Archivio del Tag ‘Kuwait’
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L’umanità nuova che sorge dopo il massacro della verità
Quelli che ancora ragionano di geopolitica ordinaria, in mezzo alla follia. Quelli che “sanno” che Putin ha l’Alzheimer, ed è sicuramente pazzo. Quelli che narrano dei 13 soldati eroi, sull’Isola dei Serpenti nel Mar Nero, ora occupata dai militari russi, senza sapere che i combattenti ucraini erano 83: dimenticati dai servi passacarte stipendiati a Kiev. Loro, soldati, messi a guardia di strutture tecno-oscure e imbarazzanti (straniere, si capisce) e – dicono fonti attendibili, confidenziali – sani e salvi, tutti e 83. Ora, a parte la ridda di voci incontrollabili e spaventose cannonate, confida un ufficiale della Nato, off the record: sono 22.000, non 15.000, i morti ammazzati di etnia russa – per lo più civili cittadini – che la stimabile nomenklatura ucraina (oggi rappresentata dall’ex comico Zelensky, nuovo eroe dell’Occidente covidizzato) ha fatto a pezzi e letteralmente maciullato, nel Donbass, negli ultimi otto anni.Ventiduemila cittadini inermi, dunque, dilaniati dalle milizie che rispondono al governo che nel 2022 chiede di entrare nella Nato e nell’Ue, nel club d’élite della democrazia, mentre gli eroici redattori del Tg2 mandano in onda le immagini di un wargame della playstation e il “Corriere della Sera” ripropone, come documento dell’aggressione nazi-russa, un’esplosione (incidentale o no) nella capitale ucraina, risalente nientemeno che al 2015. E poi chi sono, appunto, i narratori? Chi sono – come li chiamava Giulietto Chiesa – i famosi padroni del discorso? Sono gli avventurieri vocati all’assassinio, da John Fizgelarld Kennedy a Salvador Allende. Sono i “bombardatori” fisiologici, dopo Hiroshima e Nagasaki. Bombe su ancora Guatemala, poi Indonesia e Cuba, Congo, Laos, Vietnam, Cambogia. E poi Grenada, Libia, El Salvador. Poi Nicaragua, Iran, Panama, Iraq-Kuwait, Somalia, Bosnia, Sudan. E ancora: Somalia e Pakistan, poi Yemen, di nuovo Libia e Siria.Non viene, vagamente, il vomito? Non perché gli altri siano meglio: non è che brilli, l’aliena controparte. Ma almeno non blatera di libertà e democrazia: estetica, buon gusto? I nostri sono quelli dell’11 Settembre, degli spread, della Grecia massacrata – senza anestesia – dall’uomo che riponde a un nome: Mario Draghi. I nostri sono Greta, sono la Von de Leyen, Soros, Zuckerberg, Bill Gates. Sono l’Oms, sono i lockdown e i coprifuoco. Sono le zone rosse, le mascherine in strada. Sono i “vaccini” che “immunizzano”, sono i colpiti dall’apartheid, discriminati dal Green Pass. I nostri sono i Buoni, gli schiavisti democratici con la validazione vaticana. Non è questione di Crimee, a quanto pare: le fiamme a Est sembrano voler dire che è ora che si scuota, la popolazione rintronata del rinomato Primo Mondo, sotto ipnosi. Tenevi lo Swift, dice la storia: è ora di svegliare l’uomo nuovo. Buttate i libri inutili, usate quei giornali per incartare il nulla. L’umanità che viene nasce adesso, o almeno prova a nascere. E’ questo, il Piano-B. L’unico in campo.(Giorgio Cattaneo, 28 febbraio 2022).Quelli che ancora ragionano di geopolitica ordinaria, in mezzo alla follia. Quelli che “sanno” che Putin ha l’Alzheimer, ed è sicuramente pazzo. Quelli che narrano dei 13 soldati eroi, sull’Isola dei Serpenti nel Mar Nero, ora occupata dai militari russi, senza sapere che i combattenti ucraini erano 83: dimenticati dai servi passacarte stipendiati a Kiev. Loro, soldati, messi a guardia di strutture tecno-oscure e imbarazzanti (straniere, si capisce) e – dicono fonti attendibili, confidenziali – sani e salvi, tutti e 83. Ora, a parte la ridda di voci incontrollabili e spaventose cannonate, confida un ufficiale della Nato, off the record: sono 22.000, non 15.000, i morti ammazzati di etnia russa – per lo più civili cittadini – che la stimabile nomenklatura ucraina (oggi rappresentata dall’ex comico Zelensky, nuovo eroe dell’Occidente covidizzato) ha fatto a pezzi e letteralmente maciullato, nel Donbass, negli ultimi otto anni.
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La fine del mondo, per Severgnini: se Trump viene rieletto
«Se Donald Trump viene rieletto, significa che l’America ha perso la sua speciale innocenza, quella che in tanti ammiravamo, e ha fatto la sua fortuna. Quella che sbuca nei discorsi di Barack Obama e nelle canzoni di Bruce Springsteen, ma era presente anche nell’intuizione di Ronald Reagan o nel decoro coraggioso di John McCain». Parole che Beppe Severgnini, giornalista famosissimo per acuminati bestseller come “Interismi”, ovvero “Il piacere di essere neroazzurri”, ha pubblicato il 1° novembre 2020 sul “Corriere della Sera”, giornale di cui era vicedirettore un certo Federico Fubini, che lo scorso anno ha ammesso di aver nascosto la strage dei bambini in Grecia, provocata dall’austerity, per non compromettere il prestigio dell’Unione Europea. Dalla Luna, o dal pianeta remoto dal quale Severgnini scrive, la Terra è così semplicisticamente infantile da apparire bianca o nera, senza gradazioni cromatiche: i buoni di qua, i cattivi di là. O meglio, il cattivo è uno solo: l’Uomo Nero. Un mostro orribile, che «ha dimostrato la sua inadeguatezza – politica, economica, culturale, morale, psicologica – a ricoprire un ruolo tanto importante».Dalla galassia da cui scrive Severgnini, però, a colpire davvero sono i buoni, presentati come i testimonial di una virtù teoricamente incompatibile con la politica: l’innocenza. Il primo è Barack Obama, Premio Nobel alle Buone Intenzioni: l’uomo che il lunedì firmava ordini di morte, esecuzioni remote affidate ai missili montati sui droni. Obama, il “primo presidente nero” che in otto anni non ha fatto niente per riformare la polizia americana, sradicandone i comportamenti razzisti. E’ il “commander in chief” che nel 2011 ha rivendicato l’uccisione di un anziano, in Pakistan, sostenendo – di fronte al mondo – che si trattasse di Osama Bin Laden: la salma crivellata di colpi, trasportata su una portaerei e poi inabissata in mare, lontano dagli occhi e dai fotografi, dopo un (inesistente) “rito islamico”. L’innocente Obama, il buono: quello che ha scatenato focolai di guerra in mezzo mondo, assediato la Russia e gestito il golpe colorato in Ucraina, innescato le ambigue primavere arabe, promosso l’assassinio di Gheddafi. Sempre lui, Obama, è l’uomo che ha spedito in Siria l’altro grande innocente citato da Severgnini, quel John McCain il cui «decoro coraggioso» evidentemente traspare dalle foto che lo ritraggono in compagnia dei futuri tagliagole dell’Isis, incluso il tristemente famoso Al-Baghdadi, rilasciato poco prima dal centro di detenzione americano per jihadisti.Ai tempi del turbo-neoliberista Ronald Reagan – altro innocente, avvistato dal pianeta di Severgnini – i dissidenti dell’Unione Sovietica guardavano ancora all’America come porto sicuro; all’epoca dell’innocente Obama, invece, un ragazzo di nome Edward Snowden ha dovuto scappare in Russia, dopo aver rivelato lo spionaggio orwelliano di massa eseguito dalla più vasta agenzia statunitense di intelligence, la Nsa. Strana innocenza, quella che si nasconde nella caccia all’uomo. Ma dev’essere proprio difettosa, la visuale, dal pianeta di Severgnini, se è vero che – parlando di America e di musica pop – si vede benissimo la purezza di Bruce Springsteen ma non quella, ancora più lucida, del suo maestro riconosciuto, Bob Dylan, decano di tutti gli aedi contemporanei e autore del brano-monumento (”Murder Most Foul”) in cui si rappresenta precisamente la mitica “perdita dell’innocenza”, il 22 novembre 1963, con lo scioccante omicidio di John Fizgerald Kennedy, macellato a Dallas sotto il naso dell’apparato di sicurezza più efficiente del pianeta. Analogo spettacolo – l’innocenza massacrata in mondovisione, al cospetto di autorità distratte – quando vennero giù le Torri Gemelle: ma non c’è pericolo che le colonne di fumo, insieme al puzzo della menzogna, potessero essere individuate dal telescopio del nerazzurro Servergnini.Dovettero arrossire, i custodi dell’innocenza, quando Colin Powell agitò la sua fialetta di profumo alle Nazioni Unite, o quando le televisioni mostrarono i poveri cormorani inzuppati di petrolio e il pianto della falsa infermiera (in realtà, figlia dell’ambasciatore del Kuwait), in lacrime per la strage dei neonati – mai avvenuta – da parte dei brutali soldati di Saddam. Veri e propri orchi sanguinari: dipinti come untermenschen, sotto-uomini hitleriani, né più né meno come oggi viene presentato il presidente uscente degli Stati Uniti d’America, l’uomo che non si è piegato al “China-virus” e che ha trascorso quattro anni – da vero malvagio qual è – a ritirare truppe, evitare provocazioni, rinunciare a guerre, disinnescare crisi grottesche come quella con la Corea del Nord. «Se Donald Trump viene rieletto, vuol dire che gli Usa hanno scelto di voltare le spalle al pianeta», scrive l’interista astronautico, a cui è riuscita indigesta l’evidente antipatia dell’Uomo Nero per i kapò di Bruxelles, i loro mandanti e la loro sicurezza-colabrodo, in un’Europa trasformata in purgatorio eterno, dove – proprio adesso, guardacaso – si sono rifatti avanti (in Francia, in Austria) i manovali dell’orrore che, qualche anno fa, avevano strettissime relazioni con i gentiluomini siriani e iracheni coi quali si intratteneva amabilmente l’innocente McCain. Bella lezione astronomica, quella impartita ai poveri terrestri: i Trump e i Biden passano, i Severgnini invece restano.(Giorgio Cattaneo, “La fine del mondo, per Servergnini: se Trump viene rieletto”, dal blog del Movimento Roosevelt del 3 novembre 2020).«Se Donald Trump viene rieletto, significa che l’America ha perso la sua speciale innocenza, quella che in tanti ammiravamo, e ha fatto la sua fortuna. Quella che sbuca nei discorsi di Barack Obama e nelle canzoni di Bruce Springsteen, ma era presente anche nell’intuizione di Ronald Reagan o nel decoro coraggioso di John McCain». Parole che Beppe Severgnini, giornalista famosissimo per acuminati bestseller come “Interismi”, ovvero “Il piacere di essere neroazzurri”, ha pubblicato il 1° novembre 2020 sul “Corriere della Sera”, giornale di cui era vicedirettore un certo Federico Fubini, che lo scorso anno ha ammesso di aver nascosto la strage dei bambini in Grecia, provocata dall’austerity, per non compromettere il prestigio dell’Unione Europea. Dalla Luna, o dal pianeta remoto dal quale Severgnini scrive, la Terra è così semplicisticamente infantile da apparire bianca o nera, senza gradazioni cromatiche: i buoni di qua, i cattivi di là. O meglio, il cattivo è uno solo: l’Uomo Nero. Un mostro orribile, che «ha dimostrato la sua inadeguatezza – politica, economica, culturale, morale, psicologica – a ricoprire un ruolo tanto importante».
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Noi terroristi e i diritti altrui: l’Impero ha assorbito l’America
Quindi, il 2020 è iniziato in modo entusiasmante. Siamo appena a metà gennaio e abbiamo già superato la Terza Guerra Mondiale, che si è rivelata leggermente meno apocalittica del previsto. Le squadre della scientifica stanno ancora setacciando le ceneri, ma i rapporti preliminari suggeriscono che l’Impero Capitalista Globale è emerso dalla carneficina in gran parte intatto. La guerra era, ovviamente, iniziata in Medio Oriente quando Donald Trump (un “agente russo”) aveva ordinato l’omicidio del generale iraniano Qasem Soleimani fuori dall’aeroporto di Baghdad, presumibilmente dopo essere stato autorizzato da Putin, cosa che, viste le relazioni tra Iran e Russia, non ha ha davvero molto senso. Ma lasciamo perdere. Secondo il governo degli Stati Uniti e i media corporativi, Soleimani era un “terrorista,” che aveva lavorato con Assad (un altro “terrorista”) per distruggere l’Isis (anch’essi “terroristi”), ed elementi di Al-Qaeda (che erano soliti essere “terroristi”) e che aveva il sostegno dei russi (che sono una specie di “terroristi”) per compiere tutta una serie di altri, non specificati ma presumibilmente imminenti, atti “terroristici.”Apparentemente, Soleimani era volato a Baghdad con un volo commerciale “terroristico” segreto, per recarsi ad una sorta di incontro diplomatico “terroristico” altrettanto segreto, dove avrebbe dovuto discutere di de-escalation con i sauditi (che sicuramente non sono “terroristi”), quando l’esercito americano lo aveva preventivamente ucciso con un drone Mq-9b Reaper della General Atomics Aeronautical Systems. L’Iran, (ufficialmente un paese “terrorista” fin dal gennaio 1979, quando gli iraniani avevano rovesciato il brutale fantoccio dell’Occidente che la Cia e l’Mi6 avevano installato come loro “Shah” nel 1953, che aveva defenestrato il primo ministro iraniano, reo di aver nazionalizzato la compagnia petrolifera anglo-persiana, in seguito conosciuta come British Petroleum), aveva reagito all’omicidio preventivo del loro generale “terrorista” proprio come un paese di “terroristi”. L’ayatollah Khamenei (avete indovinato, un “terrorista”) aveva lanciato una serie di minacce “terroristiche” contro i 50.000 uomini del personale militare degli Stati Uniti che, più o meno, circondano completamente il suo paese, con basi in tutto il Medio Oriente.Milioni di iraniani (attualmente “terroristi,” ad eccezione dei membri del Mek), che, secondo i funzionari statunitensi odiavano Soleimani, erano scesi nelle strade di Teheran e di altre città per piangere la sua morte, bruciare bandiere americane e gridare “morte all’America” e altri slogan “terroristici”. L’Impero era andato a Defcon 1. L’82a Divisione Aviotrasporta era stata messa in allerta. Il Dipartimento di Stato aveva consigliato agli americani in vacanza in Iraq di andarsene da lì, #worldwar3 aveva iniziato a fare tendenza su Twitter. I paesi amanti della libertà di tutta la regione stavano per essere annientati. L’Arabia Saudita aveva posticipato la sua già programmata edizione del fine settimana di decapitazioni pubbliche. Israele aveva attivato le sue inesistenti armi nucleari. I kuwaitiani avevano messo guardie armate davanti alle loro incubatrici. Qatar, Bahrein, gli Emirati Arabi Uniti e gli altri fedeli avamposti dell’Impero avevano fatto quello che di solito si fa quando si è di fronte all’Armageddon nucleare.Negli Stati Uniti, era un’isteria collettiva. I media corporativi avevano iniziato a pompare storie su Soleimani con «le mani che grondavano sangue», «il terrorista numero uno al mondo», reo di aver ucciso centinaia di soldati americani che, nel 2003, dopo aver preventivamente invaso e distrutto l’Iraq, stavano preventivamente massacrando e torturando gli iracheni per impedire loro di attaccare l’America con le loro inesistenti armi di distruzione di massa. Gli americani (la maggior parte dei quali non aveva mai nemmeno sentito parlare di Soleimani fino a quando il loro governo non lo aveva ucciso, e che non sarebbe in grado trovare l’Iran su una carta geografica) si erano buttati su Twitter per chiedere l’immediato bombardamento dell’Iran direttamente dallo spazio. Il sindaco Bill de Blasio aveva ordinato a una divisione di forze “anti-terrorismo” pesantemente armate di vigilare su New York City, fucili imbracciati, per impedire agli iraniani di attraversare a nuoto l’Atlantico (insieme al loro delfini assassini comunisti), toccare terra ad East Hampton Beach, prendere la metropolitana fino in città e commettere atrocità “terroristiche” devastanti, che sarebbero poi state commemorate per l’eternità su portachiavi, magliette e tazze da caffè extralarge.Trump, da buon agente russo, aveva tenuto i nervi saldi e non si era fatto scoprire, eseguendo il suo numero di “completo deficiente” come solo un esperto agente russo è in grado di fare. Mentre l’Iran era ancora in lutto, aveva iniziato a farfugliare in pubblico sul cadavere smembrato di Soleimani, sul bombardamento di siti culturali iraniani e a schernire grossolanamente l’Iran come un ubriaco da strada emotivamente alterato. La sua strategia era chiaramente quella di convincere gli iraniani (e il resto del mondo) di essere un pericoloso imbecille che avrebbe ucciso i funzionari di qualsiasi governo straniero che Mike Pompeo gli avesse indicato, e che poi avrebbe incenerito i loro musei e le loro moschee e, presumibilmente, anche tutto il resto del loro “cessoso” paese, se solo avessero pensato a ritorsioni. Ciononostante, gli iraniani avevano reagito. In una sadica esibizione di “spietato terrorismo”, avevano lanciato una tempesta di missili balistici “terroristici” contro due basi militari statunitensi in Iraq, non uccidendo nessuno e non ferendo nessuno, ma riducendo in cenere alcuni edifici vuoti, un elicottero e un paio di tende.Prima, però, al fine di massimizzare il “terrore”, avevano chiamato i funzionari dell’ambasciata svizzera a Teheran e avevano chiesto loro di avvertire i militari statunitensi che, a breve, avrebbero lanciato alcuni missili contro le loro basi. Come riportato dal sito web di “Moon of Alabama”: «L’ambasciata svizzera a Teheran, che rappresenta gli Stati Uniti, era stata avvertita almeno un’ora prima dell’attacco. Intorno alle 0:00 Utc, la Federal Aviation Administration degli Stati Uniti aveva emesso un avviso agli aviatori (Notam) che proibiva i voli civili statunitensi su Iraq, Iran, Golfo Persico e Golfo di Oman». Sulla scia del devastante contrattacco degli iraniani e delle non-vittime di massa risultanti, chiunque in possesso di una connessione ad Internet o ai canali televisi era sceso nel proprio bunker anti-terrorismo e aveva trattenuto il respiro, in previsione dell’inferno nucleare che Trump avrebbe sicuramente scatenato. Confesso di aver seguito anch’io il suo discorso, uno degli spettacoli pubblici più inquietanti a cui abbia mai assistito.Trump era uscito a passo di carica dalle porte del Grand Foyer della Casa Bianca, drammaticamente retroilluminato, “abbronzato” di fresco, accigliato come un lottatore di wrestling, e aveva annunciato che, finché sarebbe stato presidente, «all’Iran non sarà mai permesso di avere armi nucleari», come se uno qualsiasi degli eventi della settimana precedente avesse avuto a che fare con le armi atomiche (di cui gli iraniani non hanno bisogno e che non vogliono, tranne che in qualche delirio dei Neoconservatori, a meno che non intendano suicidarsi come nazione nuclearizzando Israele). Non ce l’avevo fatta ad ascoltare tutto il suo discorso, proferito in uno staccato affannato e robotico (forse perché Putin, o Mike Pompeo, glielo dettavano, parola per parola, nel suo auricolare), ma era stato chiaro fin dall’inizio che si era evitato lo scontro nucleare completo, faccia a faccia, con l’Asse della Resistenza, o l’Asse del Terrore, o l’Asse del Male o l’asse di qualunque cosa. Ma, seriamente, isteria di massa a parte, nonostante qualunque atrocità debba ancora arrivare, la Terza Guerra Mondiale non scoppierà. Perché, vi chiederete?Ok, ve lo dico, ma non vi piacerà. La Terza Guerra Mondiale non ci sarà perché la Terza Guerra Mondiale è già avvenuta … e l’Impero Capitalista Globale ha vinto. Date un’occhiata alle mappe della Nato (con tutte le varie basi). Guardate la mappa dello Smithsonian delle località in cui i militari statunitensi “combattono il terrorismo”. E ci sono molte altre mappe che potete cercare con Google. Quello che vedrete è l’Impero Capitalista Globale. Non l’Impero Americano, l’Impero Capitalista Globale. Se questo suona come una distinzione senza importanza, be’, in un certo senso lo è (e in un certo senso, no). Quello che voglio dire è che non è l’America (cioè l’America come Stato-nazione, in cui la maggior parte degli americani crede ancora di vivere) che sta occupando militarmente gran parte del pianeta, facendosi beffe del diritto internazionale, bombardando, invadendo altri paesi e assassinando capi di Stato e militari in totale impunità. O meglio, certo, è l’America: ma l’America non è l’America.L’America è una simulazione. È la maschera che l’Impero Capitalista Globale indossa per nascondere il fatto che non esiste l’America, che esiste solo l’Impero Capitalista Globale. L’intero concetto di Terza Guerra Mondiale, di potenti Stati-nazione che conquistano altri potenti-Stati-nazione, è pura nostalgia. L’”America” non vuole conquistare l’Iran. L’Impero vuole ristrutturare l’Iran e poi assorbire l’Iran nell’Impero. Se ne sbatte della democrazia, del fatto che alle donne iraniane sia permesso o meno indossare la minigonna o degli altri “diritti umani”. Se così non fosse, ristrutturerebbe l’Arabia Saudita e applicherebbe la “massima pressione” su Israele. Allo stesso modo, l’idea che “l’America” in Medio Oriente abbia commesso una serie di sfortunati “errori strategici” è una conveniente illusione. Certo, la sua politica estera non ha senso dal punto di vista di uno Stato-nazione, ma è perfettamente logica dal punto di vista dell’Impero.Mentre “l’America” sembra agitarsi senza senso, come un toro in un negozio di porcellane, l’Impero sa esattamente cosa sta facendo e ha continuato a farlo fin dalla fine della Guerra Fredda, aprendo mercati precedentemente inaccessibili, eliminando le resistenze interne, ristrutturando in modo aggressivo tutti quei i territori che non volevano accettare le regole del capitalismo globale. So che è gratificante sventolare la bandiera (o bruciarla, a seconda della vostra propensione politica) ogni volta che le cose si infiammano militarmente; ma ad un certo punto, noi (americani, inglesi, occidentali) dovremo affrontare il fatto che viviamo in un impero globale, che persegue attivamente i suoi interessi globali, e non in Stati nazionali sovrani che fanno gli interessi degli Stati nazionali. (Il fatto che lo Stato-nazione sia defunto è il motivo per cui stiamo assistendo ad una rinascita del “nazionalismo”. Non è un ritorno agli anni Trenta. E’ l’agonia dello Stato-nazione, del nazionalismo e della sovranità nazionale… la supernova di una stella morente). La Terza Guerra Mondiale è stata una battaglia ideologica, tra due sistemi egemonici in competizione. È finita. Questo è un mondo capitalista globale.Come afferma Jensen nel film “Network”: «Sei un vecchio che pensa in termini di nazioni e di popoli. Non ci sono nazioni. Non ci sono popoli. Non ci sono russi. Non ci sono arabi. Non ci sono Terzi Mondi. Non c’è Occidente. Esiste un solo sistema olistico di sistemi: un vasto, immane, intrecciato, interconnesso, multivariato, multinazionale dominio dei dollari. Petro-dollari, elettro-dollari, multi-dollari, reichsmark, yen, rubli, sterline e shekel. È il sistema internazionale delle valute che determina la totalità della vita su questo pianeta. Questo è l’ordine naturale delle cose, oggi». Quel sistema di sistemi, quel dominio multivariato e multinazionale di dollari, ci tiene tutti per le palle, gente. Tutti quanti. E non sarà soddisfatto fino a quando il mondo non si sarà trasformato in un inutile e privatizzato grande mercato neo-feudale. Quindi dovremmo dimenticarci della Terza Guerra Mondiale ed iniziare a concentrarci sulla Quarta Guerra Mondiale. Sapete di quale guerra sto parlando, vero? Quella dell’Impero Capitalista Globale contro i “terroristi.”#(C.J. Hopkins, “La Terza Guerra Mondiale”, da “Unz.com” del 13 gennaio 2020, post tradotto da Markus per “Come Don Chisciotte”).Quindi, il 2020 è iniziato in modo entusiasmante. Siamo appena a metà gennaio e abbiamo già superato la Terza Guerra Mondiale, che si è rivelata leggermente meno apocalittica del previsto. Le squadre della scientifica stanno ancora setacciando le ceneri, ma i rapporti preliminari suggeriscono che l’Impero Capitalista Globale è emerso dalla carneficina in gran parte intatto. La guerra era, ovviamente, iniziata in Medio Oriente quando Donald Trump (un “agente russo”) aveva ordinato l’omicidio del generale iraniano Qasem Soleimani fuori dall’aeroporto di Baghdad, presumibilmente dopo essere stato autorizzato da Putin, cosa che, viste le relazioni tra Iran e Russia, non ha ha davvero molto senso. Ma lasciamo perdere. Secondo il governo degli Stati Uniti e i media corporativi, Soleimani era un “terrorista,” che aveva lavorato con Assad (un altro “terrorista”) per distruggere l’Isis (anch’essi “terroristi”), ed elementi di Al-Qaeda (che erano soliti essere “terroristi”) e che aveva il sostegno dei russi (che sono una specie di “terroristi”) per compiere tutta una serie di altri, non specificati ma presumibilmente imminenti, atti “terroristici”.
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Petizione: la Gruber è faziosa, va cacciata da Otto e mezzo
«Non si permetta, io non dico sciocchezze!». L’ultima a protestare è Giorgia Meloni, che si è sentita presa a sberle in trasmissione, insolentita da Lilli Gruber. Il sulfureo Vittorio Feltri definisce la conduttrice di “Otto e mezzo” con poche parole: «Capace di dirigere con grande abilità un programma brutto, un ring dove non vince il più forte bensì il più cafone». Lilli Gruber? Sa anche prodursi in «qualcosa di disgustoso e fuori dalle elementari regole del giornalismo», sentenzia il mitico direttore di “Libero”. Perché allora non chiedere che cambi mestiere, la navigatissima giornalista di origine altoatesina che esordì al Tg2 nell’era Craxi? Facile a dirsi, ma la Lilli nazionale «ottiene buoni ascolti», aggiunge Feltri: «E Cairo, il padrone de “La7”, gongola». Tra chi non rinuncia alla speranza di vedere la televisione italiana “bonificata” dall’invadente presenza della Gruber c’è Marco Moiso, pubblicitario londinese, vicepresidente del Movimento Roosevelt. «Lilli Gruber – scrive, nel testo di una petizione su “Change.org” – non sembra essere in grado di fare il mestiere della giornalista in maniera obiettiva ed equanime». L’accusa: «Il suo stile di giornalismo, giudicato fazioso (e strumentale all’agenda politico-finanziaria neoliberista), offende troppe persone per poter continuare ad avere uno spazio importante come quello di “Otto e Mezzo”».
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Foa in Rai: che succede quando un eretico sale al potere?
Che succede, quando il mondo si capovolge e un eretico sale al potere? In Italia, di solito, se un outsider assoluto conquista una poltrona significa che non è più un vero outsider, perché l’establishment se l’è già “comprato”: intende usarlo per drenare il dissenso, facendo sfogare in modo innocuo e illusorio il malcontento di cui era stato la voce. I posti di comando, in genere, sono pieni di ex rivoluzionari ben remunerati, arruolati per la peggiore delle missioni: rinnegare di fatto la propria storia, i propri ideali, e riallineare il pubblico alla “voce del padrone”, utilizzando il prestigio di quella che, un tempo, era stata una voce diversa, apprezzata proprio perché libera e indipendente, e quindi scomoda. Solo in casi rarissimi un vero eretico può raggiungere il ponte di comando rimanendo se stesso. Come accorgersene? Semplice: basta vedere che tipo di accoglienza gli viene riservata. Ed è il caso della nomina di Marcello Foa, nuovo presidente della Rai: i grandi media, in coro, lo accolgono nella migliore delle ipotesi con freddezza, come se si trattasse di un intruso molesto e sgradevole, un oscuro alieno anziché un illustre collega, mentre le macerie della vecchia politica – rottamata dagli italiani il 4 marzo 2018 – descrivono il neo-eletto come una specie di teppista, di impudente cialtrone. In questo, ricordano da vicino il sovrano disprezzo che i dittatori mostrano sempre per il loro popolo in rivolta, un minuto prima di essere defenestrati dalla storia.C’è qualcosa di meta-politico, di profondamente eversivo, nella sola idea di aver pensato a un cavaliere solitario e coltissimo come Foa, giornalista di razza e gentiluomo, per la presidenza della televisione di Stato, vera e propria fabbrica del consenso, per decenni affidata il più delle volte a mani servili e mediocri. È antropologicamente eversiva, la figura del liberale Foa al vertice della Rai: è il bambino che non può fare a meno di svelare l’imbarazzante nudità del sovrano, del monarca che si gloria nel celebrare una pace apparente, mentre intorno infuria la peggiore delle guerre. La guerriglia di oggi, nella quale Marcello Foa si trova coinvolto – dopo aver dato la sua avventurosa disponibilità a quell’ipotesi democratica chiamata “governo gialloverde” – non è un conflitto come quelli che l’hanno preceduto: è un sordido massacro quotidiano perpetrato ovunque, senza frontiere, senza più neppure le bandiere di un tempo. È una guerra orwelliana, affidata a mercenari. Navi corsare, che combattono (per lo più in incognito) per conto di padroni potentissimi, protetti dall’anonimato. Non c’è più neppure il triste onore della battaglia: si viene sopraffatti in modo subdolo, sistematicamente sommersi da menzogne spacciate per verità di fede, che il sistema mediatico non si cura più di verificare. Ed è proprio per questo che l’attuale sistema mediatico italiano detesta, e teme, Marcello Foa.Ascoltando solo e sempre un’unica campana, il sistema mainstream ci ha raccontato in questi anni che le poderose, ciclopiche Torri Gemelle di Manhattan sono crollate su se stesse, come se fossero state di cartone anziché di acciaio, solo perché colpite – con una manovra proibitiva persino per i migliori “top gun” – da normalissimi e leggerissimi jet di linea fatti di alluminio, dirottati da apprendisti piloti arabi, di cui tuttora non si sa nulla: non un’immagine, al fatale imbarco, di nessuno dei 19 presunti dirottatori (salvo poi rintracciare i loro passaporti, nientemeno, nell’inferno fumante di Ground Zero). Finge di credere sempre e soltanto alla versione ufficiale, il mainstream media, anche quando dimentica di ricordare che furono gli Usa a incoraggiare Saddam Hussein a invadere il Kuwait, dopo averlo spinto a combattere contro l’Iran. Dà retta unicamente al super-governo universale, il club dei telegiornali, anche quando assicura che Saddam disponeva di micidiali armi di distruzione di massa. E tace, invece, quando l’Onu dimostra che quelle armi erano pura fantasia, come i gas siriani di Assad, le fosse comuni di Gheddafi, le violenze della polizia di Yanukovich in Ucraina. E poi applaude a reti unificate, la consorteria mediatica, quando in Italia appaiono i cosiddetti salvatori della patria – i Monti, i Cottarelli – armati del bisturi che useranno per amputare carne viva, risparmi e pensioni, economia italiana di aziende e famiglie, oscurando il futuro dei giovani.All’epoca in cui Marcello Foa lavorava al “Giornale” di Indro Montanelli, il mondo probabilmente appariva infinitamente più semplice – più chiaro, più visibile nei suoi errori e orrori: la guerra fredda, il Medio Oriente e gli sconquassi africani della decolonizzazione, la strategia della tensione organizzata per gambizzare l’Italia e impedirle di prendere il volo come autonoma potenza euromediterranea fondata sulla forza formidabile dell’economia mista, pubblico-privata. In quella redazione milanese, dove Foa è cresciuto professionalmente, su una parete c’era appesa una carta geografica di Israele che indicava come capitale Gerusalemme, già allora, anziché Tel Aviv. Se Enrico Berlinguer impiegò anni per ammettere che si sentiva più al sicuro sotto l’ombrello della Nato piuttosto che tra i carri armati del Patto di Varsavia, Marcello Foa e il suo maestro Montanelli non avevano mai avuto dubbi sul fatto che niente di buono potesse venire, per l’Occidente, da un’oligarchia sedicente comunista che aveva soppresso sul nascere i primi vagiti democratici della Russia, cambiando semplicemente look all’antico dispotismo zarista. L’eroico sacrificio dell’Unione Sovietica, decisivo nell’abbattere il nazifascismo, non poteva cancellare né i Gulag di Stalin né l’esilio di Aleksandr Solženicyn. Era fatto di certezze, il mondo di Foa e Montanelli: la libertà (inclusa quella d’impresa) come fondamento irrinunciabile di qualsiasi comunità civile degna di chiamarsi democratica.Ed è questo che rende Foa insopportabile al potere economico di oggi, dove la libertà d’impresa cede il passo al dominio di immensi oligopoli finanziari globalizzati, privilegiati da legislazioni truccate come quelle dell’Unione Europea ordoliberista. È tanto più sgradevole e insidioso, Foa, perché non proviene – come invece molti anchorman televisivi – dalla contestazione giovanile del capitalismo: credeva, Foa, negli stessi valori professati dall’élite economica di un tempo, orientata pur sempre alla promozione della mobilità sociale, in sostanziale accordo con le forze sindacali dell’allora sinistra. Una dialettica anche aspra, ma vocata in ogni caso al miglioramento complessivo del sistema-paese. E mediata – sempre – dalla politica, letteralmente scomparsa dai radar italiani per 25 lunghissimi anni. Solo oggi, alla distanza, ci si mette le mani tra i capelli nel rivedere il film dell’euforia generale con la quale i cittadini avevano accolto il Trattato di Maastricht e, dieci anni dopo, l’ingresso nell’Eurozona disegnata dalle banche e governata dalla Bce con modalità feudali, imperiali, senza la supervisione di alcun controllo democratico. Succedeva negli anni cui, con la caduta del Muro di Berlino benedetta da Gorbaciov, l’umanità si era illusa che il fantasma della guerra sarebbe stato semplicemente cancellato dalla storia del pianeta.Magari fosse un comune complottista, Marcello Foa: sarebbe più comodo liquidarlo, come velleitario chiacchierone. Chi oggi gli promette guerra, invece, sa benissimo che l’ex caporedattore del “Giornale”, nonché docente universitario, nonché feroce critico del sub-giornalismo odierno, è un vero e proprio disertore. Non era un eretico: lo è diventato negli ultimi anni, disgustato dallo spettacolo al quale è stato costretto ad assistere. Per questo, al di là del reale potere che gli conferisce la carica di presidente Rai, Marcello Foa rappresenta un vero pericolo, per i malintenzionati che oggi gli danno del traditore. Nell’Italia corporativa delle caste, ha osato “sparare” contro la sua – quella dei giornalisti – definendoli “stregoni della notizia”, bugiardi e omertosi spacciatori di “fake news” di regime. E non c’è niente di peggio, per i servi, che l’ex schiavo che si libera delle catene: la sua rivolta personale, intellettuale, suona umiliante per chi si ostina a raccontare che la Terra è piatta, e che è il Sole a orbitarle attorno.Chi l’avrebbe detto? Oggi l’Italia riesce incredibilmente a piazzare una persona autorevole, onesta e competente, alla guida della televisione pubblica. Marcello Foa non è infallibile: ma quando ha sbagliato – anche di recente, prendendo per buona la notizia di presunte istruzioni che il governo tedesco avrebbe impartito alla polizia, per enfatizzare il terrorismo “casereccio” targato Isis – non ha esitato ad ammetterlo, tempestivamente. Quanti, al suo posto, avrebbero avuto lo stesso coraggio? E ora, questo volto pulito del nostro giornalismo è alle prese con una sfida estremamente impegnativa. È davvero impossibile fare molta strada, in politica, se non si è almeno in parte ricattabili, e quindi controllabili, in quanto complici dell’apparato da cui si è stati promossi? Così almeno ebbe a dire un protagonista della vita pubblica italiana come Giuliano Ferrara. Qualcuno – sincero o meno – obietterà che questa regola non vale necessariamente per tutti. Ma è sicuro che, una volta entrati in cabina di regia, le proprie virtù possono trasformarsi in problemi: in un ambiente non esattamente cristallino, le qualità naturali dell’eretico diventano un’enorme seccatura, se non un ostacolo da rimuovere prima che possa mettere in pericolo la sopravvivenza del sistema stesso.Questa è la sfida di Marcello Foa, nella quale è in gioco l’Italia intera: restare fedeli alla propria coscienza significa contribuire a riaccendere la luce sulle notizie. Senza un’informazione trasparente, lo sappiamo, non c’è neppure vera democrazia. Lo sostiene con vigore, Marcello Foa, che resta innanzitutto un uomo leale e garbato – anche quando si permette di dissentire in modo netto sull’operato del presidente della Repubblica: chi oggi lo accusa di aver addirittura insolentito Sergio Mattarella, dopo la bocciatura di Paolo Savona al ministero dell’economia, più che il prestigio del capo dello Stato sembra aver a cuore la disciplina sociale dell’ossequio, da imporre al popolo nei confronti di chiunque rivesta funzioni di potere. Non è questa la democrazia per la quale il giovane liberale Foa tifava, quando polemizzava con quel comunismo da cui provengono moltissimi dei suoi attuali, smemorati detrattori. Non sappiamo come si svilupperà, la sua avventura negli uffici della Rai. Ma sappiamo che – contro ogni previsione – è tornata sotto i riflettori, in Italia, un’antropologia che si credeva estinta. Quella delle persone per bene, a cui il governo in carica affida addirittura la guida della televisione.(Giorgio Cattaneo, “Marcello Foa alla guida della Rai: che succede quando un eretico sale al potere?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 27 settembre 201).Che succede, quando il mondo si capovolge e un eretico sale al potere? In Italia, di solito, se un outsider assoluto conquista una poltrona significa che non è più un vero outsider, perché l’establishment se l’è già “comprato”: intende usarlo per drenare il dissenso, facendo sfogare in modo innocuo e illusorio il malcontento di cui era stato la voce. I posti di comando, in genere, sono pieni di ex rivoluzionari ben remunerati, arruolati per la peggiore delle missioni: rinnegare di fatto la propria storia, i propri ideali, e riallineare il pubblico alla “voce del padrone”, utilizzando il prestigio di quella che, un tempo, era stata una voce diversa, apprezzata proprio perché libera e indipendente, e quindi scomoda. Solo in casi rarissimi un vero eretico può raggiungere il ponte di comando rimanendo se stesso. Come accorgersene? Semplice: basta vedere che tipo di accoglienza gli viene riservata. Ed è il caso della nomina di Marcello Foa, nuovo presidente della Rai: i grandi media, in coro, lo accolgono nella migliore delle ipotesi con freddezza, come se si trattasse di un intruso molesto e sgradevole, un oscuro alieno anziché un illustre collega, mentre le macerie della vecchia politica – rottamata dagli italiani il 4 marzo 2018 – descrivono il neo-eletto come una specie di teppista, di impudente cialtrone. In questo, ricordano da vicino il sovrano disprezzo che i dittatori mostrano sempre per il loro popolo in rivolta, un minuto prima di essere defenestrati dalla storia.
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L’Occidente teme l’Iran sovrano: non riesce a sottometterlo
L’incontro tra Macron e Trump alla Casa Bianca – al quale seguirà quello con la cancelliera Merkel – ci ha consegnato più interrogativi che punti fermi sull’accordo nucleare con l’Iran del 2015. Trump non ha chiarito se il 12 maggio si ritirerà dall’intesa. Ma abbiamo una certezza: nelle guerre mediorientali l’Iran rimane il vero bersaglio degli Usa e dei suo alleati regionali, Israele e Arabia Saudita. «Fermare l’espansione di Teheran e della Mezzaluna sciita sulle coste del Mediterraneo siriano, in Libano e in Yemen», questo è il mantra che hanno ripetuto il presidente francese e quello americano che è esattamente quello che chiedono lo Stato ebraico e la monarchia wahabita. Ma l’Iran è davvero un nostro nemico? Si direbbe che siamo più noi occidentali e gli arabi il vero pericolo per la stabilità della regione. Il 22 settembre 1980 l’Iraq di Saddam Hussein attaccò l’Iran dell’Imam Khomeini, un anno dopo che lo Shah Reza Pahlevi era stato abbattuto dalla rivoluzione. Tutti pensavano che l’Iran, indebolito e senza “ombrello” americano, sarebbe crollato facilmente. Saddam Hussein venne appoggiato dalle monarchie del Golfo, che in otto anni di guerra versarono a Baghdad dai 50 ai 60 miliardi di dollari per vincere un conflitto che non cambiò di un millimetro la frontiera sullo Shatt el Arab.Baghdad era sostenuta anche dalla Russia, e le potenze occidentali, dalla Francia alla Gran Bretagna all’Italia, vendevano armi a tutto spiano agli iracheni. La guerra finì con Saddam Hussein indebitato fino al collo con gli sceicchi del Golfo e le banche occidentali, al punto che pur di far bottino nell’agosto del 1990 invase il Kuwait. L’Iran è stato accusato di essere uno stato sponsor del terrorismo: non c’è dubbio che in Libano negli anni Ottanta gli Hezbollah abbiano usato metodi di questo genere, ma sono anche un partito che siede in Parlamento e, al confronto, gli attentati provenienti dal mondo sunnita sono infinitamente di più di quelli di marca sciita. Anzi, sono stati proprio gli occidentali e i loro alleati arabi a incoraggiare il terrorismo facendo credere ai jihadisti che sarebbero intervenuti per eliminare Assad. La realtà è che Israele, gli Usa, i sauditi, non sono disposti ad accettare l’Iran come paese indipendente e sovrano che ha una grande influenza regionale regalata proprio dalle mosse dissennate dell’Occidente.Nel 2001, dopo l’11 Settembre e gli attentati di Al Qaeda (compiuti da terroristi sunniti e in gran parte sauditi), con la guerra in Afghanistan gli Usa e i loro alleati colpirono ai confini dell’Iran il regime dei talebani, da sempre ostile a Teheran. Nel 2003, facendo fuori Saddam, sono stati gli Usa a regalare l’Iraq all’influenza iraniana, come era del resto largamente prevedibile anche prima del conflitto. In Siria la guerra per procura contro Assad è stata diretta contro l’espansione iraniana pensando di disgregare il regime di Damasco in pochi mesi: un calcolo sbagliato che con l’intervento della Russia ha aperto una voragine nel cuore del Medio Oriente. E l’Isis? Gli Stati Uniti, dopo avere occupato l’Iraq per un decennio ed essersi poi ritirati, non hanno mosso un dito per fermare nel 2014 il Califfato che occupava Mosul, la seconda città del paese: sono stati i pasdaran iraniani guidati da Qassem Soleimani a riorganizzare per primi l’esercito di Baghdad allo sbando. In Yemen i sauditi bombardano da tre anni la popolazione civile e non sono riusciti a venire a capo della resistenza degli Houthi sciiti sostenuti da Teheran, ma che per anni hanno combattuto praticamente da soli quando qui tutti ignoravano un conflitto già cominciato a fine degli anni Duemila.L’Iran non fa paura soltanto per le sue armi o il suo arsenale nucleare. Israele ha duecento testate con navi e sottomarini che possono lanciare ordigni atomici, ha un superiorità bellica ben maggiore rispetto a quella degli iraniani. La stessa Arabia Saudita, il più importante acquirente di armi americane e francesi, ha un Pil che è il doppio di quello iraniano pur avendo meno di un terzo della popolazione: dovrebbe essere un paese temibile ed è invece incapace di vincere una guerra nel cortile di casa, neppure sotto la direzione degli americani. L’Iran fa paura perché è un paese indipendente, che non si è mai piegato alle direttive occidentali, con un regime assai discutibile ma in grado di preservare l’autonomia di uno Stato che ha comunque 2500 anni di storia. Non solo. La sua influenza linguistica e storica è molto ampia e dal cuore del Medio Oriente arriva fino all’Asia centrale: gli iraniani sono una cultura, non solo un regime.E’ questo che temono l’Occidente e i suoi alleati che vorrebbero sottometterlo. Siamo molto più tolleranti con i sauditi che nell’anno in cui hanno riaperto i cinema hanno eseguito una cinquantina di condanne a morte per le quali nessuno protesta. Per non parlare di Israele che vìola da decenni tutte le risoluzioni Onu, per altro adesso incoraggiato proprio da Trump: si è mai vista una volta che gli Usa non mettessero il veto al Consiglio di Sicurezza? C’è un doppio standard che avvelena da mezzo secolo la politica mediorientale. Ecco perché con l’Iran non si possono neppure fare affari: il paese dal 1979, anno della presa degli ostaggi nell’ambasciata Usa, è sottoposto a sanzioni e restrizioni. E anche oggi l’accordo sul nucleare non è stato rispettato: gli Usa continuano a tenere nel mirino del Tesoro le banche occidentali che concedono crediti a Teheran. In poche parole i primi a non rispettare gli accordi sono proprio gli americani. Ma non è certo una novità.(Alberto Negri, “Vi spiego perché l’America e tutto l’Occidente hanno tanta paura dell’Iran”, da “Tiscali Notizie” del 25 aprile 2018).L’incontro tra Macron e Trump alla Casa Bianca – al quale seguirà quello con la cancelliera Merkel – ci ha consegnato più interrogativi che punti fermi sull’accordo nucleare con l’Iran del 2015. Trump non ha chiarito se il 12 maggio si ritirerà dall’intesa. Ma abbiamo una certezza: nelle guerre mediorientali l’Iran rimane il vero bersaglio degli Usa e dei suo alleati regionali, Israele e Arabia Saudita. «Fermare l’espansione di Teheran e della Mezzaluna sciita sulle coste del Mediterraneo siriano, in Libano e in Yemen», questo è il mantra che hanno ripetuto il presidente francese e quello americano che è esattamente quello che chiedono lo Stato ebraico e la monarchia wahabita. Ma l’Iran è davvero un nostro nemico? Si direbbe che siamo più noi occidentali e gli arabi il vero pericolo per la stabilità della regione. Il 22 settembre 1980 l’Iraq di Saddam Hussein attaccò l’Iran dell’Imam Khomeini, un anno dopo che lo Shah Reza Pahlevi era stato abbattuto dalla rivoluzione. Tutti pensavano che l’Iran, indebolito e senza “ombrello” americano, sarebbe crollato facilmente. Saddam Hussein venne appoggiato dalle monarchie del Golfo, che in otto anni di guerra versarono a Baghdad dai 50 ai 60 miliardi di dollari per vincere un conflitto che non cambiò di un millimetro la frontiera sullo Shatt el Arab.
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Sul web la censura Ue: ma oscurare la verità non è reato?
Solo in Italia ci sono 10 milioni di account Internet che corrispondono a persone ormai abituate a informarsi sul web, per avere lumi sui retroscena che i media mainstream non svelano. Basta questo, secondo Glauco Benigni (presidente di Wac, Web Activists Community) a spiegare la crescente voglia di bavaglio che pervade palazzi, ministeri e alte cariche pubbliche. Per mascherarla, l’establishment ricorre all’ennesimo inglesismo abusivo e infestante, “fake news”. Una propaganda martellante fatta di minacce, dietro al pretesto incarnato da un altro neologismo, quello che trasforma in “hater” (odiatore) anche chi esprime indignazione verso l’abuso politico di potere. Ora siamo alla vigilia di una censura grottesca e sistemica, presentata come definitiva dal Ministero della Verità di un’istituzione tra le meno democratiche al mondo, la Commissione Europea. L’inglese Julian King, commissario alla sicurezza, avverte: saremo inondati di “fact-checkers”, almeno ventimila, incaricati di organizzare una sorta di delazione di massa per criminalizzare qualsiasi fonte difforme da quelle istituzionali. Attenzione, però: l’oscuramento della libertà d’opinione non è solo un atto odioso e antidemocratico. Non è solo pericoloso per tutti, come la storia insegna. La lesione di un diritto fondamentale non è anche un reato?Fino a quando potranno restare impuniti, i presunti “ladri di verità” che impediscono all’opinione pubblica di acquisire dati su quanto avviene ogni giorno nel mondo? E’ annosa la polemica sulla disinformazione che finisce per coprire crimini gravissimi, inclusi quelli che l’Onu definisce “contro l’umanità”. In occasione del recente bombardamento dimostrativo sulla Siria, motivato dal presunto impiego di armi chimiche da parte del governo di Damasco, Marcello Foa – in tarda serata, su RaiTre – ha accusato i colleghi di aver dato per scontata la versione ufficiale degli Usa, rifiutando di constatare l’assenza di prove: non risulta infatti che Assad abbia colpito civili con i gas (né è dimostrato che altri abbiano impiegato agenti chimici a Douma: non ci sono prove che la popolazione siriana sia stata effettivamente colpita, quel giorno). In collegamento da Washington, la corrispondente Giovanna Botteri si è difesa in modo singolare, affermando che è inevitabile il rischio di essere imprecisi nelle cronache sulla Siria, dal momento che ai reporter è vietato l’accesso al teatro bellico – diversamente da quanto accaduto, ad esempio, in Iraq. Peccato che, proprio in occasione della Guerra del Golfo, fece la sua comparsa il primo degli inglesismi poi tristemente noti, “embedded”: in Iraq, i giornalisti “impacchettati” furono costretti a vedere solo quanto stabilito dal comando del generale Norman Schwarzkopf.Fu la prima volta, nella storia del giornalismo bellico. Se ne lamentarono, i veterani premiati dal Pulitzer: la prima vittima della guerra è sempre la verità, dissero, ma in Iraq si passò il limite, giungendo alla censura preventiva apertamente dichiarata. Assistemmo così al festival delle fake news governative: dal set hollywoodiano con i poveri cormorani intrappolati nel petrolio fino alla (mai avvenuta) strage degli innocenti, la bufala dei neonati “massacrati nelle incubatrici dai soldati di Saddam” a Kuwait City. Notizie false, regolarmente “bevute” da centinaia di reporter e offerte, come amaro aperitivo, a milioni di lettori e telespettatori, mentre i missili “intelligenti” grandinavano sulla testa delle famiglie di Baghdad. E ora che il bavaglio di massa torna prepotentemente di moda, quale guerra preoccupa i censori dell’Unione Europea? Quella contro la possibile verità su un’istituzione che si professa europeista e invece lavora intensamente contro l’Europa unita, contro la concordia e la prosperità dei popoli europei? Temono le elezioni del 2019, i lobbisti privatizzatori di Bruxelles: a loro, il celebre paladino della trasparenza universale Mark Zuckerberg ha appena promesso la massima vigilanza, sulle pagine del maggior social network del mondo. Il Grande Fratello non permetterà che siano veicolate verità sgradite: saranno “bannate”, dai possessori dell’infrastruttura informatica.Il web, beninteso, non è la palestra assoluta della libertà: immenso motore economico, è strettamente controllato dai suoi dominus, dagli algoritmi di Google, da fantasiosi tecno-stregoni come quelli di Cambridge Analytica. Il web è anche una pattumiera di malcostume e violenza verbale: si è lasciato credere che chiunque, protetto dall’anonimato di un nickname, potesse arbitrariamente distribuire insolenze, insulti e minacce. Forse però varrebbe la pena di ricordare ai legislatori che non siamo nel far west: esistono leggi a tutela dei cittadini, che sanzionano reati come la diffamazione. Di colpo non bastano più? Servono normative speciali, d’emergenza? E soprattutto: sono legali, le disposizioni speciali? Così come è un reato la calunnia, perché mai non dovrebbe essere perseguita per legge anche la distorsione della verità, che rende cieco il pubblico di fronte agli eventi? Ancora più grave è il proposito di “spegnere” programmaticamente le voci libere del web, magari segnalate dagli invisibili censori (penalmente irresponsabili) dell’impunita Unione Europea. Non è reato, occultare la verità? Non sarebbe materia, questa, su cui consultare innanzitutto i più autorevoli giuristi? Come in ogni questione controversa, l’ultima parola non potrebbe spettare a un tribunale? La parte civile, in questo caso, rappresenterebbe mezzo miliardo di persone: i cittadini dell’Unione Europea.(Giorgio Cattaneo, “Sul web la censura Ue, ma oscurare la verità non è reato?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 30 aprile 2018).Solo in Italia ci sono 10 milioni di account Internet che corrispondono a persone ormai abituate a informarsi sul web, per avere lumi sui retroscena che i media mainstream non svelano. Basta questo, secondo Glauco Benigni (presidente di Wac, Web Activists Community) a spiegare la crescente voglia di bavaglio che pervade palazzi, ministeri e alte cariche pubbliche. Per mascherarla, l’establishment ricorre all’ennesimo inglesismo abusivo e infestante, “fake news”. Una propaganda martellante fatta di minacce, dietro al pretesto incarnato da un altro neologismo, quello che trasforma in “hater” (odiatore) anche chi esprime indignazione verso l’abuso politico di potere. Ora siamo alla vigilia di una censura grottesca e sistemica, presentata come definitiva dal Ministero della Verità di un’istituzione tra le meno democratiche al mondo, la Commissione Europea. L’inglese Julian King, commissario alla sicurezza, avverte: saremo inondati di “fact-checkers”, almeno ventimila, incaricati di organizzare una sorta di delazione di massa per criminalizzare qualsiasi fonte difforme da quelle istituzionali. Attenzione, però: l’oscuramento della libertà d’opinione non è solo un atto odioso e antidemocratico. Non è solo pericoloso per tutti, come la storia insegna. La lesione di un diritto fondamentale non è anche un reato?
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Siria, la Nato usa i terroristi: rubare all’Iran il gas del Golfo
Sveliamo la verità sulla guerra in Siria per amore di chiarezza, perché la gente è confusa. I media presentano la situazione in maniera distorta, facendo apparire tutto il contesto come un grande caos (contro l’Isis combatterebbero gli Usa e i curdi, più i “ribelli” siriani, la Turchia e alcuni paesi arabi del Golfo, mentre Assad e Putin sarebbero in secondo piano, insieme all’Iran e ai libanesi di Hezbollah). Ma il problema è semplice: è solo questione di petrolio e di gas. Nel Golfo Persico c’è il North Gas Field: è il giacimento di gas più grande al mondo. Oggi il Qatar ne possiede una parte. Ne parlò con la Turchia nel 2009, due anni prima che cominciasse la guerra in Siria. Il Qatar avrebbe voluto vendere quel gas attraverso un condotto, attraversando Arabia Saudita, Siria e Turchia, fino a raggiungere il mercato europeo. Il problema è che, per far passare il gasdotto attraverso la Siria, avrebbero dovuto chiedere l’autorizzazione ad Assad, che disse di no. Ovviamente il Qatar non ha gradito la risposta, anche perché la proprietà dell’altra metà del giacimento è rivendicata dall’Iran. Si tratta di un giacimento molto speciale: date le sue dimensioni, può avere accesso sia dal Qatar che dall’Iran. Chi riuscirà a pompare il gas più velocemente avrà un vantaggio concorrenziale.Anche l’Iran, chiaramente, avrebbe intenzione di vendere quel gas all’Europa, attraverso un proprio condotto. Ha chiesto a sua volta il permesso ad Assad, e questa volta il presidente siriano ha detto sì. Quindi le cose sono più chiare, adesso: Arabia Saudita, Qatar, Kuwait e gli altri paesi arabi sunniti – insieme a Stati Uniti, Francia, Inghilterra e Turchia (almeno fin quando Ankara ha collaborato con la Nato, dato che adesso la Turchia si è rappacificata con la Russia) – non vogliono che Assad resti suo posto. Viceversa, gli sciiti (l’Iran, Hezbollah) sono alleati con la Russia per mantenere Assad al potere. La Russia ha due basi militari, in Siria, e possiede Gazprom, che già da molti anni vende gas all’Europa, e a cui certo vorrebbe continuare a venderne. Alcune cose sembrano complicate, ma solo perché i media ci inducono in errore. E’ solo geopolitica: da una parte c’è una coalizione che vuole cambiare i vertici in Siria, e dall’altra c’è una coalizione che non lo vuole. Questa guerra sta durando ormai da quattro anni e mezzo, con più di 500.000 morti tra civili, donne e bambini.I media ci dicono che Assad è il cattivo, il boia di Damasco. Nessuno ci dice niente, a proposito del petrolio e del gas. I media ci dicono che Usa e Nato non sono intervenuti per molto tempo, ci raccontano che sono entrati in azione solo quando Assad avrebbe iniziato a massacrare il suo popolo. Sotto l’egida della Nato, Arabia Saudita e Turchia hanno deliberamente inviato jihadisti radicali in Siria. Il loro fine era quello di destabilizzare il tessuto sociale siriano, e ci sono riusciti. Fornendo armi letali a jihadisti radicali, è possibile destabilizzare qualsiasi paese – come l’Iraq di Saddam e la Libia di Gheddafi. I paesi Nato come Usa, Gran Bretagna e Francia appoggiano i ribelli, i jihadisti. E quando la gente capirà cosa sta succedendo davvero, da quelle parti, ci sarà un putiferio. I media ci dicono che la Nato combatte il terrorismo, ma alla fine questa storia si è rivelata solo un mucchio di bugie. Il meccanismo si ripete. Ricordate Colin Powell che mostra platealmente una fialetta e dice che Saddam ha le armi chimiche? Oggi tutti sappiamo che non era vero niente, ma loro continuano a “venderci” la stessa roba, guidandoci verso la disinformazione attraverso i mass media.(“La verità dietro alla guerra in Siria: perché America, Inghilterra, Israele e Francia mentono per fare la guerra alla Siria”, sintesi del “profetico” video di “Sustainable Media” prodotto il 14 ottobre 2016 e diffuso anche su Facebook).Sveliamo la verità sulla guerra in Siria per amore di chiarezza, perché la gente è confusa. I media presentano la situazione in maniera distorta, facendo apparire tutto il contesto come un grande caos (contro l’Isis combatterebbero gli Usa e i curdi, più i “ribelli” siriani, la Turchia e alcuni paesi arabi del Golfo, mentre Assad e Putin sarebbero in secondo piano, insieme all’Iran e ai libanesi di Hezbollah). Ma il problema è semplice: è solo questione di petrolio e di gas. Nel Golfo Persico c’è il North Gas Field: è il giacimento di gas più grande al mondo. Oggi il Qatar ne possiede una parte. Ne parlò con la Turchia nel 2009, due anni prima che cominciasse la guerra in Siria. Il Qatar avrebbe voluto vendere quel gas attraverso un condotto, attraversando Arabia Saudita, Siria e Turchia, fino a raggiungere il mercato europeo. Il problema è che, per far passare il gasdotto attraverso la Siria, avrebbero dovuto chiedere l’autorizzazione ad Assad, che disse di no. Ovviamente il Qatar non ha gradito la risposta, anche perché la proprietà dell’altra metà del giacimento è rivendicata dall’Iran. Si tratta di un giacimento molto speciale: date le sue dimensioni, può avere accesso sia dal Qatar che dall’Iran. Chi riuscirà a pompare il gas più velocemente avrà un vantaggio concorrenziale.
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Bugie su Mosca da un’Europa in pezzi. L’Italia? Obbedisce
Putin lapidato a reti unificate (ma senza prove) per l’attentato all’ex spia Sergeij Skripal, mentre a Julian Assange, fondatore di WikiLeaks, viene isolato nell’ambasciata ecuadoregna di Londra, senza più connessione Internet. E’ in atto un’evidente offensiva, estremamente opaca e interamente basata su pretesti inconsistenti contro Mosca. Obiettivo: tentare di ricompattare una Nato che perde i pezzi, con Theresa May in grave difficoltà dopo la Brexit e un’Europa dove gli Usa faticano a farsi ascoltare da paesi come la Germania e la Turchia. Sul “Giornale”, Marcello Foa sgombra il campo da possibili equivoci: «Che interesse aveva il presidente russo a tentare di eliminare un’ex spia, peraltro fuori dai giochi, ricorrendo al più spettacolare dei tentativi di omicidio, l’unico che – dopo la vicenda del polonio – tutto il mondo avrebbe attribuito al Cremlino? Ne converrete: non ha senso». Sul piano diplomatico sarebbe stato un suicidio, «perché avrebbe offerto all’Occidente lo spunto per un’ulteriore campagna antirussa, che infatti si è puntualmente verificata», fino all’ultimo atto – l’espulsione coordinata dei diplomatici – a cui «l’Italia dell’uscente Gentiloni si è accodata benchè avrebbe potuto (e proceduralmente dovuto) astenersi». E tutti sanno che Putin, sempre così accorto, «non è leader da commettere questi errori».Quanto alle dichiarazioni del governo britannico, la stessa May continua a dire che «è altamente probabile» che l’attentato sia stato sponsorizzato dal Cremlino. «Altamente probabile non significa sicuro, perché per esserne certi bisognerebbe provare l’origine del gas, cosa che è impossibile in tempi brevi», aggiunge Foa. E nel comunicato congiunto diffuso da Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania si ribadisce che si tratta di «agente nervino di tipo militare sviluppato dalla Russia», che farebbe parte di un gruppo di gas noto come Novichok concepito dai sovietici negli anni Settanta. Ma “sviluppato” non significa prodotto in Russia: «Se non è stato usato questo verbo – o un sinonimo, come “fabbricato” – significa che gli stessi esperti britannici non hanno prove concrete a sostegno della tesi della responsabilità russa», che pertanto «andrebbe considerata come un’ipotesi investigativa, non come un verdetto». La stampa dovrebbe mostrare maggior cautela, specie dopo le maggiori “fake news” che ha propagato, dalle inesistenti “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein fino alle prove “incontrovertibili” (ma altrettanto inesistenti) della responsabilità di Assad nella strage coi gas nel 2013 (armi chimiche in realtà usate dai “ribelli” siriani per provocare un intervento della Nato).Come risalire addirittura a Putin nel giro di poche ore, soprattutto conoscendo l’efficienza dell’ex Kgb? Molto eloquente, sottolinea Ivan Giovi sul blog di Aldo Giannuli, la volontà di non mostrare la provetta che dimostrarebbe la produzione russa del gas nervino utilizzato contro Skripal, nonostante Boris Johson si sia scagliato contro il Cremlino, non a caso alla vigilia delle elezioni russe. Marcello Foa insiste: siamo regolarmente sommersi da “fake news” veicolate non dal web, ma dai grandi media. Penultimo esempio: sempre in Siria, nel 2107, Amnesty International e il Dipartimento di Stato denunciarono l’esistenza di un “formo crematorio” in cui venivano “bruciati i ribelli”, «rivelazione che indignò giustamente il mondo ma che venne smentita dopo un paio di settimane dallo stesso governo americano». Avverte Foa: «Quando il rumore mediatico è assordante, univoco, esasperato, le possibilità sono due: le prove sono incontrovertibili (ad esempio l’invasione irachena del Kuwait) o non lo sono ma chi accusa ha interesse a sfruttarle politicamente, il che può avvenire solo se le fonti supreme – ovvero i governi – affermano la stessa cosa e con toni talmente urlati e assoluti da inibire qualunque riflessione critica, pena il rischio di esporsi all’accusa di essere “amici del dittatore Putin”».Le istantanee adesioni europee alla condanna unilaterale inglese contro la Russia, scrive Giovi, fanno pensare a un tentativo di compattamento dei ranghi della Nato, «che sembra ormai tutto tranne che un’alleanza». Ovvero: più che un alleato, la Turchia «ormai sembra sempre più una spina nel fianco di Europa e Usa», mentre la Germania «ha intrapreso una guerra commerciale con gli Stati Uniti trascinando con sé tutta Europa». Dal canto loro, gli Usa «si lamentano in continuazione con gli Stati europei perché non contribuiscono abbastanza alla difesa comune». Tendenza in corso: ricompattare i ranghi della Nato ingigantendo il reale potere dei russi e «trovando pretesti assurdi per incolparli di qualsivoglia evento accaduto nel mondo occidentale (leggasi hacker russi che interferiscono con elezioni di mezzo mondo)». Senza peraltro riuscire nello scopo, «perché l’influenza russa negli ultimi anni si è estesa sempre di più, basti pensare alla Turchia che ha palesemente cambiato sponda o alla in Siria dove il vincitore a breve sarà nettamente Vladimir Putin». In questo quadro, Maurizio Blondet inserisce anche il giro di vite contro l’uomo che per primo ha smontato la propaganda militare Usa, mettendo in piazza i crimini commessi in Iraq: Julian Assange. L’averlo isolato – senza più Internet – per ragioni diplomatiche (buon vicinato con gli inglesi) rappresenta «una stretta imposta dal governo britannico nell’ambito dell’offensiva europea e americana contro tutte le voci libere».Per Blondet, si tratta di «un atto di barbarie identico (e connesso) alle espulsioni dei diplomatici russi sotto accuse spudoratamente false: una vera congiura della dittatura totalitaria occidentale in corso di consolidamento, una volontà di precipitare il conflitto con la Russia». Lo stesso Blondet ricorda che la Commissione Europea ha appena presentato un “Piano d’azione sulla Mobilità Militare” che obbligherà tutti i paesi membri a lasciare libero il passo agli eserciti Nato sul proprio territorio. Come sottolinea Thierry Meyssan, non si parla solo di eserciti europei: nella Nato, oltre agli Usa, c’è la Turchia. Per Blondet, questa misura «è l’identificazione finale della “Unione Europea” con l’Alleanza Atlantica, l’inglobamento dell’organizzazione essenzialmente economica nella lega militare oggi in postura offensiva». A 25 Stati membri viene ordinato di fornire carte delle loro vie di comunicazione (ferrovie, porti, aeroporti) nonché di precisare i lavori necessari per rendere praticabili ponti e le loro gallerie per i mezzi cingolati. «Dovranno anche cancellare le leggi e i regolamenti in vigore che vietano – o regolamentano – il trasporto di armamenti e materiali bellici sul loro territorio: è una Schengen per la guerra».Trionfante, Federica Mogherini – ancora lei, benché il governo che l’ha piazzata a Bruxelles non esista più – accoglie il progetto con entusiasmo: «Facilitando la mobilità militare nella Ue, siamo più efficaci nel prevenire crisi, più efficienti nel dispiegare le nostre missioni e più rapidi nel reagire quando sorgono delle sfide». “Prevenire crisi”, secondo Blondet, va inteso nei due sensi: «Secondo documenti interni all’Alleanza, la mobilità militare non serve solo per far correre le forze alle frontiere contro la Russia; servirà anche in caso di sollevazione popolare all’interno di uno degli Stati membri». Noi italiani non potevamo fare altrimenti che espellere diplomatici russi, pur con il già defunto governo Gentiloni? Non è vero, sottolinea Blondet: sono sono tutti così servili. Austria, Grecia e Portogallo si sono rifiutati di accodarsi a Londra, Parigi, Berlino e Roma. L’ha fatto anche la Repubblica Ceca: «Voglio vedere le prove», ha avvertito il presidente ceco Milos Zeman, rifiutando di compiere azioni ostili contro Mosca. Una dignità politica inesistente in Italia, la cui nave della Saipem per trivellazioni marittime è stata allontanata dalle acque di Cipro (sotto minaccia della flotta turca) senza che fiatasse il governo di Roma, in cui soccorso non è intervenuto nessuno – né l’Ue, né la Nato, cioè le potenze che dall’Italia poi ottengono obbedienza immediata se si tratta di colpire Mosca.E vogliamo parlare del “partner” Germania? «Mentre noi applichiamo le sanzioni alla Russia – aggiunge Blondet – Berlino ha appena firmato e confermato il North-Stream 2, il gasdotto baltico con la Russia, a dispetto delle proteste di Polonia, paesi baltici e Usa. Con quale motivazione? Che il gasdotto è una realizzazione “economica”, non politica». Dalla “guerra” con la Russia, invece, l’Italia ha riportato enormi danni. Secondo dati ufficiali Eurostat, fino a inizio 2017 il trend delle esportazioni italiane nella Federazione Russa era in crescita, con 10,8 miliardi di euro. Le importazioni, invece, ammontano a circa 20 miliardi di euro, principalmente nel settore degli idrocarburi e delle materie prime. Oltre 400 sono le imprese italiane che operano in Russia e circa 70 gli stabilimenti produttivi realizzati nella Federazione (tra questi le installazioni Eni, Indesit, Marcegaglia, più le filiali Intesa SanPaolo e Unicredit). «E’ chiaro che il vero nostro partner è la Russia», non certo i nostri “alleati” euro-atlantici. E se il Pd è rimasto sempre allineato ai diktat “imperiali”, solo Salvini ha eccepito sull’ultima offensiva antirussa. Di Maio? «Sulla questione degli espulsi russi ha taciuto: zitto zitto, per non dispiacere all’ambasciatore Usa e ai padroni del vapore in generale». In sostanza: neppure la nuova politica emersa il 4 marzo protegge l’Italia dalle “pazzie” geopolitiche in corso, riesplose subito dopo l’annuncio di Putin: grazie a nuovissimi missili nucleari iper-sonici “imparabili”, la Russia è al riparo da attacchi atomici. Putin chiede pace? L’Occidente risponde con una guerra di menzogne.Putin lapidato a reti unificate (ma senza prove) per l’attentato all’ex spia Sergeij Skripal, mentre Julian Assange, fondatore di WikiLeaks, viene isolato nell’ambasciata ecuadoregna di Londra, senza più connessione Internet. E’ in atto un’evidente offensiva, estremamente opaca e interamente basata su pretesti inconsistenti, contro Mosca. Obiettivo: tentare di ricompattare una Nato che perde i pezzi, con Theresa May in grave difficoltà dopo la Brexit e un’Europa dove gli Usa faticano a farsi ascoltare da paesi come la Germania e la Turchia. Sul “Giornale”, Marcello Foa sgombra il campo da possibili equivoci: «Che interesse aveva il presidente russo a tentare di eliminare un’ex spia, peraltro fuori dai giochi, ricorrendo al più spettacolare dei tentativi di omicidio, l’unico che – dopo la vicenda del polonio – tutto il mondo avrebbe attribuito al Cremlino? Ne converrete: non ha senso». Sul piano diplomatico sarebbe stato un suicidio, «perché avrebbe offerto all’Occidente lo spunto per un’ulteriore campagna antirussa, che infatti si è puntualmente verificata», fino all’ultimo atto – l’espulsione coordinata dei diplomatici – a cui «l’Italia dell’uscente Gentiloni si è accodata benchè avrebbe potuto (e proceduralmente dovuto) astenersi». E tutti sanno che Putin, sempre così accorto, «non è leader da commettere questi errori».
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Zurigo vara il reddito sociale universale: 2.200 euro a tutti
Si chiama “reddito di base incondizionato”, ha qualche affinità con il reddito di cittadinanza che piace al Movimento 5 Stelle ed è stato adottato, a titolo sperimentale, dal Consiglio Comunale di Zurigo. Grazie alla mobilitazione della sinistra, gli abitanti della principale città elvetica potranno disporre di una sorta di “salario di Stato garantito” di 2.500 franchi mensili, ovvero di poco meno di 2.200 euro. Stiamo parlando, secondo i canoni svizzeri, dell’equivalente della soglia di povertà. Come prevedeva l’analogo testo di legge, sottoposto a referendum e bocciato lo scorso anno a livello svizzero, il “reddito di base incondizionato” dovrebbe toccare ogni singolo cittadino. Con la differenza che, mentre per gli adulti sarà di 2.500 franchi, per i minori dovrebbe essere di 625, più o meno 550 euro. In realtà, scrive Franco Zantonelli su “Repubblica”, sia il suo finanziamento che i tempi e modi d’applicazione non sono ancora chiari, visto che al legislativo di Zurigo la proposta è passata con soli due voti di scarto. L’esecutivo ha, in effetti, due anni di tempo per stabilire come metterla in pratica. «Ci muoviamo con i piedi di piombo», ha non a caso dichiarato alla tv pubblica il consigliere comunale socialista Urs Helfenstein.«Il progetto che avevamo proposto a livello nazionale – spiega a “Repubblica” uno dei sostenitori dell’iniziativa respinta nel 2016, il docente di economia all’università di Friburgo, Sergio Rossi – sarebbe stato sostenuto, tra l’altro, tassando le transazioni finanziarie». Era previsto, inoltre, che il “reddito di base incondizionato” si sostituisse alla maggior parte delle prestazioni sociali. In sostanza, si calcolava che lo Stato non ne avrebbe sofferto più di tanto. Rossi è contento che il progetto che era stato messo a punto per tutti gli svizzeri possa venire messo in pratica a Zurigo: «È la dimostrazione – afferma – che sul piano locale esiste, ormai, la consapevolezza che le sfide poste dalla globalizzazione e dalla digitalizzazione delle attività economiche non possono essere affrontate e superate correttamente, senza modificare in maniera fondamentale l’attuale sistema di protezione sociale, che risale alla seconda metà del secolo scorso». Il reddito di base incondizionato (Rbi) sarebbe una rendita mensile, sufficiente per vivere, versata individualmente ad ogni persona, dalla nascita alla morte, indipendentemente dalle altre sue fonti di reddito o ricchezze personali.«Attualmente ricaviamo tutte le entrate dal nostro lavoro, dal nostro patrimonio, dalla nostra famiglia o dalle prestazioni sociali che ci vengono versate», spiega il sito svizzero creato per sostenere l’iniziativa. Il “reddito di base incondizionato” si sostituisce alla parte di reddito individuale che copre i bisogni fondamentali, «mentre le altre rendite rivestiranno la funzione di completare il reddito di base, apportando il margine di comodità, di agio». In sostanza, la nuova entrata dovrebbe sostituirsi alla maggior parte delle prestazioni sociali fino alla quota del suo ammontare, coprendo assistenza sociale, sussidi allo studio, assegni familiari e assicurazione sulla disoccupazione. Le prestazioni sociali più mirate «saranno mantenute per gli aventi diritto, per esempio nel caso della disoccupazione o delle prestazioni complementari». In pratica, dicono gli elvetici, l’Rbi «garantisce la parte di reddito destinata a coprire i bisogni di base: le persone non cercheranno più un impiego perché devono sopravvivere, ma perché nessuno desidera accontentarsi di sopravvivere». Gli svizzeri «potranno così negoziare le loro condizioni di lavoro per soddisfare le loro comodità, più che i loro bisogni vitali».Secondo i sostenitori del “reddito di base”, «le condizioni di lavoro miglioreranno per motivare le persone, che già avranno una base di reddito, a impegnarsi di più». Di fatto, «potranno più facilmente negoziare condizioni di lavoro migliori a tempo parziale, se desiderano», e le imprese «saranno sollevate dalla responsabilità di far vivere le persone». Di conseguenza, «saranno incoraggiate ad automatizzare i compiti più ripetitivi e meno attraenti». Secondo i suoi sostenutori, l’Rbi non rappresenta un vero costo: l’attuale erogazione del welfare svizzero equivale già a un “reddito minimo”. «Non resta dunque che un piccolo saldo da finanziare per le persone che oggi guadagnano meno di quell’importo». Il reale saldo da finanziare, in termini di prestazioni sociali, sarebbe di appena 18 miliardi di franchi, pari al 3% del Pil svizzero. «Questo saldo può facilmente essere coperto in molti modi, come una correzione della Tva», l’Iva elvetica, oppure «della fiscalità diretta», o magari inserendo «una tassa sulla produzione automatizzata, sull’impronta ecologica», senza contare l’eventualità di introdurre una tassazione sulle transazioni finanziarie. Diverse forme di reddito sociale garantito sono state sperimentate negli Usa, in Canada, in Namibia e in India. Il principio è stato introdotto nella Costituzione del Brasile nel 2004. Il Kuwait e altri Stati del Golfo Persico hanno adottato una misura simile al reddito universale. «La Finlandia e il Quebec hannno deciso di introdurlo dal 2017. In Olanda, la città di Utrecht e una decina di altre città si preparano a realizzare dei test con l’Rbi, che intanto è entrato nel dibattito pubblico in Francia».Si chiama “reddito di base incondizionato”, ha qualche affinità con il reddito di cittadinanza che piace al Movimento 5 Stelle ed è stato adottato, a titolo sperimentale, dal Consiglio Comunale di Zurigo. Grazie alla mobilitazione della sinistra, gli abitanti della principale città elvetica potranno disporre di una sorta di “salario di Stato garantito” di 2.500 franchi mensili, ovvero di poco meno di 2.200 euro. Stiamo parlando, secondo i canoni svizzeri, dell’equivalente della soglia di povertà. Come prevedeva l’analogo testo di legge, sottoposto a referendum e bocciato lo scorso anno a livello svizzero, il “reddito di base incondizionato” dovrebbe toccare ogni singolo cittadino. Con la differenza che, mentre per gli adulti sarà di 2.500 franchi, per i minori dovrebbe essere di 625, più o meno 550 euro. In realtà, scrive Franco Zantonelli su “Repubblica”, sia il suo finanziamento che i tempi e modi d’applicazione non sono ancora chiari, visto che al legislativo di Zurigo la proposta è passata con soli due voti di scarto. L’esecutivo ha, in effetti, due anni di tempo per stabilire come metterla in pratica. «Ci muoviamo con i piedi di piombo», ha non a caso dichiarato alla tv pubblica il consigliere comunale socialista Urs Helfenstein.
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Armi a dittature in guerra: boom della morte made in Italy
Quasi 30 miliardi di dollari, pari a 70 milioni di euro al giorno. E’ la nuova spesa militare dell’Italia (media giornaliera) calcolata dal Sipri di Stoccolma, l’istituto internazionale di ricerche sulla pace: la spesa militare italiana è salita nel 2016 a 27,9 miliardi di dollari. «Un flusso irrefrenabile ma diventato normale, quasi ovvio», scrive Gianni Ballarini su “Nigrizia”, in un reportage ripreso da “Il Cambiamento”. Che osserva: cresce a dismisura il commercio internazionale delle armi italiane, grazie anche al pieno coinvolgimento collaborativo e interessato delle banche, «che mettono a disposizione dell’industria bellica servizi di intermediazione ben remunerati e conti correnti». Per “Nigrizia”, ormai, «l’industria militare è il pilastro del sistema paese», almeno secondo «ciò che pensa il governo». E i dati lo confermano: «Cresce la spesa e l’export di armamenti conosce un vero boom. Soprattutto verso i regimi della penisola arabica. Cala, invece, la vendita verso l’Africa». Le banche? «Sostengono il business, seppellendo ogni tentennamento etico».Solo poche fonti, tra cui il “Tirreno”, il “Manifesto” e “Italia Oggi”, hanno registrato – lo scorso 19 aprile – l’imbarco di armi e blindati, nel porto di Piombino, sulla nave Excellent, noleggiata dal ministero della difesa e battente bandiera maltese. «Dopo aver imbarcato un gran quantitativo di armamenti e aver effettuato uno scalo tecnico ad Augusta, s’è diretta a Gedda, in Arabia Saudita, attraversando il canale di Suez. Secondo l’autorità portuale di Piombino, quelle armi e quei blindati erano destinati a un corso di addestramento bellico di militari italiani nella penisola arabica. L’unico a protestare è stato Giulio Marcon, parlamentare civatiano di “Sinistra Italiana”: «L’Arabia Saudita è coinvolta in Yemen in una guerra sanguinosa, è sotto il banco d’accusa dall’Onu per la violazione dei diritti umani e ha sostenuto alcune fazioni terroristiche in Medioriente». Marcon ha chiesto, inutilmente, «l’immediato blocco del trasferimento delle armi nella penisola arabica», nonché «lo stop alle esercitazioni e a ogni vendita di armi all’Arabia Saudita». Ma nessuno ci ha fatto caso, sui media: ormai «la vendita di armi anche a paesi in conflitto è oramai sdoganata e non più avvolta da alcun tabù», annota “Nigrizia”.L’ultima relazione governativa sugli armamenti, aggiunge il “Cambiamento” citando “Nigrizia”, rivela come il Belpaese stia conoscendo una crescita esponenziale, soprattutto nell’export armato. Il valore è aumentato dell’85% rispetto al 2015, raggiungendo la cifra di 14,6 miliardi di euro. «Pesa la mega-vendita (oltre 7 miliardi di euro) di caccia Eurofighter Typhoon (28) al Kuwait: si tratta della più grande commessa mai ottenuta da Finmeccanica/Leonardo». Ma nei primi 11 posti della classifica delle nazioni destinatarie, aggiunge la rivista, troviamo Arabia Saudita (427,5 milioni), Qatar (341 milioni), Turchia (133,4 milioni) e Pakistan (97,2), «che fanno parte di coalizioni di guerra o che sono conosciuti come paesi fortemente repressivi». Nel “libro bianco per la sicurezza internazionale e la difesa”, cioè «la nuova Bibbia governativa», si legge come sia «essenziale che l’industria militare sia pilastro del sistema-paese, perché contribuisce al riequilibrio della bilancia commerciale». Per cui merita ogni sostegno possibile.In questo contesto, si distingue l’Africa: i 136 milioni di euro, valore delle licenze italiane di esportazione nel 2016, rappresentano il secondo dato più basso dal 2008. Peggio dell’anno scorso è stato solo il 2014. Il calo è stato del 43,4% (oltre 240 milioni di euro nel 2015), con un dato particolarmente negativo per il Nordafrica (-56%). Negli ultimi 5 anni il calo di export verso la sponda Sud del Mediterraneo è stato importante: si è passati dai 308,4 milioni del 2012 ai 38,5 dell’anno scorso (-87,5%). A colpire, in particolare, è la chiusura dei rubinetti con l’Algeria, uno dei paesi con cui lavoravano maggiormente le aziende belliche italiane. L’anno scorso hanno commerciato armi per 25,2 milioni di euro. Nel 2012 il dato sfiorava i 263 milioni di euro. Nell’Africa subsahariana spicca invece il dato dell’Angola, «non propriamente la culla della democrazia e della difesa dei diritti civili». Qui si è passati dai pochi spiccioli del 2015 (72.000 euro) agli 88,7 milioni di euro nel 2016, posizionando il paese al 13° posto della classifica dei paesi acquirenti.“Conti armati”, li chiama “Nigrizia”: «Accanto a un’industria bellica italiana in piena espansione, il 2016 ha segnato pure l’esplosione dei conti correnti armati. Gli istituti di credito, infatti, hanno definitivamente seppellito ogni tentennamento morale per rituffarsi a corpo morto sul business delle armi. In un solo anno il valore delle transazioni bancarie legate all’export definitivo di armamenti è passato dai 4 miliardi del 2015 ai 7,2 miliardi del 2016 (+80%), frutto di 14.134 segnalazioni, rispetto alle 12.456 dell’anno precedente. Un boom inarrestabile se si osserva la crescita rispetto a soli due anni fa: +179% (2,5 miliardi di euro, nel 2014)». A occupare il primo posto è il gruppo Unicredit, con oltre 2,1 miliardi di euro, pari a circa il 30% dell’ammontare complessivo movimentato per le sole esportazioni definitive, e con una crescita del 356% rispetto al 2015 (474 milioni di euro). Dopo Unicredit, compare il gruppo Deutsche Bank, con oltre un miliardo di euro. E al terzo posto c’è la britannica Barclays, con oltre 771 milioni di euro e con una crescita del 113,8% rispetto ai dati del 2015 (360,9 milioni).Sorprendente la performance della bresciana Banca Valsabbina: «In un anno le sue transazioni “armate” sono cresciute del 763,8% passando dai 42,7 milioni di euro del 2015, ai 369 milioni circa dell’anno scorso». Questo istituto – che ha sede a Vestone, piccola realtà della Comunità montana della Valle Sabbia, e la direzione generale a Brescia – evidentemente rappresenta un punto di riferimento per tutto il settore armiero della zona. «Sono i paesi mediorientali, in genere, a essere ottimi clienti delle banche, avendo fatto transitare sui conti bancari del Belpaese una massa enorme di denaro: quasi 4,3 miliardi di euro, pari al 59% del totale». Ma anche i paesi africani fanno un balzo in avanti, passando dai 300 milioni del 2015 ai quasi 320 milioni del 2016: è l’area subsahariana a incidere maggiormente, con una crescita del 153% (dai 42 milioni del 2015 ai 106,4 dell’anno scorso). Conclude “Nigrizia”: «Le banche armate, evidentemente, generano fiducia anche al di là del Mediterraneo».Quasi 30 miliardi di dollari, pari a 70 milioni di euro al giorno. E’ la nuova spesa militare dell’Italia (media giornaliera) calcolata dal Sipri di Stoccolma, l’istituto internazionale di ricerche sulla pace: la spesa militare italiana è salita nel 2016 a 27,9 miliardi di dollari. «Un flusso irrefrenabile ma diventato normale, quasi ovvio», scrive Gianni Ballarini su “Nigrizia”, in un reportage ripreso da “Il Cambiamento”. Che osserva: cresce a dismisura il commercio internazionale delle armi italiane, grazie anche al pieno coinvolgimento collaborativo e interessato delle banche, «che mettono a disposizione dell’industria bellica servizi di intermediazione ben remunerati e conti correnti». Per “Nigrizia”, ormai, «l’industria militare è il pilastro del sistema paese», almeno secondo «ciò che pensa il governo». E i dati lo confermano: «Cresce la spesa e l’export di armamenti conosce un vero boom. Soprattutto verso i regimi della penisola arabica. Cala, invece, la vendita verso l’Africa». Le banche? «Sostengono il business, seppellendo ogni tentennamento etico».
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Contro l’Eurasia, agli Usa resta solo una chance: la guerra
Siamo in pericolo, perché l’America sta perdendo terreno: per questo ormai è pronta a tutto, anche alla guerra con la Russia, per impedire che Mosca coinvolga l’Europa nel piano strategico che più converrebbe a entrambe, cioè l’integrazione economica in termini di Eurasia, fino alla Cina. Guai, quindi, se l’Europa mollasse gli Usa. E’ la visione che Mike Whitney disegna su “Counterpunch”, con un finale già scritto – il declino della superpotenza Usa – con la possibile variante, per noi catastrofica, della (inutile) guerra mondiale scatenata dall’élite americana nel tentativo, impossibile, di invertire il corso della storia. Ancora nel 2012, lo stesso Putin parlava della creazione di «uno spazio economico comune che vada dall’Atlantico al Pacifico», chiamato “l’Unione di tutta Europa”, con la Russia come perno di una “Nuova Asia” saldamente collegata all’Europa. «L’inarrestabile demonizzazione di Putin – scrive Whitney – è soltanto una parte della multiforme strategia di Washington per fare arretrare il potere russo in Asia centrale e mettere la parola fine al sogno di Putin di “Una più grande Europa”». Di qui l’incessante sforzo per liquidare il presidente russo come “bandito del Kgb”, o “dittatore”, colpevole addirittura dell’ipotetico hackeraggio per ingerire nelle presidenziali statunitensi, con la Russia presentata dai media come «un pericoloso aggressore seriale che pone una crescente minaccia alla sicurezza della Ue e degli Usa».Un «mattatoio mediatico», intensificatosi dopo l’elezione di Donald Trump e accompagnato da «pesanti sanzioni, attacchi asimmetrici ai mercati russi e alla valuta», nonché «dall’armamento e addestramento di antagonisti della Russia in Ucraina e Siria», dalla «soppressione calcolata dei prezzi del petrolio greggio» e dal «ripetuto tentativo di sabotare le relazioni commerciali russe in Europa». In breve, riassume Whitney in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, Washington sta facendo qualsiasi cosa in suo potere per prevenire il fatto che Europa e Russia possano «fondersi nella più grande area di libero scambio mondiale, che verrebbe inevitabilmente a rappresentare il centro della crescita e della prosperità mondiale per il prossimo secolo». Ecco il motivo per cui il Dipartimento di Stato si è unito alla Cia per rovesciare il governo ucraino nel 2014: annettendo un ponte terrestre vitale tra Ue e Asia, i manovratori di potere Usa volevano «riuscire a controllare i gasdotti fondamentali che stanno avvicinando sempre di più i due continenti in una alleanza che escluderà gli Stati Uniti».La prospettiva? E’ pessima, vista dall’America, perché «la Russia soddisferà i crescenti bisogni energetici europei, mentre il sistema di ferrovie ad alta velocità cinesi farà arrivare ancora più prodotti a basso costo». Tutto questo suggerisce l’idea che «il centro di gravità dell’economia mondiale si sta spostando rapidamente, e con esso l’irreversibile declino degli Usa». E quando il dollaro «verrà inevitabilmente cestinato come mezzo di scambio primario tra i partner commerciali in una emergente area di libero scambio Ue-Asia», a quel punto «il riciclaggio di ricchezza sotto forma di debito Usa crollerà rapidamente, precipitando i mercati Usa nell’abisso, mentre l’economia intera affonderà in una palude». Sicché, «impedire a Putin di creare una “armoniosa comunità di economie che vada da Lisbona a Vladivostok” non è un compito secondario per gli Usa, è una questione di vita o di morte». Lo diceva già uno stratega del calibro di Paul Wolfowitz: «Il nostro obbiettivo primario è prevenire l’emergere di un nuovo rivale, sia esso sul territorio della fu Unione Sovietica o in altro luogo». Imperativo categorico: «Prevenire che ogni potere ostile possa dominare una regione le cui risorse possano, sotto controllo consolidato, rivelarsi sufficienti a generare dominio globale».«La geografia è destino», scrive Whitney. «E la geografia russa contiene vastissime riserve di petrolio e gas naturale, delle quali l’Europa ha bisogno per riscaldare le sue case e fornire energia alla sua economia». Di più: «La relazione simbiotica tra fornitore e utilizzatore finale porterà a un certo punto all’abbandono delle barriere commerciali, l’abbassamento delle barriere tariffarie e al progressivo integrarsi delle economie nazionali in un mercato comune di tutta la regione. Questo potrebbe rappresentare il peggiore incubo di Washington, ma è anche la massima priorità strategica di Putin», che ha scommesso sui grandi gasdotti – il North Stream sotto il Mar Baltico e il South Stream sotto il Mar Nero – per fornire all’Europa energia pronto uso, a basso costo. «Negli ultimi 70 anni la strategia imperiale ha funzionato senza contrattempi, ma adesso la rinascita russa e l’esplosiva crescita cinese minacciano di liberarsi dal giogo dell’abbraccio costrittivo di Washington», aggiunge Whitney. «Gli alleati asiatici hanno iniziato a puntellare l’Asia e l’Europa con gasdotti e ferrovie ad alta velocità che uniranno insieme i vari staterelli distanti dispersi nelle steppe, attirandoli nell’Unione Economica Euroasiatica, collegandoli a un superstato prospero e in espansione, epicentro del commercio e dell’industria globale».La geografia è destino: il primo a saperlo, e a dirlo, è stato l’uomo della “grande scacchiera”, Zbigniew Brzezinski, che ha riassunto l’importanza dell’Asia centrale nel suo classico del 1997 sostendendo che «l’Eurasia è il maggiore continente del globo e la sua importanza geopolitica è assiale». E’ matematico: «Una potenza che domina l’Eurasia controllerebbe due tra le tre regioni più avanzate ed economicamente produttive. Circa il 75% della popolazione mondiale vive in Eurasia e la maggior parte della ricchezza fisica effettiva si trova anche essa in questa area, sia nelle sue imprese che nel suo suolo». L’Eurasia, scriveba Brzezinski, conta per il 60% del Pil mondiale e per circa tre quarti delle risorse energetiche del globo. «Se l’Europa vuole un socio affidabile in grado di soddisfare i suoi bisogni energetici, la Russia corrisponde alla descrizione», osserva Whitney. «Sfortunatamente, gli Usa hanno tentato ripetutamente di sabotare entrambi i gasdotti allo scopo di mettere a repentaglio i rapporti Europa-Russia. Washington preferirebbe che l’Europa riducesse drammaticamente il suo utilizzo di gas naturale o che si rivolgesse ad altre fonti più costose che non passano per la Russia. In altre parole, i bisogni naturali europei vengono sacrificati agli obiettivi geopolitici Usa, tra i quali il maggiore è prevenire la formazione di una “Più Grande Europa”».Ne vediamo gli effetti: la guerra di Washington contro la Russia è sempre più militarizzata. Di recente il Pentagono ha stanziato più truppe da combattimento in Siria e Kuwait, vuole riarmare milizie jihadiste per rovesciare il governo siriano e ricorrere a un uso più diretto della forza per conquistare l’Est della Siria. Cresce la violenza anche in Ucraina, dal momento che il presidente Trump sembra orientato a un approccio ancora più duro di quello di Obama. Anche la Nato ha stanziato truppe e armamenti sul fianco occidentale russo, mentre gli Usa hanno disseminato basi militari in Asia centrale. La Nato non ha mai smesso di spingere verso est, dal momento in cui il Muro di Berlino cadde, nel novembre 1989. «L’accumulo di mezzi bellici ostili sul perimetro occidentale della Russia è una fonte di crescente preoccupazione a Mosca, e per ottime ragioni», scrive Whitney: «I russi conoscono la loro storia». Al tempo stesso, gli Stati Uniti «stanno costruendo un sistema terrestre di difesa missilistica antiaerea in Romania (Star Wars), che integra l’arsenale missilistico Usa in un luogo a soli 900 km da Mosca. Il sistema missilistico Usa, che è stato “certificato per le operazioni” nel maggio 2016, cancella il deterrente nucleare russo e distrugge l’equilibrio strategico di potere in Europa».Putin ha risposto con appropriate contromisure. E spiega: «Gli americani sono ossessionati dall’idea di “assoluta invulnerabilità” per loro stessi. Ma l’assoluta invulnerabilità di una nazione significa assoluta vulnerabilità per tutti gli altri. Non possiamo assolutamente essere d’accordo». Ora, l’amministrazione Trump ha annunciato che impiegherà il sistema Terminal High Altitude Area Difense (Thaad) in Corea del Sud, citando la necessità di rispondere alle provocazioni da parte della Corea del Nord. «In realtà – obietta Whitney – gli Usa sfruttano il Nord come pretesto per poter minacciare Russia e Cina come “limiti assiali” dell’Heartland Eurasiatico, come mezzo per contenere la vasta massa di terre emerse che Sir Halford Mackinder ha chiamato “l’area fondamentale, che si estende tra il Golfo Persico e il fiume Yang Tze in Cina”. Washington spera che, controllando le rotte marine critiche, circondando la regione con basi militari e inserendosi aggressivamente dove necessario, possa riuscire a prevenire l’emergenza di un colosso economico che possa sminuire l’importanza degli Stati Uniti come superpotenza globale».Il futuro dell’America «dipende dalla sua capacità di far deragliare l’integrazione economica del centro del mondo e riuscire nel “grande gioco” nel quale tutti gli altri hanno fallito». Un estratto da un articolo di Alfred McCoy, “La geopolitica del declino globale americano”, aiuta a illuminare la natura della contesa in corso per il controllo della cosiddetta “Isola-Mondo”. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli Usa si sono ritrovati «prima potenza nella storia a controllare i punti strategici assiali di entrambe le estremità dell’Eurasia». Con la paura dell’espansione russa e cinese come “catalizzatore della collaborazione”, Washington hanno guadagnato bastioni strategici sia in Europa occidentale che in Giappone. Con questi punti assiali come ancoraggio, ha creato «un arco di basi militari basate sul modello marittimo precedente», quello della Gran Bretagna, «visibilmente concepite per circondare l’“Isola-Mondo”». Spogliata del suo rivestimento ideologico, osserva McCoy, la grande strategia di Washington del contenimento anti-comunista nella guerra fredda «non è stato molto altro che un processo di successione imperiale». Alla fine della guerra fredda, nel 1990, «l’accerchiamento della Cina comunista e della Russia richiedeva 700 basi in territori stranieri, una potenza aerea di 1.763 jet da combattimento, un vasto arsenale nucleare, oltre 1.000 missili balistici e una potenza navale di 600 navi, tra cui 15 portaerei nucleari, tutti unificati dall’unico sistema al mondo di comunicazione globale satellitare».Un nuovo impero globale sta ora gradualmente emergendo, in Asia Centrale. E, mentre l’impatto dell’integrazione economica dell’area non si è ancora realizzato, secondo McCoy «gli sforzi da parte degli Usa per fermare questa possibile alleanza nella sua fase embrionale appaiono sempre più inefficaci e disperati». L’iperbolica propaganda sul presunto “hacking russo” dell’elezione presidenziale Usa ne solo uno tra i numerosi esempi – un altro è l’armamento dei neonazisti a Kiev. «Il punto è che sia la Russia che la Cina si stanno servendo dello sviluppo dei mercati e della semplice ingenuità per avere la meglio su Washington, mentre Washington si basa quasi esclusivamente sull’inganno, attività occulte, forza militare bruta. In parole povere gli ex comunisti stanno stracciando i capitalisti nel loro stesso gioco». Ancora McCoy: «La Cina si sta affermando in modo profondo nell’‘Isola-Mondo’ in un tentativo di dare una forma completamente nuova ai fondamentali geopolitici del dominio globale. Per fare ciò sta usando una fine strategia che fino a questo momento ha eluso la comprensione da parte delle élites al potere in Usa».Il primo passo? E’ consistito «in un sensazionale progetto di creazione di una infrastruttura che assicuri l’integrazione economica del continente». Stendendo un elaborata e complessa rete di ferrovie ad alto volume ed alta velocità, come anche gasdotti ed oleodotti, nelle vaste distese eurasiatiche, «la Cina potrebbe rendere realtà l’intuizione di Mackinder in un modo imprevisto». Ovvero: «Per la prima volta nella storia, il rapido movimento transcontinentale di carichi di materie prime fondamentali – petrolio, minerali, prodotti – sarà possibile su una scala prima impensabile, unificando così potenzialmente la grandissima estensione di terre in questione in una unica zona economica che si estende per 6.500 miglia da Shangai a Madrid». In tal modo, conclude McCoy, «la leadership pechinese spera di spostare il baricentro del potere geopolitico via dalla periferia marittima e fin dentro all’Heartland continentale». Ma Washington, aggiunge Whitney, di certo non lascerà che il piano russo-cinese vada avanti: continuerà a combatterlo. E «se sanzioni economiche, attività occulte e sabotaggio economico non funzioneranno, i manovratori di potere Usa passeranno a strategie più letali». La peggiore delle ipotesi sta già andando in scena: lo dimostrano i recenti stanziamenti di truppe in Medio Oriente. Gli americani «ritengono che un confronto militare diretto possa essere la migliore opzione disponibile», pensando che «una guerra contro la Russia combattuta in Siria o in Ucraina non necessariamente potrebbe degenerare in una guerra nucleare a tutto campo». Ma sarebbe abbastanza per trascinare nel conflitto anche l’Europa, nel tentativo – disperato – di «abbattere definitivamente il piano russo di “integrazione economica” e immobilizzare la Russia in un lungo pantano che ne prosciugherebbe le risorse».Siamo in pericolo, perché l’America sta perdendo terreno: per questo ormai è pronta a tutto, anche alla guerra con la Russia, per impedire che Mosca coinvolga l’Europa nel piano strategico che più converrebbe a entrambe, cioè l’integrazione economica in termini di Eurasia, fino alla Cina. Guai, quindi, se l’Europa mollasse gli Usa. E’ la visione che Mike Whitney disegna su “Counterpunch”, con un finale già scritto – il declino della superpotenza Usa – con la possibile variante, per noi catastrofica, della (inutile) guerra mondiale scatenata dall’élite americana nel tentativo, impossibile, di invertire il corso della storia. Ancora nel 2012, lo stesso Putin parlava della creazione di «uno spazio economico comune che vada dall’Atlantico al Pacifico», chiamato “l’Unione di tutta Europa”, con la Russia come perno di una “Nuova Asia” saldamente collegata all’Europa. «L’inarrestabile demonizzazione di Putin – scrive Whitney – è soltanto una parte della multiforme strategia di Washington per fare arretrare il potere russo in Asia centrale e mettere la parola fine al sogno di Putin di “Una più grande Europa”». Di qui l’incessante sforzo per liquidare il presidente russo come “bandito del Kgb”, o “dittatore”, colpevole addirittura dell’ipotetico hackeraggio per ingerire nelle presidenziali statunitensi, con la Russia presentata dai media come «un pericoloso aggressore seriale che pone una crescente minaccia alla sicurezza della Ue e degli Usa».