Archivio del Tag ‘liberismo’
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Deve andare tutto male: solo così, poi, si può rinascere
V’è una precisa circolarità nelle nostre vite e nella Storia, tanto crudele quanto romantica, e che fa sì che tutto torni sempre là dove fu il principio, anelli concentrici generati nell’etere della coscienza e cristallizzati come neve nella geografia storica dell’esistenza. L’ultimo re di Roma, passato alla Storia come l’Augustolo, portava lo stesso nome del primo leggendario sovrano – Romolo – e quel che restava dell’epiteto del suo primo Imperatore, Augusto. Per una nuova sincronicità storica Roma, nata secondo la leggenda dalle ceneri di Troia dalla progenie di Enea, figlio del Re Priamo, vide crollare il suo ultimo baluardo imperiale proprio lì, in terra turca, sull’altra sponda della Troade. In egual modo oggi, assistiamo impotenti alla deposizione dell’evangelo cristiano, nato all’ombra di un censimento globale più di duemila anni fa attraverso un puer (fanciullo) che sfuggì alla strage degli innocenti perpetrata da Erode, e che oggi si rinnova nella tenebra di un censimento totalitario mentre quel santo Natale viene prima negato e poi sorvegliato da un avido rapace.Dall’alto sorveglia in vigile attesa, pronto per cibarsi della carcassa di uomini ormai consunti dalla paura e di piccole anime innocenti, offerte in sacrificio da quelle stesse famiglie che un tempo erano timorate di Dio e che ora adorano genuflesse la Bestia. È un vento gelido di morte quello che è ritornato ad urlare cori di odio e discriminazione alle porte del nostro cuore, mentre ancora una volta, come fu per i nostri nonni, abbiamo assistito all’alternanza tra lo pseudo-Avvocato del Popolo e la parabola di un prorompente Leader populista e popolare, Duce o Capitano che sia, plagiato da un mal travestito cancelliere del Reich, e che come fu per il suo predecessore, con la benedizione del Santissimo Padre e del senescente Pater Patriae, ha apposto il suo sigillo alle leggi razziali ma di questo secolo. L’aquila della gloria di Roma è stata così’ soppiantata da un Drago e la colomba della pax cristiana è stata scalzata da un Condor.È dunque giunta ancora una volta la fine di Roma, anche oggi come fu al principio, divisa da una sterile guerra fratricida. È la fine della Chiesa, divisa oggi come fu all’epoca da un iniquo consiglio che ha epurato il giusto per eleggere Barabba. È la fine del vangelo marxista e liberista, utopie avviate dal popolo e portate poi a compimento dagli Avvocati del Diavolo. È la fine dell’Occidente, travolto dalle ombre di un crepuscolo che al cospetto della luce di pochi, rivela tutti i suoi più terribili ma asintomatici demoni. Non è quindi andato tutto bene ma al contrario sta per ultimarsi la più grande tragedia della Storia dell’Uomo. Forse è vero che perché possa andare tutto bene e giungere un nuovo luminoso inizio, deve prima andare tutto male.(Davide Ramunno, “Non praevalebunt”, dal blog “Facciamo Finta Che”, 23 dicembre 2021; blog generato dall’omonimo canale YouTube, di Gianluca Lamberti).V’è una precisa circolarità nelle nostre vite e nella Storia, tanto crudele quanto romantica, e che fa sì che tutto torni sempre là dove fu il principio, anelli concentrici generati nell’etere della coscienza e cristallizzati come neve nella geografia storica dell’esistenza. L’ultimo re di Roma, passato alla Storia come l’Augustolo, portava lo stesso nome del primo leggendario sovrano – Romolo – e quel che restava dell’epiteto del suo primo Imperatore, Augusto. Per una nuova sincronicità storica Roma, nata secondo la leggenda dalle ceneri di Troia dalla progenie di Enea, figlio del Re Priamo, vide crollare il suo ultimo baluardo imperiale proprio lì, in terra turca, sull’altra sponda della Troade. In egual modo oggi, assistiamo impotenti alla deposizione dell’evangelo cristiano, nato all’ombra di un censimento globale più di duemila anni fa attraverso un puer (fanciullo) che sfuggì alla strage degli innocenti perpetrata da Erode, e che oggi si rinnova nella tenebra di un censimento totalitario mentre quel santo Natale viene prima negato e poi sorvegliato da un avido rapace.
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Rumor: restiamo uomini, non subiamo questa dittatura
Negli ultimi decenni, l’Europa è stata effettivamente unita, anche se non sul piano politico. Cos’è avvenuto, dagli anni ‘70 in poi? Il piano europeista iniziale, sia quello dei fondatori nascosti (occulti), sia quello dei realizzatori ufficiali, è stato considerevolmente modificato. Lo stesso politologo Giorgio Galli, che ha scritto insieme a me e a Loris Bagnara il libro “L’altra Europa”, ha offerto una serie di opinioni per interpretare le variazioni di percorso, svolte da quella “struttura interna” dell’Unione, negli ultimi tratti del secolo scorso e nei primi di quello attuale. Io stesso non ho mai smesso di pormi domande, ben sapendo che ci troviamo a che fare con qualcosa di molto elusivo, e a mio parere anche pericoloso, per la civiltà odierna. Sintetizzo: il piano politico di riorganizzazione dell’Occidente, che è la parte centrale della Struttura descritta da Maurice Schumann, sembra aver subito uno spostamento. Vi sono molti motivi per ritenere che quel piano sia stato revisionato, dopo che ha prevalso, nella Struttura, quel cosiddetto Contingente Americano. Il riferimento non è alla nazione statunitense, ma ai fautori dei liberismo.Il liberismo proviene da una certa mentalità anglosassone: è piuttosto aggressivo, pervasivo. Questo ha ampliato e anche trasformato il progetto originario, realizzandone uno più vasto, che chiamerei “l’occidentalizzazione del mondo”. Un obiettivo raggiunto utilizzando il fattore dell’accentramento economico. Il progetto unionista autentico, che mirava solo all’area del Mediterraneo e voleva riprodurre una situazione arcaica, ha fatto un salto di livello: ha abbandonato l’Unione a se stessa. Attualmente non si rivolge più alle nazioni o alla politica: le scavalca, facendo leva espressamente sugli organismi finanziari globali. Il traguardo finale sembra essere una sorta di dittatura planetaria, condotta anche mediante computer “intelligenti”. In questa visione, gli Stati perdono influenza, e ne acquistano invece i super-Stati trasversali, ossia le alleanze capitalistiche mondiali. E’ quel processo che è stato chiamato Quarta Rivoluzione Industriale: consiste nel ridimensionamento della vita politica e sociale, nella centralizzazione del controllo del potere, nello svuotamento della mediazione politica e dei partiti.Il considetto Contingente Americano, nella Struttura segreta di cui Maurice Schumann parlò a mio padre (un network che deterrebbe il potere in modo ininterrotto, da qualcosa come 12.500 anni), ha realizzato l’occidentalizzazione del mondo, ha utilizzato l’accentramento economico. L’ultimo obiettivo sarà realizzare un nuovo modello tecnologico centralizzato. Questa rivoluzione è realmente in corso, da decenni. Di fatto, la personalità di noi uomini è stata ampiamente limitata, negli ultimi decenni: dalla robotica e dall’accettazione passiva che ha livellato sia la conoscenza, sia l’espressione in termini umani. La globalizzazione economica sta ridisegnando il pianeta, e sta prendendo le redini della civiltà. E’ da temere una profonda disumanizzazione, contraria all’etica sociale per com’era uscita dalle Costituzioni moderne, che avevano come scopo l’umanesimo. Questa globalizzazione potrebbe consegnarci una società disgregata e una mera parvenza di democrazia, al servizio del grande capitale che governa il mondo, e non certo dell’uomo comune, dell’espressione umana.Questo è veramente il più grave pericolo che l’umanità abbia incontrato. Ed è ancora più subdolo, perché si presenta con la parvenza del benessere e della sicurezza. E’ un momento di passaggio, in cui le persone dovrebbero stare attente. Sta succedendo qualcosa, dietro le nostre spalle, che non ci piacerà, domani. A me non piace neanche adesso. L’unica cosa che abbiamo è la mente, la nostra intelligenza: non buttiamola via. Ragioniamo con la nostra mente, e seguiamo l’istinto profondo che la natura ci ha dato: quello di capire ciò che accade, e interrogarci. Noi siamo uomini perché ci interroghiamo, perché siamo curiosi di capire. Se la massa perde questa facoltà, per correre dietro allo stipendio, siamo veramente finiti. Se invece rimaniamo attivi, con la nostra intelligenza, non potremo rimproverarci, domani, di essere stati lì a subire passivamente. Siamo uomini proprio perché non subiamo.(Paolo Rumor, dichiarazioni rilasciate il 16 luglio 2021 nella trasmissione “L’altra Europa: organizzazioni segrete antiche”, con Loris Bagnara, sul canale YouTube “Facciamo Finta Che”, di Gianluca Lamberti).Negli ultimi decenni, l’Europa è stata effettivamente unita, anche se non sul piano politico. Cos’è avvenuto, dagli anni ‘70 in poi? Il piano europeista iniziale, sia quello dei fondatori nascosti (occulti), sia quello dei realizzatori ufficiali, è stato considerevolmente modificato. Lo stesso politologo Giorgio Galli, che ha scritto insieme a me e a Loris Bagnara il libro “L’altra Europa”, ha offerto una serie di opinioni per interpretare le variazioni di percorso, svolte da quella “struttura interna” dell’Unione, negli ultimi tratti del secolo scorso e nei primi di quello attuale. Io stesso non ho mai smesso di pormi domande, ben sapendo che ci troviamo a che fare con qualcosa di molto elusivo, e a mio parere anche pericoloso, per la civiltà odierna. Sintetizzo: il piano politico di riorganizzazione dell’Occidente, che è la parte centrale della Struttura descritta da Maurice Schumann, sembra aver subito uno spostamento. Vi sono molti motivi per ritenere che quel piano sia stato revisionato, dopo che ha prevalso, nella Struttura, quel cosiddetto Contingente Americano. Il riferimento non è alla nazione statunitense, ma ai fautori dei liberismo.
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Reset: il dirigismo della paura, al passo col potere cinese
«Negli Usa sembra che qualcuno stia pensando di contrapporsi al vincente dirigismo totalitario cinese, inventandosi una forma di dirigismo totalitario occidentale, con la scusa del Covid e l’opportunità di attuare un altro nuovo Great Reset». Lo afferma Ettore Gotti Tedeschi, banchiere e accademico italiano, dal 2009 al 2012 presidente dello Ior, l’istituto finanziario vaticano. Il Nuovo Great Reset, scrive Gotti Tedeschi in una lettera aperta a “La Verità”, ripresa da “Rinascimento Italiano”, sembra proporsi obiettivi altamente umanitari, giusti, buoni e salvifici: «Esattamente come se li proponeva 50 anni fa l’Old Great Reset, cioè il Nuovo Ordine Mondiale di Kissinger, un po’ utopistico e un po’ contrario a leggi naturali, e pertanto fallito». E nonostante il suo fallimento, «invece di pensare a perché è successo», viene oggi proposta «una versione aggiornata, ma pressoché identica, di nuovo-nuovo ordine mondiale». Quest’ultimo progetto di Reset «si propone di ripensare la finanza, privilegiando la società (cioè gli “stakeholders”) verso i capitalisti azionisti (gli “shareholders”), imponendo un nuovo modello economico sostenibile ambientalisticamente».Niente di nuovo sotto il sole, se non i metodi: come già il New World Order disegnato mezzo secolo fa, scrive l’ex banchiere di Ratzinger, il Nuovo Reset è agevolato dal digitale, dal 5G e dall’intelligenza artificiale, ma stavolta si impone «anche con la “minaccia” di nuove pandemie, se non si realizzasse tutto ciò in una forma di cooperazione globale». Secondo Gotti Tedeschi, ci si dimentica che «ciò che è successo fino ad oggi è proprio dovuto agli errori del primo Reset, cioè al fallimentare Old Great Reset di 50 anni fa». E’ questo, infatti, che ha provocato «una innaturale e insostenibile crescita economica», fatta di «iper-consumismo e delocalizzazone delle produzioni in Cina», che poi hanno fatto esplodere il problema ambientale, insieme al maxi-debito e a infinite bolle finanziarie. «La delocalizzazione ha anche però creato il gigantesco potere cinese, che spaventa: per fronteggiarlo ora si pensa al Reset n° 2, che lascia intendere una proposta di un totalitarismo occidentale al posto della vecchia democrazia, inefficace e perdente».Il primo sospetto evocato da Gotti Tedeschi si riferisce al sogno del capitalista “nudo”, cioè alla volontà di “statalizzarsi” per controllare il mercato: «Ciò diventa possibile grazie al Covid che, creando una serie di paure (di morire, di impoverirsi) giustifica e fa accettare ogni soluzione ed accelera le implementazioni». Il secondo sospetto è che, con questo nuovo Reset, si stia concependo «un nuovo sistema capitalistico occidentale», messo a punto «per contrastare quello orientale». Come? «Trasformando il capitalismo liberista occidentale (perdente) in capitalismo dirigista socialista, in grado di contrapporsi a quello cinese totalitario (e vincente)». Infatti, aggiunge l’ex banchiere vaticano, il modello capitalistico autoritario cinese «ha dimostrato di esser vincente verso quello democratico, in un momento come quello attuale, di crisi economico-finanziaria, sociale, sanitaria, politica». Vincente, il modello cinese, proprio perché autoritario. La gestione della crisi pandemica sembra volerci convincere di questo: che l’autoritarismo pragmatico «funzioni meglio» delle nostre democrazie, “mature” e un po’ stanche.Cosicché, chi ha immaginato questo Nuovo Reset, «con la scusa di volere realizzare una solidarietà distributiva, altruistica, concepita dai nuovi benefattori dell’umanità», in realtà «sta probabilmente concependo, con una astuta manovra, la strategia di adattamento del capitalismo al modello competitivo necessario in questi tempi». Certo, aggiunge il professore, per convincere tutti «aveva bisogno di un “rating etico”, di una legittimazione morale da parte della massima autorità morale al mondo», che Gotti Tedeschi individua nel Vaticano: chiaro riferimento al via libera che Bergoglio ha dato all’operazione. Un piano che «con il Covid è più facilmente imponibile, senza discussioni e senza più eccessive riserve morali». Sicché, tra Occidente e Oriente «potrebbe ora iniziare una nuova “guerra fredda”», ben diversa però da quella – storica – che nel dopoguerra oppose «il dirigismo economico pianificato sovietico (che perdette)», alla libertà di mercato americano (che vinse). «Oggi il confronto potrebbe essere tra un dirigismo economico totalitario cinese, già sperimentato, con un neo-modello sperimentale, dirigistico economico-sanitario american-europeo». Fondato su tutto – sistemi e modelli, struttura e tecnologie – tranne che «sull’uomo che dovrebbe usarli».«Negli Usa sembra che qualcuno stia pensando di contrapporsi al vincente dirigismo totalitario cinese, inventandosi una forma di dirigismo totalitario occidentale, con la scusa del Covid e l’opportunità di attuare un altro nuovo Great Reset». Lo afferma Ettore Gotti Tedeschi, banchiere e accademico italiano, dal 2009 al 2012 presidente dello Ior, l’istituto finanziario vaticano. Il Nuovo Great Reset, scrive Gotti Tedeschi in una lettera aperta a “La Verità”, ripresa da “Rinascimento Europeo“, sembra proporsi obiettivi altamente umanitari, giusti, buoni e salvifici: «Esattamente come se li proponeva 50 anni fa l’Old Great Reset, cioè il Nuovo Ordine Mondiale di Kissinger, un po’ utopistico e un po’ contrario a leggi naturali, e pertanto fallito». E nonostante il suo fallimento, «invece di pensare a perché è successo», viene oggi proposta «una versione aggiornata, ma pressoché identica, di nuovo-nuovo ordine mondiale». Quest’ultimo progetto di Reset «si propone di ripensare la finanza, privilegiando la società (cioè gli “stakeholders”) verso i capitalisti azionisti (gli “shareholders”), imponendo un nuovo modello economico sostenibile ambientalisticamente».
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Pura magia: la scienza diventa religione, negando la verità
Il metodo socratico rappresenta un elemento portante nello sviluppo epistemologico, cui si ispireranno sia l’età dell’Umanesimo che quella dell’Illuminismo, dove l’interesse per la scienza troverà massima espressione, elevandosi a ideale contro l’oscurantismo, l’intolleranza e ogni forma di assolutismo. L’approccio odierno alla scienza la allontana notevolmente dal suo fine massimo di raggiungimento del sapere quale emancipazione dell’essere umano, attraverso il percorso arduo e incessante della ricerca della conoscenza. Al contrario, lo scientismo attuale costringe l’individuo dentro una gabbia ristretta di norme e dogmi che appaiono imperscrutabili al comune intelletto, divenendo roccaforte di un gruppo di eletti, forti del prestigio conferito loro dall’appartenenza a enti rappresentativi del sapere in quello specifico settore. Rinnegando la strada percorsa dai grandi scienziati del passato che pagarono con la propria vita l’aver messo in dubbio le credenze contemporanee, gli attuali preferiscono muoversi nel solco del conformismo e dell’omologazione. Non c’è spazio per il dubbio, elemento fondamentale della ricerca della sapienza, ma solo per l’assertività, la dogmaticità inconfutabile e autoreferenziale delle proprie affermazioni. Uno scientismo imperante e anti-dialogico sta contaminando tutti gli ambiti della conoscenza, con una smania positivista che ha pervaso persino le scienze umane.
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De Bortoli: gli invidiosi incapaci ora attaccano la Lombardia
Ancora oggi mi sento un po’ appestato. Non esco da Milano. Rimango a casa il più possibile. Ascolto racconti di amici che sono andati fuori dalla Lombardia e sono stati accolti da battutine, insinuazioni, cattiverie. Alcuni hanno dovuto subire anche un cartellone che diceva: “Torna a casa tua”. Sono cose che mettono a disagio e feriscono le persone. Uno spirito anti-lombardo è emerso nel paese. Come se vedere colpita questa Regione, sempre definita un modello, anziché suscitare vicinanza, desse un piacere che i tedeschi definiscono con una parola precisa: “schadenfreude”, gioia per le disgrazie altrui. Non è più inaccettabile. Bisogna reagire. Dire basta. Credo che si tratti di un pregiudizio radicato, che ha moventi sociali, politici, economici. Come spesso accade con i pregiudizi, essi sono degli strumenti straordinari per costruire alibi. Ti consentono di non guardare dentro casa tua. Ti levano la fatica di misurare i risultati che hai raggiunto, confrontandoli con quelli altrui. La Lombardia e Milano rappresentano l’Italia che ce la fa nel mondo. Il paese che riesce a competere nella globalizzazione. Puntare il dito contro di esse, alleggerisce la coscienza di chi non è riuscito a fare altrettanto. Gli consente di non guardarsi allo specchio, scaricando tutta la responsabilità altrove.Anche la Lombardia ha commesso degli errori. Soprattutto, di comunicazione. La giunta farebbe bene a riconoscerli e spiegare perché li ha commessi. Io però – da lombardo – mi faccio anche un’altra domanda. Mi chiedo: perché siamo diventati antipatici? Credo che, a volte, siamo stati troppo orgogliosi dei nostri primati, esaltando le nostre virtù fino a sfiorare l’arroganza. Forse, abbiamo avuto anche un atteggiamento semi-colonialista, proiettando un’immagine di noi stessi che chiedeva un adeguamento ai nostri numeri. Senz’altro, abbiamo sbagliato qualcosa anche noi. Però la Lombardia è stata investita dal contagio con una violenza inusitata. Si è trovata di fronte un nemico che nessuno conosceva e, all’inizio, tutti abbiamo sottovalutato, incluso io. La giustizia deve andare sino in fondo, perché i familiari delle vittime e il paese devono conoscere la verità. Non si può però accettare la criminalizzazione preventiva che è stata fatta. Stiamo parlando di una terra che è stata martoriata, con decine di migliaia di morti. Dobbiamo avere rispetto. Un conto è capire cosa non ha funzionato. Un altro conto è alimentare processi sommari. Che sono inaccettabili.Le posizioni sbrigative e sprezzanti contro Milano e la Lombardia nascondono un’invidia sociale nei confronti di chi è stato sempre ritenuto migliore. Sta succedendo in Italia qualcosa di simile a quello che accade in Spagna con la Catalogna ed è successo in Gran Bretagna con Londra, ed è all’origine della Brexit: si detesta chi è più ricco, chi è riuscito a cavarsela nel mondo, chi ha espresso al meglio le proprie capacità. Perché non scatta, invece, l’emulazione? Perché bisognerebbe partire dal riconoscere le proprie mancanze, dandosi come obiettivo quello di colmarle. L’Italia, invece, è un paese di continui e incessanti dualismi. Quello tra Nord e Sud è uno dei più longevi. Negli ultimi anni, il dislivello si è tradotto in un risentimento del Sud verso il Nord. Infatti, già prima della pandemia, il ministro Provenzano aveva detto che Milano non restituisce nulla. Ora, questo rancore si è manifestato più platealmente. Dentro, ci vedo un disprezzo dell’impresa, una diffidenza nei confronti dell’industria, una rivincita della statalizzazione contro il mercato. Sottilmente, il liberismo viene ritenuto responsabile di quello che è successo. Non ci sono prove che sia così. Però lasciarlo intendere serve a proporre un ritorno al ruolo dello Stato, il cui luogo d’elezione naturale è Roma.Gli ospedali privati, in Lombardia, si sono dati da fare, come si sono dati da fare tutti. La solidarietà con il pubblico è scattata. Forse si può rimproverare un ritardo, ma non si può attaccare il privato in quanto privato, il modello lombardo in quanto lombardo. Dimenticando che ogni anno 165.000 persone vengono a curarsi qui da altre Regioni. In Italia, la sanità di sette Regioni è stata commissariata. Abbiamo visto malcostume, ruberie, cattive gestioni scaricate sulle spalle dei contribuenti. E ora il problema italiano sarebbe la sanità lombarda? Il pregiudizio anti-lombardo è radicato in una parte della sinistra italiana. Politicamente, Milano è percepita come la città di Craxi, di Berlusconi, di Bossi, ora di Salvini. È qualcosa di estraneo, che la sinistra non è mai riuscita ad afferrare fino in fondo. Anche Sala, che oggi è sindaco della città, è come se venisse da fuori, non facendo parte della tradizione Pd. C’è anche il fatto che la sinistra non ha mai parlato la lingua delle imprese piccole e grandi che costituiscono l’economia del Nord. Però, anziché interrogarsi sul perché, cercando di rimediare, oggi imbocca la scorciatoia della diffidenza.Ma non si può risollevare il paese coltivando un sentimento anti-industriale, sospettando chi intraprende e produce. La Lombardia vale il 22% del Pil italiano. Ha 54 miliardi di residuo fiscale, pur contando il 16% della popolazione nazionale. Come si fa a non capire che senza Milano e la Lombardia l’Italia non si metterà mai in piedi? Propongo una tregua. Sospendiamo le polemiche. Rimettiamo insieme il paese. Cerchiamo di comprendere cosa è successo, non per colpire l’uno o l’altro, ma per riparare gli errori e farci trovare pronti in autunno, se ce ne sarà bisogno. Nel frattempo, la giustizia farà il suo dovere. Quel che so – e che mi addolora – è che ci stiamo lasciando andare alle piccinerie. Alla volgarità di frasi come ‘Milano da bare’. Alla grettezza regionalistica. Tanti piccoli noi contro voi. Ma veramente vogliamo tornare ai pregiudizi? Al milanese bauscia, al ligure tirchio, al calabrese scansafatiche? C’è davvero qualcuno che crede che si possa uscire dall’angolo così?(Ferruccio De Bortoli, dichiarazioni rilasciate a Nicola Mirenzi nell’intervista “Nel paese c’è un inaccettabile spirito anti-lombardo”, pubblicata dall’”Huffington Post” il 7 giugno 2020. Milanese, giornalista e saggista, De Bortoli è stato per due volte direttore del “Corriere della Sera”, di cui oggi è uno dei principali editorialisti).Ancora oggi mi sento un po’ appestato. Non esco da Milano. Rimango a casa il più possibile. Ascolto racconti di amici che sono andati fuori dalla Lombardia e sono stati accolti da battutine, insinuazioni, cattiverie. Alcuni hanno dovuto subire anche un cartellone che diceva: “Torna a casa tua”. Sono cose che mettono a disagio e feriscono le persone. Uno spirito anti-lombardo è emerso nel paese. Come se vedere colpita questa Regione, sempre definita un modello, anziché suscitare vicinanza, desse un piacere che i tedeschi definiscono con una parola precisa: “schadenfreude”, gioia per le disgrazie altrui. Non è più inaccettabile. Bisogna reagire. Dire basta. Credo che si tratti di un pregiudizio radicato, che ha moventi sociali, politici, economici. Come spesso accade con i pregiudizi, essi sono degli strumenti straordinari per costruire alibi. Ti consentono di non guardare dentro casa tua. Ti levano la fatica di misurare i risultati che hai raggiunto, confrontandoli con quelli altrui. La Lombardia e Milano rappresentano l’Italia che ce la fa nel mondo. Il paese che riesce a competere nella globalizzazione. Puntare il dito contro di esse, alleggerisce la coscienza di chi non è riuscito a fare altrettanto. Gli consente di non guardarsi allo specchio, scaricando tutta la responsabilità altrove.
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Galloni: soldi a tutti, prima che si assaltino i supermercati
Reddito universale? Il punto di partenza di Grillo è che, dato che c’è la decrescita e non ci potrà essere la piena occupazione (anzi, ci sarà la massima disoccupazione, a prescindere dal virus), bisogna dare un reddito a tutti per sostenere l’economia. Tutto ciò ovviamente si p aggravato con l’emergenza in corso. Qui, tra me e Grillo, c’è una prima divergenza di fondo: più che di decrescita, dell’industria o dell’agricoltura, bisogna parlare di un risposizionamento (dell’industria, dell’agricoltura e dei servizi). Ma dovranno crescere altre attività, ad esempio nel comparto dei beni e dei servizi immateriali, che prenderanno il posto delle occupazioni precedenti. Quando si sviluppò l’industria, si ridusse drasticamente l’occupazione in agricoltura. Quando s’è sviluppato il post-industriale, cioè i servizi, c’è stato un calo più o meno drastico degli addetti all’industria. Poi, nella fase che nei miei libri ho definito post-capitalistica, si ridimensionano tutti questi settori a reddito. E’ quindi necessario far crescere la risposta ai bisogni della società (in questo sta il cambio del paradigma, rispetto alla ricerca di profitto) perché comunque la società va avanti. Quindi, quando parliamo di reddito universale, dobbiamo tener ben presente questa differenza: non stiamo andando verso la decrescita, che per essere “felice” necessita di una riduzione della popolazione che sia maggiore del calo della popolazione, sennò sarebbe ancora più infelice.Per essere “felice”, la decrescita richiedere di ridurre la popolazione mondiale: è il vecchio progetto di alcuni ambienti estremistici dell’ambientalismo, e di ambienti particolarmente retrivi della grande finanza (che sono poi quei due ambienti che qualcuno sospetta che abbiano avviato e condizionato l’impresa di Grillo e Casaleggio). A fianco di questo aspetto, che è cruciale, ve n’è però un altro – che è il motivo per cui siamo entrati in questa crisi, che poi è stata aggravata da quella sanitaria. E cioè: nella maggior parte dei comparti produttivi, la redditività degli investimenti è diventata negativa. Per capirlo dobbiamo osservare l’andamento del Pil: nel caso italiano (e l’Italia è una delle potenze industriali del pianeta) è stato significativamente vicino allo zero per parecchio tempo, e fra l’altro sarebbe negativo il Pil pro capite, che è quello più importante per la domanda: a fronte del Pil che non cresce, c’è la popolazione residente che cresce. Continua ad aumentare l’occupazione, è vero, anche se è precaria e sottopagata. Ma se noi da questa occupazione e da questo Pil sottraiamo quel 20-30% che ancora fa reddito positivo, con un fatturato decisamente superiore al costo (quindi, stipendi buoni), tutto il resto è ancora più insostenibile. Quindi noi dobbiamo affrontare questi due aspetti: da una parte il ridimensionamento dei comparti produttivi dell’economia materiale, dall’altra la decrescente redditività degli investimenti.Chi è il grande sconfitto, di questa situazione? E’ tutta la moneta a debito: tutto ciò che è a debito non è sostenibile. Lo vedete: il Pil non cresce, ma cresce il debito pubblico. Questo di per sé non è un segnale di insostenibilità, perché comunque abbiamo un grande risparmio privato, sia pure anch’esso in calo: titoli e depositi, in ogni caso, rappresentano quasi il doppio del debito pubblico. Quindi il sistema-Italia sta benissimo, paradossalmente; ma le sue prospettive non sono sostenibili, se non si esce dall’economia del debito. Perciò va benissimo parlare di reddito universale. Basta che non sia sorretto da due fattori, che denuncio. E cioè: l’aumento del debito, in particolare del debito pubblico, ovvero un aumento (o una introduzione) di una forte tassa patrimoniale. Meglio l’emissione di una moneta nazionale parallela, non convertibile in euro, fino al raggiungimento della piena occupazione. Data la crisi aggravata dal coronavirus, si può quindi pensare a un reddito universale di 1000-1500 euro mensili pro capite, in più prestando particolare attenzione, innanzitutto, ai comparti più colpiti dallo stop imposto dall’emergenza. Il turismo, ad esempio, ha perso l’annata: andrebbe immediatamente istituito un “reddito di quarantena” per tutti quelli che hanno perso completamente il reddito. E quindi turismo, ristorazione, palestre: tutte attività che non riaprianno, quando comincerermo a tornare alla vita normale.Se però ci fosse un’interruzione definitiva – come paventato da Mario Draghi – di tutto il sistema produttivo, allora l’immissione di moneta non a debito rischierebbe di creare inflazione. Quindi dobbiamo immetterla per evitare che l’economia, l’industria e la produzione si blocchino: a quel punto servirà a stimolare quelle risorse e quella capacità produttiva aggiuntiva che l’Italia ha. Ma se in Italia, a causa di questa situazione (il perdurare dell’emergenza e la chiusura nelle case di tutti quanti) si dovessero bloccare tutte le attività produttive, bisognare considerare anche la specificità della nostra struttura produttiva, che è basata su aziende piccolissime, che poi a un certo punto chiudono: perché devono pagare l’affitto, le bollette. Senza un aiuto consistente, io smetto di pagare il mutuo, stacco le utenze, faccio presente ai collaboratori che è finita. Poi, se arrivano risorse reddituali aggiuntive (perché lo Stato immette) ma intanto l’attività è stata chiusa, che cosa ci si compra, con quei soldi? Questo è il problema della moneta non a debito: l’urgenza. Invece, se si usa solo moneta a debito, tutta dentro un progetto finanziario, poi la devi ripagare, e quindi devi guadagnare di più di quello che è il debito. E abbiamo visto che non è più possibile, essendo finito il capitalismo (questo è il vero motivo per cui c’è la crisi).E’ finito, il capitalismo, ma non abbiamo uno straccio di paradigma altenativo per far funzionare l’economia mondiale. E allora, intanto che tutte le potenze mondiali si avvicinano a questa constatazione, come si farà a gestire il sistema economico mondiale? Bisogna trovare un altro paradigma, un altro sistema – in cui ci sia anche la parte di profitto, ma chiaramente il grosso dovrà essere retto da moneta non a debito. Ovvero, come spiego nei miei libri: retto da credito bancario a tasso d’interesse negativo altissimo. Questo consentirà alle banche di non subire perdite: si limiteranno a ridurre i propri guadagni, registrando un mancato arricchimento. Stato e banche però devono modificare la loro contabilità, altrimenti non ce la si fa. Prima che la gente assalti i supermercati, è urgente risolvere questi problemi. Serve agire in fretta: l’agricoltura già denuncia la mancanza di manodopera, e le coltivazioni trascurate poi non si recuperano rapidamente, i danni sono catastrofici.Se non si permette alla gente di tornare a lavorare, il comparto agricolo rischia di scomparire. Se mancano consumatori sui mercati, provvisti di soldi, addio. Trasponendo questo nella manifattura, nell’industria e negli altri comparti, capiamo qual è la posta in gioco adesso: o lo Stato interviene subito con moneta aggiuntiva non a debito, a circolazione solo nazionale e compatibile con l’euro, oppure tra 4-5 mesi ci troveremo in una situazione talmente difficile, che solo aumentando il debito con l’Europa potremmo cercare di far riprendere l’economia (e ho qualche dubbio, che ci accada). Anche Draghi ha espresso questi dubbi. Certo, la sua posizione è diversa: lui propone di mantenere la moneta a debito, quindi la contabilità bancaria, perché deve nascondere come si crea la moneta. Però, se Draghi arriva e fa questa operazione, in vista della cancellazione del debito aggiuntivo (350 miliardi, da considerare come “debito di guerra” destinato a cancellarsi), allora anche l’ipotesi-Draghi va presa seriamente in considerazione.Beninteso, in Draghi non c’è nessuna “metamorfosi”: Draghi è uno dei massimi rappresentanti della finanza mondiale, quella che ci privatizzato e massacrato. Però non fa parte di quella finanza mondiale legata all’estremismo ambientalista (e ad altri giri tipo Rothschild) che vuole invece la riduzione della popolazione del pianeta. In quel caso avrebbe detto: benissimo, se salta tutto per aria, moriranno milioni di italiani. Sarebbe meglio, se l’Italia si riducesse a 20 milioni di abitanti? Questo lo pensano alcuni, ma non Draghi. In lui, però, non c’è nessuna metamorfosi: sta solo applicando, pedissequamente, i principi per i quali abbandonò a suo tempo la nostra scuola post-keynesiana, passando al liberismo. Evidentemente vuole mantenere la partita doppia e la moneta a debito, per poi cancellarla: in questo modo non si vedrebbe la creazione monetaria, che evidentemente è quello che gli preme. Infatti, se tutti vedessimo che la moneta si può creare senza costo, scenderemmo tutti in piazza a dire: ma scusate, se l’avete fatto per salvare le banche, perché non lo potete fare per salvare le persone?L’espressione “capitalismo inclusivo”, peraltro, è un ossimoro: è come dire “liberismo solidaristico”. Quello che ha funzionato, in passato, con molti limiti ma con grandi risultati, sono state le economie miste, in cui c’erano elementi di capitalismo e di socialismo. Probabilmente finiremo per orientarci in questo senso: un recupero della solidarietà nell’economia, veicolato dalle grandi scelte strategiche e dal peso dello Stato, diretto e indiretto, nell’economia stessa. Un assetto abbandonato formalmente, a livello mondiale, dopo il G7 di Tokyo del 1979. Dopodichè abbiamo avuto un quarantennio di liberismo, e adesso il liberismo non funziona più. L’economia mista, solidaristica, ha funzionato per quasi 40 anni dopo la Seconda Guerra Mondiale; il suo abbandono ha coinciso con la fine dei partiti liberali. Con il crollo del Muro di Berlino è finita la Dc, che era anticomunista. E adesso, che siamo di fronte al crollo della globalizzazione, immagino che i nazionalismi finiscano per entrare in crisi: a vincere sarà il ritorno alla solidarietà, sia interna che internazionale. Sarà un’alternativa sia al sovranismo miope, sia alla mancanza di sovranità.(Nino Galloni, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella diretta web-streaming “Reddito universale, Carlo Toto e Nino Galloni rispondono a Grillo”, su YouTube il 1° aprile 2020. Vicepresidente del Movimento Roosevelt e prestigioso economista post-keynesiano, Galloni – figlio del ministro democristiano Giovanni Galloni, già vicepresidente del Csm – è stato a lungo dirigente del ministero del lavoro. Come Draghi, Galloni è stato allievo del professor Federico Caffè, insigne economista progressista).Reddito universale? Il punto di partenza di Grillo è che, dato che c’è la decrescita e non ci potrà essere la piena occupazione (anzi, ci sarà la massima disoccupazione, a prescindere dal virus), bisogna dare un reddito a tutti per sostenere l’economia. Tutto ciò ovviamente si è aggravato con l’emergenza in corso. Qui, tra me e Grillo, c’è una prima divergenza di fondo: più che di decrescita, dell’industria o dell’agricoltura, bisogna parlare di un risposizionamento (dell’industria, dell’agricoltura e dei servizi). Ma dovranno crescere altre attività, ad esempio nel comparto dei beni e dei servizi immateriali, che prenderanno il posto delle occupazioni precedenti. Quando si sviluppò l’industria, si ridusse drasticamente l’occupazione in agricoltura. Quando s’è sviluppato il post-industriale, cioè i servizi, c’è stato un calo più o meno drastico degli addetti all’industria. Poi, nella fase che nei miei libri ho definito post-capitalistica, si ridimensionano tutti questi settori a reddito. E’ quindi necessario far crescere la risposta ai bisogni della società (in questo sta il cambio del paradigma, rispetto alla ricerca di profitto) perché comunque la società va avanti. Quindi, quando parliamo di reddito universale, dobbiamo tener ben presente questa differenza: non stiamo andando verso la decrescita, che per essere “felice” necessita di una riduzione della popolazione che sia maggiore del calo della produzione, sennò sarebbe ancora più infelice.
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Magaldi: Salvini e Meloni si decideranno a battersi per noi?
Salvini che sparacchia su Bruxelles ma poi incarica Giorgetti di correggere il tiro, e intanto (evidentemente mal consigliato) bacchetta le donne che scambierebbero l’aborto per un’alternativa alla contraccezione, giusto per deliziare gli antiabortisti cronici. La Meloni risponde da par suo: condanna il bieco Fiscal Compact ma al tempo stesso assolve il suo gemello, il pareggio di bilancio. Gli altri politici? Non pervenuti: quei temi, nemmeno li sfiorano per scherzo. In questo frangente si salva solo l’indifendibile, inesistente Renzi: almeno, ha il coraggio di puntare sulla prescrizione, come ciambella di salvataggio in un sistema-giustizia che impiega secoli per emettere una sentenza, spesso dopo aver messo alla gogna presunti colpevoli che poi si scoprono innocenti. Ma che razza di paese è mai questo? C’è qualcuno che ha idea di come si potrebbe pilotare l’Italia, nel 2020 e soprattutto nei prossimi anni, in base a una parvenza di disegno strategico? Pare di no, purtroppo: si vive solo alla giornata, rincorrendo effimeri consensi. E mentre Lega e Fratelli d’Italia colpiscono nel mucchio, senza un piano preordinato né una visione leggibile, il Pd si limita all’eterno ruolo di cameriere italiano dell’Ue, attorniato dal fantasma imbarazzante dei 5 Stelle: dopo aver tradito tutte le promesse, i grillini credono di cavarsela tagliando futuri parlamentari e attuali vitalizi.
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Carotenuto: nel potere mondiale, buoni e cattivi sono soci
Libia e Medio Oriente bruciano, ma il racconto dei media non ci parla dei veri obiettivi: non ci dice dove nascono le crisi, dove vogliono arrivare e perché si fanno. Di questi scenari ho un’esperienza personale e profonda, vissuta spesso dietro le quinte. Le motivazioni delle guerre e dei conflitti non sono quelle apparenti. Nel mondo è in corso una lotta tra forze del bene, che stanno facendo crescere le coscienze, e forze che ostacolano questa crescita per cercare di assopire il risveglio coscienziale che è in corso da anni. Per tentare di frenare questo risveglio si creano problemi nell’anima, scoraggiando la voglia fare cose buone per sé e per gli altri. Per fare il bene non bisogna essere pieni di paure, di rabbia e di ansia. Niente di meglio della guerra, per rovinare i nostri sentimenti: le guerre sono grandi vortici di odio, di paura e di rabbia. Subito internazionalizzate e mostrate a tutti attraverso i media, le guerre intervengono direttamente nelle nostre anime: alterano il nostro modo di sentire, ci distolgono dalla nostra voglia di bene, ci abbattono e ci impauriscono, ci fanno arrabbiare e ci inquietano. Guerre e crisi vengono combattute soprattutto nelle nostre anime.
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Carpeoro: se fossi Mattarella. Più Stato, Italia da ribaltare
Se alla presidenza della Repubblica, oltre che una persona per bene, ci fosse anche uno statista, si preoccuperebbe di fare un’inversione di rotta, una specie di rivoluzione copernicana, per la quale l’Italia dovrebbe cominciare a pensare al proprio futuro in termini diversi. L’Italia dovrebbe darsi il coraggio di affermare delle priorità diverse dalle attuali, e in base alle quali richiedere con fermezza ciò che le è necessario. L’Italia non riceverà le risorse che dovrebbe ricevere dai meccanismi finanziari del progetto generale europeo, e invece queste risorse le servono disperatamente. L’Italia ha il suo Welfare State gravemente pregiudicato dal fatto che l’Inps è in stato pre-fallimentare. L’Italia non ha fatto nessun investimento produttivo, negli ultimi anni: ha i cantieri fermi, le grandi opere, i trasporti, le infrastrutture ferme. Tutto è vecchio, desueto, e niente è in grado di produrre innovazione. Ci vorrebbe un cambiamento di paradigma molto forte, con dei segnali che inevitabilmente ci metterebbero in conflitto con le burocrazie europee: ma nella vita i conflitti bisogna affrontarli, sia pure in modo incruento. L’Italia deve capovolgere una serie di cose: deve capovolgere parzialmente la logica delle privatizzazioni riducendole al minimo, deve rifare subito il ministero delle partecipazioni statali, deve ripristinare l’Iri (e possibilmente non farla presiedere mai più a Prodi).
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De Benoist: il liberalismo dei diritti è nemico dell’umanità
«Femminicidi e disoccupazione giovanile di massa: cosa unisce queste due patologie sociali? C’è una causa che congiunge il matrimonio omosessuale e i confini spalancati alle immigrazioni di massa, i diritti gay con la denatalità e la delocalizzazione dei lavori in Asia? Il suicidio assistito con l’austerità imposta e l’iniquità sociale senza precedenti nella storia, e che nessuno si cura di rettificare?». Per quanto sembri incredibile, scrive il cattolico tradizionalista Maurizio Blondet, questi fenomeni apparentemente disparati hanno una sola causa: il liberalismo. Blondet non usa la parola “liberismo”, né la parolaccia “neoliberismo”: punta il dito proprio contro il liberalismo, da cui – secondo i libri di storia – è nato l’istituto della democrazia. In realtà, Blondet si riferisce all’ultimo saggio di Alain de Benoist, “Critica al liberalismo”, edito da Arianna. L’anziano giornalista, spesso acuto osservatore dell’attualità italiana e internazionale, lo definisce «testo capitale e arma intellettuale necessaria per la polemica filosofica e politica al totalitarismo vigente». Avvertenza: il liberalismo «non va confuso con la teoria economica, promotrice della libera concorrenza». Per de Benoist, pensatore e politologo della “Nouvelle Droite” francese, il liberalismo è innanzitutto «un’ideologia basata su un errore antropologico», ossia su un fatale equivoco sulla natura dell’uomo.Alla sua base – traduce Blondet, sul suo blog – c’è l’individualismo, inteso nel modo più radicale: «L’idea che esistono solo gli individui, che sono primari rispetto alla comunità», la quale «non è che somma di individui-atomi», che alla società «non devono niente». Secondo de Benoist, il liberalismo non è (come pretende essere) l’ideologia della libertà, ma «l’ideologia che mette la libertà al servizio del solo individuo, affrancato da ogni appartenenza», e trasformato essenialmente in consumatore. Questa teoria sostiene che l’uomo è anzitutto «quello che ha liberamente scelto di essere, interamente padrone di sé e delle sue scelte, a partire non da qualcosa che già c’è, ma a partire dal niente». In questo, Blondet ravvisa le tracce ideologiche della “sinistra fucsia” messa alla frusta da Diego Fusaro, fondatore di Vox Italia. Blondet evoca un «partito radicale di massa, imperante totalitariamente». E spiega: il guaio, secondo lui, è «l’idea che la libertà sia “il diritto di avere diritti”, che “lo Stato esiste solo per soddisfare i desideri individuali, subito elevati a diritti”». E’ la mentalità diffusa nell’uomo comune odierno, «che si sente “liberato” dai “tabù”, e si fa adirittura psico-poliziotto a difesa di questa ideologia, ormai “fatto sociale totale”».Ma la più radicale asserzione del pensiero contro cui si scaglia de Benoist, aggiunge Blondet, viene dallo storico tempio intellettuale del liberismo, la Mont Pélerin Society, fondata nel ’47 nientemeno da Milton Friedman, Friedrich von Hayek e Karl Popper «per promuovere il libero mercato e la società aperta». La afferma un socio francese della Mont Pélerin, Bernard Lemennicier: ogni nazione, ha scritto, «è semplicemente un aggregato di esseri umani», quindi un «feticcio politico introvabile». Infatti, dice: «Come può una società avere dei valori e delle preferenze indipendentemente dai membri che la costituiscono?». Aggiunge Lemennicier: «Non bisogna ingannarsi sul sentimento di appartenenza. Non si appartiene ad una nazione, né a un territorio, né a uno Stato, che sono qualcosa di non-esistente, senza alienare il proprio libero arbitrio e la propria condizione di essere umano». Si capisce che, se aderisco a questa ideologia, «non ho, per principio, alcuna regola collettiva da rispettare, e nessun potere pubblico può ordinarmi di sacrificare la mia vita per una causa qualsiasi». Da questa affermazione dell’uomo della Mont Pélerin, secondo Blondet, «discendono direttamente la globalizzazione e tutti i “diritti umani”, il gender e lo spalancare le porte all’immigrazione senza limiti».Aggiunge Blondet: «Il nigeriano che è arrivato qui pagando gli scafisti e senza documenti è “un individuo” e quindi detentore assoluto dei ”diritti” superiori alla società, e un ministro che provi a frenare l’invasione viene catalogato come liberticida e malvagio», un delinquente da incriminare. Secondo de Benoist, «in nome dei diritti umani, si vuole proibire alle nazioni di approvare leggi che giudicherebbero eventualmente utili per preservare o incoraggiare la vita comune e l’educazione comune». Attenzione: come nel liberismo economico puro «non occorre tener conto della moralità o immoralità del bisogno cui risponde la cosa utile», la merce che acquistiamo, così uno Stato veramente liberale deve essere «indifferente rispetto ai fini», garante solo dei diritti «senza presupporre la minima concezione del bene». Ayn Rand, il celebre guru del libertarismo radicale, giunge a sancire: «L’altruismo è incompatibile con la libertà». Blondet riprende queste parole: «Il “diritto” che vige nel totalitarismo chiamato libertario, infatti, dissocia il senso della “giustizia” dal concetto di bene». E aggiunge: «Asserendo di prescindere da tutte le convinzioni etiche, religiose, filosofiche dei membri della comunità, rompe con l’idea secondo cui la salute pubblica e il bene comune passano anzitutto attraverso una presa in considerazione delle concezioni del bene nel dibattito pubblico».Blondet dice chiaramente come la pensa: “esagerando” con la libertà «ci si può drogare fino alla morte (depenalizzazione), infettarsi nelle dark rooms sodomitiche, farsi mutilare per cambiare sesso, affittare l’utero, esigere dallo Stato il suicidio assistito – e guai a chi giudica chi lo fa: è omofobo, fascista, bigotto». Nel falò morale finiscono «le madri che fanno somministrare ai figlioletti il farmaco che ritarda la pubertà perché possa scegliere più tardi cosa vuol essere sessualmente», assimilate alle «assistenti sociali di Bibbiano», le quali, «strappando i figli ai genitori per darli a coppie gay, puntano a creare “l’uomo nuovo”, l’individuo astratto senza appartenenze». Lo stesso individualismo radicale, sempre secondo Blondet (e de Benoist), provoca addirittura «la corruzione della democrazia». Il politico, si rammarica de Benoist, «non è più portatore di alcuna dimensione etica, nel senso che nel suo nome non si può esigere e nemmeno promuovere alcuna concezione del bene comune». E allora, conclude Blondet, perché poi ci stupiamo se quelli che eleggiamo sono senza principi? «Che svendano i monopoli pubblici redditizi come Autostrade agli amici, che intaschino i milioni del Mose invece di metterlo in funzione? Tout se tient: se volete avere come “diritti” i vostri vizi privati, dovete accettare gli effetti collaterali di questo “individualismo” radicale».Del resto, nonostante tutto il loro parlare di “democrazia”, contonua Blondet, i dirigenti liberisti sono ben pronti a eliminarla, come vediamo fare nella Ue. «Perché il loro credo è stato espresso nel modo più agghiacciante da Alain Minc, intellettuale-imprenditore a capo di una ditta autostradale: «Il capitalismo non può crollare, è lo stato naturale della società. La democrazia non è lo stato naturale della società. Il mercato lo è». C’è politica – sottolinea de Benoist – solo in riferimento a popoli e comunità: la “dittatura” del liberismo sotto cui oggi viviamo «è in sé un regime di devastazione dell’umano», come anche «della natura». Un regime «incompatibile con la cultura». Per de Benoist, è sempre il liberalismo (non il liberismo) a promuovere «l’abolizione di ogni morale che reprime la soddisfazione immediata del desiderio». E lo fa «attraverso la “deregolamentazione”», cioè la «distruzione generalizzata di tutto ciò che non ha valore mercantile». Come la famiglia: residuale «struttura collettiva non contrattuale», spazio di gratuità sottratto al mercato: in fondo, chiosa Blondet, è per questo che non facciamo più figli.Avere figli, per de Benoist, è «un sacrificio» dei nostri desideri individuali («pardon, “diritti”», corregge Blondet), oltreché «un costo» che di fatto «ostacola la nostra efficienza sul mercato del lavoro» e penalizza la nostra «competitività» nei confronti dei colleghi single. Conclusione: «Il liberalismo è il progetto politico di smantellamento completo dell’ordine della legge e uno dei più potenti motori del nichilismo». E tutta questa devastazione, scrive Blondet, si concretizza oggi «perché si è rigettata la verità antropologica sull’uomo». Ovvero: «L’uomo è un animale sociale, la cui esistenza è consustanziale alla società». Per Blondet, la comunità storica nazionale «gli ha dato quasi tutto, a cominciare dalla lingua, dalla cultura e dalla rete delle solidarietà giuridiche ed extra-giuridiche basate sulla appartenenza». La nazione, scrive de Benoist, «può chiedere alle persone di operare in primo luogo per il bene comune». Questo, secondo Blondet, distingue il cittadino dal semplice «individuo», in quanto tale «egoista, auto-distruttore e narciso».(Il libro: Alain de Benoist, “Critica al liberalismo. La società non è un mercato”, Arianna editrice, 286 pagine, euro 23,5).«Femminicidi e disoccupazione giovanile di massa: cosa unisce queste due patologie sociali? C’è una causa che congiunge il matrimonio omosessuale e i confini spalancati alle immigrazioni di massa, i diritti gay con la denatalità e la delocalizzazione dei lavori in Asia? Il suicidio assistito con l’austerità imposta e l’iniquità sociale senza precedenti nella storia, e che nessuno si cura di rettificare?». Per quanto sembri incredibile, scrive il cattolico tradizionalista Maurizio Blondet, questi fenomeni apparentemente disparati hanno una sola causa: il liberalismo. Blondet non usa la parola “liberismo”, né la parolaccia “neoliberismo”: punta il dito proprio contro il liberalismo, da cui – secondo i libri di storia – è nato l’istituto della democrazia. In realtà, Blondet si riferisce all’ultimo saggio di Alain de Benoist, “Critica al liberalismo”, edito da Arianna. L’anziano giornalista, spesso acuto osservatore dell’attualità italiana e internazionale, lo definisce «testo capitale e arma intellettuale necessaria per la polemica filosofica e politica al totalitarismo vigente». Avvertenza: il liberalismo «non va confuso con la teoria economica, promotrice della libera concorrenza». Per de Benoist, pensatore e politologo della “Nouvelle Droite” francese, il liberalismo è innanzitutto «un’ideologia basata su un errore antropologico», ossia su un fatale equivoco sulla natura dell’uomo.
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Magaldi: un’email stralunata su me, i Savoia e Diego Fusaro
Egregio Giovanni Seia, il curatore del sito Libreidee Giorgio Cattaneo mi ha girato una mail da lui ricevuta e che appare come un commento all’articolo pubblicato sullo stesso sito (vedi “Fusaro chiede poltrone alla Lega e poi pranza col Savoia” ). Orbene, lei scrive: «Egregio Signor Magaldi, prima di scrivere notizie errate e prive di fondamento sarebbe opportuno ricorrere alla fonte, onde evitare una becera informazione che evidenzia unicamente la spasmodica voglia di un fanciullesco protagonismo. Sono il delegato dell’Istituto Nazionale per la Guardia d’Onore alle Reali Tombe del Pantheon e l’organizzatore della conferenza storico-scientifica, del 16 novembre scorso, sulla figura del Re Vittorio Emanuele III nella ricorrenza dei 150 anni dalla sua nascita, data peraltro dimenticata completamente, pur essendo stato il Re Capo di Stato per ben 46 anni. La conferenza che ha visto la partecipazione di circa 400 persone, è stata tenuta da due illustri professori, Fréderic Le Moal de l’Ecole Militaire de Saint Syr e Francesco Perfetti della Luiss di Roma».«Quale moderatore della conferenza ho scelto il prof. Diego Fusaro che ha evidenziato l’odierna caduta dei Valori fondanti della Nazione. La conferenza prevedeva anche un pranzo a cui hanno partecipato 270 persone e il prof. Fusaro è stato accreditato al tavolo dei relatori e degli ospiti, a cui sedeva anche Emanuele Filiberto e Gabriele Albertini. Emanuele Filiberto era presente in quanto il Re Vittorio Emanuele III era suo bisnonno e Gabriele Albertini sedeva a quel tavolo in quanto iscritto al nostro Istituto. Quindi nessuna trama politica, nessun coinvolgimento del prof. Fusaro in esperienze partitiche, ma solo invenzioni e sfarfallamenti intellettuali di uno come lei in cerca di autore e di una visibilità mediatica che purtroppo non riesce a trovare in un’associazione massonica spuria che si dichiara democratica ma che nulla ha a che fare con il potere del demos. La cautela e il confronto sono le basi di una democratica intelligenza. (Cordialmente, Giovanni Seia)».Mi pregio, con riferimento a tale sua stralunata e molto imprecisa (oltre che insipiente) missiva, di farle osservare quanto segue: 1) Quando si rivolge a me, abbia l’accortezza o di chiamarmi Dott. Magaldi o Presidente Magaldi, se preferisce un lessico profano, oppure Illustrissimo, Venerabilissimo e Potentissimo Gran Maestro e Sovrano Gran Commendatore/Patriarca, qualora si stia cimentando in qualche disamina di natura massonica, come in verità dalla sua lettera si evince. Per un personaggio, lei, che si qualifica come il delegato di una cosa pomposa, ridondante e ampollosa come l’Istituto Nazionale per la Guardia d’Onore alle Reali Tombe del Pantheon, sarà il caso di avere riguardo anche per i formalismi e le ampollosità altrui, comprese quelle massoniche di Grande Oriente Democratico (www.grandeoriente-democratico.com) e del Rito Europeo Universale da me presieduti. Tanto più che senza la Libera Muratoria risorgimentale, di cui mi pregio di essere uno dei più devoti epigoni in questo XXI secolo, gli ospiti delle Reali Tombe non avrebbero potuto essere tali.Senza i massoni del XIX secolo (Giuseppe Garibaldi in testa, che consegnò a Vittorio Emanuele II di Savoia l’intero Regno delle Due Sicilie da lui liberato/conquistato, ma anche l’opera del Fratello Cavour e di tanti altri intorno a lui non fu da meno), insomma, il Regno d’Italia non sarebbe mai stato appannaggio dei Savoia. 2) Lei è impreciso, quando dice che io abbia scritto qualcosa sul tema Fusaro, Savoia, Albertini. L’articolo cui si riferisce è opera di Giorgio Cattaneo. Semmai, il sottoscritto ha parlato della questione nella trasmissione citata e linkata sopra (se la vada a vedere/ascoltare). 3) Rispetto la sua inclinazione (e quella di altri, con lei) a voler festeggiare Vittorio Emanuele III nella ricorrenza della sua nascita (che peraltro mi constava essere nato a Napoli l’11 novembre 1869 e non il 16 novembre, ma avrete avuto i vostri motivi per celebrarne il genetliaco 5 giorni dopo la ricorrenza effettiva), ma nel video (che lei, da come si esprime, mostra di non aver visto) della puntata 53 di “Gioele Magaldi racconta” ( https://www.youtube.com/watch?v=sisX3JZV3_0 ) esprimo anche le mie gravi riserve su un monarca che non solo acconsentì all’instaurarsi della dittatura fascista, ma nemmeno mosse un dito contro la promulgazione delle vergognose leggi razziali del 1938 e si comportò da fellone alla fine della Seconda guerra mondiale.4) Probabilmente lei ha fatto male ad invitare Diego Fusaro quale moderatore della conferenza storico-scientifica da lei organizzata, perché costui – non privo di qualche competenza filosofica e politologica – appare platealmente carente in fatto di scienze storiche, come evidenziato da diversi svarioni inseriti nelle sue pubblicazioni (almeno quelle le ha lette? – io si, ahimé – o lei ha il vizio di parlare di cose che non conosce direttamente e approfonditamente?). 5) La parte più stralunata, imprecisa e sgangherata della sua lettera, tuttavia, è quella in cui scrive: «La conferenza prevedeva anche un pranzo a cui hanno partecipato 270 persone e il prof. Fusaro è stato accreditato al tavolo dei relatori e degli ospiti, a cui sedeva anche Emanuele Filiberto e Gabriele Albertini. Emanuele Filiberto era presente in quanto il Re Vittorio Emanuele III era suo bisnonno e Gabriele Albertini sedeva a quel tavolo in quanto iscritto al nostro Istituto. Quindi nessuna trama politica, nessun coinvolgimento del prof. Fusaro in esperienze partitiche, ma solo invenzioni e sfarfallamenti intellettuali di uno come lei in cerca di autore e di una visibilità mediatica che purtroppo non riesce a trovare in un’associazione massonica spuria che si dichiara democratica ma che nulla ha a che fare con il potere del demos. La cautela e il confronto sono le basi di una democratica intelligenza».Chi avrebbe alluso a trame politiche? Tutta la questione è nata perché Diego Fusaro ha pubblicato una foto in cui veniva ritratto attovagliato con Emanuele Filiberto e Albertini, senza forse neanche spiegare il contesto dell’incontro (come invece ha tenuto a fare lei, ma sarebbe cambiato poco) e/o comunque senza che sul web fosse compreso tale contesto (ma sarebbe cambiato poco, ripeto: solo che forse si sarebbe ridimensionata l’immagine narcisistica e autocompiaciuta che Fusaro desiderava offrire…lasciando intendere di un pranzo per pochi intimi, mente c’erano 270 persone… ) Di qui, prima che ne parlassi io, una ridda di commenti su tale “attovagliamento”. Alla domanda del conduttore di “Gioele Magaldi racconta”, Fabio Frabetti, rivolta al sottoscritto, su cosa pensassi di tale foto, ho risposto sostanzialmente (ma legga meglio l’articolo di Libreidee e ancor meglio si guardi il video cui l’articolo si ispira) che se il sedicente “profeta” del riscatto del proletariato nel XXI secolo ci tiene tanto a pubblicare ed enfatizzare la foto che lo ritrae in una (vera o falsa) intimità conviviale con un erede di monarchi e un “vecchio” politico sedicente liberale (laddove il liberalismo è esecrato da Fusaro come il peggiore di tutti i mali, stante anche la sua confusione storica ed ermeneutica tra liberalismo, liberismo e neoliberismo) allora siamo davvero al paradosso più grottesco.Un paradosso, tuttavia, che si spiega benissimo con l’atteggiamento da “cortigiano e cicisbeo politico da salotto, televisivo e non”, che molti contestano al filosofo torinese, recente ispiratore del partitino rossobruno e fasciocomunista “Vox Italia”. E ho aggiunto delle riflessioni su questioni e trame politiche che riguardano il solo Fusaro e in cui non c’entra nulla né il suo “Istituto Nazionale bla bla bla” nè gli stesi Albertini ed Emanuele Filiberto di Savoia. 6) Poi lei ha l’impudenza, l’insolenza, l’ipocrisia e la mala creanza di scrivere: «Solo invenzioni e sfarfallamenti intellettuali di uno come lei in cerca di autore e di una visibilità mediatica che purtroppo non riesce a trovare in un’associazione massonica spuria che si dichiara democratica ma che nulla ha a che fare con il potere del demos. La cautela e il confronto sono le basi di una democratica intelligenza». Ebbene, a differenza del suo amato Fusaro, io non compio “sfarfallamenti intellettuali”. Io, quando parlo di filosofia, storia, politica e politologia lo faccio al lume di competenze serie e strutturate. So quel che dico e so come lo dico, anche a differenza sua, che scrive fischi per fiaschi, confondendo anche chi abbia detto o scritto cosa e quando e perché.La visibilità mediatica il sottoscritto l’ha avuta sin dai primi anni in cui “Grande Oriente Democratico” muoveva i suoi primi passi (si documenti, dal 2010 in poi), finendo sulle prime pagine di giornali e in servizi/interviste televisive di testate e trasmissioni di punta. Il sottoscritto ha pubblicato anche altri libri, ma il solo primo volume della serie di “Massoni” (”La scoperta delle Ur-Lodges”, Chiarelettere editore) ha venduto più copie di tutti i volumi pubblicati dal suo amato Diego Fusaro nel corso degli anni (libri, peraltro, in cui il successivo ripete le cose dette nel precedente e, all’interno dello stesso volume, anche i capitoli si copiano e reiterano nei contenuti, diffondendo una noia mortale in danno del lettore…). Le riconosco, tuttavia, che dopo che il sottoscritto ha pubblicato “Massoni. Società a responsabilità illimitata. La scoperta delle Ur-Lodges” e che è stato fondato il Movimento Roosevelt (www.movimentoroosevelt.com: soggetto politico metapartitico che ordinariamente non si presenta alle elezioni – essendo metapartitico, civico, pedagogico e trasversale – ma che quando si è presentato, ad esempio a Gioia Tauro, ha preso circa il 60% nel 2015, mentre alle comunali del 2019 Fusaro ha raccolto il 2,87%…), cioè a partire dal 2015/2016, una qualche ritrosia (non sempre rispettata, comunque) del sistema mediatico mainstream (lo stesso sistema contro cui tuona il rivoluzionario da salotto Fusaro) a parlare di me/noi c’è. Mentre non c’è alcuna ritrosia, da parte di tale sistema mediatico, nell’invitare spesso e volentieri l’esimio prof. Diego Fusaro, graditissimo sparring partner e avversario dialettico di comodo (irrisorio e irrilevante) per tutti i fiancheggiatori dell’egemonia neoliberista e postdemocratica in atto da decenni in Italia e in Europa.7) L’apice della sua insolenza e insipienza malevola, esimio Giovanni Seia, lei la raggiunge però quando parla, riferendosi a “Grande Oriente Democratico”, «di un’associazione massonica spuria che si dichiara democratica ma che nulla ha a che fare con il potere del demos. La cautela e il confronto sono le basi di una democratica intelligenza». Lei è massone? Oppure uno studioso/esperto di cose massoniche? O ha studiato la Massoneria presso i libri del suo compare “monarchicheggiante” Aldo Mola, le cui opere sulla Massoneria appaiono, a ben vedere, estremamente lacunose e fuorvianti (oltre che faziosamente ispirate rispetto ad alcuni gruppi massonici italiani ed esteri)? A che titolo e in nome di quale sapienza o esperienza diretta Lei ha l’autorevolezza per definire cosa sia o non sia una “associazione massonica pura o spuria”? I Fratelli e le Sorelle di Grande Oriente Democratico (www.grandeoriente-democratico.com ), comunque, se ne rideranno delle sue ridicole farneticazioni e continueranno a consolidare la propria funzione “liquida e sovranazionale” di network massonico in grado di collegare le migliori avanguardie liberomuratorie progressiste planetarie.Quanto a Lei, Giovanni Seia, non ci sembra distinguersi né per spirito democratico (altrimenti come potrebbe tenere tanto alla celebrazione di un monarca, Vittorio Emanuele III, che sancì l’avvento del Fascismo e la fine della Democrazia, in Italia, per circa un ventennio?), né per intelligenza. Però ci sembra un sincero e schietto ipocrita quando ci saluta scrivendo “cordialmente”, mentre invece la sua missiva era tutto tranne che cordiale. Ecco perché la saluto senza alcuna stima ma anche senza veruna cordialità, proprio per non comportarmi da ipocrita come lei. Ad maiora.Gioele Magaldi, storico, filosofo, Presidente del Movimento Roosevelt, Gran Maestro del Grande Oriente Democratico/Sovrano Gran Commendatore e Patriarca del Rito Europeo Universale.(Riceviamo e pubblichiamo questa lettera di Gioele Magaldi, “Riscontro alla sua stralunata e imprecisa mail”, che risponde a una lettera di Giovanni Seia a lui indirizzata, inviata a Libreidee). Egregio Giovanni Seia, il curatore del sito Libreidee Giorgio Cattaneo mi ha girato una mail da lui ricevuta e che appare come un commento all’articolo pubblicato sullo stesso sito (vedi “Fusaro chiede poltrone alla Lega e poi pranza col Savoia” ). Orbene, lei scrive: «Egregio Signor Magaldi, prima di scrivere notizie errate e prive di fondamento sarebbe opportuno ricorrere alla fonte, onde evitare una becera informazione che evidenzia unicamente la spasmodica voglia di un fanciullesco protagonismo. Sono il delegato dell’Istituto Nazionale per la Guardia d’Onore alle Reali Tombe del Pantheon e l’organizzatore della conferenza storico-scientifica, del 16 novembre scorso, sulla figura del Re Vittorio Emanuele III nella ricorrenza dei 150 anni dalla sua nascita, data peraltro dimenticata completamente, pur essendo stato il Re Capo di Stato per ben 46 anni. La conferenza che ha visto la partecipazione di circa 400 persone, è stata tenuta da due illustri professori, Fréderic Le Moal de l’Ecole Militaire de Saint Syr e Francesco Perfetti della Luiss di Roma».
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Macché nozze, gli Agnelli hanno venduto la Fiat alla Francia
«Ma quali nozze? Quello tra Peugeot-Psa e Fca non è un matrimonio, ma una compravendita. I francesi hanno acquistato un’azienda americana perché interessati al marchio Jeep-Ram e gli azionisti di Fiat-Chrysler hanno ricevuto una barca di soldi. Però nessuno si stupisca quando il ceo del nuovo gruppo, Carlos Tavares, dovendo fare tagli privilegerà gli impianti d’Oltralpe e quelli tedeschi: il suo azionista si chiama Emmanuel Macron e con la cancelliera Angela Merkel per Opel ha un accordo che blocca ogni licenziamento e che durerà almeno fino al 2023. Il quartier generale sarà a Parigi, la sede fiscale ad Amsterdam. E l’Italia? E Torino? Ne escono sconfitte stupidamente, continuando a fare finta che la Fiat Auto non sia morta, invece lo è dal 2009. A Torino è rimasta una targa e quattro stabilimenti-cacciavite». Così parla Riccardo Ruggeri, ex top manager di corso Marconi e acuto saggista, intervistato da Stefano Rizzi per “Lo Spiffero”, giornale online diretto dal torinese Bruno Babando. «A Torino – ricorda Rizzi – Riccardo Ruggeri è nato 84 anni fa, infanzia in una portineria di 15 metri quadrati dove i genitori abitavano con i nonni e lui dormiva su una brandina in cucina». Figlio e nipote di operai, Ruggeri cominciò proprio come operaio a Mirafiori, per poi diventare impiegato e infine dirigente, al vertice del colosso New Holland: per anni è stato «uno dei top manager più vicini all’Avvocato».Consulente di livello internazionale, ma anche voce dura e spesso fuori dal coro, capace di analisi affilate. Qualcuno, annota Rizzi, gli dato pure del populista, quando ha «imbroccato con buon anticipo lo scenario che si sarebbe verificato con quel matrimonio, che tale non è». Aggiunge il giornalista: Ruggeri «sa che a molti non piace che qualcuno scriva quel che poi si avvera, ma lui lo fa lo stesso da almeno dieci anni». Come mai, dunque, la Fiat sarebbe “morta” un decennio fa? «Bisogna partire proprio da lì, per capire quelle che con un’altra finzione continuano ad essere definite nozze tra Peugeot e Fca», premette Ruggeri. «Intanto non è vero che Fiat fosse tecnicamente finita quando arrivò Sergio Marchionne nel 2004», aggiunge l’ex manager. Il fattaccio «succede invece nel 2009, quando Moody’s taglia il rating e declassa il titolo a spazzatura». Finanza, dunque. «Due mesi dopo il presidente degli Stati Uniti Obama si trova nella situazione di dover salvare Chrysler. Tutti gli altri costruttori del mondo avevano declinato la richiesta, rimaneva solo Fiat. E salvando Chrysler ha salvato Fiat. Prese una decisione che i nostri finti liberisti non avrebbero mai preso». Per Riccardo Ruggeri, in Italia questo non sarebbe potuto accadere: «Il governo italiano faceva finta che la Fiat non fosse di fatto fallita, non ha voluto metterci quattrini e di conseguenza ce li ha messi Obama».Insiste Ruggeri: è stato Obama ad affidare il gruppo «a una persona straordinaria come Marchionne», al quale ha detto di fare gli interessi dell’azionista. «E Marchionne lo ha fatto». Per Ruggeri, Marchionne «si è reso conto che non c’erano possibilità di risanamento». E così, «da quel momento ha smesso di fare il manager ed è diventato un “deal maker”», cioè un operatore finanziario «abilissimo a fare il massimo interesse degli azionisti, che non erano solo Agnelli, ma anche l’establishment americano, dopo la privatizzazione fatta da Obama». Quindi, secondo Ruggeri, è da lì che comincia quell’operazione di preparazione alle dismissioni, la “donazione di organi” dell’ex gigante italiano dell’automotive. «Da quel momento la Fiat Auto è morta», afferma Ruggeri. «Marchionne per anni ha presentato piani strategici che in parte hanno nascosto la realtà: la Fiat se ne va e all’Italia non resta più un’industria dell’automobile». Sottolinea l’ex manager: «Caso unico: nessuno al mondo, salvo il nostro paese, ha rinunciato all’industria automobilistica. I governi di centrodestra e di centrosinistra dell’epoca si guardarono bene dal fare come Obama, nazionalizzare per poi privatizzare, mantenendo però governance, cervelli e lavoro negli Stati Uniti».L’Italia, continua Ruggeri, «ha perso la sua centenaria industria dell’auto seguendo teorie intellettualoidi di miserabili leadership nostrane». Ora la realtà è ridotta alle briciole di Mirafiori, Melfi, Termini Imerese e Pomigliano d’Arco: «Ci sono rimasti quattro stabilimenti il cui destino è nelle mani dell’acquirente francese. Bisogna prenderne atto. Non raccontiamoci la balla che l’Italia conti qualcosa». Si sarebbe potuto salvare Fiat tenendola in Italia? «Io sono convinto di sì, per esempio vendendola a Mercedes», risponde Ruggeri, «ma all’epoca si decise di no». Invece, sottolinea Rizzi, si proseguì con operazioni vantaggiose per gli azionisti mentre ormai il gruppo era fuori dall’Italia, fino ad arrivare a quello che, poche settimane fa, è stato annunciato e salutato come un matrimonio. «Esatto. La vendita a Peugeot è l’ultimo atto di una strategia concepita in modo impeccabile da Marchionne, finalizzata esclusivamente agli interessi degli azionisti». Prima è stata la volta di Cnh e Iveco, poi lo scorporo di Ferrari, poi ancora la vendita di Magneti Marelli che ha fruttato 6 miliardi. E adesso siamo ai titoli di coda, con quelle che chiamano ancora “nozze” con Peugeot.«Tutti devono sapere che, come è successo, quando il compratore liquida al venditore un cedolone da 5,5 miliardi significa che è lui a comandare», sottolinea Ruggeri. «In pratica Peugeot si è comprata Fca pagando un premio del 25-32%». Riassume lo “Spiffero”: per l’ennesima volta, gli azionisti hanno fatto un affare sulla pelle del paese, che ci ha rimesso (dopo aver sostenuto la Fiat per decenni, con aiuti di Stato e cassa integrazione). Cosa c’è da aspettarsi ancora, dopo le finte nozze con i francesi? «Il Ceo Tavares presto incomincerà a ristrutturare, ad eliminare sovrapposizioni: a tagliare, insomma». Riccardo Ruggeri ha una visione chiarissima della situazione: «La produzione di modelli medio-piccoli tra Peugeot, Opel e Fca è in eccesso», avverte. «Dovendo scegliere tra uno stabilimento in Francia, ma anche in Germania, e uno in Italia, avendo un azionista che si chiama Macron e un accordo con la Merkel, cosa pensate che farà?». Bella domanda, da girare magari al povero Landini, che all’epoca si scontrò con Marchionne. Inutile invece recapitarla a Palazzo Chigi, al fantasma di Conte, o ai partiti (tutti: Lega, 5 Stelle, Pd e Forza Italia) assolutamente sordomuti di fronte alle “finte nozze” dei torinesi, che intascano 5 miliardi e mezzo lasciando ai francesi il compito di smontare quel che resta della Fabbrica Italia di cui cianciava l’abilissimo Marchionne.«Ma quali nozze? Quello tra Peugeot-Psa e Fca non è un matrimonio, ma una compravendita. I francesi hanno acquistato un’azienda americana perché interessati al marchio Jeep-Ram e gli azionisti di Fiat-Chrysler hanno ricevuto una barca di soldi. Però nessuno si stupisca quando il ceo del nuovo gruppo, Carlos Tavares, dovendo fare tagli privilegerà gli impianti d’Oltralpe e quelli tedeschi: il suo azionista si chiama Emmanuel Macron e con la cancelliera Angela Merkel per Opel ha un accordo che blocca ogni licenziamento e che durerà almeno fino al 2023. Il quartier generale sarà a Parigi, la sede fiscale ad Amsterdam. E l’Italia? E Torino? Ne escono sconfitte stupidamente, continuando a fare finta che la Fiat Auto non sia morta, invece lo è dal 2009. A Torino è rimasta una targa e quattro stabilimenti-cacciavite». Così parla Riccardo Ruggeri, ex top manager di corso Marconi e acuto saggista, intervistato da Stefano Rizzi per “Lo Spiffero“, giornale online diretto dal torinese Bruno Babando. «A Torino – ricorda Rizzi – Riccardo Ruggeri è nato 84 anni fa, infanzia in una portineria di 15 metri quadrati dove i genitori abitavano con i nonni e lui dormiva su una brandina in cucina». Figlio e nipote di operai, Ruggeri cominciò proprio come operaio a Mirafiori, per poi diventare impiegato e infine dirigente, al vertice del colosso New Holland: per anni è stato «uno dei top manager più vicini all’Avvocato».