Archivio del Tag ‘Langhe’
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“Bogre”, Fredo Valla: il mio film sul massacro dei Catari
«I perseguitati non hanno sempre ragione, ma i persecutori hanno sempre torto», sono parole di Pierre Bayle (1647-1706), filosofo francese contemporaneo di Spinoza, che, perseguitato per la sua fede ugonotta, si rifugiò a Rotterdam nei Paesi Bassi. Parole che mi sono state di ispirazione nella realizzazione del mio ultimo film documentario “Bogre – la grande eresia europea”. Film dedicato alla storia dei “bogre” (si legge bugre), ossia dei Bogomìli bulgari, cristiani dualisti, e della loro filiazione in Occidente, i Catari della Francia del Midì (l’Occitania dei Trovatori), dell’Italia settentrionale e centrale, delle Fiandre, della Germania e della Bosnia. Tra loro non si dicevano Catari, né Bogomìli, ma buoni uomini o buoni cristiani. Tuttavia, in Occitania, in segno di disprezzo, li dissero “bogre”, che significa bulgaro, per la derivazione dall’eresia sorta nel X secolo nelle terre balcaniche.In Italia, il catarismo trovò terreno fertile a partire dal XI secolo, con forti comunità di buoni uomini a Desenzano, Concorezzo (Milano), Piacenza, Cremona, Sirmione, Verona, Marca Trevigiana, Firenze, Spoleto, Orvieto e, in Piemonte, a Monforte d’Alba, Roccavione, Cuneo e Acqui. Alcuni studiosi pensano che ai tempi di Farinata degli Uberti, una buona percentuale di fiorentini fosse catara. I rapporti fra le chiese catare d’Occitania, Italia e Bosnia con i bogomili di Bulgaria furono frequenti, perlomeno fino al XIII secolo, con un flusso dai Balcani di libri dottrinali e la partecipazione ai concili, favorito dai commerci e dal passaggio delle crociate verso la Terrasanta. A testimonianza della ricchezza di contatti e scambi in un’Europa medievale che siamo abituati a pensare chiusa e isolata.In Occidente il catarismo si propose come alternativa alla Chiesa di Roma. Per questo motivo nel 1209 Papa Innocenzo III scatenò contro i Catari una crociata di cristiani contro cristiani, chiamando a raccolta baroni e cavalieri del nord della Francia, coraggiosi ma spiantati – un po’ come i conquistadores spagnoli in Messico e Perù – promettendo loro la salvezza eterna e i ricchi feudi della Linguadoca. Il colpo più duro lo diede nuovamente il Papa nel 1230, con l’istituzione dei tribunali dell’Inquisizione, che crearono un clima di terrore e di delazione, che non può non portare alla mente il terrore staliniano. Ultima a resistere fu la Bosnia, dove il catarismo si estinse nella seconda metà del XV secolo con la conquista ottomana, quando la dottrina originaria già si stava esaurendo in un sincretismo religioso compromesso col potere.In che cosa credevano Bogomìli e Catari? Essenzialmente distinguevano fra Spirito e Materia. Tutto ciò che appartiene allo Spirito è stato creato dal Dio Buono, mentre tutto ciò che è Materia (quindi anche i corpi umani) sono creatura di un Demiurgo, Dio del Male o Demonio a seconda del nome che gli si voleva attribuire. In questo modo essi rispondevano alla domanda delle domande: Unde malum? Perché il Male? Il Male esiste – dicevano – perché esiste un Dio del Male. Sono anni che faccio documentari e mi occupo di lingua e di cultura occitana, quindi la vicenda dei Catari ha attraversato la mia vita. Poi nel 2005 ho avuto l’occasione di cominciare una collaborazione con Antonio e Pupi Avati, che producevano una serie di puntate sui paesi dell’Est per “Tv2000″. A me fu assegnata la Bulgaria. Là conobbi Axinia Dzurova, studiosa di testi slavi e glagolitici.Axinia, allieva di Ivan Dujcev, tra i maggiori studiosi dei Bogomili, mi rivelò – e fu una vera rivelazione – le relazioni fra Bogomìli e Catari. Da qui l’idea del film, per raccontare un’eresia europea che nessun film aveva mai raccontato. Tra il 2016 e il 2017 ho lavorato alla scrittura. Le prime riprese sono state in Bulgaria, nell’autunno del ’17, là dove la vicenda di questi eretici ha preso le mosse. A marzo di quest’anno, “Bogre” ha esordito con successo al Film Festival Internazionale di Sofia ed è un po’ come se si fosse chiuso un cerchio, come se il film cominciasse la sua strada da dove tutto è iniziato. Ma “Bogre” ha una storia particolare anche per ciò che riguarda il reclutamento della troupe, composta da ex allievi e collaboratori de “l’Aura”, la scuola di cinema che ho fondato col mio sodale Giorgio Diritti a Ostana, paese delle Alpi occitane davanti al Monviso. Girare è stato come fare scuola sul campo. Una bella soddisfazione, per me e per gli allievi che sono cresciuti facendo.“Bogre – la grande eresia europea” si presenta come un evento anche a partire dalla durata, 200 minuti, in cui chiedo allo spettatore di essermi complice, di entrare con me nella bolla e abbandonarsi alle immagini e alle parole del racconto. Per questo il film va visto al cinema e non in tivù. Duecento minuti che sono una scelta di linguaggio, in cui il film si dipana e si mostra nel suo farsi, con la mia troupe in scena, o io e il mio montatore, Beppe Leonetti che è anche co-produttore con Chambra d’Oc e Lontane Province, in sala montaggio. Ho sempre pensato che un film dura quanto deve durare. Questa volta mi sono sentito libero: come i Catari e i Bogomili. “Bogre” è un film sulla libertà di pensiero, sul diritto di scegliere (eresia significa scelta), su un’idea di giustizia in opposizione ai poteri intolleranti. Le vicende di questi eretici trovano un parallelo in storie a noi più vicine, come la Shoah, il genocidio armeno, l’intolleranza verso chi è diverso da noi e viene a “invadere” l’Occidente civilizzato. I “bogre” di oggi! Una storia estirpata dai libri di storia che ritorna, perché, ahimé, il male non finisce.(Fredo Valla, “Bogre, il mio film sulla libertà di pensiero, sul diritto di scegliere, su un’idea di giustizia contro i poteri intolleranti”, da “La Stampa” dell’8 giugno 2021. Autore, regista e sceneggiatore, Fredo Valla ha curato il copione di film come “Il vento fa il suo giro” e “Un giorno devi andare”, diretti da Giorgio Diritti. E’ un instancabile difensore della minoranza linguistica occitanica e della sua antica cultura, che sopravvive nelle valli alpine cuneesi e nel Sud della attuale Francia).«I perseguitati non hanno sempre ragione, ma i persecutori hanno sempre torto», sono parole di Pierre Bayle (1647-1706), filosofo francese contemporaneo di Spinoza, che, perseguitato per la sua fede ugonotta, si rifugiò a Rotterdam nei Paesi Bassi. Parole che mi sono state di ispirazione nella realizzazione del mio ultimo film documentario “Bogre – la grande eresia europea“. Film dedicato alla storia dei “bogre” (si legge bugre), ossia dei Bogomìli bulgari, cristiani dualisti, e della loro filiazione in Occidente, i Catari della Francia del Midì (l’Occitania dei Trovatori), dell’Italia settentrionale e centrale, delle Fiandre, della Germania e della Bosnia. Tra loro non si dicevano Catari, né Bogomìli, ma buoni uomini o buoni cristiani. Tuttavia, in Occitania, in segno di disprezzo, li dissero “bogre”, che significa bulgaro, per la derivazione dall’eresia sorta nel X secolo nelle terre balcaniche.
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Il disastro del lockdown e i valori dei poeti del vino italiano
Per capire quanto in profondità abbia colpito, l’epocale coprifuoco “cinese” istituito dall’Italia di fronte alla comparsa del coronavirus, basta fare un giro tra le colline del vino: alla vigilia dell’estate erano una meta ambitissima del turismo internazionale, e adesso sono un deserto. Export bloccato e cantine con montagne di bottiglie rimaste invendute, winery desolatamente vuote e ristoranti con ai tavoli solo qualche italiano, regolarmente distanziato e costretto a indossare la mascherina. Vale anche per le Langhe, le colline di Pavese e Fenoglio che videro esplodere un clamoroso boom economico a partire dagli anni Novanta grazie ai cosiddetti Barolo Boys, i ragazzi che rivoluzionarono l’antico vino nobile dei Savoia mettendosi a vinificarlo alla francese, affinandolo in botte piccola. Dalle Langhe all’America il passo è stato brevissimo: in un amen, a Barolo e dintorni s’è cominciato a parlare soprattutto inglese, in mezzo a tedeschi e svizzeri, belgi e giapponesi. E’ fiorita una specie di Toscana, in un angolo di Piemonte che portava ancora i segni dell’atavica povertà contadina: persino Bob Dylan ha voluto partecipare ai concerti di “Collisioni”, in quell’isola di vigneti con attorno wine-tasting, cantine di design interrate e climatizzate, bed & breakfast e cucine di charme, wine-bar di stampo newyorkese. Una specie di Rinascimento cosmopolita, con tanto di università: la scuola superiore di scienze gastronomiche aperta a Pollenzo da Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food.Tutto sta a rimboccarsi le maniche, ancora una volta? Lo assicura un genio del marketing come Oscar Farinetti, che in mezzo a quei vigneti è cresciuto. Ha ragione? Solo a metà: giusto attingere all’ottimismo della volontà, mobilitando risorse anche morali per fronteggiare una crisi paurosa, cercando di trasformarla in un’occasione per riconvertire l’economia, premiando il profilo anche ecologico del “food & wine”. Ma forse i conti sarebbe meglio farli con l’oste, cioè con il convitato di pietra della grande depressione: la macroeconomia, questa sconosciuta. Se privatizzi il pianeta, appaltando la politica a piccoli mestieranti locali, puoi scordarti che lo Stato abbia il potere – aiutando, agevolando, detassando – di far decollare l’economia privata. Il visionario patron di Eataly – che ha fatto davvero moltissimo, per far brillare il sistema-Italia nel mondo, e pure in anni difficili – viene da una tradizione socialista: il padre partigiano, poi vicesindaco di Alba. L’Italia che seppe rimboccarsele davvero, le maniche, era quella del dopoguerra: miracolata dal Piano Marshall e poi trainata dall’economia mista alimentata dal colosso Iri, il più grande complesso industriale d’Europa. Un sistema smantellato in modo brutale prima con la “privatizzazione” del debito pubblico e poi con la svendita dei maggiori asset pubblici, strategici per il Made in Italy.Per un capriccio della storia, proprio nel periodo più buio per l’Italia – la grande precarizzazione, le delocalizzazioni selvagge, la folle austerity imposta dall’Ue – ha potuto fiorire, di colpo, il paradiso del vino. Anno dopo anno, i numeri di Vinitaly hanno stracciato ogni record, facendo volare l’intero sistema vinicolo italiano, dalla Val d’Aosta alla Sicilia, con fenomeni-mostro come il Prosecco e i suoi 800 milioni di bottiglie vendute in tutto il pianeta. La festa sembrava non dovesse finire mai, nelle colline piemontesi – Langhe, Monferrato – ora elevate al rango di patrimonio paesaggistico dell’umanità sotto la tutela delle Nazioni Unite, attraverso l’Unesco. Un volano formidabile: paesini fino a ieri sconosciuti, trasformati all’improvviso in mete internazionali, con un indotto virtuoso e declinato a livello “glocal”, all’insegna della valorizzazione dell’ambiente e della genuinità delle filiere corte. In questo piccolo paradiso, c’è un’area Unesco quasi altrettanto nota – il Roero, sulla riva sinistra del Tanaro proprio di fronte ad Alba e Barbaresco – che di bottiglie ne produce solo 8 milioni, cioè la centesima parte del potenziale di fuoco di Treviso e Valdobbiadene. Un mondo di artigiani: il loro passaporto per gli Stati Uniti si chiama Arneis, un bianco che tradizionalmente era il meno prestigioso, tra i vitigni coltivati su quelle colline.Nomi che hanno fatto storia, nel Piemonte vinicolo – Ceretto, Negro – hanno ripescato l’Arneis dall’oblio contadino, facendone un signor vino, modernissimo, a suo agio sulle migliori tavole di Tokyio e di Los Angeles. E anche l’Arneis – insieme al Barolo – ha contribuito a trasformare il periferico Piemonte, a lungo rassegnato a languire come entroterra dell’universo Fiat, in un attore di primissima grandezza, nel mondo (felicemente globalizzato, in questo caso) delle degustazioni per veri indenditori. Oggi, anche il sistema-Piemonte piange le amare lacrime del maledetto coronavirus: il Monferrato, patria della Barbera, sconta una contrazione delle vendite che viaggia attorno al 40%. Una specie di ecatombe, da cui non si sa come uscire: c’è chi propone addirittura di mandare al macero il vino invenduto per distillarlo e ricavarne alcol, così da recuperare almeno i costi di produzione. Se nelle Langhe del Barolo il grande silenzio della primavera 2020 resterà negli annali come immane sciagura memorabile, forse il piccolo Roero soffre meno: con la sua economia differenziata (agricoltura mista, tanta frutta), è meno dipendente dal turismo internazionale. «Però anche qui la batosta è stata forte: paragonabile alla grandine che, quarant’anni fa, avrebbe fatto saltare la vendemmia, facendoci perdere un anno intero di lavoro, e quindi di entrate vitali per la famiglia».A parlare è Sergio Marchisio, un autentico pioniere: il primo a spumantizzare l’Arneis, il primo a vinificare il Nebbiolo in anfora. Un’azienda modello, certificata biologica, e con un debole per la biodonamica di Rudolf Steiner. Missione: scommettere innanzitutto sul recupero della fertilità naturale del suolo. «Dopo dieci anni il risultato lo senti nel bicchiere, in termini di pienezza e ampiezza di profumi». La sua cantina, a Castellinaldo d’Alba, sembra uno scrigno di silenziosa energia alchemica: nel ventre della terra riposano anfore panciute, contrassegnate dall’effigie del benefico serpente che avvolge l’uovo primordiale. Impatto zero, pannelli fotovoltaici e verdissimi filari che avvolgono l’officina delle delizie. «Certo, la processione dei turisti venuti da lontano si è interrotta anche qui. Ma non per questo ci scoraggiamo: i nostri valori sono più grandi, più forti del coronavirus». A proposito di valori: se c’è qualcosa di eroico, nel sistema-vino che negli ultimi decenni ha tenuto alta nel mondo l’eccellenza italiana, è la sua capacità di offrire bellezza raffinata, worldwide, attingendo con notevole coraggio alla passione, tipica del miglior Made in Italy, nutrito di praticità artigiana. Il paese crollava – Pil, disoccupazione – e le cantine conquistavano il pianeta, imparando l’inglese e sbalordendo pubblico e critica.Una storia che per certi aspetti sembra dar ragione all’incrollabile ottimismo di Farinetti. E che oggi – di fronte alle macerie del lockdown, tra mercati che franano – fa capire quando può essere feroce questo disastro, che è risucito a spiazzare persino gli invincibili, appassionati guerrieri del grande vino italiano. «Personalmente – confessa Sergio Marchisio – a cambiare il mio modo di vivere e di pensare è stata una frase di Steiner: quella in cui invita a riflettere sul fatto che l’uomo, in fondo, è l’unico abitante del pianeta che riesce ad avvelenare il cibo di cui si nutre». Se è per questo, siamo riusciti ad avvelenare l’acqua, i terreni, i cieli. «Esatto. Ecco perché, se le viti hanno nostalgia del sole, anziché usare prodotti chimici le accontento con semplici micro-cristalli di quarzo, minerale specchiante che conserva in sé la memoria della luce e del calore». Filosofi e poeti, tra i filari? Un amico e collega di Marchisio – Paolo Carlo Ghislandi di Cascina I Carpini, maestro del Timorasso (super-bianco dei Colli Tortonesi) – sa che ai suoi filari piace ascoltare la musica classica: Rachmaninov, di preferenza. E cita una poetessa francese, Colette: «Nel regno vetegale, la vite è l’unica che rende intellegibile, all’uomo, il valore della terra». Quando saremo usciti dall’incubo che ci è piovuto addosso, sarà naturale ripensare a loro, i pensatori-contadini che, custodendo le loro verdissime colline, sembrano rinnovare una specie di promessa, prodigiosamente alchemica. Viene che il sospetto che non si tratti solo di vino: come se in qualche modo, in punta di piedi, lavorassero anche per l’armonia dell’universo.(Giorgio Cattaneo, 21 giugno 2020).Per capire quanto in profondità abbia colpito, l’epocale coprifuoco “cinese” istituito dall’Italia di fronte alla comparsa del coronavirus, basta fare un giro tra le colline del vino: alla vigilia dell’estate erano una meta ambitissima del turismo internazionale, e adesso sono un deserto. Export bloccato e cantine con montagne di bottiglie rimaste invendute, winery desolatamente vuote e ristoranti con ai tavoli solo qualche italiano, regolarmente distanziato e costretto a indossare la mascherina. Vale anche per le Langhe, le colline di Pavese e Fenoglio che videro esplodere un clamoroso boom economico a partire dagli anni Novanta grazie ai cosiddetti Barolo Boys, i ragazzi che rivoluzionarono l’antico vino nobile dei Savoia mettendosi a vinificarlo alla francese, affinandolo in botte piccola. Dalle Langhe all’America il passo è stato brevissimo: in un amen, a Barolo e dintorni s’è cominciato a parlare soprattutto inglese, in mezzo a tedeschi e svizzeri, belgi e giapponesi. E’ fiorita una specie di Toscana, in un angolo di Piemonte che portava ancora i segni dell’atavica povertà contadina: persino Bob Dylan ha voluto partecipare ai concerti di “Collisioni”, in quell’isola di vigneti con attorno wine-tasting, cantine di design interrate e climatizzate, bed & breakfast e cucine di charme, wine-bar di stampo newyorkese. Una specie di Rinascimento cosmopolita, con tanto di università: la scuola superiore di scienze gastronomiche aperta a Pollenzo da Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food.
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Fondi-fantasma, Ue: il bilanco del Sacro Romano Impero
Tutti sappiamo che l’Europa ci frega, ma non immaginiamo fino a che punto la truffa è raffinata. Oh, certo, sì… paghiamo con un euro di debito una banca, per la quale, se quella moneta vale 10 centesimi, è già tutto grasso che cola. Anche una banconota da 500 euro costa pressappoco qualche centesimo, ma il guadagno è maggiore: se poi è denaro elettronico… puf! Non costa niente. E ti sei indebitato per il valore nominale. Un sistema come questo, però, richiede che la gente ci creda, che non possa farne a meno, che abbia paura se taglia i legami con la banca strozzina. Per fare questo, ci vogliono fior di politici e di giornalisti: e chi paga? Sempre noi, paghiamo anche le fruste dei nostri aguzzini. Mai dato uno sguardo ai bilanci dell’Ue? L’Ue è “prodiga e trasparente”, quando si tratta di mostrare quanto sono buoni e onesti con noi, salvo che – come in ogni gioco di un prestigiatore – il trucco c’è, ma non si vede. E non parlo d’ingegneria finanziaria: è più semplice, ma efficientissimo. Vediamo, anzitutto, quanto versano e ricevono i vari paesi, annualmente, all/dall’Ue, considerando che una parte viene restituita sotto forma di finanziamenti. Ogni anno (dati 2015) la “tassa” che l’Italia paga per rimanere nell’Ue è di circa 14-15 miliardi di euro, mentre quelli che ci ritornano sono circa 12-13.Così, adesso abbiamo ben cinque livelli di tassazione: Europa, Stato italiano, Regioni, Province (ora “Enti di vasta area”) e Comuni: una bella zuppa, non c’è che dire. Perché, se l’Italia è un paese “in gravi difficoltà” per quanto riguarda il debito pubblico, non riceve più di quanto dà? La Grecia, difatti è nel novero dei “riceventi”, come del resto l’Estonia, che non ha praticamente debito pubblico. Mistero. Chissà poi perché la Spagna riceve parecchio di più rispetto a quanto versa… Insomma, è un guazzabuglio senza senso, dove sembra che più dei dati oggettivi – di bilancio o di bisogno – contino di più appoggi ed alleanze con paesi potenti. Un altro aspetto è che – con un paio di eccezioni – tutti i paesi dell’area euro sono a saldo negativo, mentre i paesi fuori dall’euro sono a saldo positivo: la Polonia, ad esempio, riceve 9 miliardi in più di quanto versa, (l’ammontare del RdC tanto contestato all’Italia), che insieme alla Grecia non ha mai avuto un serio assegno di disoccupazione, quale il RdC è. Si vede che il detto “se lo conosci lo eviti”, riferito all’euro, si è fatto strada e… devono far vedere che sono prodighi! Ci piacerebbe anche sapere come mai il signor Juncker s’arrabbia così tanto per l’Italia quando il suo paese – che è un paradiso fiscale nel bel mezzo dell’Europa – versa pochissimo: eh già, i lussemburghesi sono pochi e il Pil è scarso… in compenso, i bilanci delle banche sono astronomici.Tutti i paesi a forte penetrazione economica tedesca (soprattutto industriale) sono a saldo positivo: così è anche per la Spagna, dove i capitali germanici hanno investito in lungo ed in largo. Ma… ciò che riceviamo? Sono pur sempre una dozzina di miliarduzzi… Vediamo come l’Ue li ripartisce per aree economiche. L’Ue riceve, complessivamente, circa 155 miliardi l’anno dagli Stati membri, però i bilanci sono settennali. Perché? Forse un “ricordo” dei piani quinquennali sovietici? Mistero. Ciò che più è importante è notare la ripartizione del bilancio di previsione 2014-2020, che supera la fantasmagorica cifra di 1.000 miliardi di euro e che aumenta ogni anno di 4 miliardi. Beati loro: lo sanciscono per editto, come gli imperatori del Sacro Romano Impero. Curiosità (ma non troppo): l’Ue spende – ogni anno – circa 4 miliardi in compensi, cioè stipendi. Riteniamo che, nella cifra, ci siano sia i politici che i burocrati… oppure i secondi sono pagati con i 10 miliardi annui dell’amministrazione? E Global Europe, cos’è? Sono più di 9 miliardi annui spesi per l’immagine dell’Ue nel mondo e per le spese conseguenti: un bel mistero, visto che l’Ue non ha un’unica politica estera e non è nemmeno un’entità statuale, federale o confederale. E allora?Rimangono pochi spiccioli – circa 2,5 miliardi l’anno – per sicurezza e cittadinanza e ben 20 miliardi l’anno per crescita e lavoro. Ma veniamo alle due ripartizioni principali, che sono, rispettivamente, la prima più legata agli aspetti industriali (Coesione, ecc) e la seconda all’agricoltura, che si “beccano” la prima circa 50 miliardi l’anno e la seconda addirittura circa 60 miliardi tondi tondi l’anno. Cosa ci fanno? Beh, se notate la sfilza di finanziamenti a fondo perduto, capite subito che si tratta di soldi dati a soggetti pubblici o altri grandi investitori privati. L’Europa, ai piccoli imprenditori o, comunque, a qualcuno che non abbia dietro “consistenti” appoggi politici, non dà una mazza. Due brevi esempi. Due ragazze avevano deciso d’avviare un’attività legata al loro territorio (Langa), ossia una stalla dove allevare capre per fare formaggi caprini: ci sono riuscite – e adesso vendono le loro formaggette – ma le hanno aiutate le loro famiglie. Pur bussando più volte a molte porte, non hanno ottenuto nulla dalla “grande” Europa. Nella seconda fui coinvolto personalmente.L’idea, partita da una parrocchia, era quella di creare una cooperativa fra ex carcerati che si occupasse di restauro ligneo: fui interpellato come esperto del settore (provengo da una famiglia d’antiquari) insieme ad un amico restauratore. Credevamo, essendo le uniche persone esperte, di dirigere la struttura ma non era così: la direzione generale della struttura era affidata ad un “diacono” che nessuno conosceva. Incontrai questo “diacono”, m’offrì una grappa e mi disse: «Tanto è inutile che voi pretendiate la direzione, perché “noi” riceveremo i fondi europei, voi mai». Bevvi d’un sorso la grappa e lo salutai. A mai più. Quella enorme massa di denaro che viene elargita per vari “progetti” non è altro che una colossale regalia al potere politico di una nazione, allo scopo di garantirsi la fedeltà assoluta ai dettami europei. I mille capannoni abbandonati, cosa furono? Altrettante tangenti o, comunque, “provvigioni” ottenute da “progetti” che erano inconsistenti, privi d’utilità economico-sociale, buoni solo per finanziare questo o quello, europeisti convinti, ovvio.Infine, c’è la bella favola del Fondo Sociale Europeo – il quale, per sua definizione, potrebbe essere usato anche per il RdC – ma no, non s’ha da fare. Perché? Perché la gestione del Fse era delle Regioni, poi delle Province… e adesso? Sono i famigerati “centri per l’impiego”, ossia posti dove una miriade di burocrati s’affannano per farti credere che il lavoro si troverà… a patto di fare quel certo corso d’aggiornamento, tenuto dal luminare universitario, pagato profumatamente, mediante il quale magari ti daranno anche un punteggio. E tu mangiaci, col punteggio. Mentre loro sono i veri destinatari del Fse: erano la base elettorale dei partiti che prima erano al governo e che temono un’affermazione dei sovranisti alle prossime elezioni europee. Finisce la pacchia? Vedremo. Un bilancio europeo siffatto serve soltanto a un trasferimento di denaro, che passa dai fondi pubblici alle tasche private: difatti, l’Europa è il continente che più esporta capitali nei paradisi fiscali (Isole Cayman, ecc). Ben 2.600 miliardi di dollari! Pronti, all’evenienza, ad acquistare stock di debito pubblico di un certo paese, oppure a venderli: così si ottiene il controllo di un continente, mediante lo spread ed il tipico atteggiamento dei cravattari.Del resto, cosa ci si può aspettare da un uomo (Juncker) che ha promosso l’elusione fiscale per le grandi aziende, nel suo paese e nel resto d’Europa, documentata da un’inchiesta di ben 80 giornalisti di 26 paesi, e un processo nel quale i giudici (lussemburghesi) hanno condannato…i giornalisti che avevano indagato?! Ora, torniamo a noi ed a quel famoso 2,4% che ha fatto infuriare Juncker: una nazione, pesantemente indebitata (come quasi tutti i grandi paesi europei), decide – dopo anni d’inconcludenti restrizioni economiche – di provare la via keynesiana, ossia di fornire risorse alle fasce più deboli della popolazione affinché, visto che quei soldi finiranno spesi per necessità (e non alle Cayman!), si possa innalzare la crescita e, in questo modo, ridurre il rapporto debito-Pil. E’ un tentativo plausibile? L’alternativa? Continuare in ristrettezze con il debito che sempre aumenta? Crediamo che Juncker sia arrabbiato, perché loro campano proprio sul debito altrui, come gli usurai: se qual debito non ci fosse, si dovrebbe inventarlo! Però, c’è un però.Per la prima volta sono giunti al potere partiti anti-europeisti: non tanto per principio, quanto per la miseria che è diventata questa Europa, che va sempre peggio, nella quale l’Indice di Gini (la disuguaglianza sociale) è sempre in aumento, nella quale in ogni paese s’avvertono solo “necessità di tagliare”, via welfare, via scuole, via ospedali… Il guaio è che è capitato in un grande paese: l’Italia. Al punto che, se si dovesse giungere ad uno scontro veramente duro, quel paese potrebbe sottoporre ai suoi elettori un referendum consultivo (come per il referendum consultivo per l’adesione, nel 1989) e decidere, vista l’impossibilità di rimanere insieme, d’andarsene. E sarebbe la fine dell’Unione Europea. Alcuni burocrati europei l’hanno capito (Moscovici, ad esempio, più “morbido”) mentre Juncker – che non è un gran politico, la sua formazione è prevalentemente economica – sembra non volerlo capire. Alle prossime elezioni europee lo capirà: coraggio, Juncker, non è mai troppo tardi!(Carlo Bertani, “I bilanci del Sacro Romano Impero”, dal blog di Bertani del 2 ottobre 2018).Tutti sappiamo che l’Europa ci frega, ma non immaginiamo fino a che punto la truffa è raffinata. Oh, certo, sì… paghiamo con un euro di debito una banca, per la quale, se quella moneta vale 10 centesimi, è già tutto grasso che cola. Anche una banconota da 500 euro costa pressappoco qualche centesimo, ma il guadagno è maggiore: se poi è denaro elettronico… puf! Non costa niente. E ti sei indebitato per il valore nominale. Un sistema come questo, però, richiede che la gente ci creda, che non possa farne a meno, che abbia paura se taglia i legami con la banca strozzina. Per fare questo, ci vogliono fior di politici e di giornalisti: e chi paga? Sempre noi, paghiamo anche le fruste dei nostri aguzzini. Mai dato uno sguardo ai bilanci dell’Ue? L’Ue è “prodiga e trasparente”, quando si tratta di mostrare quanto sono buoni e onesti con noi, salvo che – come in ogni gioco di un prestigiatore – il trucco c’è, ma non si vede. E non parlo d’ingegneria finanziaria: è più semplice, ma efficientissimo. Vediamo, anzitutto, quanto versano e ricevono i vari paesi, annualmente, all/dall’Ue, considerando che una parte viene restituita sotto forma di finanziamenti. Ogni anno (dati 2015) la “tassa” che l’Italia paga per rimanere nell’Ue è di circa 14-15 miliardi di euro, mentre quelli che ci ritornano sono circa 12-13.
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Il vino fa grande, nel mondo, l’Italia condannata dalla crisi
Il grande Giorgio Bocca racconta di quando i suoi partigiani discesero dalla montagna cuneese facendo tappa nelle Langhe, dove stapparono bottiglie di Nebbiolo d’autore. Ma il capo della leggendaria dinastia dei Conterno, signori del “re dei vini” sulle alture di Monforte d’Alba, tenne da parte il mitico Barolo come premio speciale, per il giorno in cui le brigate avessero liberato Torino. Sono passati settant’anni, e dell’Italia di Bocca – cresciuto al “Giorno” del maestro Italo Pietra, sull’onda sovranista e democratica dell’Eni di Mattei, vero motore dei decenni del boom – praticamente non c’è più traccia. La patria del made in Italy, già quarta potenza industriale del pianeta, è ridotta a periferia impoverita dell’Eurozona franco-tedesca, un paese depresso e popolato da 10 milioni di nuovi poveri. La “cura” Monti, magnificata dai cantori stipendiati del neoliberismo-catastrofe alla Cottarelli, ha generato la svendita del secolo: l’Italia ha perso il 25% del suo potenziale industriale, ha perduto di colpo qualcosa come 400 miliardi di Pil e ha visto crescere a livelli inauditi la piaga della disoccupazione di massa. E’ l’effetto della “svalutazione interna” prodotta dalla camicia di forza dell’euro, imposta da un’oligarchia neo-feudale che ha cancellato tutti i fondamenti dell’Italia democratica per la quale lottarono i combattenti come Giorgio Bocca.Cronologia di una retrocessione: dalle promesse (mantenute) Piano Marshall all’abominio del pareggio di bilancio, che toglie sovranità al governo. Tutto sembra perduto, si potrebbe dire, tranne alcuni singolari caposaldi italici – tra cui il vino, per esempio? Quello enologico è infatti un settore produttivo tra i più prosperi, insieme a tanta parte della nuova agricoltura: grazie all’impegno di milioni di giovani, ricorda l’economista Nino Galloni, oggi il comparto agroalimentare produce beni per 40 miliardi di euro, che l’Italia non deve più importare. Il vino, invece, lo si esporta largamente: il nostro paese ha scavalcato la Francia, divenendo il primo produttore mondiale (per quantità, non ancora per fatturato) di bottiglie pregiate. Il vino è diventato moda, fa tendenza, fa parlare di sé anche in modo stucchevole, tra guide specialistiche e ristoranti stellati. Ma nella sostanza rappresenta un doppio riscatto: a vincere è l’Italia contadina, che a sua volta fa vincere la green economy vinicola che protegge l’ambiente delle colline più belle del mondo, ricchissime di storia e di paesaggi, sempre più spesso coltivate in modo sostenibile, biologico e persino biodonamico.Il vino è terra vendemmiata e fermentata, che porta in giro per il mondo la sua essenza: è il vero passaporto di una geografia che non ha eguali sul pianeta, per intensità e bellezza, e oggi viaggia – raccontando la sua storia – grazie agli appassionati contadini di questa Italia amata in ogni continente, dal Giappone agli Usa, dove i wine-maker sono accolti quasi come star. Tutti sanno che l’origine della rinascita – fino all’attuale esplosione del prodotto – fu il dramma dell’86, la frode di produttori disonesti e il loro vino velenoso al metanolo. Nacque una normativa severissima, che nel giro di pochi anni lanciò i vini italiani tra i migliori al mondo. Non è solo una storia di Brunelli e di Baroli, di Amaroni. Non c’è da registrare solo il boom pazzesco del Prosecco. Il vino ha ridestato dal letargo l’agricoltura delle Marche e le campagne della Basilicata, le terre del Sagrantino umbro e la Campania, lanciando i nuovi super-rossi della Puglia, i bianchi di Sicilia e di Sardegna. Tutta l’Italia in un bicchiere: il vino è tra i migliori ambasciatori di un paese che non vuole arrendersi, che non intende rassegnarsi alla cupezza di un declino incomprensibile. La lingua italiana è la quarta più insegnata al mondo, dopo l’inglese, lo spagnolo e il cinese. E sempre più spesso, oggi, l’Italia parla – anche – attraverso il suo vino, “voce” inimitabile di terre che la maggior parte del pianeta ci invidia. L’unica cosa che non può fare, il vino, è raccontare quant’è atrocemente ingiusta la crisi inflitta al sistema sociale del Belpaese da cui proviene.Il grande Giorgio Bocca racconta di quando i suoi partigiani discesero dalla montagna cuneese facendo tappa nelle Langhe, dove stapparono bottiglie di Nebbiolo d’autore. Ma il capo della leggendaria dinastia dei Conterno, signori del “re dei vini” sulle alture di Monforte d’Alba, tenne da parte il mitico Barolo come premio speciale, per il giorno in cui le brigate avessero liberato Torino. Sono passati settant’anni, e dell’Italia di Bocca – cresciuto al “Giorno” del maestro Italo Pietra, sull’onda sovranista e democratica dell’Eni di Mattei, vero motore dei decenni del boom – praticamente non c’è più traccia. La patria del made in Italy, già quarta potenza industriale del pianeta, è ridotta a periferia impoverita dell’Eurozona franco-tedesca, un paese depresso e popolato da 10 milioni di nuovi poveri. La “cura” Monti, magnificata dai cantori stipendiati del neoliberismo-catastrofe alla Cottarelli, ha generato la svendita del secolo: l’Italia ha perso il 25% del suo potenziale industriale, ha perduto di colpo qualcosa come 400 miliardi di Pil e ha visto crescere a livelli inauditi la piaga della disoccupazione di massa. E’ l’effetto della “svalutazione interna” prodotta dalla camicia di forza dell’euro, imposta da un’oligarchia neo-feudale che ha cancellato tutti i fondamenti dell’Italia democratica per la quale lottarono i combattenti come Giorgio Bocca.
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Bogre, il martirio dei Catari che nessuno vuole ricordare
«Lo sterminio dei càtari? Non ci risulta». E’ una coltre di piombo quella che continua a velare la verità storica sulla devastante persecuzione che annientò la più importante eresia del medioevo europeo. Una strage di massa oscurata dall’oblio e dal negazionismo, al più minimizzata dal riduzionismo della più recente pubblicistica cattolica, in interventi come quelli di Vittorio Messori e di altre personalità contigue al Vaticano. Estrarre memoria da quella remota vicenda resta un’impresa titanica: ed è la missione di Fredo Valla, regista di cultura occitana, impegnato nella produzione del documentario “Bogre”. Un viaggio sulle tracce dell’eresia dualistica che attorno all’anno Mille si affacciò a Bisanzio per poi propagarsi in Macedonia e Bulgaria, fino ad attestarsi in Bosnia Erzegovina per poi migrare in Lombardia, in Nord Europa e infine nella regione mediterranea e pirenaica oggi francese, l’Occitania: un sub-continente esteso dalle Alpi all’Atlantico, allora accomunato dalla lingua d’Oc. Il termine “bogre”, spiega Valla, non indica semplicemente un abitante della Bulgaria: così era in antico, ma poi in occitano ha assunto il significato di persona infida, che maschera la verità. «Attorno al XII secolo, “bogre” divenne un insulto diretto ai càtari d’Occitania, colpevoli di una religione non ortodossa, simile per dottrina a un altro grande movimento eretico europeo, quello dei bogomili bulgari».Catarismo e Bogomilismo, riassume il regista, reduce dalle prime riprese condotte in Bulgaria, «sono la testimonianza storica di un medioevo tutt’altro che buio e immobile come spesso viene rappresentato: le idee viaggiavano da un capo all’altro dell’Europa, dai Balcani ai Pirenei, dall’Italia centro-settentrionale alla Bosnia». Proprio in Bulgaria, la troupe ha filmato i luoghi dell’eresia bogomila e raccolto le testimonianze dei più grandi esperti: «Abbiamo incontrato storici, filologi, archeologi. È stata la prima tappa, la seconda sarà in Occitania francese e poi seguiranno l’Italia centro-settentrionale, la Bosnia e Istanbul». La ricognizione filmica in Occitania rappresenta il cuore del documentario: «Qui la vittoria della Chiesa di Roma, delle armi dei crociati e dell’Inquisizione sui càtari, pose fine a un’idea di Dio che si voleva fedele alle origini, che predicava la pace, sosteneva l’eguaglianza sociale e – cosa inaudita a quei tempi – la parità uomo-donna». Fu lo sterminio di un mondo, aggiunge Valla, che ora promette di far entare gli spettatori «nella quotidianità dell’essere càtari e bogomili in quegli anni». All’eresia non aderirono solo i servi e i contadini che si opponevano all’alto clero, ma anche i feudatari e le classi mercantili e colte delle città.«Sono tante le famiglie di alto lignaggio che abbracciarono la novità della dottrina càtara: a Firenze – spiega l’autore di “Bogre” – erano càtari personaggi che tutti conosciamo, come Farinata degli Uberti, il poeta Guido Cavalcanti e, secondo studi recenti, lo stesso Dante Alighieri». Eppure, nonostante il suo evidente ruolo storico, il Catarismo spesso viene considerato un fenomeno marginale. Innumerevoli documenti e tradizioni svelano i rapporti dottrinali e umani che unirono i dualisti dell’Est Europa a quelli dell’Ovest: «L’episodio che rappresenta al meglio il mondo di “Bogre” è il concilio càtaro che si tenne nel 1167 a Saint-Felix de Caraman, presso Tolosa: un concilio a cui parteciparono rappresentanti delle varie comunità càtare occitane e italiane (le comunità di Tolosa, Carcassonne, Albi e Aran, più Marco di Lombardia per l’Italia) e che vide tra gli invitati il bogomilo Nicetas, che trasmise lo Spirito Santo attraverso l’unico sacramento riconosciuto dai càtari, il “consolamentum”». È innegabile che tra i due movimenti religiosi ci fosse non solo un’affinità, ma rapporti tutt’altro che sporadici. Entrambi condividevano una teologia drasticamente alternativa a quella cattolica: per càtari e bogomili, il mondo materiale era il frutto di una “creazione dannata”, operata dal Dio Straniero, alla quale il Padre Celeste (signore del cielo, ma non onnipotente) non aveva potuto opporsi.Può sembrare un espediente teologico: scagionare “Dio” dalla responsabilità del male presente nel mondo. Ma il sincretismo gnostico e proto-cristiano dei càtari ricorda da vicino la grande religione largamente diffusa nell’area mediorientale fino all’anno zero, quella dei Magi “venuti dall’Oriente” ad adorare il neonato di Betlemme. Era l’antica religione di Zoroastro, il mazdeismo, risalente al 1400 avanti Cristo, che aveva abolito i sacrifici animali (i càtari poi saranno addirittura vegetariani) e aveva aperto il sacerdozio alle donne (accanto ai Perfetti, il Catarismo ordinerà le Perfette). I Buoni Uomini, o Buoni Cristiani, erano casti e “francescani”, nonviolenti, contrari alla proprietà privata. La prima strage di massa, nel 1028, fu ordinata, suo malgrado, dal vescovo milanese Ariberto d’Intimiano, che interrogò i “bulgari” catturati a Monforte d’Alba, nelle Langhe: bruciateci pure, rispose il loro portavoce, così torneremo più velocemente al Padre Celeste. Il loro motto (“Noi non siamo del mondo, e il mondo non è nostro”) ricalca quello dei Sufi, con cui strinse un sodalizio Francesco d’Assisi. “Nel mondo, ma non del mondo; nulla possedendo, da nulla essendo posseduti”, è infatti il credo dei mistici islamici, da cui derivano i Dervisci Rotanti.In piena “new age”, avverte una studiosa rigorosa come Lidia Flöss, autrice di importanti ricerche sull’argomento, il Catarismo è stato anche strumentalizzato, in modo superficiale, in funzione anti-cattolica. Uno dei massimi storici europei del fenomeno, il francese René Weis, interpreta l’adesione a quell’eresia come il bisogno del credente medievale di tornare agli ideali evangelici, in un’epoca dominata dal potere ecclesiastico, spesso corrotto. Fu lo stesso Bernardo di Chiaravalle a condurre una storica missione in Occitania: lo stile di vita dei càtari è esemplare, riferì al Papa il futuro San Bernardo, auspicando che il clero cattolico abbandonasse lussi e privilegi. Il pontefice non era dello stesso avviso: Innocenzo III bandì addirittura una crociata, in terra europea, per stroncare un’eresia che – attraverso l’adesione della classe dirigente, l’aristocrazia e la nascente borghesia artigianale e mercantile – metteva in pericolo il potere del Papato. Fonti storiche citate da Weis parlano addirittura di mezzo milione di morti, fra Crociata Albigese e Inquisizione. La tragedia scoppiò nel 1209, quando la cittadina rivierasca di Béziers, in Linguadoca, si oppose al diktat dei crociati: volevano che Béziers consegnasse loro i 200 eretici riparati fra le mura. Di fronte al rifiuto dei consoli, l’abate Arnaud Amaury – capo spirituale della crociata – reagì nel modo più spietato: «Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi».La tradizione storiografica parla di migliaia di vittime. Lo choc per lo sterminio dell’intera popolazione di Béziers spinse il potente Re d’Aragona, Pietro II, a scendere in battaglia a fianco del conte di Tolosa, che difendeva – di fatto – la libertà di culto nelle terre occitane. Pietro II perse la vita nel 1213 combattendo cavallerescamente nella battaglia di Muret, ma la crociata devastò la regione fino al 1229. Si arrese Tolosa, ma non i suoi alleati: i cavalieri “faidits”, messi al bando, si rifugiarono nei castelli di montagna sui Pirenei, per proteggere gli eretici in fuga. Nel 1244, dopo nove mesi di assedio, cadde la fortezza di Montségur. L’ultima notte prima della resa, donne e soldati vollero ricevere il “consolamentum”, il battesimo càtaro, ben sapendo cosa li avrebbe attesi, l’indomani: furono 220 le persone arse vive nella spianata ai piedi del castrum, in quello che ancora oggi porta il nome di “Prat dels Cremats”. I càtari? Un fantasma scomodo: erano nullatenenti, vivevano di carità. Non veneravano nessun libro sacro: per loro, l’Antico Testamento (con la sua “terra promessa”) era opera del Dio Straniero. Non avevano neppure chiese, né templi: irriducibilmente anarchici, rifiutavano qualsiasi struttura organizzata. La comunità càtara, pur articolata in diocesi, non disponeva di beni materiali.Il Catarismo aborriva la dimensione materiale del vivere, ripudiando la materia come “prigione dello spirito”: riparlarne oggi forse non è casuale, nel momento in cui è la stessa fisica a diffidare della percezione spazio-temporale, mentre la comunità scientifica rivaluta l’esegesi non teologica dei cosiddetti testi sacri. Lo stesso Mauro Biglino, che traduce la Bibbia alla lettera «scoprendo che in quelle pagine non c’è nessun Dio», ricorda che il “format” cattolico (con i suoi dogmi) si affermò soltanto nel 325 dopo Cristo, per il volere politico dell’imperatore Costantino, «a spese di tutti gli altri Cristianesimi dell’epoca, che erano decine, a partire da quelli gnostici». In quella corrente si colloca certamente il Catarismo, che invoca la divinità “celeste” con queste parole: «Facci conoscere ciò che Tu conosci». Per i càtari, il vero Graal è, appunto, la conoscenza, al quale il credente può aspirare in modo autonomo, senza alcuna mediazione sacerdotale. Di fatto, il Catarismo nega alla religione il ruolo di struttura sociale al servizio del potere politico: i Buoni Cristiani proibivano di giurare, in un’epoca in cui proprio sul giuramento si fondava l’investitura feudale, e non riconoscevano alcuna legittimazione alle autorità terrene, né ai confini tra le nazioni.L’atteso lavoro cinematografico di Fredo Valla si basa su fonti storiche e dati d’archivio, nonché su consulenze autorevoli come quella di Maria Soresina e del Centro Ivan Dujčev di Sofia, una delle più importanti istituzioni accademiche bulgare, senza dimenticare il Cirdoc, la Mediateca Occitana di Béziers e l’Istituto Internazionale Lorenzo de’ Medici di Firenze. Il documentario sarà completato grazie al contributo fondamentale del crowdfunding: anche una piccola donazione può essere importante, per una produzione che accanto a Valla (autore e regista) vede impegnati Andrea Fantino ed Elia Lombardo (fotografia, suono, montaggio) con Ines Cavalcanti della Chambra d’Oc (produzione). «Abbiamo deciso di lanciare questa campagna di crowdfunding per condividere il nostro lavoro di ricerca e continuarlo in Occitania, dove nasce la parola “bogre”, e dove in fondo nasce il nostro film documentario». Proprio l’attuale Midi francese sarà la tappa più importante del viaggio. «Abbiamo intenzione di mantenere un metodo di lavoro attento alla storiografia e ai documenti più attendibili», assicura il regista. «Vogliamo che la storia di “Bogre” contribuisca alla storia dei “bogre”, di chi quel nome se l’è trovato appiccicato come un insulto dal momento in cui ha scelto una fede diversa da quella dominante». Una storia di idee che camminano, e che lottano per non essere dimenticate.«Lo sterminio dei càtari? Non ci risulta». E’ una coltre di piombo quella che continua a velare la verità storica sulla devastante persecuzione che annientò la più importante eresia del medioevo europeo. Una strage di massa oscurata dall’oblio e dal negazionismo, al più minimizzata dal riduzionismo della pubblicistica cattolica, in interventi come quelli di Vittorio Messori e di altre personalità contigue al Vaticano. Estrarre memoria da quella remota vicenda resta un’impresa titanica: ed è la missione di Fredo Valla, regista di cultura occitana, impegnato nella produzione del documentario “Bogre”. Un viaggio sulle tracce dell’eresia dualistica che attorno all’anno Mille si affacciò a Bisanzio per poi propagarsi in Macedonia e Bulgaria, fino ad attestarsi in Bosnia Erzegovina per poi migrare in Lombardia, in Nord Europa e infine nella regione mediterranea e pirenaica oggi francese, l’Occitania: un sub-continente esteso dalle Alpi all’Atlantico, allora cementato dalla lingua d’Oc. Il termine “bogre”, spiega Valla, non indica semplicemente un abitante della Bulgaria: così era in antico, ma poi in occitano ha assunto il significato di persona infida, che maschera la verità. «Attorno al XII secolo, “bogre” divenne un insulto diretto ai càtari d’Occitania, colpevoli di una religione non ortodossa, simile per dottrina a un altro grande movimento eretico europeo, quello dei bogomili bulgari».
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Patrimonio dell’umanità le Langhe di Pavese e Fenoglio
Della Langa mi porto dentro un’immagine insieme triste e splendente. Era il giorno del funerale di Bartolo Mascarello, l’indimenticabile artista della produzione vinicola. Avevamo appena scollinato a La Morra per scendere verso Barolo quando ci si aprì davanti, improvviso come un’imboscata, lo spettacolo grandioso delle colline illuminate dal sole a picco, mosaico di colori e di geometrie perfette, con i filari delle vigne a disegnare con le loro linee parallele trine fitte e regolari come la costruzione di un geniale architetto. Ci fermammo incantati, per quella natura umanizzata dal lavoro dell’uomo. O per quel lavoro fattosi, nel tempo, natura, memoria accumulata da generazioni. Cultura scolpita nella terra. Lì, davvero, diventa impossibile separare la materialità del suolo dalla vita che lo ha abitato per secoli. E mi venne in mente una frase di mio padre, scritta nell’introduzione del “Mondo dei vinti”, sull’importanza di «imparare a leggere il paesaggio delle Langhe conoscendo la gente». Perché «senza la gente le Langhe diventano un palcoscenico meraviglioso, ma spento».Senza la gente vuol dire senza il loro racconto. La loro memoria, che non parla di un mondo arcadico, ma di vite agre, di una storia aspra come la terra dura della vigna, di solitudini e silenzi, da sfidare cavando di bocca le parole con le pinze, come sapeva bene Cesare Pavese, che in una delle sue prime poesie, in “Lavorare stanca”, scrisse che “qualche nostro antenato dev’essere stato ben solo – un grand’uomo tra idioti o un povero folle – per insegnare ai suoi tanto silenzio”. Pavese, che conosceva bene il calore umido che sale dal tufo sotto la vite, e quale odore abbia quel caldo («ci sono dentro tante vendemmie e fienagioni e sfogliature, tanti sapori e tante voglie»). E sapeva quanto di natura e di fatica ci sia dietro una vigna: «Non c’è niente di più bello di una vigna ben zappata, ben legata, con le foglie giuste e quell’odore della terra cotta dal sole d’agosto. Una vigna ben lavorata è come un fisico sano, un corpo che vive, che ha il respiro e il suo sudore».Come lo sapeva Beppe Fenoglio, quello della “Malora”, ma soprattutto quello del “Partigiano Johnny”, dove la natura si fonde inestricabilmente alla vita, e l’epopea partigiana si intreccia di fatica, e sudore – esattamente come il lavoro – e di paura e ferocia e, ancora, silenzio, nel paesaggio ora aspro, ora cupo, ora ridente, quasi sempre freddo, che accompagna come un involucro mimetico le vicende del protagonista. È impossibile pensare le Langhe – e il Roero, e il Monferrato: quello che oggi va sotto il nome un po’ commerciale di “distretto enogastronomico” – senza l’immaginario elaborato dalla loro letteratura, da Pavese, e Fenoglio, e Lajolo, e Arpino, che li hanno resi, appunto, patrimonio dell’umanità nel senso più proprio: di “linguaggio universale”. Paesaggio parlante e comunicante.Non stupisce che di qui sia incominciata l’avventura di Carlin Petrini e della sua banda, con la rievocazione di “Cantè j’euv”, sagra tradizionale sopravvissuta sotto la superficie della modernizzazione, giunta fino al trionfo di Slow Food e di Terra Madre. E non stupisce che qui trovi la propria sede naturale la cultura del vino come prodotto vivente. Non dimentichiamo le battaglie di Bartolo Mascarello contro la pratica del “barrique”, considerata una forma di sconsacrazione, e contro il dilagare dei capannoni ai piedi delle colline. Non dimentichiamolo nel momento in cui a quella terra viene attribuito l’ambìto riconoscimento. Certo la tentazione di considerarlo un brand utile per operazioni di marketing territoriale è forte, e lascia immaginare flussi impetuosi di turisti. Ma è bene ricordare che la dizione letterale dell’Unesco è “bene protetto”, non “esposto”. E che quel riconoscimento implica una responsabilità alla tutela, più che un incentivo al consumo dei luoghi.(Marco Revelli, “L’epopea delle vigne patrimonio dell’umanità”, da “La Repubblica” del 23 giugno 2014, all’indomani del riconoscimento Unesco conferito a Langhe e Monferrato).Della Langa mi porto dentro un’immagine insieme triste e splendente. Era il giorno del funerale di Bartolo Mascarello, l’indimenticabile artista della produzione vinicola. Avevamo appena scollinato a La Morra per scendere verso Barolo quando ci si aprì davanti, improvviso come un’imboscata, lo spettacolo grandioso delle colline illuminate dal sole a picco, mosaico di colori e di geometrie perfette, con i filari delle vigne a disegnare con le loro linee parallele trine fitte e regolari come la costruzione di un geniale architetto. Ci fermammo incantati, per quella natura umanizzata dal lavoro dell’uomo. O per quel lavoro fattosi, nel tempo, natura, memoria accumulata da generazioni. Cultura scolpita nella terra. Lì, davvero, diventa impossibile separare la materialità del suolo dalla vita che lo ha abitato per secoli. E mi venne in mente una frase di mio padre, scritta nell’introduzione del “Mondo dei vinti”, sull’importanza di «imparare a leggere il paesaggio delle Langhe conoscendo la gente». Perché «senza la gente le Langhe diventano un palcoscenico meraviglioso, ma spento».
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Seminare avvenire: orticoltori di tutta Europa unitevi
E’ nata, ufficialmente, la Libera Repubblica degli Orti. Si estende dal Piemonte alla Provenza, lungo la frontiera tra Italia e Francia, dalle Alpi fino al Mediterraneo. E’ popolata di melanzane, peperoni, cavolfiori, fagioli, meloni. Non sono prodotti qualsiasi: sono antiche varietà locali, messe in salvo dai loro agricoltori-custodi. Obiettivo: preservare la biodiversità che arricchisce i territori e i consumatori. «Si tratta di specie autoctone, di grande qualità, selezionate nel corso dei decenni e ben adattatesi al clima delle loro zone», dicono Vianney Le Pichon e Massimo Pinna, sviluppatori del progetto europeo “Una rete per le biodiversità transfrontaliere”. Il network ha aggregato decine di coltivatori-pionieri e li ha messi in contatto: oggi i loro saperi sono condivisi, e i semi dei rispettivi ortaggi – italiani e francesi – fanno parte di una sorta di “banca” e sono a disposizione di chiunque voglia impegnarsi a propagarli, seminandoli nel proprio orto, in barba ai diktat sempre più invadenti che favoriscono la grande distribuzione a vantaggio delle varietà industriali, che puntano tutto sulla resa a scapito della qualità.Piccolo è bello: mai stato più vero. «Da parte nostra – dice Marie Beysson, giovane coltivatrice di peperoni nella zona del Vaucluse – si tratta di offrire ai consumatori un’alternativa valida, permettendo loro di assaggiare sapori diversi». Fa eco il conterraneo Thierry Varis: «Rinunciare agli ibridi e puntare sui semi autoprodotti significa scommettere sul valore del gusto e della genuinità». Filiere corte, chilometri zero, economia locale dei territori. Volendo, sovranità alimentare. E riconversione ecologica del sistema produttivo. Decrescita virtuosa: se ad essere tagliati sono gli sprechi (trasporti, carburante, energia) ci guadagnano tutti. Il video “Seminare futuro”, che documenta il ciclo vitale del progetto, offre un piccolo affresco di umanità resistente, pienamente consapevole del difficile momento mondiale. «Noi teniamo duro – taglia corto Alberto Lombardo, dalla valle di Susa – perché la salvaguardia del territorio non ha prezzo, e la piccola agricoltura locale resta un baluardo».La pensa così anche Eraldo Dionese, agricoltore-poeta delle Langhe, con all’attivo libri di versi pubblicati da Vallecchi. Eraldo è un “mago” dei fagioli: i suoi “scozzesi” vanno a ruba, contesi dai gruppi d’acquisto solidale. Dice: «Il mercato ci ha abituati a “comprare con gli occhi”, trascurando gli ortaggi più rari e più validi: bisogna impegnarsi a farli sopravvivere, bisogna crederci». Il progetto – presentato nel sito ufficiale – è anche una piccola narrazione di ritrovamenti fortunati. «Lavorando negli impianti vinicoli di Gigondas, a nord di Avignone – racconta Françoise Genies – un giorno mio marito si è imbattuto in un pomodoro particolarissimo, assolutamente delizioso e sconosciuto: l’ho recuperato, e ora è diffuso in diverse zone del Vaucluse, per la felicità dei consumatori». Il paniere della “rete transfrontaliera” trabocca di delizie poco note: la cipolla piatta di Leinì, il prelibato ravanello di Moncalieri, il pisello “quarantin” di Casalborgone, l’insalatina invernale di Castagneto Po che cresce anche sotto la neve.Sul versante francese si segnalano varietà rare come la lattuga sanguigna, coltivata dai suoi agricoltori-custodi sulle colline di Saignon in una sorta di campo sperimentale per le biodiversità orticole, coordinato da Jean-Luc Danneyrolles e Hervé Coullet. Ci sono melanzane locali, pomodori-cachi, peperoncini della Costa Azzurra e peperoni come quello di Lagnes, recuperati grazie alle risorse genetiche di un istituto come l’Inra e ora al centro di un vasto programma di reintroduzione, per dare vita a una filiera locale in grado di realizzare sul posto anche la trasformazione del prodotto. Piccoli passi, ma significativi, partendo dalle verdure di stagione, che grazie all’impegno degli agricoltori-custodi stanno tornando stabilmente sui mercati locali. «E sono tutti prodotti rustici, robusti», assicura Vianney Le Pichon. Ortaggi conservati per generazioni dalla sapienza contadina, oggi trasferita a quelli che vengono chiamati “seed savers”.Orticoltori di tutta Europa unitevi. Il momento è propizio: sotto i colpi della crisi economica, cresce ovunque il ritorno alla passione per l’orto, come dimostra anche il proliferare degli orti urbani nelle grandi città. Il progetto transfrontaliero, fondato sull’incontro sistematico tra italiani e francesi, lascia intravedere un germe di futuro, un possibile modello socio-economico alternativo e pieno di vantaggi: «C’è più autonomia per gli agricoltori, che scelgono di coltivare i prodotti che preferiscono», dice Massimo Pinna, «e al tempo stesso più scelta per i consumatori, a cui si offrono varietà locali e genuine». Un modello da replicare: condividendo i suoi saperi sulla coltivazione del proprio prodotto, ogni singolo agricoltore più aiutarlo a sopravvivere e diffondersi, scongiurando l’estinzione. «Il nostro nemico infatti è l’erosione genetica, che impoverisce il patrimonio della biodiversità europea», dice Antonio Balbo, di Leinì. «Coltivare ortaggi locali – insiste Alberto Lombardo – significa anche fare cultura, perché dietro di essi c’è sempre l’umanità».C’è da augurarsi che la “rete delle biodiversità” valichi altri confini europei, sviluppando un’alleanza ecologica e sostenibile fra territori, contadini, consumatori. Del resto, le vie dei semi sono infinite: «Ho recuperato un fagiolo in via di estinzione, il “crochet di Nizza”, grazie a un’appassionata italiana che ho incontrato casualmente a una fiera», racconta Arnaud Dauvillier, agricoltore a Sisteron nella valle della Durance. «Io invece ho già provato a piantare nel mio terreno, con ottimi risulati, i semi che ho ricevuto dai colleghi italiani: sono prodotti come il cavolfiore di Moncalieri e il peperone di montagna», racconta Sylvain Martin, che riesce a coltivare ottimi ortaggi in alta montagna, nel parco nazionale francese degli Écrins. Loris Leali, originario del lago di Garda, si è trasferito in Provenza e ha impiantato un’azienda biologica sulle alture che sovrastano Nizza, a Massoins, nella valle del Var: «Spero che domani i semi recuperati da questo progetto possano diventare patrimonio comune», dice. «Abbiamo bisogno di conoscerci, di essere uniti e solidali, di scambiarci saperi». Anche questa è Europa, sebbene non parli la lingua fredda di Bruxelles.E’ nata, ufficialmente, la Libera Repubblica degli Orti. Si estende dal Piemonte alla Provenza, lungo la frontiera tra Italia e Francia, dalle Alpi fino al Mediterraneo. E’ popolata di melanzane, peperoni, cavolfiori, fagioli, meloni. Non sono prodotti qualsiasi: sono antiche varietà locali, messe in salvo dai loro agricoltori-custodi. Obiettivo: preservare la biodiversità che arricchisce i territori e i consumatori. «Si tratta di specie autoctone, di grande qualità, selezionate nel corso dei decenni e ben adattatesi al clima delle loro zone», dicono Vianney Le Pichon e Massimo Pinna, sviluppatori del progetto europeo “Una rete per le biodiversità transfrontaliere”. Il network ha aggregato decine di coltivatori-pionieri e li ha messi in contatto: oggi i loro saperi sono condivisi, e i semi dei rispettivi ortaggi – italiani e francesi – fanno parte di una sorta di “banca” e sono a disposizione di chiunque voglia impegnarsi a propagarli, seminandoli nel proprio orto, in barba ai diktat sempre più invadenti che favoriscono la grande distribuzione a vantaggio delle varietà industriali, che puntano tutto sulla resa a scapito della qualità.
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Tino Aime: la solitudine della bellezza che ci hanno rubato
“Considerate se questo è un uomo”, scrisse Primo Levi introducendo il suo diario tristemente universale, battuto a macchina al ritorno da Auschwitz nelle notti insonni trascorse nell’ufficio del suo primo impiego, in valle di Susa. La stessa valle alpina che mezzo secolo dopo sarebbe divenuta famosa per la battaglia popolare No Tav è anche l’osservatorio privilegiato di un grande artista, Tino Aime, amato da scrittori vicinissimi a Primo Levi, come Nuto Revelli e Mario Rigoni Stern. Un singolare sodalizio lo ha legato ad autori popolari, da Mario Soldati a Nico Orengo, fino a indagatori più appartati come Francesco Biamonti, Davide Lajolo, Massimo Mila, affascinati dal talento visionario di un artista antropologo, perdutamente innamorato delle invisibili periferie del mondo.
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Addio Giorgio Bocca, l’ultimo partigiano della verità
«Io sono l’ultimo», grida il ribelle di Auschwitz. Ha già al collo la corda del boia nazista, e le sue parole dilagano nel deserto raggelato del terrore sulla Appelplatz, davanti ai prigionieri schierati per lo spettacolo, con la testa china e piena di vergogna per il coraggio solitario e irraggiungibile di quell’oscuro individuo senza nome che aveva osato sfidare la legge infernale del lager. E’ una delle pagine memorabili del diario universale di Primo Levi dal campo di sterminio. “Sì, questo era un uomo”, scrisse Giorgio Bocca in un altrettanto memorabile articolo di fondo, su “Repubblica”, per prendere commiato dal grande scrittore torinese: stesso nitore spietato, stessa fermezza. Una lucidità titanica, più forte dell’emozione, coltivata giorno per giorno da una sorta di religione laica, in nome di un umanesimo irriducibile.
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Asti, sì alla crescita zero: stop al consumo del territorio
L’Italia è ricca di storia, arte e paesaggio, ma ha una malattia grave, il consumo di territorio: un cancro che avanza ogni giorno, al ritmo di quasi 250 mila ettari all’anno.