuda e cruda. L’altro giorno rileggevo i verbali delle testimonianze nei miei confronti in uno dei tanti processi contro di me. C’erano le voci di decine di personaggi reali. Una densità drammatica che nemmeno Shakespeare sarebbe riuscito a realizzare. E comunque io non mi considero nemmeno uno scrittore, ma un intellettuale. Che è ben diverso da essere un membro della intelligentsja. Di quelli ce ne sono tanti, in tutte le epoche. Si limitano a propagandare quello che gli intellettuali veri hanno elaborato almeno vent’anni prima.(Eduard Limonov, dichiarazioni rilasciate a Nicola Lombardozzi per l’intervista “Io, l’intellettuale bolscevico che odia Putin e Gorbaciov”, apparsa sul “Venerdì di Repubblica” del 2 novembre 2012).Quando sono nato, in un paesino sovietico di poveri operai ucraini, non avevo alcuna chance. Sarei morto di vodka e disperazione lavorando in qualche fabbrica. (E invece, una lunga cavalcata sempre controcorrente. I circoli letterari di Mosca, i primi romanzi, la fuga in America e la scoperta che quello non era proprio un mondo ideale). Mai avuta tanta simpatia per l’America e per il suo stile di vita. Avessi potuto scegliere sarei andato in Italia, o comunque in Europa. Anche in America mi ritrovai a contestare il sistema. D’altra parte i miei riferimenti, i miei amici, erano tutti legati alla sinistra europea. Che allora era più antiamericana dell’Urss. Ho parlato spesso parlato malissimo dei dissidenti dell’epoca, come Aleksandr Solgenitsyn. In quegli anni non potevo soffrire i dissidenti di mestiere come Solgenitsyn e Andrej Sakharov. Li consideravo falsi, costruiti. Adesso però riconosco la loro grandezza. Ammetto che la loro influenza è stata utile. E mi fanno pena per quello che hanno lasciato. Solo macerie. Solgenitsyn, che vagheggiava l’unione panslava di Russia, Ucraina e Bielorussia, ha visto morire i suoi sogni già nel ‘91. Mi mette tristezza pensare ad un uomo che vede crollare in diretta il suo sogno filosofico.
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La Truffa dei Sei Giorni: così Israele eliminò l’Ataturk arabo
La Truffa dei Sei Giorni: «In realtà la guerra-lampo del 1967 durò appena 6 minuti, il tempo che impiegò l’aviazione israeliana per annientare quella egiziana, ancora a terra», senza che un solo aereo del Cairo avesse potuto decollare. E i famosi Sei Giorni? «Servirono solo a occupare e annettere territori non-israeliani, che da allora – con la sola eccezione del Sinai – fanno parte di Israele». Parola dello storico statunitense Norman Filkenstein, intervistato da Aaron Mate per l’emittente “The Real News” nel cinquantesimo anniversario della Guerra dei Sei Giorni, giugno 1967, evento fondante del mito vittimistico dell’autodifesa di Israele, paese “attaccato dagli arabi”. Un falso storico, accusa l’autore del bestseller “Palestine: Peace Not, Apartheid”, tradotto in 50 paesi. Fu Israele a provocare il conflitto, afferma Filkenstein: abbattè deliberatamente alcuni aerei siriani, ben sapendo che l’Egitto sarebbe stato costretto a schierarsi con la Siria, cui era legato da un patto di mutua assistenza. Obiettivo segreto di Tel Aviv: conquistare falcilmente territori, sapendo (da Cia e Mossad) che gli arabi non avrebbero potuto resistere. E soprattutto: demolire il leader politico egiziano Nasser, temutissimo come possibile “Ataturk arabo”, capace di guidare lo sviluppo laico del Medio Oriente, superando la storica arretratezza della regione.A partire dal 5 giugno del 1967, ricorda Filkenstein, Israele «ha catturato il Sinai egiziano, le alture del Golan siriano, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Con l’eccezione del Sinai, Israele controlla ancora tutti questi territori. Di fatto l’occupazione militare israeliana della Cisgiordania e di Gaza è la più lunga dei tempi moderni». La versione ufficiale del mainstream è quella ancora oggi rilanciata dal “New York Times”, che scrive: «Quest’anno segna mezzo secolo dalla guerra arabo-israeliana del 1967, nella quale Israele ha resistito vittoriosamente a una minaccia di annientamento da parte dei suoi vicini arabi». Tutto falso, replica lo storico: «E’ un grosso problema, è ciò che noi chiamiamo “falsificare la storia”». E spiega: sia la Cia che il Mossad – è documentato – sapevano perfettamente che gli eserciti arabi non avrebbero potuto resistere all’attacco di Israele, la cui unica preoccupazione era: come avrebbe reagito il presidente americano Lyndon Jonhson? «Nel 1957, dieci anni prima, gli Usa avevano agito con molta severità. Dwight Eisenhower aveva dato a Israele un ultimatum: uscite dal Sinai, o dovrete affrontare una forte reazione del governo degli Stati Uniti. Nel 1967 gli israeliani avevano paura che si ripetesse la situazione del 1957».Sicché, Tel Aviv mandò emissari a tastare il polso di Washington. Come il generale Meir Amit, capo del Mossad. La risposta degli Usa: nessun indizio che il presidente egiziano Abdel Gamal Nasser stesse per attaccare Israele. Nasser, disse Johnson, sa benissimo che, «se vi attacca, voi israeliani gli darete una batosta». Una valutazione Cia, identica a quella del Mossad. Tel Aviv sapeva perfettamente che non aveva nulla da temere, dall’Egitto. Il segretario alla difesa, Robert McNamara, fu ancora più preciso: disse a Israele che, in caso di guerra, avrebbe vinto in 7 giorni, 10 al massimo. Era vero: la guerra sarebbe terminata «non solo in 6 giorni, ma letteralmente in 6 minuti circa», afferma Filkenstein. «Nel momento in cui Israele ha lanciato il suo attacco-lampo e distrutto la flotta aerea egiziana, che era ancora al suolo, ha tolto tutti gli appoggi aerei alle truppe al suolo. Era finita. L’unica ragione per la quale questa guerra è durata sei giorni, è perché volevano impadronirsi dei territori. Era un’occupazione violenta delle terre». Come sono riusciti a coinvolegere l’Egitto, sapendo che mai Nasser – di sua iniziativa – avrebbe aperto le ostilità? Semplice: attaccando la Siria, alleata dell’Egitto. Fu lo stesso Moshe Dayan ad ammettere che, nell’aprile del 1967, Israele abbattè 6 aerei siriani, uno dei quali nel cielo sopra Damasco.Ammise Dayan, poi uomo-chiave del governo Begin a partire dal 1977: «Vi dirò perché noi avevamo tutti questi conflitti con la Siria. C’era una zona smilitarizzata tracciata dopo la guerra del 1948 tra la Siria e Israele. Almeno l’80% del tempo noi mandavamo dei bulldozer in questa zona smilitarizzata perché Israele era impegnata a occupare territori con la forza». Israele, quindi, cercava di impadronirsi di terre nella zona smilitarizzata. Racconta Filkenstein: «Mandava dei bulldozer, i siriani reagivano, e questo aumentava la tensione. Nel aprile 1967 questo è sfociato in un combattimento aereo tra siriani e israeliani. Dopodiché Israele ha cominciato a minacciare, verbalmente, di lanciare un attacco contro la Siria. La dichiarazione più celebre in quel momento la fece Yitzhak Rabin, ma numerosi responsabili israeliani minacciavano la Siria». Lo storico israeliano Ami Gluska, nel suo libro “L’esercito israeliano e le origini della guerra del 1967”, scrive: «La valutazione sovietica della metà di maggio 1967, che Israele stava per colpire la Siria, era giusta e ben fondata». C’erano voci attendibili, dunque, secondo le quali Israele avrebbe aggredito gli arabi. Gluska «conferma che gli israeliani avevano preso la decisione di attaccare».L’Egitto aveva un patto di difesa con la Siria: sapendo che era imminente un attacco israeliano aveva l’obbligo di andare in aiuto di Damasco. Per questo, Nasser ha schierato – a scopo dissuasivo – delle truppe egiziane nel Sinai, zona allora presidiata da una forza di pace dell’Onu, l’Unef. La United National Emergency Force divideva l’Egitto da Israele. Nasser ha chiesto a U Thant, segretario generale dell’Onu, di ritirarla. In forza della legge, U Thant era obbligato a ritirare quelle truppe. «Ma c’era una risposta molto semplice alla richiesta di Nasser: spostate le truppe dell’Onu sul versante israeliano», ricorda Filkenstein. «Nel 1957, quando era stata schierata l’Unef, si erano accordati per disporla sia sul lato egiziano della frontiera, sia sul lato israeliano. Così, nel 1967, quando Nasser ha detto: “Ritirate l’Unef dalla nostra parte”, tutto quello che Israele doveva dire era: “Bene, noi la riposizioniamo dalla nostra parte della frontiera”, sul versante israeliano. Ma non lo hanno fatto». Ragiona lo storico: «Se l’Unef avrebbe veramente potuto evitare un attacco egiziano, come suggerisce Israele quando dice che U Thant ha commesso un errore monumentale ritirando la forza dell’Onu, perché gli israeliani non l’hanno semplicemente schierata dall’altra parte della frontiera?». Ovvio: perché erano loro a volere la guerra.Altro piccolo casus belli: c’erano degli attacchi di guerriglia contro la frontiera israeliana lanciati dalla Giordania e dalla Siria, descritti nella storia ufficiale come una grande minaccia per la sicurezza di Israele. Si trattava di incursioni di commandos palestinesi, sostenuti principalmente dal regime siriano. «Ma come hanno riconosciuto anche gli ufficiali superiori israeliani – obietta Filkenstein – la ragione per la quale la Siria incoraggiava questi raid di commandos era l’occupazione delle terre nelle zone smilitarizzate da parte di Israele». Inoltre si trattava di «azioni coraggiose ma estremamente inefficaci», peraltro «compiute da persone che erano state private della loro patria nel 1948». In alre parole, quei palestinesi «erano dei rifugiati». Avverte lo storico: «Ricordatevi che era passato poco tempo tra il 1948 e il 1967, meno di una generazione». Ma, appunto, quegli attacchi erano poco più che simbolici. A confermarlo è uno dei capi dello spionaggio israeliano, Yehosafat Harkabi, che dopo il 1967 li ha descritto come «ben poco significativi, secondo tutti i metri di giudizio».L’altro incidente storico importante che viene citato er giustificare la guerra-lampo di Israele è la chiusura, da parte dell’Egitto, dello Stretto di Tiran, all’imbocco del Mar Rosso, strategico per accedere al porto israeliano di Eilat. Passaggio marittimo chiuso effettivamente da Nasser a metà maggio. «Israele adesso respira con un solo polmone», protestò il diplomatico Abba Eban, allora rappresentante israeliano all’Onu, poi ministro degli esteri. Era vero? Non proprio, osserva Filkenstein: intanto, Israele disponeva di riserve di petrolio che garantivano allo Stato ebraico un’autonomia di mesi. «Ma la cosa più importante è che non c’è stato un blocco. Nasser era un fanfarone: ha annunciato il blocco, lo ha applicato per ciò che si stima abitualmente essere due o tre giorni, poi ha cominciato a lasciar passare tranquillamente le navi israeliane. Non c’era blocco, il problema non era un blocco fisico effettivo, il problema era politico. E cioè che Nasser aveva sfidato pubblicamente Israele. La chiusura di un canale navigabile non è un attacco armato. Comunque la si guardi, Israele non aveva alcuna valida ragione».L’Egitto aveva reagito in modo prevedibile – con il blocco (solo simbolico) del Mar Rosso – per “difendere a distanza” la Siria attaccata un mese prima dall’aviazione israeliana, agevolando così la “regia occulta” della guerra, progettata unilateralmente da Tel Aviv, travestitasi da vittima. Domanda Aaron Mate: perché Israele ha preso delle misure così straordinarie per iniziare quella guerra e impadronirsi di così tanti territori? Risponde Norman Finkelstein: perché il vero incubo di Israele era il presidente egiziano Nasser. Un politico arabo laico, indipendente, autorevole. Fin dalla sua fondazione nel 1948, il leader fondatore di Israele, David Ben Gurion, «si è sempre preoccupato che potesse arrivare al potere nel mondo arabo quello che lui chiamava un Ataturk arabo. Cioè qualcuno come il personaggio turco Kemal Ataturk, che ha modernizzato la Turchia, ha introdotto la Turchia nel mondo moderno; Ben Gurion ha sempre avuto paura che una figura come Ataturk potesse emergere nel mondo arabo, e quindi il mondo arabo si sottraesse allo Stato di arretratezza e di dipendenza dall’Occidente e potesse diventare una potenza con la quale bisognava fare i conti nel mondo e nella regione». La paura del regime sionista si impersonificò nel 1952, quando emerse Nasser come leader della rivoluzione attraverso cui l’Egitto si liberò del dominio europeo post-coloniale.Nasser, continua Filkenstein, era una figura emblematica di quell’epoca «molto inebriante», chiamata “decolonizzazione”: «L’epoca del dopoguerra, dei non-allineati, del terzomondismo». Anti-imperialismo e decolonizzazione: leader come Nehru in India, Tito in Jugoslavia. E Nasser. «Non erano ufficialmente compresi nel blocco sovietico. Erano una terza forza. Non allineata». Più incline a rivolgersi al blocco sovietico perché «ufficialmente antimperialista», ma solo a scopo difensivo: nel 1956, quando Nasser aveva sbarrato il Canale di Suez per protestare contro la mancata concessione del maxi-prestito della Banca Mondiale (Usa) per costruire sul Nilo la Diga di Assuan che averebbe dato respiro all’agricoltura egiziana, francesi e inglesi sbarcarono in armi a Port Said minacciando di deporre Nasser. Intervenne direttamente l’Urss, rivolgendo un ultimatum agli eserciti europei, tacitamente avallato dagli Stati Uniti: se le truppe anglo-francesi non avessero lasciato il litorale egiziano, Mosca le avrebbe colpite con la bomba atomica. Questo consacrò Nasser come grande leader arabo, senza farne – per forza – un satellite dei russi. Inutile aggiungere che il crescente prestigio internazionale del carismatico leader egiziano faceva paura soprattutto a Israele: sembrava davvero arrivato “l’Atarurk arabo”, il modernizzatore paventato da Ben Gurion.«Israele era considerato non senza ragione, come una postazione occidentale nel mondo arabo, e veniva ugualmente interpretato come il tentativo di mantenere nell’arretratezza il mondo arabo», osserva Filkenstein. C’era dunque una sorta di conflitto e di contrapposizione tra Nasser e Israele. E questo ha dato il via, come viene documentato anche stavolta assai scrupolosamente non da Finkelstein ma da uno storico importante molto considerato, cioè Benny Morris. Nel libro “Le guerre di frontiera di Israele”, che parla del periodo tra il 1949 ed il 1956, Morris dimostra che «intorno al 1952-53 Ben Gurion e Moshe Dayan erano veramente determinati a provocare Nasser, a continuare a stuzzicarlo fino a che avessero un pretesto per distruggerlo: volevano sbarazzarsi di lui». Insistettero, in modo che a un certo punto il leader egiziano non potesse fare a meno di rispondere: «Sostanzialmente Nasser è stato preso in trappola». Per Morris, la stessa crisi di Suez del 1956 era nata da «un complotto ordito dagli israeliani per rovesciarlo, con il concorso degli inglesi e dei francesi», con i quali Israele collaborò invadendo il Sinai.Gli americani non si opposero alla ferma difesa di Nasser da parte dell’Urss. «Eisenhower pensava che non fosse ancora il momento adatto», per abbattere il “raiss” egiziano. «Ma anche gli americani sicuramente volevano sbarazzarsi di Nasser», aggiunge Filkenstein: «Lo vedevano tutti come una spina nel fianco». Sicché, la guerra-lampo del 1967 non sarebbe altro che «una ripetizione del 1956, con una differenza fondamentale: il sostegno americano». Alla Guerra dei Sei Giorni, infatti, «gli Stati Uniti non si sono opposti», restando «molto prudenti e cauti nelle loro dichiarazioni». Non hanno sostenuto apertamente la guerra di Israele, «perché era illegale». E gli Usa erano già impantanati nella tragedia del Vietnam, estremamente impopolare: «Non volevano impegnarsi anche nel sostegno a Israele, che sarebbe stato visto allo stesso modo come il colonialismo occidentale che tenta di prevalere sul Terzo Mondo, sul mondo non-allineato». Ma c’era un comune interesse strategico: eliminare Nasser. «Era un obiettivo a lungo termine, mantenere il mondo arabo nell’arretratezza. Mantenerlo in uno stato subordinato, primitivo».Perfettamente funzionali, in questo, il “falchi” israeliani come Ariel Sharon: «Dobbiamo attaccare adesso, perché altrimenti perdiamo la nostra capacità di dissuasione». Frase storica, rimasta – da allora – a fondamento della “dottrina” politico-militare di Israele, la propaganda vittimistica che ha giustificato massacri come quello della popolazione della Striscia di Gaza. «La “capacità di dissuasione” – traduce Filkenstein – significa: “la paura che di noi ha il mondo arabo”». La “colpa” di Nasser? «Risollevava il morale degli arabi, i quali non avevano più paura». E per gli israeliani la paura «è una carta molto forte, per tenere gli arabi al loro posto». A questo, ovviamente, si aggiunge la “necessità”, per Israele, di incrementare i propri territori a spese degli arabi. E in tutto questo, chiarisce lo storico, la religione non c’entra: «Bisogna ricordare che il movimento sionista era per la maggior parte secolare, per la grandissima parte ateo. Una larga parte si considerava socialista e comunista e non aveva nessun aggancio con la religione. Ma consideravano lo stesso di avere un titolo legale di proprietà sulla terra perché nel loro pensiero la Bibbia non era solo un documento religioso, era un documento storico». Una mentalità “secolare”, «profondamente radicata e fanatica». Al punto da falsificare la storia, inventare un’aggressione araba mai avvenuta e organizzare la Truffa dei Sei Giorni per metter fine alla carriera di Nasser, il temutissimo Ataturk arabo.La Truffa dei Sei Giorni: «In realtà la guerra-lampo del 1967 durò appena 6 minuti, il tempo che impiegò l’aviazione israeliana per annientare quella egiziana, ancora a terra», senza che un solo aereo del Cairo avesse potuto decollare. E i famosi Sei Giorni? «Servirono solo a occupare e annettere territori non-israeliani, che da allora – con la sola eccezione del Sinai – fanno parte di Israele». Parola dello storico statunitense Norman Finkestein, intervistato da Aaron Mate per l’emittente “The Real News” nel cinquantesimo anniversario della Guerra dei Sei Giorni, giugno 1967, evento fondante del mito vittimistico dell’autodifesa di Israele, paese “attaccato dagli arabi”. Un falso storico, accusa l’autore del bestseller “Palestine: Peace Not, Apartheid”, tradotto in 50 paesi. Fu Israele a provocare il conflitto, afferma Finkestein: abbattè deliberatamente alcuni aerei siriani, ben sapendo che l’Egitto sarebbe stato costretto a schierarsi con la Siria, cui era legato da un patto di mutua assistenza. Obiettivo segreto di Tel Aviv: conquistare falcilmente territori, sapendo (da Cia e Mossad) che gli arabi non avrebbero potuto resistere. E soprattutto: demolire il leader politico egiziano Nasser, temutissimo come possibile “Ataturk arabo”, capace di guidare lo sviluppo laico del Medio Oriente, superando la storica arretratezza della regione.
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Bukovskij: l’Ue coniata con l’Urss, aspettatevi Kgb e Gulag
Nel 1992 ho avuto un accesso senza precedenti ai documenti del Politburo e del Comitato Centrale, documenti che sono stati classificati per 30 anni, e lo sono ancora oggi. Questi documenti dimostrano molto chiaramente che l’idea di trasformare il mercato comune europeo in uno Stato federale è stata concordata tra i partiti di sinistra dell’Europa e Mosca come un progetto congiunto che [il leader sovietico Mikhail] Gorbaciov nel 1988-89 chiamò la nostra “casa comune europea”. L’idea era molto semplice. È emersa per la prima volta nel 1985-86, quando i comunisti italiani visitarono Gorbaciov, seguiti dai socialdemocratici tedeschi. Tutti loro si lamentarono che i cambiamenti nel mondo, in particolare dopo che [il primo ministro britannico Margaret] Thatcher introdusse la privatizzazione e la liberalizzazione economica, stessero minacciando di eliminare le conquiste (come le definivano) di generazioni di socialisti e socialdemocratici, minacciando di annullarle completamente. Quindi l’unico modo per resistere a questo attacco del capitalismo selvaggio (come lo definivano) era cercare di introdurre contemporaneamente gli stessi obiettivi socialisti in tutti i paesi.Precedentemente, i partiti di sinistra e l’Unione Sovietica si erano molto opposti all’integrazione europea, perché la percepivano come un mezzo per bloccare i loro obiettivi socialisti. Dal 1985 in poi hanno completamente cambiato idea. I sovietici giunsero a un accordo con i partiti di sinistra e alla conclusione che, se avessero lavorato insieme, avrebbero potuto dirottare l’intero progetto europeo e ribaltarlo. Invece che in un mercato aperto, lo avrebbero trasformato in uno Stato federale. Secondo i documenti [segreti sovietici], il 1985-86 è il punto di svolta. Ho pubblicato la maggior parte di questi documenti. Potete trovarli anche su Internet. Ma le conversazioni che hanno avuto aprono veramente gli occhi. Per la prima volta si capisce che c’è una cospirazione – abbastanza comprensibile per loro, perché cercavano di salvarsi politicamente la pelle. A Est, i sovietici avevano bisogno di un cambiamento di relazioni con l’Europa, perché stavano entrando in una crisi strutturale protratta e profonda; a Occidente, i partiti di sinistra temevano di essere spazzati via e di perdere la loro influenza e il loro prestigio. Quindi era una cospirazione, apertamente fatta, concordata e elaborata da loro.Nel gennaio del 1989, per esempio, una delegazione della Commissione Trilaterale è venuta in visita a Gorbaciov. Ha incluso [l’ex primo ministro giapponese Yasuhiro] Nakasone, [l’ex presidente francese Valéry] Giscard d’Estaing, [il banchiere americano David] Rockefeller e [l’ex segretario di Stato americano Henry] Kissinger. Hanno avuto una bella conversazione dove hanno cercato di spiegare a Gorbaciov che la Russia sovietica doveva integrarsi nelle istituzioni finanziarie del mondo, come il Gatt, il Fmi e la Banca Mondiale. Nel mezzo della conversazione, Giscard d’Estaing prende improvvisamente la parola: «Signor presidente, non posso dirvi esattamente quando accadrà, probabilmente entro 15 anni, ma l’Europa diventerà uno Stato federale e dovete prepararvi a questo. Dovete lavorare con noi, e coi leader europei, e dovete essere preparati, su come reagireste, come permettereste agli altri paesi dell’Europa dell’Est di interagirvi o farne parte».Questo era il gennaio 1989, in un momento in cui il trattato di Maastricht [1992] non era nemmeno stato redatto. Come diavolo faceva Giscard d’Estaing a sapere cosa sarebbe avvenuto in 15 anni? E – sorpresa, sorpresa – come è diventato l’autore della Costituzione Europea [nel 2002-03]? Un’ottima domanda. Odora di cospirazione, vero? Fortunatamente per noi, la parte sovietica di questa cospirazione era crollata in precedenza e non raggiunse il punto in cui Mosca poteva influenzare il corso degli eventi. Ma l’idea originaria era quella di avere quella che chiamavano una convergenza, per cui l’Unione Sovietica si sarebbe addolcita diventando più socialdemocratica, mentre l’Europa occidentale sarebbe diventata socialdemocratica e socialista. Allora ci sarebbe stata la convergenza. Le strutture si sarebbero divute adattare tra loro. Ecco perché le strutture dell’Unione Europea sono state originariamente costruite allo scopo di adattarsi alla struttura sovietica. Ecco perché sono così simili nel funzionamento e nella struttura.Non è un caso che il Parlamento Europeo, ad esempio, mi ricordi il Soviet Supremo. Sembra il Soviet Supremo perché è stato progettato come il Soviet Supremo. Allo stesso modo, quando si guarda alla Commissione Europea, sembra il Politburo. Voglio dire, è esattamente il Politburo, salvo il fatto che la Commissione adesso ha 25 membri e il Politburo ha soltanto 13 o 15 membri. A parte questo, sono esattamente gli stessi, non devono rendere conto a nessuno, non sono eletti direttamente da nessuno. Quando si guarda a tutta questa bizzarra attività dell’Unione Europea con le sue 80.000 pagine di regolamenti, sembra il Gosplan. Noi eravamo abituati ad avere un’organizzazione che pianificava tutto nell’economia, fino all’ultimo dado e bullone, in anticipo per cinque anni. Esattamente la stessa cosa sta avvenendo nell’Ue. Quando si guarda al tipo di corruzione dell’Ue, è esattamente il tipo di corruzione sovietico, che procede dall’alto verso il basso piuttosto che dal basso verso l’alto.Se si passano in rassegna tutte le strutture e le caratteristiche di questo emergente mostro europeo, si noterà che assomiglia sempre di più all’Unione Sovietica. Naturalmente, è una versione più mite dell’Unione Sovietica. Per favore, non fraintendetemi. Non sto dicendo che ha i Gulag. Non ha nessun Kgb – non ancora – ma sto osservando molto attentamente ad esempio strutture come Europol. Ciò mi preoccupa molto, perché questa organizzazione probabilmente avrà poteri più grandi di quelli del Kgb. Avranno l’immunità diplomatica. Potete immaginare un Kgb con immunità diplomatica? Dovranno sorvegliarci su 32 tipi di reati – due dei quali sono particolarmente preoccupanti, uno è chiamato razzismo, l’altro è chiamato xenofobia. Nessun tribunale penale sulla terra definisce qualcosa del genere come un crimine [questo non è del tutto vero, perché il Belgio già procede in questo modo]. Quindi è un nuovo crimine, e siamo già stati avvertiti. Qualcuno nel governo britannico ci ha detto che coloro che si oppongono all’immigrazione incontrollata dal Terzo Mondo saranno considerati razzisti e quelli che si oppongono all’integrazione europea saranno considerati xenofobi. Penso che Patricia Hewitt lo abbia detto in pubblico.Di conseguenza, siamo stati avvertiti. Nel frattempo introducono sempre più ideologia. L’Unione Sovietica era uno Stato governato dall’ideologia. L’ideologia odierna dell’Unione Europea è socialdemocratica, statalistica, e una gran parte di essa è il politically correct. Osservo con molta attenzione come il politicamente corretto si diffonda e diventi un’ideologia oppressiva, per non parlare del fatto che vietano di fumare quasi ovunque. Guardate questa persecuzione delle persone come il pastore svedese che è stato perseguitato per diversi mesi perché ha detto che la Bibbia non approva l’omosessualità. La Francia ha approvato la stessa legge contro l’incitamento all’odio sui gay. La Gran Bretagna sta introducendo leggi contro l’incitamento all’odio nelle relazioni razziali e ora anche nelle questioni religiose, e così via. Quello che si osserva, preso in prospettiva, è l’introduzione sistematica di ideologia, che potrebbe essere successivamente fatta rispettare con misure oppressive. A quanto pare questo è l’intero scopo dell’Europol. Altrimenti perché ne abbiamo bisogno? L’Europol mi sembra molto sospetta. Osservo con molta attenzione chi viene perseguito per cosa e cosa sta succedendo, perché è un campo in cui sono un esperto. So come nascono i Gulag.Sembra che viviamo in un periodo di rapido, sistematico e molto consistente smantellamento della democrazia. Guarda questo disegno di legge per la riforma legislativa e normativa. Rende i ministri dei legislatori che possono introdurre nuove leggi senza preoccuparsi di dirlo al Parlamento né a nessun altro. La mia reazione immediata è: perché ci serve? La Gran Bretagna è sopravvissuta a due guerre mondiali, alla guerra con Napoleone, all’Armada spagnola, per non parlare della Guerra Fredda, quando ci veniva detto che in qualsiasi momento potevamo avere una guerra mondiale nucleare, senza necessità di introdurre questa legislazione, senza bisogno di sospendere le nostre libertà civili e introdurre poteri emergenziali. Perché ne abbiamo bisogno adesso? Questo può trasformare il vostro paese in una dittatura in pochissimo tempo. La situazione di oggi è veramente triste. I principali partiti politici sono stati completamente catturati dal nuovo progetto comunitario. Nessuno di loro vi si oppone veramente. Sono diventati molto corrotti. Chi difenderà le nostre libertà?Sembra che stiamo andando verso una specie di collasso, una sorta di crisi. L’esito più probabile è che ci sarà un collasso economico, in Europa, che a tempo debito dovrà accadere con questa crescita delle spese e delle tasse. L’incapacità di creare un ambiente competitivo, l’eccessiva regolamentazione dell’economia, la burocratizzazione, porterà al crollo economico. In particolare l’introduzione dell’euro è stata un’idea folle. La valuta non dovrebbe essere una questione politica. Non ne ho dubbi. Ci sarà un crollo dell’Unione Europea, quasi simile al modo in cui è collassata l’Unione Sovietica. Ma non dimenticate che quando queste cose crollano lasciano una tale devastazione che ci vuole una generazione per recuperare. Basta pensare che cosa accadrà se si tratterà di una crisi economica. Le recriminazioni tra le nazioni saranno enormi. Si potrebbe arrivare alla guerra.Guardate l’enorme numero di immigrati provenienti dai paesi del Terzo Mondo che ora vivono in Europa. Questa immigrazione è stata promossa dall’Unione Europea. Cosa succederà se c’è un crollo economico? Probabilmente avremo tanti conflitti etnici che la mente ne rimane sconvolta, come è avvenuto con la fine dell’Unione Sovietica. In nessun altro paese vi erano tensioni etniche come nell’Unione Sovietica, tranne probabilmente in Jugoslavia. Quindi è esattamente ciò che accadrà anche qui. Dobbiamo essere preparati a questo. Questo enorme edificio di burocrazia crollerà sulle nostre teste. Ecco perché, e sono molto sincero, quanto prima chiuderemo con l’Ue, meglio è. Quanto prima crolla, meno danni avrà fatto a noi e ad altri paesi. Ma dobbiamo essere rapidi, perché gli eurocrati stanno muovendosi molto velocemente. Sarà difficile sconfiggerli. Oggi è ancora semplice. Se oggi un milione di persone marcia a Bruxelles, questi personaggi scapperanno alle Bahamas.Se domani metà della popolazione britannica rifiuterà di pagare le proprie tasse, non accadrà nulla e nessuno andrà in prigione. Oggi puoi ancora farlo. Ma non so quale sarà la situazione domani, con un Europol completamente sviluppata, con personale preso da ex-funzionari della Stasi o della Securitate. Potrebbe succedere di tutto. Stiamo perdendo tempo. Dobbiamo sconfiggerli. Dobbiamo sederci e pensare, elaborare una strategia per ottenere il massimo effetto possibile nel modo più breve possibile. Altrimenti sarà troppo tardi. Quindi cosa dovrei dire? La mia conclusione non è ottimista. Finora, malgrado il fatto che in quasi tutti i paesi abbiamo delle forze anti-Ue, ciò non è sufficiente. Stiamo perdendo e stiamo sprecando tempo.(Vladimir Bukovskij, testo del discorso pronunciato a Bruxelles nel 2006 e ancora drammaticamente attuale, ripreso da “Voci dall’Estero”. Già dissidente politico in Urss, lo scrittore riparò in Gran Bretagna dopo la prigionia nei Gulag. Tra le sue opere “Una nuova malattia mentale in Urss, l’opposizione”, Etas Kompass, “Guida psichiatrica per dissidenti”, L’erba voglio, “Il vento va e poi ritorna”, Feltrinelli, “Urss, dall’utopia al disastro”, Spirali, e “Gli archivi segreti di Mosca”, Spirali).Nel 1992 ho avuto un accesso senza precedenti ai documenti del Politburo e del Comitato Centrale, documenti che sono stati classificati per 30 anni, e lo sono ancora oggi. Questi documenti dimostrano molto chiaramente che l’idea di trasformare il mercato comune europeo in uno Stato federale è stata concordata tra i partiti di sinistra dell’Europa e Mosca come un progetto congiunto che [il leader sovietico Mikhail] Gorbaciov nel 1988-89 chiamò la nostra “casa comune europea”. L’idea era molto semplice. È emersa per la prima volta nel 1985-86, quando i comunisti italiani visitarono Gorbaciov, seguiti dai socialdemocratici tedeschi. Tutti loro si lamentarono che i cambiamenti nel mondo, in particolare dopo che [il primo ministro britannico Margaret] Thatcher introdusse la privatizzazione e la liberalizzazione economica, stessero minacciando di eliminare le conquiste (come le definivano) di generazioni di socialisti e socialdemocratici, minacciando di annullarle completamente. Quindi l’unico modo per resistere a questo attacco del capitalismo selvaggio (come lo definivano) era cercare di introdurre contemporaneamente gli stessi obiettivi socialisti in tutti i paesi.