Archivio del Tag ‘kamikaze’
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L’estate del terrore e gli impresari (occulti) della paura
Chissà quali spiegazioni daranno della nuova ennesima strage, quella che si è consumata a Monaco di Baviera. Finora, per le altre stragi, hanno tirato fuori teorie totalmente assurde come la “radicalizzazione accelerata”. Come funziona? C’è un tizio che sino a una settimana fa – letteralmente – si interessava di religione quanto io mi interesso di sci nordico in Giamaica. Improvvisamente quello stesso tizio diventa un fervente islamista radicale, disposto a morire per la fede non prima di falciare decine di persone. Il tutto ci viene detto mantenendo ancora una faccia seria. La spiegazione non può essere quella. Specie quando poi vediamo piloti “depressi” che vengono accusati di aver ammazzato decine di persone nel suicidio aereo (ricordate il caso Germanwings?), o assassini di cui si riferisce che pronuncino sia “Allah u akbar” sia insulti rivolti ai turchi (come a Monaco). Tutto e il contrario di tutto. Il risultato di tutte queste stragi piace a chi ottiene dividendi dall’aumento della paura: tutti devono sentirsi sotto tiro di invasati che possono essere qualsiasi cosa, implacabili come in un videogioco, perché tutti hanno assorbito già dosi di immagini di violenza “normalizzata”, hollywoodiana, onnipresente.I casi di Nizza e di Monaco di Baviera non mi hanno richiamato alla mente la sigla Isis, ma la sigla Gta. Farsi colonizzare dall’immaginario americano predispone a molte dinamiche di quella società, in cui l’imprenditoria della paura conta sempre di più. Il modello americano è fatto di sistemi di sicurezza, giganteschi apparati che ormai hanno la stessa logica espansiva delle metastasi e diventano centri incontrollabili di perturbazione dell’ordine pubblico. Fino a sfruttare ogni disagio ormai sdoganato nella sua manifestazione più cruenta, come negli omicidi di massa nordamericani, e ora europei. L’ingrediente fondamentale del nuovo sistema ’securitario’ sono le “breaking news” con cui i notiziari propongono in apertura un nuovo massacro, per masse che giocavano già con le immagini della violenza e ora, scoprendola più reale, accettano docilmente di sacrificare libertà in nome della sicurezza. Vedere i nostri simili abbattuti come birilli in un giorno festivo e spensierato non dispone a ragionare freddamente, perché l’orrore lascia scampo solo ai riflessi difensivi più primordiali.Un evento di questa portata provoca paura, e la paura si combina subito con l’impronta che i media ci hanno lasciato nella mente negli ultimi quindici anni su tutto ciò che dovremmo temere. Siamo stati esposti a dosi massicce di immagini ed emozioni che le redazioni hanno attentamente selezionato. Per gli attentati sul suolo europeo è stato ritenuto quasi doveroso esplorare e rilanciare ogni dettaglio delle emozioni popolari. Per le stragi più lontane, molto più numerose, frequenti e letali, che hanno provocato una marea di vittime in mezzo a popolazioni musulmane, i media occidentali hanno scelto invece una grande nebbia. Sarebbe stato molto imbarazzante far sapere che gli autori di certe stragi siriane erano ad esempio degli alleati dei servizi occidentali, da loro armati e ribattezzati come “ribelli moderati”. Molti osservatori hanno fatto notare che la manovalanza di svitati pronti a ogni nefandezza reclutati in Europa dalle formazioni jihadiste è composta da migliaia di individui. Migliaia anche nati e cresciuti in Francia. Ma non si tratta solo di loro. Il potere ha maneggiato molta violenza in modo spregiudicato, in questi anni. Essa non può avere effetti neutri. Le sue ombre ritornano e oscurano un’estate. Per ora.(Pino Cabras, “L’estate del terrore”, da “Megachip” del 23 luglio 2016).Chissà quali spiegazioni daranno della nuova ennesima strage, quella che si è consumata a Monaco di Baviera. Finora, per le altre stragi, hanno tirato fuori teorie totalmente assurde come la “radicalizzazione accelerata”. Come funziona? C’è un tizio che sino a una settimana fa – letteralmente – si interessava di religione quanto io mi interesso di sci nordico in Giamaica. Improvvisamente quello stesso tizio diventa un fervente islamista radicale, disposto a morire per la fede non prima di falciare decine di persone. Il tutto ci viene detto mantenendo ancora una faccia seria. La spiegazione non può essere quella. Specie quando poi vediamo piloti “depressi” che vengono accusati di aver ammazzato decine di persone nel suicidio aereo (ricordate il caso Germanwings?), o assassini di cui si riferisce che pronuncino sia “Allah u akbar” sia insulti rivolti ai turchi (come a Monaco). Tutto e il contrario di tutto. Il risultato di tutte queste stragi piace a chi ottiene dividendi dall’aumento della paura: tutti devono sentirsi sotto tiro di invasati che possono essere qualsiasi cosa, implacabili come in un videogioco, perché tutti hanno assorbito già dosi di immagini di violenza “normalizzata”, hollywoodiana, onnipresente.
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I 5 Stelle: basta terrore, l’Italia si smarchi da Ue e Nato
Dopo la strage di Nizza del 14 luglio e il fallito golpe in Turchia, il Movimento 5 Stelle batte un colpo e chiede apertamente che l’Italia si smarchi dal guinzaglio Usa-Ue. «Gli ultimi eventi europei impongono a tutti i cittadini una profonda riflessione a proposito della politica estera italiana», spiegano i 5 Stelle in una nota sul blog di Grillo, accompagnata da un video-editoriale del deputato Manlio Di Stefano. «Il governo è totalmente in preda agli eventi, elargisce solidarietà a destra e a manca ma non agisce in alcun modo, anche perché tirato per la giacchetta da una parte e dall’altra», è la premessa. L’esecutivo «nicchia, non prende posizione, si accoda alle grandi cordate e non si guarda dentro». Tocca quindi al Parlamento provare a fare «quello che il governo non ha il coraggio di fare», ovvero: «Discutere di un cambio nella nostra politica estera». Tema decisivo e urgentissimo, dal momento che «tutt’intorno una Terza Guerra Mondiale a pezzetti prende sempre più piede».Dai 5 Stelle, dunque, anche una lettera ai presidenti di Camera e Senato, Laura Boldrini e Piero Grasso. «Ci troviamo in una fase cruciale e la paura è il denominatore comune che ci sta accompagnando in questi mesi convulsi, segnale dell’impotenza e dello stato confusionale in cui versa l’establishment euro-atlantico», scrivono i grillini. L’Unione Europea «appare come un ‘contenitore geopolitico’ incapace di adeguarsi ai mutamenti in atto e dare risposte in termini di sicurezza e lotta al terrorismo». Attenzione: «L’intera impalcatura su cui è costruito il potere del sistema euro-atlantico sembra essere ormai vicina al collasso». Consci della gravità del problema, i 5 Stelle questo chiedono «una svolta nella politica estera e una reale volontà politica nel farlo». In altre parole, «l’Italia ha l’obbligo di tornare ad esprimere una politica estera sempre più autonoma e che abbia come principale interesse la sicurezza nazionale. Una politica estera non più schiava di decisioni altrui che negli ultimi anni si sono rivelate drammatici fallimenti».Come forza principale di opposizione, i 5 Stelle chiedono di inserire nell’agenda parlamentare un dibattitto su temi strategici, a cominciare dalla «ridiscussione del ruolo e degli accordi con la Turchia, come principale alleato nella gestione dell’immigrazione, alla luce degli ultimi eventi». I grillini vogliono anche ridiscutere la decisione emersa nell’ultimo vertice Nato di proseguire la missione militare in Afghanistan, per la quale si chiede all’Italia un impegno più consistente. Altra proposta: «Non destinare più nostri finanziamenti a paesi come l’Arabia Saudita, il Qatar e i paesi del Golfo a causa della loro ambiguità con il terrorismo internazionale», oggi targato Isis, introducendo anche una moratoria sulle armi da fuoco. Infine, i parlamentari grillini chiedono al governo Renzi di instaurare «una collaborazione senza precedenti tra le forze di intelligence dei paesi Ue, Nato e della Federazione russa».Dopo la strage di Nizza del 14 luglio e il fallito golpe in Turchia, il Movimento 5 Stelle batte un colpo e chiede apertamente che l’Italia si smarchi dal guinzaglio Usa-Ue. «Gli ultimi eventi europei impongono a tutti i cittadini una profonda riflessione a proposito della politica estera italiana», spiegano i 5 Stelle in una nota sul blog di Grillo, accompagnata da un video-editoriale del deputato Manlio Di Stefano. «Il governo è totalmente in preda agli eventi, elargisce solidarietà a destra e a manca ma non agisce in alcun modo, anche perché tirato per la giacchetta da una parte e dall’altra», è la premessa. L’esecutivo «nicchia, non prende posizione, si accoda alle grandi cordate e non si guarda dentro». Tocca quindi al Parlamento provare a fare «quello che il governo non ha il coraggio di fare», ovvero: «Discutere di un cambio nella nostra politica estera». Tema decisivo e urgentissimo, dal momento che «tutt’intorno una Terza Guerra Mondiale a pezzetti prende sempre più piede».
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Carpeoro: l’élite ricorre alle bombe perché adesso ha paura
Siamo in pericolo, e lo saremo sempre di più. Motivo: l’élite planetaria, quella che oggi ricorre anche al terrorismo stragista, sta cominciando ad avere paura. Teme, per la prima volta, di perdere il potere assoluto che ha esercitato, negli ultimi decenni, in modo incontrastato. A inquietare le super-oligarchie mondiali non è solo il progressivo risveglio democratico di una parte dell’opinione pubblica, sempre più scettica di fronte alla narrazione ufficiale degli eventi. Pesa, soprattutto, la clamorosa diserzione di una parte consistente di quello stesso vertice di potere, spaventato dalle rovinose conseguenze, su scala mondiale, della “dittatura” neoliberista, il cui obiettivo è chiaro: confiscarci ogni diritto e retrocedere tutti noi a livelli di sfruttamento da terzo mondo. Lo afferma Gianfranco Carpeoro, giornalista e scrittore, acuto osservatore dei retroscena internazionali anche in virtù della sua lunga militanza nella massoneria indipendente. Già avvocato, eminente studioso della cultura simbolica esoterica, Carpeoro è oggi schierato con Gioele Magaldi nella denuncia degli abusi sempre più devastanti che costellano la deriva autoritaria della leadership globale. Qualcuno, lassù, ha cominciato a sfilarsi. E il massimo potere si è spaventato a morte, al punto da pianificare stragi, affidate alla manovalanza dell’Isis.Questa la sintesi della posizione di Carpeoro, espressa durante un lungo intervento alla trasmissione web-radio “Border Nights” del 29 marzo, condotta da Fabio Frabetti con la partecipazione di Paolo Franceschetti, indagatore di molti misteri irrisolti della cronaca italiana. Sul tappeto, l’analisi della situazione internazionale all’indomani dell’ultima ondata di attentati terroristici, da Bruxelles al Pakistan. «E’ evidente che il problema non è l’Isis, ma chi lo manovra», premette Carpeoro, che peraltro denuncia come “deliranti” le tante fantasie complottiste che inondano il web: «Assurdo perdere tempo a domandarsi se è autentico o meno il video di un attentato trasmesso in televisione: i morti sono reali, e nessuno si sforza di capire cosa c’è dietro all’organizzazione stragistica». Certo la colpa non è dell’Islam: «Per secoli, i musulmani hanno protetto ogni minoranza perseguitata, compresi gli ebrei». Siamo noi, colonialisti occidentali, che nell’ultimo scorcio storico abbiamo represso e depresso i popoli arabi, “coltivando” deliberatamente la disperazione di massa che oggi può produrre anche il fenomeno dei kamikaze. Ma bisogna sapere che si tratta di dinamiche accuratamente pilotate: non dal Califfo, ma da chi detiene il potere reale, economico e finanziario, in Occidente.Nel suo libro “Massoni”, Gioele Magaldi denuncia apertamente – per la prima volta – il ruolo criminoso di alcune superlogge segrete del vertice occulto internazionale, come ha “Hathor Pentalpha” creata dai Bush, cui avrebbero aderito anche personaggi come Blair, Sarkozy e lo stesso Erdogan. Una macchina perfetta per attuare la strategia della tensione a livello geopolitico, dall’11 Settembre fino alla creazione dell’Isis per destabilizzare il Medio Oriente e imporre ovunque la logica della guerra. Dal canto suo, Carpeoro cita spesso un grande intellettuale come Francesco Saba Sardi, che nel saggio “Dominio” condanna la natura oppressiva del potere sorto all’epoca della prima civilizzazione: con la scoperta dell’agricoltura nasce la guerra per il possesso della terra, quindi lo sfruttamento del lavoro e l’istituzione religiosa per la manipolazione psicologica di soldati e lavoratori. Carpeoro segnala il progressivo e fatale deterioramento delle condizioni sociali, imposto da un potere che ricorre ad un pensiero di tipo “magico”: fa’ quello che ti dico e avrai un premio, l’importante è non ti chieda mai il vero perché delle cose.«Per sua natura, il potere tende sempre a degradarsi col passare del tempo: un vecchio boss mafioso non avrebbe mai seppellito scorie tossiche nel prato dove giocano i suoi figli». Un ragionamento che prende in prestito da Noam Chomsky una celebre riflessione sulla comunicazione mainstream, ispirata dal potere: il pubblico viene “astratto” dalla percezione del reale e rinchiuso in un “cerchio magico”, in cui vigono le regole del “mago”, il persuasore di massa, il cui obiettivo è sempre la manipolazione, quindi la neutralizzazione della coscienza critica di chi ascolta. «A questo scopo, viene regolarmente fabbricato un nemico da detestare». Quando questo nemico tramonta – esempio, Al-Qaeda – c’è già pronto il nuovo nemico, l’Isis. «L’importante è che noi odiamo il nemico di turno, senza collegare le cose e senza mai domandarci chi vi sta dietro, a chi serve tutto il male che viene creato a suon di bombe». E’ la legge della paura, per paralizzare la società: strategia della tensione, appunto.«L’intensità del terrorismo sta crescendo – sottolinea Carpeoro – perché, evidentemente, chi lo organizza pensa di non avere più altre chances per dominarci». A preoccupare i registi occulti del terrore, sempre secondo Carpeoro, sono le importanti defezioni che ormai si registrano in tutto l’Occidente, dall’Europa agli Usa, anche nel mondo massonico e finanziario, ma non solo: «Alle primarie americane un “socialista” dichiarato come Bernie Sanders si è imposto nello Stato di Washington: un segnale inequivocabile». Qualcosa si è incrinato, nell’élite di potere, e i vecchi “dominus” non si sentono più così al sicuro: temono di perdere l’attuale onnipotenza, che consente loro – attraverso la finanza – di fare e disfare popoli, guerre, crisi, esodi (e affari colossali, nell’impunità più assoluta). Ed ecco allora il crescere dell’instabilità, il ricorso sistematico al terrore. I grandi assenti? Manco a dirlo, siamo noi: serve una contro-politica, per imporre un nuovo sistema di valori, capace di farci uscire dal delirio crisi-guerra. Se scoppiano più bombe, dice Carpeoro, è perché chi comanda ha paura che si possa arrivare a un rovesciamento dell’attuale governance. Problema: «Ci vorrà molto tempo, e intanto la situazione peggiorerà ancora. Non possiamo restare a guardare, bisognerà pur fare qualcosa». E cioè: spingere la società a risvegliarsi, per rompere l’assedio dell’orrore, ormai sistematico e quotidiano.Siamo in pericolo, e lo saremo sempre di più. Motivo: l’élite planetaria, quella che oggi ricorre anche al terrorismo stragista, sta cominciando ad avere paura. Teme, per la prima volta, di perdere il potere assoluto che ha esercitato, negli ultimi decenni, in modo incontrastato. A inquietare le super-oligarchie mondiali non è solo il progressivo risveglio democratico di una parte dell’opinione pubblica, sempre più scettica di fronte alla narrazione ufficiale degli eventi. Pesa, soprattutto, la clamorosa diserzione di una parte consistente di quello stesso vertice di potere, spaventato dalle rovinose conseguenze, su scala mondiale, della “dittatura” neoliberista, il cui obiettivo è chiaro: confiscarci ogni diritto e retrocedere tutti noi a livelli di sfruttamento da terzo mondo. Lo afferma Gianfranco Carpeoro, giornalista e scrittore, acuto osservatore dei retroscena internazionali anche in virtù della sua lunga militanza nella massoneria indipendente. Già avvocato, eminente studioso della cultura simbolica esoterica, Carpeoro è oggi schierato con Gioele Magaldi nella denuncia degli abusi sempre più devastanti che costellano la deriva autoritaria della leadership globale. Qualcuno, lassù, ha cominciato a sfilarsi. E il massimo potere si è spaventato a morte, al punto da pianificare stragi, affidate alla manovalanza dell’Isis.
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Giannuli: contro l’Isis, in televisione un catalogo di fesserie
Dal paragone (delirante) con le Br e il terrorismo interno degli anni di piombo alle proposte surreali per garantire la sicurezza degli italiani: da Aldo Giannuli, un catalogo delle più incredibili stupidaggini ascoltate in televisione. In questi giorni mi è capitato di partecipare a varie trasmissioni televisive sul tema Isis (ed altre ne ho viste senza parteciparvi) e, pertanto, mi è capitato di sentirne di tutti i colori, da parte di autorevoli esponenti istituzionali e pretesi esperti che hanno dato fondo a tutte le loro risorse intellettuali per fornirci un bestiario di rara ricchezza. Sarebbe un peccato disperdere tali perle di saggezza, per cui ho curato questo primo breve catalogo. I nomi degli autori li lascio perdere per una forma di caritatevole amnesia, metto fra parentesi solo data e rete in cui fu pronunciato il memorabile detto (se poi qualcuno si riconoscesse, mi dia pure querela e non avrò difficoltà a dire a chi mi riferisco in queste righe). Si badi che questo florilegio è stato composto sulla base di sole 3 trasmissioni.1 – L’isis è come le Brigate Rosse e i nostri servizi hanno una grande esperienza in materia (Rai, 23 marzo). Le Brigate Rosse furono un episodio di terrorismo interno, la cui consistenza non superò mai il migliaio di persone nello stesso tempo, quasi esclusivamente di nazionalità italiana; causarono circa un centinaio di morti, non ricorsero mai ad attentati con esplosivo e non fecero mai stragi indiscriminate; non hanno mai fatto attentati suicidi, non ebbero mai un territorio su cui esercitare una sovranità di fatto; ebbero una limitatissima conoscenza dei meccanismi della guerra psicologica; si finanziarono essenzialmente con rapine e sequestri di persona, non fecero mai operazioni finanziarie ed ebbero un bilancio complessivo probabilmente inferiore ai 2 miliardi di lire del tempo, equivalenti a meno di 20 milioni di dollari attuali; ebbero una caratterizzazione ideologica marxista.L’Isis è una organizzazione che ha compiuto attentati e, dunque, ha una rete organizzata in non meno di 13 paesi, ha circa 60.000 combattenti organizzati nel solo territorio del Califfato e almeno altri 20.000 considerando Nigeria, Libia, rete europea ecc; da circa 2 anni ha un territorio su cui esercita un potere statale per una superficie superiore a quella di qualche stato europeo, più cento morti li ha fatti in una sola azione a Parigi (13 novembre), agisce essenzialmente tramite stragi indiscriminate spesso con esplosivo usato in azioni suicide; si finanzia con traffici di petrolio e reperti archeologici, oltre che con rapine e sequestri, riscuotono tasse e, soprattutto, fanno speculazioni finanziarie, per un bilancio complessivo superiore ai 500 milioni di dollari; dimostra una grande capacità comunicativa e conoscenza dei meccanismi della guerra psicologica; ha una ideologia islamista. In cosa si somigliano?2 – I terroristi fanno sempre le stesse cose (Rai 23 marzo). Il che è una banalità o è un’affermazione radicalmente sbagliata. Ovviamente esiste una tipologia di comportamento che noi etichettiamo sotto il nome di terrorismo, la cui essenza è che c’è un soggetto non sovrano, che quindi non ha un territorio e, pertanto non dispone, normalmente, di armi pesanti, che sfida un soggetto sovrano, opponendo l’arma della clandestinità allo strapotere militare dell’avversario. In questo, dai terroristi macedoni dei primi del Novecento alle Br, dall’Ira ad Al-Qaeda. Ma, detto questo, poi il terrorismo (ma sarebbe meglio dire la guerra irregolare) è il regno della fantasia dove le forme di lotta sono le più disparate e variamente combinate. In particolare l’Isis presenta caratteri di assoluta originalità come il suo carattere “anfibio” (di cui dico meglio nel libro) fra semi stato sovrano e organismo occulto. Appiattire tutto sul dejavu è l’esatto contrario di quanto l’analista dovrebbe fare, e preclude la comprensione del nemico che occorre battere. Solo un dilettante può fare una affermazione del genere.3 – L’Isis è come la Germania nazista (Canale 5, 22 marzo). Anche qui la foga spinge a dire sciocchezze. Qui non si tratta di stabilire la gerarchia di chi è più cattivo, ma capire le caratteristiche proprie del soggetto che si vuol combattere. Le differenze ideologiche, politiche, organizzative, di status, ecc, fra Isis e Germania nazista sono tali che non è neppure il caso di elencarle, anche se entrambe hanno caratteri che possiamo sommariamente definire “totalitarie”. Il punto è che il messaggio sottinteso di questa pseudo-analogia è che occorre non ripetere gli errori fatti con la Germania nazista, ad esempio con l’accordo di Monaco del 1938 e quindi sollecitare l’intervento di terra contro l’Isis. Che il Califfato vada tolto di mezzo è fuori discussione, e che questo passi per uno scontro anche di terra è anche evidente, ma questo non significa che tocchi ad europei ed americani farlo. La situazione politico-militare è ben più complessa e richiede una manovra molto articolata.4 – L’Isis è diversa dalle Br perché quelle, pur se in modo bizzarro, avevano una loro razionalità, mentre nel caso dell’Isis prevalgono forti elementi di irrazionalismo (Rai, 23 marzo). Qui almeno ci si accorge che Br ed Isis sono cose diverse, ma solo per ripescare uno dei luoghi comuni più triti ed inservibili: il terrorista come pazzo e, perciò stesso, imprevedibile ed incomprensibile. Mettiamoci in testa che i capi dell’Isis non sono affatto irrazionali, anzi sono estremamente razionali, anche se feroci. La ragione non preserva dalla ferocia. Il guaio è che questo pregiudizio ci impedisce di capire la logica con cui Daesh si muove.5 – E’ giusto far presidiare stazioni ed aeroporti in forze ed in divisa perché la gente deve sentirsi rassicurata (Rai, 23 marzo). Qui uno sprazzo di verità. Mi spiego meglio: presidiare in divisa e con mitra in bella mostra non solo ridice l’efficacia della tutela (perché il terrorista lo vede che il posto è presidiato e studia come agire o scansare quell’obiettivo) ma, indirettamente, indica al terrorista gli obiettivi non protetti. Una legge di comportamento dice che il terrorista colpisce l’obiettivo che gli hai lasciato e, siccome è impossibile tutelare tutto, questo induce ad un attentato in zona non protetta. Al contrario, la forma anonima della protezione metterebbe il terrorista nella condizione di non sarebbe né se un posto e protetto né con quali forze e dispositivi. Ma, questo è il punto, all’autorità politica non interessa tanto che i cittadini siano effettivamente tutelati ma che pensino di esserlo. Certamente questo è molto più redditizio elettoralmente. Congratulazioni.6 – E’ corretto chiudere i siti jhiadisti per evitare che l’Isis possa fare reclutamento (Canale 5, 22 marzo, Rai, 22 marzo e 24 marzo). In verità la censura in qualsiasi forma e verso una propaganda comunque esercitata ha sempre avuto effetti minimi sul reclutamento dei gruppi terroristi; se fosse così facile ostacolare il reclutamento, non si capirebbe perché i terrorismi spesso riescono a durare anche un decennio. Al contrario, tenere aperti i siti servirebbe a ricavare informazioni sui contenuti, sulla cultura politica, sulle eventuali divisioni, sui flussi informativi, ecc, e consentirebbe anche un’azione di contrasto sullo stesso terreno. Morale: nell’ultimo anno, gruppi in genere siglati come “Anonimous” hanno identificato ed oscurato circa 5.000 siti jhiadisti. Oggi i siti ci sono e più numerosi di prima: che sia una fatica inutile?!7 – I siti jhiadisti vanno resi accessibili solo agli studiosi ed alle forze di polizia (Rai 22 marzo). Questa è la trovata più geniale: oscuriamo i siti per tutti, ma lasciamoli accessibili solo a “polizia e studiosi” che così possono studiarne i contenuti. Bellissimo! Solo che, al di là dei problemi tecnici, gli jihadisti si accorgerebbero in un attimo che il loro sito non è raggiungibile, per cui, a meno di pensare che lavorino volontariamente per polizia e “studiosi”, non si capisce perché dovrebbero continuare a scriverci su. Vorrei chiedere al fine intellettuale che ha fatto la proposta: “Ma fai spesso di queste pensate?”. Nella mia città di origine si dice: “La testa non serve a divider le orecchie”. Questa è la raccolta di sole tre trasmissioni, fatevi un po’ i conti. Vi pare realistico battere l’Isis con questi “esperti” e questi politici?(Aldo Giannuli, “Isis, catalogo delle fesserie in libertà”, dal blog di Giannuli del 24 marzo 2016).Dal paragone (delirante) con le Br e il terrorismo interno degli anni di piombo alle proposte surreali per garantire la sicurezza degli italiani: da Aldo Giannuli, un catalogo delle più incredibili stupidaggini ascoltate in televisione. In questi giorni mi è capitato di partecipare a varie trasmissioni televisive sul tema Isis (ed altre ne ho viste senza parteciparvi) e, pertanto, mi è capitato di sentirne di tutti i colori, da parte di autorevoli esponenti istituzionali e pretesi esperti che hanno dato fondo a tutte le loro risorse intellettuali per fornirci un bestiario di rara ricchezza. Sarebbe un peccato disperdere tali perle di saggezza, per cui ho curato questo primo breve catalogo. I nomi degli autori li lascio perdere per una forma di caritatevole amnesia, metto fra parentesi solo data e rete in cui fu pronunciato il memorabile detto (se poi qualcuno si riconoscesse, mi dia pure querela e non avrò difficoltà a dire a chi mi riferisco in queste righe). Si badi che questo florilegio è stato composto sulla base di sole 3 trasmissioni.
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Lo 007 confessa: la Turchia dietro la strage di Bruxelles
I servizi segreti turchi dietro alla strage di Bruxelles? A lanciare direttamente la pista di Ankara, coinvolgendo nientemeno che il presidente Erdogan, sono i “nemici” storici della Turchia, i curdi, in questo caso affiancati da un paese come la Russia, anch’essa entrata in rotta di collisione coi turchi dopo l’abbattimento di un bombardiere Sukhoi impegnato nell’unica efficace campagna militare finora condotta in Siria contro l’Isis. Un impegno, quello russo, che ha preso in contropiede l’Occidente e ha oltretutto permesso di giungere alla denuncia, documentata, del supporto turco allo Stato Islamico attraverso basi logistiche alla frontiera e soprattutto il contrabbando di petrolio. La Turchia sul banco degli imputati ora anche per le bombe esplose a Bruxelles? La notizia la fornisce il 24 marzo Nahed Al Husaini, corrispondente da Damasco del sito statunitense di contro-informazione “Veterans Today”: intercettazioni russe avrebbero portato alla cattura, da parte dei miliziani curdi, di un responsabile dell’intelligence di Ankara. L’uomo avrebbe confessato che gli attentati di Bruxelles sarebbero stati progettati a Raqqah su ordine di Erdogan.«Le forze popolari curde che combattono in Siria hanno oggi [24 marzo] catturato un alto funzionario dei servizi segreti turchi che, “sottoposto ad interrogatorio”, ha coinvolto il presidente Erdogan», scrive “Veterans Today” in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. «A Veterans Today – aggiunge Nahed Al Husaini – è stato dato accesso alle confessioni registrate che hanno rivelato il ruolo del Mit (Milli Istihbarat Teskilati, l’intelligence turca) nelle esplosioni di Bruxelles ed i piani per effettuare ulteriori attacchi in Europa. Il “funzionario sospetto” ha confessato il suo ruolo nella pianificazione – a Raqqah – dell’attacco di Bruxelles, in collaborazione con l’Isis». L’informazione che ha portato alla cattura del funzionario, scrive “Veterans Today”, deriva da un’intercettazione effettuata dai russi: le forze di Mosca non sarebbero state direttamente coinvolte nell’operazione, ma si presume che unità di “Spetsnaz”, i corpi speciali russi, potrebbero essere state messe a disposizione dei curdi, come supporto.Secondo le affermazioni estorte al funzionario catturato, i servizi segreti turchi gestirebbero un centro di pianificazione operativa collocato in un complesso sotterraneo di Raqqah, la “capitale” del Califfato in Siria. «Il centro, costruito al di sotto di un impianto di atletica, contiene scorte di armi chimiche e biologiche, tra le quali il gas sarin, il virus per l’influenza suina e tonnellate di materiali per la produzione di altri tipi di gas», scrive ancora Nahed Al Husaini. «Gli Stati Uniti, coordinandosi con l’unità siriana “Tigre”, colpirono quel complesso nell’ottobre del 2014, nell’ambito di una di quella mezza dozzina di operazioni altamente segrete effettuate congiuntamente. L’operazione portò alla cattura di alcuni ufficiali del Qatar, dell’Arabia Saudita e della Turchia». “Veterans Today” dichiara di aver ricevuto un resoconto dell’interrogatorio da Haissam Bou Said, segretario generale del Desi, Dipartimento sicurezza e informazioni per l’Europa, secondo cui «dietro agli orribili attentati suicidi c’è proprio il Mit».Sempre secondo questa fonte, «alcune cellule terroristiche turche erano state impiantate anni fa in Europa, in collaborazione con un’infrastruttura del crimine organizzato attiva nel traffico degli esseri umani e della droga, al lavoro con gruppi israeliani e sauditi per effettuare attacchi terroristici “false flag”», cioè “sotto falsa bandiera”, secondo il copione (italiano) della “strategia della tensione”. Il presidente turco Erdogan, sempre secondo la fonte di “Veterans Today”, avrebbe introdotto le cellule terroristiche addestrate dal Mit «nascondendole all’interno del flusso di profughi, attentamente orchestrato, per poi indirizzarle presso le comunità della criminalità turca, con sede in Germania, Belgio e Olanda». Per l’intelligence Usa, «da oltre un decennio la criminalità organizzata turca è concentrata a Monaco di Baviera, che è il “ground zero” per gli attacchi terroristici che dovrebbero colpire gli Stati Uniti alla vigilia delle prossime elezioni presidenziali».Da anni, il presidente turco è al centro di crescenti polemiche, anche per via del giro di vite autoritario sulla stampa nazionale, che ha portato giornalisti in carcere. Contestato da più parti anche la violenza della repressione interna affidata alla polizia, Erdogan ha tentato di coinvolgere la Nato nello scontro con la Russia, con l’abbattimento del jet di Mosca. Ma non è tutto: nel suo libro “Massoni”, Gioele Magaldi scrive che lo stesso Erdogan è affiliato alla superloggia segreta “Hathor Pentalpha”, fondata dai Bush. Si tratta di un club super-massonico internazionale definiti “del sangue e della vendetta”, di cui farebbero parte anche Tony Blair, inventore del falso storico delle “armi di distruzione di massa” di Saddam, e il francese Sarkozy, protagonista della guerra in Libia contro Gheddafi. La “Hathor Pentalpha” avrebbe avuto un ruolo di primo piano nel maxi-attentato dell’11 Settembre, per poi lasciare la propria “firma” anche nell’Isis, acronimo che richiama la dea egizia Iside, chiamata anche Hathor.I servizi segreti turchi dietro alla strage di Bruxelles? A lanciare direttamente la pista di Ankara, coinvolgendo nientemeno che il presidente Erdogan, sono i “nemici” storici della Turchia, i curdi, in questo caso affiancati da un paese come la Russia, anch’essa entrata in rotta di collisione coi turchi dopo l’abbattimento di un bombardiere Sukhoi impegnato nell’unica efficace campagna militare finora condotta in Siria contro l’Isis. Un impegno, quello russo, che ha preso in contropiede l’Occidente e ha oltretutto permesso di giungere alla denuncia, documentata, del supporto turco allo Stato Islamico attraverso basi logistiche alla frontiera e soprattutto il contrabbando di petrolio. La Turchia sul banco degli imputati ora anche per le bombe esplose a Bruxelles? La notizia la fornisce il 24 marzo Nahed Al Husaini, corrispondente da Damasco del sito statunitense di contro-informazione “Veterans Today”: intercettazioni russe avrebbero portato alla cattura, da parte dei miliziani curdi, di un responsabile dell’intelligence di Ankara. L’uomo avrebbe confessato che gli attentati di Bruxelles sarebbero stati progettati a Raqqah su ordine di Erdogan.
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Cremaschi: terrorismo, per puntellare quest’infame Europa
È insopportabile la retorica europeista che accompagna le stragi che colpiscono le città europee, ultima Bruxelles. Il dolore per le persone uccise del terrorismo jihadista, la paura di esserne prima o poi vittime, vengono oramai stravolti e sottomessi al dominio ideologico della casa comune europea assediata. Cento e più anni fa il nazionalismo era amministrato paese per paese, oggi viene diffuso in una dimensione continentale, ma con gli stessi scopi e non facendo meno danni. Ricordate l’immagine della manifestazione dei governanti a Parigi, poco più di un anno fa dopo il massacro di Charlie Hebdo? Un clamoroso falso mediatico (dietro i capi di governo non c’era nessuno) che voleva mostrare che i governi europei uniti guidavano il corteo dei loro popoli. Ma di quale Europa stiamo parlando? Di quella che ha fatto mercato dei migranti con la Turchia, organizzando la più grande deportazione di massa dalla fine della seconda guerra mondiale? Quale Europa, quella che con le politiche di austerità sta da anni colpendo le conquiste sociali dei suoi popoli?Quale Europa, quella che nelle periferie delle sue città più ricche accumula il rancore dei suoi cittadini figli di migranti, fascinati dal fanatismo assassino dei kamikaze? Quale Europa, quella che da 25 anni viene trascinata in guerre sempre più vaste che hanno fatto milioni di morti, guerre promosse dai governi di Francia, Gran Bretagna, Germania e Stati Uniti, che non sono europei ma comandano? Abbiamo appreso che l’Italia ha soldati persino in Mali solo perché, nelle stesse ore di Bruxelles, sono sfuggiti ad un attentato. Quale Europa ha deciso di mandarceli? La solidarietà verso le vittime del terrorismo è sentimento ben diverso da quello che la propaganda ci vuole imporre. C’è un potere che usa le stragi per convincere i popoli della bontà della costruzione europea e della necessità di difenderla con le armi. Così chi mette in discussione l’euro è anti patriottico, come lo è chi non vuole che si vada a bombardare, o a invadere, la Libia.Bisogna fermare la guerra proprio nel nome delle vittime innocenti delle stragi che si susseguono. La guerra non è la soluzione, è il problema e dopo 25 anni di interventi militari che han solo provocato altri interventi militari e stragi, dovrebbe essere persino scontato. Invece non lo è, perché l’Europa è imprigionata nella spirale guerra-terrorismo e non riesce a muoversi dal vicolo cieco in cui l’hanno portata i suoi governi e il sistema di potere della sua Unione. E il vicolo cieco della guerra è la stessa strada ove la barriera delle politiche di austerità fa dilagare l’ingiustizia sociale e la rottura delle solidarietà. Bisogna uscire da questa costruzione europea e dalle sue guerre prima che sia troppo tardi per tutti i suoi popoli.(Giorgio Cremaschi, “Basta con questa Europa e le sue guerre”, da “Micromega” del 22 marzo 2016).È insopportabile la retorica europeista che accompagna le stragi che colpiscono le città europee, ultima Bruxelles. Il dolore per le persone uccise del terrorismo jihadista, la paura di esserne prima o poi vittime, vengono oramai stravolti e sottomessi al dominio ideologico della casa comune europea assediata. Cento e più anni fa il nazionalismo era amministrato paese per paese, oggi viene diffuso in una dimensione continentale, ma con gli stessi scopi e non facendo meno danni. Ricordate l’immagine della manifestazione dei governanti a Parigi, poco più di un anno fa dopo il massacro di Charlie Hebdo? Un clamoroso falso mediatico (dietro i capi di governo non c’era nessuno) che voleva mostrare che i governi europei uniti guidavano il corteo dei loro popoli. Ma di quale Europa stiamo parlando? Di quella che ha fatto mercato dei migranti con la Turchia, organizzando la più grande deportazione di massa dalla fine della seconda guerra mondiale? Quale Europa, quella che con le politiche di austerità sta da anni colpendo le conquiste sociali dei suoi popoli?
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Terrore surrealista, anche a Bruxelles il festival del falso
I morti sono veri, il resto no: a cominciare dalle immagini dell’aeroporto devastato dall’esplosivo, che non è quello di Bruxelles ma quello di Mosca, immagini del 2011 spacciate per attuali da tutte le televisioni. Dopo Charlie Hebdo e la strage del Bataclan, per Roberto Quaglia stiamo ormai viaggiando verso il “terrorismo surrealista”, costruito con una narrazione “impazzita”, senza più alcun legame con la realtà. «Il capo dei servizi segreti ucraini tiene ad informarci che “non si stupirebbe” se dietro agli attentati di Bruxelles ci fosse la Russia», mentre il dittatore turco Ergogan, finanziatore dell’Isis attraverso il traffico di petrolio, si dichiara pronto ad aiutare Bruxelles a combattere il terrorismo, pochi giorni dopo avere dichiarato che «non ci sono motivi perché le bombe esplose ad Ankara non possano esplodere a Bruxelles». Non solo: «Per esclusive ragioni di alto surrealismo dobbiamo anche ricordare che in un’intervista a “Bel-Rrt” del 26 aprile 2013 a proposito dei jihadisti belgi il ministro degli esteri belga Didier Reynders aveva dichiarato: “Forse gli faremo un monumento come eroi di una rivoluzione”. Qualcuno dovrebbe ora chiedergli: quel momento è venuto?».
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Bombe a Bruxelles, ma noi italiani non possiamo più cascarci
Il nuovo massacro di Bruxelles, con azioni terroristiche tanto ben coordinate quanto sanguinose, cioè con bombe ad alto potenziale non con kamikaze suicidi, ha tutta l’aria di una “prosecuzione” di un piano. Di chi? Contro chi è diretto? Il sancta santorum che guida questa sarabanda non lo conosce nessuno, e dunque tutte le ipotesi sono ugualmente inattendibili. Quelle che subito vaneggiano di “risposta” di Daesh alla cattura dell’ultimo sopravvissuto del 13/11 a Parigi sono però palesemente ridicole. Un piccolo pregiudicato da tempo sotto controllo dei servizi segreti, ex tenutario di un centro di spaccio di droga e di prostitute come la bettola intitolata “La Beguine” nel quartiere di Molenbeek, che riesce a passare indenne attraverso quattro controlli di polizia (francese) prima di rifugiarsi nello stesso quartiere in cui ha sempre vissuto, restandoci per quattro mesi, non poteva essere il “cervello” di niente. Questi attentati erano predisposti da tempo, da qualche centrale di provocazioni in grande stile. Contro chi?Queste bombe sono la prosecuzione di quelle di Parigi del 2015: Charlie Hebdo e il Bataclan. Di Ankara, contro i turisti tedeschi. Sono la prosecuzione della messinscena di Colonia. Sono lo strascico del fiume di profughi. Andiamo con ordine: sono contro di noi. Contro “i popoli d’Europa”. Per ridurre le loro libertà residue e le loro capacità di risposta ai soprusi dei poteri. Infatti il primo risultato, scontato, sarà la sospensione di tutte le garanzie democratiche. È già in corso in Francia, ora sarà la volta del Belgio. Poi, dopo qualche altro attentato, magari in Italia, se per caso non volesse entrare in guerra in Libia, allora sarà la volta del nostro paese. Noi italiani siamo gli ultimi a poter essere ingannati, poiché abbiamo già vissuto la stessa cosa con la strategia della tensione. Questo ci dice che non dobbiamo cadere nella trappola di guardare il dito invece della Luna. Se ci dicono che è Daesh, diffidiamo. Probabilmente è “anche” Daesh. Ma Daesh è lo strumento, e la mano (in parte), ma non la mente.Sono bombe contro “l’Europa dei popoli”, per renderla uno straccio subalterno al potere dell’Impero, per trascinarla in guerra tutta intera, terrorizzata, per mettere la museruola a tutti, anche ai recalcitranti. L’avviso è per tutti non solo per Bruxelles.Chi è la mente non lo possiamo sapere. Ma una cosa che sappiamo è che i servizi segreti europei, tutti, chi più chi meno, sono filiali inquinate e di altri servizi segreti. Più probabilmente di settori, pezzi, frammenti incontrollabili di servizi segreti altrui. Ricordiamo il bellissimo e profetico film di Sydney Pollack, “I tre giorni del Condor”. Per questo non scoprono niente. E non scopriranno niente: perché non sono in condizioni di indagare. Per questo dobbiamo riprendere in mano la nostra sovranità, e cambiarli. Cambiando chi ci governa, e che sgoverna l’Europa, con altro personale, meno vile e più lungimirante. Altrimenti ci faranno arrostire, prima di renderci schiavi.(Giulietto Chiesa, “Bruxelles, al centro della strategia del terrore”, da “Megachip” del 22 marzo 2016).Il nuovo massacro di Bruxelles, con azioni terroristiche tanto ben coordinate quanto sanguinose, cioè con bombe ad alto potenziale non con kamikaze suicidi, ha tutta l’aria di una “prosecuzione” di un piano. Di chi? Contro chi è diretto? Il sancta santorum che guida questa sarabanda non lo conosce nessuno, e dunque tutte le ipotesi sono ugualmente inattendibili. Quelle che subito vaneggiano di “risposta” di Daesh alla cattura dell’ultimo sopravvissuto del 13/11 a Parigi sono però palesemente ridicole. Un piccolo pregiudicato da tempo sotto controllo dei servizi segreti, ex tenutario di un centro di spaccio di droga e di prostitute come la bettola intitolata “La Beguine” nel quartiere di Molenbeek, che riesce a passare indenne attraverso quattro controlli di polizia (francese) prima di rifugiarsi nello stesso quartiere in cui ha sempre vissuto, restandoci per quattro mesi, non poteva essere il “cervello” di niente. Questi attentati erano predisposti da tempo, da qualche centrale di provocazioni in grande stile. Contro chi?
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Vietato indagare su Bataclan e Mossad, cronista nei guai
Prima il segreto di Stato (segereto militare) imposto su Charlie Hebdo, dopo che la magistratura francese aveva individuato l’ombra dei servizi segreti di Parigi nella triangolazione col Belgio per le armi slovacche messe a disposizione del commando, che sterminò la redazione del giornale satirico abbandonando però un passaporto sul cruscotto dell’auto utilizzata per la strage. E ora, cala il bavaglio delle autorità anche sull’attentato al Bataclan compiuto venerdì 13 novembre 2015, da più parti segnalato come “false flag” di matrice massonica, con tanto di “firma”: il primo infausto “venerdì 13” della storia fu quello dell’ottobre 1307, quando Filippo il Bello emanò l’ordine di arresto per i Templari, e un mese dopo – il 13 novembre – alcuni cavalieri (che poi contribuirono a fondare la massoneria) riuscirono a lasciare Parigi riparando in Scozia. Chi ha organizzato la strage si considera “erede” dei Cavalieri del Tempio, al di là del paravento dell’Isis? Oggi, nel mirino delle indagini indipendenti – che tanto preoccupano il governo Hollande – non c’è la Scozia, ma Israele. Lo ha scoperto un reporter come Hicham Hamza, arrestato e incriminato per “violazione del segreto istruttorio e diffusioni di immagini gravemente lesive della dignità umana”, quelle della mattanza nel teatro parigino.Effettivamente, scrive Maurizio Blondet nel suo blog, il 15 dicembre Hamza aveva postato una foto ripresa all’interno del Bataclan pochi minuti dopo la strage: l’immagine mostrava l’orribile scena di decine di corpi smembrati. Il punto è che non è stato Hamza a scattare la foto, «subito scomparsa per ordine giudiziario». Una foto pericolosa, capace di rivelare dettagli scomodi? Il giornalista l’ha trovata su un tweet – il cui webmaster è situato a Gerusalemme – firmato “Israel News Feed”, “@IsraelHatzolah”. «Ora, “IsraelHatzola” è praticamente la stessa cosa di United Hatzolah, una Ong israeliana di paramedici che collabora con l’esercito di Israele», spiega Blondet. «Il presidente di United Hatzolah è particolarmente interessante: trattasi di Mark Gerson, un ebreo americano che è stato direttore esecutivo del famos think-tank neocon “Project for a New American Century”», il famigerato Pnac, quello che “consigliava” a George W. Bush di lanciare un grande riarmo, per il quale però sarebbe stata necessaria “una nuova Pearl Harbor”. «L’11 Settembre, quando la nuova Pearl Harbor si verificò, membri importanti del Pnac erano nel governo Bush, e lanciarono le guerre l’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq».Invece di indagare su questa pista, chiedendosi come mai un sito israeliano legato ai necon e al Mossad aveva le foto dell’interno del teatro, scattate pochi minuti dopo la strage, gli inquirenti francesi hanno perseguito Hamza. «Varie personalità politiche e giornalisti lo hanno querelato per diffamazione, contando di rovinarlo economicamente: sul suo sito, “Panamza”, il perseguitato chiede ai lettori 10 mila euro per pagare le spese legali». Che la persecuzione sia originata dal governo non c’è dubbio, continua Blondet: Gilles Clavreul, delegato interministeriale del premier Manuel Valls, addetto alla “lotta contro il razzismo e l’antisemitismo”, s’è lasciato sfuggire durante un’intervista radio di stare cercando «egli inghippi giuridici per arrivare a perseguire» il giornalista. Hamza è colui che ha scoperto una quantità di indizi che consentono di interpretare l’attentato islamico del 13 novembre come un “false flag” con “segnatura” sionista. Una storia contraddistinta da parecchie “coincidenze”, a cominciare dalle date: l’11 settembre (ancora), cioè due mesi prima della strage, la famiglia Toutou aveva venduto il Bataclan, per poi trasferirsi definitivamente in Israele.«I responsabili della sicurezza della comunità ebraica erano stati avvertiti in anticipo dell’imminenza di un grosso attacco terroristico», secondo il “Times” di Israele, «che poi ha censurato la notizia». Da chi? «Dal banchiere barone Edmund De Rotschild, nientemeno». Il 13 novembre, giorno dell’attentato, era inoltre in corso un’immancabile esercitazione “antiterrorismo” programmata mesi prima dal Samu, il pronto soccorso municipale di Parigi, basata sullo scenario di tre attentati simultanei compiuti da tre gruppi di terroristi, che prevedeva 50 morti e 150 feriti. E ancora: la rivendicazione con cui Daesh si attribuiva gli attentati è stata diffusa dal “Site” di Rita Katz, l’ex collaboratrice del Mossad che ora opera dagli Stati Uniti. Secondo “France Télévision”, poi, i decreti per lo stato d’emergenza sarebbero stati adottati già prima dell’attentato al Bataclàn, alle 22.30, quando François Hollande uscì dallo Stade de France dove assisteva alla partita Francia-Germania: fuori dallo stadio, tre kamikaze si erano fatti saltare in aria con le cinture esplosive, uccidendo solo se stessi.«La strage del Bataclan non era ancora avvenuta, ma la bozza del decreto era pronta da tempo», scrive Blondet citando Hamza. Lo ha rivelato lo stesso funzionario, direttore degli affari giuridici del ministero dell’interno, che ha stilato il documento. Si chiama Thomas Andreu, «legato alla comunità ebraica e a Israele attraverso la moglie, Marguerite Bérard, cognata di Marie-Hélène Bérard, tesoriera della Camera di Commercio Francia-Israele e membro del direttivo del Crif, Conseil Représentatif des Institutions Juives de France». Per la mattanza – 90 morti – è finito nei guai anche Jesse Hughes, il cantante degli Eagles of Death Metal, il complesso che si esibiva al Bataclàn, davanti a 1500 spettatori: in una intervista rilasciata a “Fox Business Network” quattro mesi dopo, Hughes ha rivelato che quella sera aveva scoperto che ben sei uomini addetti alla sicurezza del palco erano inspiegabilmente assenti. Poco dopo ha ricevuto minacce di morte: un’immagine con una mitraglietta Uzi sulla bandiera israeliera e la scritta “on te fume”, ti eliminiamo.Per dare un’idea «del clima che Hollande sta facendo imporre nella ex patria della libertà di opinione», Blondet segnala anche il caso del professore di storia Pascal Geneste, duramente attaccato per aver difeso Putin come «uno dei precursori della lotta al terrorismo islamico, come dimostra l’intervento russo in Siria contro l’Isis». Geneste è stato convocato in gendarmeria e sottoposto a interrogatorio. E il 17 febbraio, 6 dei suoi allievi sono stati convocati in gendarmeria dove hanno subito un analogo interrogatorio sulla lezione pro-Putin. A premere sulla censura – anche sul web – è sempre il Crif, la rappresentanza franco-israeliana, che chiede che anche a Internet si applichi lo stato d’emergenza varato da Valls dopo l’eccidio del Bataclan, con poteri speciali allo Stato per frugare appartamenti, intercettare telefonate, ridurre le libertà personali. In realtà, il decreto contiene già misure repressive applicabili alla Rete: «Lo Stato può bloccare l’accesso a determinati siti, vietare a una persona tutte le comunicazioni via web, copiare tutti i dati trovati su terminali, smartphone e computer durante un’irruzione di polizia, compresi quelli sul cloud. Ma al Crif non basta: vuole siano punti e censurati i “messaggi di odio”», magari interpretando come tali anche le inquietanti rivelazioni di Hamza sul presunto ruolo del Mossad nella strage del 13 novembre.Prima il segreto di Stato (segreto militare) imposto su Charlie Hebdo, dopo che la magistratura francese aveva individuato l’ombra dei servizi segreti di Parigi nella triangolazione col Belgio per le armi slovacche messe a disposizione del commando, che sterminò la redazione del giornale satirico abbandonando però un passaporto sul cruscotto dell’auto utilizzata per la strage. E ora, cala il bavaglio delle autorità anche sull’attentato al Bataclan compiuto venerdì 13 novembre 2015, da più parti segnalato come “false flag” di matrice massonica, con tanto di “firma”: il primo infausto “venerdì 13” della storia fu quello dell’ottobre 1307, quando Filippo il Bello emanò l’ordine di arresto per i Templari, e un mese dopo – il 13 novembre – alcuni cavalieri (che poi contribuirono a fondare la massoneria) riuscirono a lasciare Parigi riparando in Scozia. Chi ha organizzato la strage si considera “erede” dei Cavalieri del Tempio, al di là del paravento dell’Isis? Oggi, nel mirino delle indagini indipendenti – che tanto preoccupano il governo Hollande – non c’è la Scozia, ma Israele. Lo ha scoperto un reporter come Hicham Hamza, arrestato e incriminato per “violazione del segreto istruttorio e diffusioni di immagini gravemente lesive della dignità umana”, quelle della mattanza nel teatro parigino.
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Armi e droga all’Isis, dai boss mafiosi al governo in Bulgaria
All’Isis sono finite armi di fabbricazione sovietica, per farle sembrare provenienti dalla dotazione storica dell’esercito siriano. Il fornitore occulto? La Bulgaria, paese Nato e membro dell’Ue. O meglio: la dirigenza bulgara guidata da un personaggio che è considerato un gangster. Boyko Borisov, già campione di karate, poi ministro, quindi premier. «Legato ai cartelli della droga». Per Jürgen Roth, specialista tedesco di criminalità organizzata, Borisov è «l’Al Capone bulgaro». Armi e droga, carichi proibiti e finiti prima ai jihadisti in Libia e poi all’Isis in Siria, su ordine della Cia. Una vicenda inquietante, ricostruita da Thierry Meyssan su “Rete Voltaire”, newsmagazine di geopolitica. All’origine del business, una sostanza dopante: la fenetillina, utilizzata negli ambienti sportivi e poi opportunamente tagliata con hashish. «Dei trafficanti bulgari videro in ciò un’opportunità. Dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica sino all’ingresso nell’Unione Europea, cominciarono a produrla e a esportarla illegalmente in Germania con il nome di Captagon». E qui, secondo Meyssan, entra in gioco Borisov.«Due gruppi mafiosi si fecero una forte concorrenza, Vasil Iliev Security (Vis) e Security Insurance Company (Sic), da cui dipendeva il karateka Boyko Borisov». Questo sportivo di alto livello, professore all’Accademia di polizia, creò una società di protezione delle persone altolocate. Borisov, scrive Meyssan, divenne la guardia del corpo di entrambi gli ex presidenti, sia il filosovietico Todor Zhivkov sia il filo-Usa Simeone II di Saxe-Cobourg-Gotha. Quando questi divenne primo ministro, Borisov fu nominato direttore centrale del ministero degli interni, e poi venne eletto sindaco di Sofia. Nel 2006, l’ambasciatore degli Stati Uniti in Bulgaria (e futuro ambasciatore in Russia) John Beyrle, ne fa un ritratto in un dispaccio confidenziale rivelato da Wikileaks: «Lo presenta come legato a due grandi boss mafiosi, Mladen Mihalev (detto “Madzho”) e Rumen Nikolov (detto “Il Pascià”), i fondatori della Sic». Nel 2007, “Us Congressional Quarterly” cita una compagnia svizzera, secondo la quale Borisov avrebbe «insabbiato parecchie indagini presso il ministero degli interni», trovandosi «lui stesso coinvolto in 28 delitti di mafia».Borisov, continua Meyssan, sarebbe diventato uno stretto collaboratore di John McLaughlin, il vicedirettore della Cia. «Avrebbe installato in Bulgaria una prigione segreta dell’Agenzia e avrebbe contribuito a fornire una base militare nel quadro del progetto d’attacco contro l’Iran». Divenuto lui stesso primo ministro, mentre il suo paese era già membro della Nato e dell’Ue, venne sollecitato dalla Cia affinché desse un aiuto nella guerra segreta contro Muhammar Gheddafi. «Boyko Borisov fornì il Captagon prodotto dalla Sic ai jihadisti di Al-Qaeda in Libia», scrive Meyssan. «La Cia rese questa droga sintetica più attraente e più efficiente mescolandola con una droga naturale, l’hashish, consentendo così di manipolare più facilmente i combattenti e di renderli più terrificanti». In seguito, «Borisov ha esteso il suo mercato alla Siria». Ma la cosa più importante, sempre secondo Meyssan, si è avuta «quando la Cia, utilizzando le peculiarità di un ex Stato membro del Patto di Varsavia che aveva aderito alla Nato, acquistò da esso armamenti di tipo sovietico per un valore di 500 milioni di dollari e li trasportò in Siria».Si trattava principalmente di 18.800 lanciagranate anticarro portatili e di 700 sistemi di missili anti-carro Konkurs, precisa Meyssan. Armi perfette, per sembrare “siriane”, cioè sottratte dai “ribelli” all’esercito regolare di Damasco. Non manca un giallo: la struttura segreta colpì immediatamente la milizia sciita libanese di Hezbollah, scesa in campo per difendere Assad, non appena cercò di far luce sullo strano traffico di armi. «Quando Hezbollah inviò una squadra in Bulgaria per informarsi su questo traffico, un bus di turisti israeliani fu oggetto di un attentato a Burgas, che causò 32 feriti. Immediatamente – scrive Meyssan – Benjamin Netanyahu e Boyko Borisov accusarono la resistenza libanese, mentre i media atlantisti diffusero numerose accuse contro il presunto attentatore suicida di Hezbollah. In ultima analisi, il medico legale, la dottoressa Galina Mileva, si accorse che la sua salma non corrispondeva alle descrizioni dei testimoni; un responsabile del controspionaggio, il colonnello Lubomir Dimitrov, notò che non si trattava di un attentatore suicida, ma di un semplice corriere, e che la bomba era stata attivata a distanza, probabilmente a sua insaputa; mentre la stampa accusava due arabi che avevano cittadinanza canadese e australiana, la “Sofia News Agency” citò un complice statunitense conosciuto con lo pseudonimo di David Jefferson».Così, quando l’Unione Europea «approfittò del caso per classificare Hezbollah come “organizzazione terroristica”», il ministro degli esteri in carica durante il breve periodo in cui Borisov è stato escluso dal potere esecutivo, Kristian Vigenine, ha sottolineato che, in realtà, non ci sono prove per collegare l’attacco alla resistenza libanese. Poi, a partire dalla fine del 2014, la Cia cessò di dare ordini alla Bulgaria e la sostituì con l’Arabia Saudita. L’Isis ha quindi smesso di ottenere armi di tipo sovietico, ricevendo direttamente materiale della Nato, come i missili anticarro Tow. «Ben presto, Riad fu sostenuta dagli Emirati Arabi Uniti». I due Stati del Golfo, continua Meyssan, assicurarono essi stessi la consegna degli armamenti ad Al-Qaeda e a Daesh tramite la “Saudi Arabian Cargo” e la “Etihad Cargo”, presso Tabuk lungo la frontiera saudita-giordana e anche presso la base comune degli Emirati, della Francia e degli Usa che si trova a Dhafra. Ultimo colpo della Cia, nel giugno 2014: proibire alla Bulgaria di autorizzare il transito del gasdotto russo South Stream, nel quandro delle sanzioni contro Mosca dopo la crisi in Ucraina. Un danno per le casse bulgare, un freno all’Ue. Ma anche un pretesto per sviluppare il gas di scisto in Europa orientale e «mantenere l’interesse a rovesciare la Repubblica araba siriana, possibile grande esportatore di gas».All’Isis sono finite armi di fabbricazione sovietica, per farle sembrare provenienti dalla dotazione storica dell’esercito siriano. Il fornitore occulto? La Bulgaria, paese Nato e membro dell’Ue. O meglio: la dirigenza bulgara guidata da un personaggio che è considerato un gangster. Boyko Borisov, già campione di karate, poi ministro, quindi premier. «Legato ai cartelli della droga». Per Jürgen Roth, specialista tedesco di criminalità organizzata, Borisov è «l’Al Capone bulgaro». Armi e droga, carichi proibiti e finiti prima ai jihadisti in Libia e poi all’Isis in Siria, su ordine della Cia. Una vicenda inquietante, ricostruita da Thierry Meyssan su “Rete Voltaire”, newsmagazine di geopolitica. All’origine del business, una sostanza dopante: la fenetillina, utilizzata negli ambienti sportivi e poi opportunamente tagliata con hashish. «Dei trafficanti bulgari videro in ciò un’opportunità. Dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica sino all’ingresso nell’Unione Europea, cominciarono a produrla e a esportarla illegalmente in Germania con il nome di Captagon». E qui, secondo Meyssan, entra in gioco Borisov.
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Leggi speciali: pessima idea, ma i francesi ora le accettano
Per molto tempo, di fronte a un pericolo serio per la comunità politica, si è fatto ricorso al concetto di necessità evidente per travalicare i limiti imposti al potere dei governi. “Salus populi suprema lex est”, oppure “necessitas legem non habent”: queste formule hanno spesso giustificato il passaggio da uno stato normale, in cui il potere è limitato, a uno stato d’eccezione, dove non ci sono limiti. Lo stato di urgenza decretato la sera stessa degli attentati del 13 novembre limita la libertà. E pertanto sembra poggiare su un consenso reale: il 18 novembre l’84% dei francesi intervistati in un sondaggio Ifop erano pronti ad “accettare ulteriori misure di controllo e un certo grado di limitazione della propria libertà”. Si assiste dunque a una curiosa forma di accettazione democratica della restrizione della libertà democratica. Ma questo consenso si incrina in almeno tre punti. Primo elemento di debolezza: il consenso alle misure restrittive della libertà è dato sullo slancio dell’emotività. Lo sconforto generato dall’orrore degli attacchi jihadisti tende ad alterare le percezioni.Questo non significa che lo stato di urgenza sia ingiustificato, se dura qualche giorno o qualche settimana, ma è cruciale contrastare il più possibile la nostra emotività e riportare un’analisi fredda e razionale della realtà della situazione. In simili frangenti il potere cede spesso alla tentazione di parlare alla pancia dei cittadini per riuscire ad approvare misure che, in un periodo di calma, risulterebbero inaccettabili. George Bush è stato il campione dell’abuso di questo meccanismo. Una seconda debolezza deriva dalla confusione del principio di salvaguardia dello Stato o della società di fronte al pericolo con una questione di ordine pubblico. Il ricorso a leggi speciali è giustificato dall’urgenza, dall’assoluta necessità di agire con velocità, da quel riflesso istintivo che è la legittima difesa. È così che si salva quello che si deve salvare, certo. Ma queste leggi non hanno alcuna possibilità di costituire una risposta durevole a una minaccia che non è da meno. Passato il momento di estremo pericolo, bisogna tornare alla legalità “normale”, a costo di adottare misure inedite per affrontare efficacemente una minaccia molto precisa, e a costo di modificare, in piena coscienza, l’attuale equilibrio tra sicurezza e libertà.Terza debolezza, l’accettazione perniciosa dell’imperativo del controllo. Più il potere erode le libertà, più i cittadini devono essere vigili, per contrastare le minacce come anche per difendere i propri spazi di libertà. Questa tendenza a dare al potere una delega in bianco è stata molto forte nel 1961 in Francia, quando Charles De Gaulle venne accolto come un “salvatore”, ma oggi sembra essere meno incisiva. Lo si vede anche dal fatto che della legge del 1955 riportata in auge in questi giorni si è stralciata la parte relativa al controllo delle radio e dei giornali. Se la legislazione d’eccezione ha una qualche legittimità di applicazione in stato di urgenza? Il presidente della Repubblica ha fatto appello a due cose: sul momento ha invocato la proroga dello stato d’urgenza per tre mesi e la “ripulitura” di questa legge, e ha poi chiesto una revisione della Costituzione in tempi rapidi, che permettesse di agire «in conformità allo Stato di diritto, contro il terrorismo e la guerra». La proroga di tre mesi non significa che lo stato di urgenza sarà mantenuto tanto a lungo, anzi resta sempre possibile per il presidente porre fine a questa misura. Addirittura è anche possibile che sia un giudice a imporre la fine allo stato di urgenza, qualora ravvisasse che le condizioni per la sua dichiarazione non sussistessero più e il presidente non accennasse a voler sopprimere la misura.La ripulitura della legge del 1955 è un’altra cosa: non è mai molto saggio legiferare sull’urgenza in stato di urgenza. Era proprio assolutamente necessario alleggerire le zavorre alle misure di obbligo di dimora e alle perquisizioni con tanta rapidità e senza un sereno dibattito sull’argomento? Era davvero imperativo, come è successo, offrire in cambio di questa accelerazione la rinuncia al controllo pubblico sui media? Sarebbe bastato non applicare questa disposizione e poi toglierla dalla legge in un secondo momento. Come può il diritto assumersi il compito di risolvere la questione del terrorismo senza passare per leggi speciali? Bisogna fare lo sforzo di identificare i caratteri specifici del terrorismo jihadista. Questi soggetti non son né delinquenti né “classici” combattenti armati. Non sono delinquenti perché non temono la morte, anzi addirittura la cercano in quanto fonte di gloria presso i loro fratelli. Invece il delinquente tradizionale teme eccome la morte: il ladro vuole godere del bene che ha rubato, il violentatore intende continuare violentare. Questi sono i crimini che la società combatte, e ritiene di poter eliminare attraverso la minaccia della pena di morte o l’ergastolo per i crimini più gravi.L’intero sistema penale della modernità riposa sulla logica secondo la quale la pena di morte senza eccessiva crudeltà costituisce il summum della repressione. Quando si ha però a che fare con persone che non temono la morte, e che addirittura se la procurano con cinture esplosive, è allora tutto il sistema repressivo moderno ad andare in crisi, e il diritto penale con esso. Ecco perché sembra necessario portare il trattamento giuridico del terrorismo oltre il diritto penale e resistere alla tentazione di costituire una sorta di super diritto penale, che Günther Jacobs ha chiamato diritto penale del nemico. D’altra parte i terroristi jihadisti non sono neanche dei combattenti classici. Quest’ultima categoria rimanda alle convenzioni internazionali sul diritto di guerra che, pur riconoscendo ad alcuni soggetti il diritto di uccidere limitatamente ad alcune circostanze, sottomettono comunque tali soggetti a condizioni che si potrebbero riassumere con un principio di lealtà: non prendersela con persone disarmate, ricorrere all’uso della forza in maniera proporzionata, fare prigionieri piuttosto che eliminarli, e trattarli degnamente.Il terrorista jihadista non appartiene a questo universo logico, dal momento che spara sulla gente disarmata, che giustizia persone in ginocchio mentre supplicano e che, infine, si fa vigliaccamente esplodere quando arriva il momento dello scontro in campo aperto. Inutile quindi provare a usare il modello del combattente per capire il terrorismo jihadista, come fa chi ricorre alla categoria di “combattente illegale” inventata dai vari Patriot Act del 2001. In poche parole, non serve a niente destabilizzare quelle categorie di diritto penale (con la sua gabbia fatta diritti e di libertà) o di diritto di guerra (anch’esso limitato da norme molto precise) che la modernità ha lentamente cesellato e che sono motivo di vanto per le democrazie contemporanee. Piuttosto, la strada da percorrere sarebbe quella della costruzione “ex nihilo” di una tipologia specifica di diritto applicabile ai terroristi jihadisti, senza però che in questo modo si inquinino il diritto penale da una parte e quello internazionale dall’altra. Ciò presuppone tuttavia la necessità di identificare con i criteri il più precisi possibile quei jihadisti che nutrono odio per la modernità, in modo da non rischiare di stendere una rete troppo grande, catturando anche persone che nulla hanno a che fare con il terrorismo, com’è capitato negli Stati Uniti dopo il 2001.Questo sforzo di precisione deve passare necessariamente per misure di sorveglianza alquanto intrusive, è vero, e per questo la politica dovrà sorvegliare in maniera molto attenta. Se si aumenta il potere dello Stato sugli individui bisogna compensare con meccanismi rafforzati di controllo di questo stesso potere: una vigilanza da parte della magistratura sulle amministrazioni e una società civile attenta, attraverso la stampa, le associazioni di difesa dei diritti fondamentali, sindacati dei magistrati e degli avvocati e così via. Ai terroristi non si potranno vietare nemmeno quelle libertà che riguardano le garanzie procedurali per i processi e i gradi di giudizio. Più si mettono tra parentesi le libertà fondamentali, infatti, e maggiore controllo è necessario. In materia di diritto delle libertà si ha l’abitudine di dire che è meglio un colpevole in libertà piuttosto che un innocente in prigione: anche se è difficile, dobbiamo continuare a pensarla così. Non si potranno limitare neanche le libertà legate alla nazionalità. Privare un individuo del suo passaporto francese non avrà alcun impatto su una persona che odia già la Francia e che non si considera cittadino francese. Perché adottare la prospettiva dei “buoni” e dei “cattivi” francesi? È una scappatoia miope che si priva della possibilità di trasformare, in seguito, il proprio nemico in un amico e in un futuro modello, attraverso i programmi di “deradicalizzazione”.In compenso è importante porre la questione cruciale dell’habeas corpus, cioè dell’impossibilità di trattenere o rinchiudere un individuo se questi non ha commesso un reato. E con essa va posta di nuovo la questione della privacy, ovvero della possibilità di sorvegliare un individuo a sua insaputa per capire se esso rientri nella categoria sensibile stabilita. Dal 1945 il livello di protezione delle nostre libertà non ha mai smesso di crescere, mentre le minacce diminuivano sempre di più, soprattutto a seguito della caduta del Muro di Berlino. A un certo punto si era arrivati a pensare che questo grado di protezione sarebbe rimasto immutato, e qualcuno ha perfino sostenuto che la protezione giuridica delle libertà non potesse far altro che progredire con il tempo, senza mai regredire. Non è più così. Le libertà hanno un prezzo, e i partigiani e resistenti degli anni ’40 lo hanno pagato caro. Il sistema giuridico dei moderni si fonda sull’uscita dallo stato di natura, descritto come condizione in cui l’insicurezza è insopportabile, e sull’affidamento allo Stato del compito di garantire la sicurezza degli individui che, contestualmente al patto, rinunciano all’uso arbitrario della forza. È questa la condizione di possibilità dei diritti fondamentali. L’equilibrio tra sicurezza e libertà è necessariamente oscillante, e necessita di una costante attualizzazione. Perciò è legittimo riconsiderare pesi e misure con metodo democratico, purché si eviti tanto il ricorso all’emotività che gli appelli all’autorità, rinnovando invece quelli alla razionalità.(François Saint-Bonnet, dichiarazioni rilasciate a Florent Guenard per l’intervista “Stato d’eccezione contro il terrorismo?”, pubblicata da “La vie des idées” e ripresa da “Micromega” il 2 dicembre 2015. François Saint-Bonnet è professore di storia del diritto all’università Panthéon-Assas, Paris II. Specialista del diritto dei periodi di crisi, lavora anche sulla storia delle libertà pubbliche e dei diritti fondamentali. È autore di “L’état d’exception” e di “Histoire des institutions avant 1789”).Per molto tempo, di fronte a un pericolo serio per la comunità politica, si è fatto ricorso al concetto di necessità evidente per travalicare i limiti imposti al potere dei governi. “Salus populi suprema lex est”, oppure “necessitas legem non habent”: queste formule hanno spesso giustificato il passaggio da uno stato normale, in cui il potere è limitato, a uno stato d’eccezione, dove non ci sono limiti. Lo stato di urgenza decretato la sera stessa degli attentati del 13 novembre limita la libertà. E pertanto sembra poggiare su un consenso reale: il 18 novembre l’84% dei francesi intervistati in un sondaggio Ifop erano pronti ad “accettare ulteriori misure di controllo e un certo grado di limitazione della propria libertà”. Si assiste dunque a una curiosa forma di accettazione democratica della restrizione della libertà democratica. Ma questo consenso si incrina in almeno tre punti. Primo elemento di debolezza: il consenso alle misure restrittive della libertà è dato sullo slancio dell’emotività. Lo sconforto generato dall’orrore degli attacchi jihadisti tende ad alterare le percezioni.
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In Turchia, se indaghi sull’Isis finisci impiccato nella toilette
Ciò che sta accadendo in Turchia ci riguarda molto da vicino. Un tiranno, Recep Tayyip Erdogan, non un semplice dittatore, bensì una sorta di satrapo ha il potere, tutto il potere nelle sue mani avide, sue e dei familiari, a cominciare dal figlio Ahmet, coinvolto in molti loschissimi affari. Egli ha creato un vero e proprio modello politico, secondo qualche analista: l’erdoganismo, che appare una sorta di bismarckismo iperautoritario, che prova a giocare sull’inclusione delle masse e sulla messa fuori gioco, con qualsiasi mezzo, di ogni forma non solo di opposizione, ma di dissenso. Le ultime elezioni, di cui la nostra ineffabile signora Mogherini ha certificato la democraticità, sono state stravinte da Erdogan, grazie alle azioni terroristiche contro le opposizioni: la strage dei giovani che marciavano per la pace ad Ankara del 9 ottobre scorso, con 95 morti, e centinaia di feriti, è un esempio mostruoso; saranno stati anche i kamikaze, ma come si sono comportate le autorità? Quali misure prima e dopo hanno preso? La polizia addirittura impediva i soccorsi, e aggrediva i superstiti.Le vittime sono diventate imputati, in sostanza, come in altri episodi assai meno gravi ma diffusi, sotto la tirannia di Erdogan: dopo l’attentato, costui ebbe l’insolenza di dichiarare che si trattava di un atto “contro l’unità del paese”, lo stesso stucchevole, ma pericolosissimo, ritornello usato contro i partiti curdi. Tutto, in un clima di crescente intolleranza verso chi la pensava diversamente dal capo, verso magistrati che si permettevano di mettere il naso negli affari di famiglia, verso alti militari giudicati pericolosi per il potere del capo, e così via. Impressionante, la serie di chiusure di giornali e di siti internet, gli arresti e le pesanti condanne detentive di giornalisti, le intimidazioni d’ogni genere verso chi non è del partito del capo o verso chi si azzarda a esprimere, anche in modo sommesso, una critica: di questo passo in Turchia, la Turchia che vorrebbe aderire all’Ue, neppure lo ius murmurandi sarà più concesso. L’attentato contro il corteo di giovani che chiedevano la pace, ossia la fine delle azioni militari del governo contro i curdi, essenzialmente, fu un episodio che colpì enormemente l’opinione pubblica internazionale, in qualche modo evocatore della strage dei giovani socialisti norvegesi da parte del neonazista Andres Breivik, nell’estate 2011.Ma quali furono gli atti della “comunità internazionale” volti a chiedere conto dell’accaduto a Erdogan e al suo governo? E che dire della brutale eliminazione, degna di un poliziesco, della giornalista e attivista britannica Jacky Sutton, all’interno dell’aeroporto Ataturk di Istanbul? Con tanto di suicidio inscenato, per impiccagione, nella toilette… La Sutton indagava sui possibili nessi tra governo turco e Is, guarda caso. Anche in questo caso non risultano inchieste serie all’interno, né proteste “vigorose” della solita comunità internazionale, a cominciare da quella europea. Ogni volta, insomma, Erdogan alza l’asticella, e ogni volta, regolarmente, incontra acquiescenza, connivenza, al massimo imbarazzati silenzi. E stupisce anche l’assenza della stampa di inchiesta su un caso che, anche con lo sguardo cinico del professionista della comunicazione, è dannatamente “interessante”. E il rullo compressore erdoganiano procede, schiacciando tutto ciò che incontra sul proprio cammino.Nel disegno politico di colui che si considera il nuovo Ataturk, Racep Erdogan appunto, la “sua” Turchia – sua in senso proprio, proprietario, si direbbe – deve diventare potenza egemone nell’area mediorientale, per poi sedere al banchetto dei “grandi”, forte di un esercito potentissimo, e di una crescita economica che finora ha sostenuto le sorti governative; finora, ma le cose stanno cambiando. Per raggiungere lo scopo, Erdogan non ha esitato a stabilire rapporti, più o meno coperti, con Daesh, mentre conservava e rafforzava i suoi legami con Usa e Nato: non buoni invece quelli con l’Unione Europea, che stenta ad accogliere uno Stato come questo nel suo seno (con notevole ipocrisia, d’altronde). E, soprattutto, Erdogan, con straordinario cinismo, stabilisce e rompe intese ed alleanze: il suo attacco alla Russia (l’abbattimento di un aereo della Federazione impegnato in azioni contro l’Isis è stata una dichiarazione di guerra, evidentemente compiuta con l’assenso della Nato e degli Usa) e l’eliminazione dell’avvocato Tahir Elci, uno dei più noti difensori della causa del popolo curdo, è stata un’altra dichiarazione di guerra, contro un intero popolo, la cui esistenza in Turchia neppure viene riconosciuta (i curdi sono chiamati “turchi del Nord”!). Un vero e proprio “caso Matteotti” in salsa turca.Ci si sarebbe aspettato una generale levata di scudi, specie dopo aver visionato il video dell’azione: gli assassini scappano verso gli agenti di polizia che sparano verso di loro senza mai colpirli, al punto che vien da pensare che le loro armi fossero caricate a salve. “L’uccisione rimarrà un mistero”, si è subito bofonchiato. Lo rimarrà perché le autorità vogliono che nulla trapeli della verità, perché esse sono implicate direttamente nell’omicidio, che con la solita faccia tosta Erdogan ha attribuito al Pkk ossia il partito curdo di sinistra estrema, che Elci difendeva sia in tribunale, nelle tante cause in corso, sia nelle pubbliche occasioni, in una delle quali era egli stesso incappato nell’accusa di tradimento e quant’altro, ed era stato arrestato. Ma un altro video è da guardare, con estrema attenzione, quello dei suoi funerali. Esso costituisce un bellissimo quanto dolente omaggio al combattente caduto, che è anche una dimostrazione di coraggio per chi vi ha partecipato, e una lezione per chi, nelle nostre tepide case, lo guarda, ammirato della sua grandiosa semplicità, e della sua forza.Ma il potere di Erdogan e del suo cerchio magico non si lascia condizionare, come non lo aveva smosso l’ondata di proteste dello scorso anno di piazza Taksim in difesa del Gezi Park, ma in realtà di quel poco di libertà che ancora rimaneva nel paese. Proteste represse, come le precedenti e le successive, con durezza estrema dalla polizia: feriti, morti, e centinaia di arresti. Tutto ciò, ribadisco, nella silenziosa acquiescenza delle “democrazie occidentali”, che si stanno rendendo complici del tiranno. L’odio per i “comunisti” (del Pkk), da un canto, la russofobia dall’altro giocano sempre un ruolo importante. La democratica Europa tace. La democratica Italia, balbetta. I democraticissimi Stati Uniti, invece, si schierano a fianco del tiranno. E così costui, nel suo megagalattico palazzo presidenziale da 1200 stanze – il più gigantesco del mondo – una reggia fortificata, per giunta edificata in zona vietata (il diritto che nasce dalla forza, non viceversa…), sogna come “Il Grande Dittatore”, aggirandosi per saloni, corridoi, scale, parco… Sogna di avere, nelle sue avide mani adunche prima il Medio Oriente, e poi?La sua corsa tuttavia rischia di fargli fare passi falsi: colpire con un missile un aereo russo è stato un gesto a dir poco spregiudicato, volto a far schierare tutto l’Occidente al suo fianco, in nome dell’antica paura e odio per i russi; l’arroganza con cui Erdogan ha, con toni truculenti, rivendicato il “diritto” della Turchia a “difendere i propri confini”, perché un aereo che in teoria combatte dalla stessa parte turca contro l’Is, aveva sconfinato (per 27 secondi, ossia, 2,7 km), è apparso quasi grave quanto quel missile. Ma quando preso ormai da una sorta di delirio di onnipotenza, Erdogan ha sentenziato: «La Russia scherza col fuoco», allora l’inquietudine è cresciuta. Non v’è dubbio che oggi, vi sia un solo soggetto politico-militare che possa fermare Erdogan: la Federazione Russa di Vladimir Putin: piaccia o non piaccia. Così come è chiaro che soltanto la Russia oggi sta combattendo l’Is, seriamente, al di là delle motivazioni, e che solo la Russia può impedire alla Turchia di impadronirsi di un quarto del territorio siriano, di un quinto di quello iracheno e così via. Solo la Russia, in definitiva, può impedire la Terza Guerra Mondiale, verso la quale, invece, la Turchia di Erdogan sembra voler trascinare il mondo.(Angelo d’Orsi, “Crimini e misfatti, la Turchia di Erdogan”, da “Micromega” del 2 dicembre 2015).Ciò che sta accadendo in Turchia ci riguarda molto da vicino. Un tiranno, Recep Tayyip Erdogan, non un semplice dittatore, bensì una sorta di satrapo ha il potere, tutto il potere nelle sue mani avide, sue e dei familiari, a cominciare dal figlio Ahmet, coinvolto in molti loschissimi affari. Egli ha creato un vero e proprio modello politico, secondo qualche analista: l’erdoganismo, che appare una sorta di bismarckismo iperautoritario, che prova a giocare sull’inclusione delle masse e sulla messa fuori gioco, con qualsiasi mezzo, di ogni forma non solo di opposizione, ma di dissenso. Le ultime elezioni, di cui la nostra ineffabile signora Mogherini ha certificato la democraticità, sono state stravinte da Erdogan, grazie alle azioni terroristiche contro le opposizioni: la strage dei giovani che marciavano per la pace ad Ankara del 9 ottobre scorso, con 95 morti, e centinaia di feriti, è un esempio mostruoso; saranno stati anche i kamikaze, ma come si sono comportate le autorità? Quali misure prima e dopo hanno preso? La polizia addirittura impediva i soccorsi, e aggrediva i superstiti.