Archivio del Tag ‘Liguria’
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Tino Aime, il timido maestro che ha fatto parlare l’invisibile
Quando un maestro trasloca, tace il rumore e l’aria si popola di parole sospese, che restano lì e non se ne andranno. Tino Aime, riconosciuto caposcuola ed elegantissimo incisore, cresciuto nella Torino del dopoguerra, quella di Casorati, fu iniziato alla Libera Accademia sotto la guida di Idro Colombi. Era nato a Cuneo 86 anni fa. Discendeva da una stirpe di pastori annidata sulle impervie alture di Roaschia, valle Gesso, zona Nuto Revelli. Memorabile il primo incontro tra i due, in alta val Maira: lo scrittore a caccia di sopravvissuti in carne e ossa, il pittore in cerca di altre sopravvivenze, ancora più impalpabili. Nuto Revelli e poi anche Davide Lajolo, Nico Orengo, Massimo Mila, finissimi cantori come Francesco Biamonti. Tutti innamorati del segno inimitabile dell’ex ragazzo di Roaschia. Fino al grande Mario Rigoni Stern, vera e propria anima gemella, accomunato dallo stesso amore per i silenzi del bosco, la montagna scabra e nuda, la lingua nitida e sincera della neve. Il vero nome di Aime, Battista, rivela quasi una vocazione: un battesimo della luce, fatto di nuovi occhi per scrutare l’orizzonte e scoprire che, volendo, la meraviglia abita ovunque.Chi l’ha conosciuto ha potuto constatare la perfetta coincidenza tra l’opera e la vita: stessa capacità di dire tutto, con pochissimo, senza parlare quasi mai. Arte figurativa, in apparenza, ma con dentro le stimmate del vasto Novecento, il codice cifrato dei Sironi, dei Morandi. Le tele degli esordi raccontano periferie desolate, urbane, travolte dall’industria. Lo spirito del tempo: un carotaggio nel dolore, tra le macerie della guerra appena spentasi – tanto più vivo nell’artista giovanissimo, scampato con terrore (per due volte, da bambino) alle bombe degli alleati. Poi, però, Tino ha lasciato la città. Ha scelto la montagna, seguendo l’istinto: il ritorno alla terra magra degli antenati. E non ne ha fatto un’elegia, ma un cantico, riuscendo sempre a far vibrare l’aria. Schivo e ritroso, timidissimo, si è avventurato nel sua homeland che non ha confini, ha per frontiera solo il cielo. Niente alpinismo, nessuna cartolina. Terra vissuta, scura e primordiale, dentro un’archeologia di case diroccate, un’antropologia di assenze. Un viaggio nel silenzio, rischiarato dalla luna. Un’armonia di essenze indecifrabili e misteri, oltre il fraseggio elementare della geografia, dell’apparenza.Vedere quello che non c’è. Mostrare quel che c’è, ma non si vede. Una missione: condotta fino in fondo, per tutta la vita, come un dovere segreto, una promessa impossibile da estinguere. Tutto nasce da una strana confidenza, che avvicina all’invisibile. Narrazioni sottili, la finezza laconica dell’haiku. Ovunque espressa: nella solarità mediterranea del Ponente ligure, nei deserti spagnoli dell’Estremadura, nel bianco abbacinante dell’Andalusia. E tra le lande dell’amatissima Provenza dove Tino, ancora giovane, fu scelto – per elezione – dalla chiassosa banda dei gitani, il favoloso popolo migrante, alle prese coi festeggiamenti della loro regina, sulla spiaggia che ricorda il leggendario sbarco delle Marie venute dal mare, appena dopo il supplizio del Calvario. Tra i misteri di Tino Aime, il Battista cuneese, la passione con la quale – da laico irriducibile – ha offerto la sua arte alla simbologia spirituale, religiosa, con Cristi crocefissi – plastici, inteneriti – che adornano abbazie, chiese, cappelle di montagna.Si è spinto in Romania, tra le selve dei germani, nella laguna di Venezia – ricamando l’intarsio dei palazzi che si specchiano in un cielo d’acqua. Ma la sua vera casa è stata soprattutto la montagna piemontese, dalle natìe vallate d’Occitania fino alla patria di più recente acquisizione, la tormentata val di Susa, esplorata in profondità e fatta parlare in modo insospettabile, sciorinando storie e lingue sconosciute. Un’epica silente, che ricorda le cadenze di Neruda, l’attitudine domestica alla gioia, là dove non l’aspetti. Compaiono giganti, ma sono solo pettirossi, merli, ortensie. E tutto è misteriosamente sacro, in Tino Aime. Le sue notti incantate, i suoi inverni. L’impenetrabile splendore delle cose, recitato col cuore, rispondendo a una chiamata antica.Era anche amaro, a volte, il vecchio Tino. Scoraggiato, dalla barbarie incorreggibile del mondo. Siate onesti, ha mandato a dire – di recente – a una scolaresca di artisti in erba. E state in guardia: non fidatevi di quel che vi raccontano. Tino ha ascoltato tutti, ma poi ha sempre scelto in solitudine. Sapeva cosa fare, dove andare. Che verità evocare, sapendole tacere. Usava specchi, per incidere le lastre. Come Leonardo, conosceva l’arte del contrario – certo che il tutto, poi, si rivelasse alla distanza, senza strappi. Niente e nessuno in prima fila, mai, nel suo mosaico: parti dell’armonia, l’insieme risuonante. Amava lavorare a suon di musica, spesso sceglieva Bach. Ha frequentato – in buona compagnia, la sua – il gran paese da cui scendono silenzi e sogni. Quelli rimasti qui non svaniranno, grazie a lui.Quando un maestro trasloca, tace il rumore e l’aria si popola di parole sospese, che restano lì e non se ne andranno. Tino Aime, riconosciuto caposcuola ed elegantissimo incisore, cresciuto nella Torino del dopoguerra, quella di Casorati, fu iniziato alla Libera Accademia sotto la guida di Idro Colombi. Era nato a Cuneo 86 anni fa. Discendeva da una stirpe di pastori annidata sulle impervie alture di Roaschia, valle Gesso, zona Nuto Revelli. Memorabile il primo incontro tra i due, in alta val Maira: lo scrittore a caccia di sopravvissuti in carne e ossa, il pittore in cerca di altre sopravvivenze, ancora più impalpabili. Nuto Revelli e poi anche Davide Lajolo, Nico Orengo, Massimo Mila, finissimi cantori come Francesco Biamonti. Tutti innamorati del segno inimitabile dell’ex ragazzo di Roaschia. Fino al grande Mario Rigoni Stern, vera e propria anima gemella, accomunato dallo stesso amore per i silenzi del bosco, la montagna scabra e nuda, la lingua nitida e sincera della neve. Il vero nome di Aime, Battista, rivela quasi una vocazione: un battesimo della luce, fatto di nuovi occhi per scrutare l’orizzonte e scoprire che, volendo, la meraviglia abita ovunque.
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5 Stelle (e strisce), come la Lega: oggi Grillo, ieri Bossi
Ogni fase politica della Repubblica italiana è stata scandita da un partito “di protesta”, funzionale agli interessi dell’establishment atlantico: si comincia con L’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini per terminare col Movimento 5 Stelle di Gianroberto Casaleggio, passando per il Partito Radicale di Marco Pannella e la Lega Nord di Umberto Bossi. Fino alla recente svolta nazionalista, filorussa e anti-euro, il Carroccio è infatti stato uno dei tanti prodotti di Washington e Londra, schierato su posizioni “thatcheriane” ed europeiste. E’ la tesi di Federico Dezzani, analista geopolitico, impegnato in una ricostruzione “non convenzionale” della storia recente del nostro paese. Nei primi anni ‘90, ricorda, la Lega Nord avrebbe dovuto essere lo strumento per attuare un ambizioso disegno geopolitico: la frantumazione dello Stato unitario e la nascita di una confederazione di tre “macroregioni”, così da cancellare l’Italia come attore del Mar Mediterraneo. Questo, secondo Dezzani, il vero ruolo della Lega Nord durante Tangentopoli, a cominciare dalla figura, allora determinante, del suo ideologo, il professor Gianfranco Miglio.«Non si muove foglia che Washington non voglia: anche in Padania». In politica, sostiene Dezzani nel suo blog, ogni segmento della domanda deve essere coperto, come in ogni altro settore di mercato: l’offerta deve essere costantemente rinnovata e nuovi prodotti possono essere lanciati grazie a un’adeguata campagna pubblicitaria. Basta considerare i partiti alla stregua di ogni altro prodotto di consumo. «L’abilità di chi tira i fili della democrazia consiste nel rifornire gli scaffali dalla politica dei partiti giusti, al momento giusto: ad ogni tornata elettorale, i votanti acquisteranno i loro prodotti preferiti, con grande soddisfazione di chi controlla il grande supermercato della democrazia». Negli ultimi anni, va crescendo la “specialità” dei partiti di protesta. Ma la loro origine non è recente, ricorda Dezzani: «Risale agli albori della Repubblica Italiana, quando Washington e Londra foggiarono per l’Italia una singolare democrazia, dove la seconda forza politica del paese, il Pci, era esclusa “de iure” dal governo», ovviamente per ragioni geopolitiche (la sua contiguità con l’Urss, avversaria della Nato).«Per ovviare a questo opprimente immobilismo, che un po’ stona con le logiche del mercato», in 70 anni sono state immesse diverse sigle per intercettare il malcontento dell’elettorato e la domanda di cambiamento: «Si comincia, prima delle elezioni del 1948, con l’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini e si termina oggi con il Movimento 5 Stelle di Davide Casaleggio». Annota Dezzani: «Sia Giannini che Casaleggio sono, incidentalmente, inglesi da parte materna». Tra i due estremi, l’analista annovera anche il Partito Radicale di Marco Pannella, «che prestò non pochi servigi all’establishment atlantico: la campagna per le dimissioni del presidente Giovanni Leone, quella per l’aborto e il divorzio, i referendum del 1993 contro “la partitocrazia” e “lo Stato-Padrone”». E poi c’è anche il caso della Lega Nord, nata e cresciuta nei travagliati primi anni ‘90, nutrendosi dei voti in uscita dal Psi e soprattutto dalla Dc. Ma come? Anche il folkloristico Carroccio, i raduni di Pontida, il “dio Po” e il leggendario Alberto da Giussano, sarebbero un prodotto dell’establishment atlantico? Ebbene sì, scrive Dezzani: «È una verità che probabilmente spiazzerà molti leghisti della prima ora», ma è indispensabile per capire, ad esempio, «perché Umberto Bossi, padre-padrone della primigenia Lega Nord, contesti la recente svolta nazionalista, anti-euro e filorussa di Matteo Salvini».Salvini appare deciso a trasformare (con esiti incerti) il Carroccio nella versione italiana del Front National? Non a caso, il redivivo Bossi oggi gli si oppone, chiedendo un congresso. «Bruxelles è sempre stata ed è tuttora il faro di Umberto Bossi, sebbene il suo obiettivo fosse agganciarsi all’Unione Europea non attraverso l’Italia, ma tramite la “Padania”, in ossequio a quella “Europa della macroregioni” tanto cara all’establishment atlantico», sostiene Dezzani. Il progetto: «Smembrare gli Stati nazionali per sostituirli, al vertice, con un governo sovranazionale e, alla base, con una costellazione di cantoni, regioni e feudi: l’oligarchia libera di comandare indisturbata su 500 milioni di persone ed i paesani appagati delle loro effimere autonomie». La storia della Lega Nord, continua l’analista, è indissolubilmente legata al crollo del Pentapartito. Cioè alle manovre, iniziate con la firma del Trattato di Maastricht, per traghettare l’Italia verso la nascente Unione Europea a qualsiasi costo: vergognose privatizzazioni, saccheggi del risparmio privato, attentati terroristici e giustizialismo spiccio. «Studiare l’origine della Lega Nord significa quindi completare l’analisi dell’infamante biennio 1992-1993 che travolse la Prima Repubblica e forgiò la Seconda, dove Umberto Bossi ha giocato un ruolo di primo piano».La Lega Nord nasce ufficialmente nel febbraio del 1991, come federazione della Lega Lombarda, della Liga Veneta, di Piemont Autonomista e dell’Union Ligure: «Chi volesse indagare sul periodo proto-leghista, scoprirebbe quasi certamente che anche questi movimenti autonomisti nascono nel medesimo humus massonico-atlantista da cui germoglierà poi il Carroccio». La Liga Veneta, quella più radicata e “antica”, compie i primi passi presso l’istituto privato linguistico Bertrand Russell di Padova, dove nel 1978 è istituito un corso di storia, lingua e civiltà veneta. «Chi volesse scavare più indietro ancora – ipotizza Dezzani – potrebbe riallacciarsi alla lunga serie di attentati destabilizzanti, di matrice autonomista e secessionista, che colpiscono tra gli anni ‘50 e ‘60 il Nord-Est dove, è bene ricordarlo, la concentrazione delle forze armante angloamericane è più alta che in qualsiasi altra parte dell’Italia continentale», come nel caso della caserma Ederle di Vicenza e della base di Aviano, fuori Udine. «L’idea di superare le leghe su base “etnica” e di federarle in un’unica Lega allargata all’intero Nord, ribattezzato all’occorrenza come “Padania”, è comunque ufficialmente attribuita ad Umberto Bossi». Ma il “senatur” ne è stato l’unico padre o è stato “aiutato” da una regia più ampia, «sofisticata e altolocata», come quella che starebbe dietro ai 5 Stelle?«Diversi elementi fanno propendere per la seconda ipotesi», continua Dezzani, «declassando Umberto Bossi al ruolo di capo carismatico di facciata, di semplice tribuno e di arringatore: la stessa funzione, per intendersi, svolta da Beppe Grillo nel M5S». Siamo infatti nel febbraio 1991, il Muro di Berlino è crollato da due anni e l’Unione Sovietica collasserà entro pochi mesi: «L’oligarchia atlantica ha già stilato i suoi piani per il “Nuovo Ordine Mondiale” che, calati nella realtà italiana, significano l’abbattimento della Prima Repubblica, l’archiviazione della Dc e del Psi, lo smantellamento dell’economia mista e, se possibile, anche un nuovo assetto geopolitico per la penisola», da attuare attraverso i movimenti indipendentisti. Segnale importante: «L’accoglienza che la grande stampa anglosassone riserva al neonato Carroccio, simile a quella che il Movimento 5 Stelle riceverà a distanza di 15 anni, non lascia adito a dubbi circa l’interessamento che Londra e Washington nutrono per la neonata formazione nordista: il 4 ottobre 1991 il “Wall Street Journal” definisce la formazione di Umberto Bossi come “il più influente agente di cambiamento della scena politica italiana”».Poco dopo, nel gennaio 1992, il settimanale statunitense “Time” definisce Bossi come il leader più popolare e temuto della politica italiana. E il 28 marzo, il settimanale inglese “The Economist”, megafono della City, accomuna la Lega Nord al Partito Repubblicano di Ugo La Malfa, definendolo come «l’unico fattore di rinnovamento nel decadente panorama politico italiano». Sono le stesse settimane in cui Mario Chiesa, esponente socialista e presidente del Pio Albergo Trivulzio, è arrestato a Milano per aver intascato una bustarella: è il primo atto di quell’inchiesta giudiziaria, Mani Pulite, destinata a travolgere il Pentapartito e la Prima Repubblica. «Non c’è dubbio che la Lega Nord debba “completare”, nei piani angloamericani, l’inchiesta di Tangentopoli», sostiene Dezzani: «Il pool di Mani Pulite è incaricato di smantellare la Dc ed il Psi, mentre il Carroccio ha lo scopo di intercettare i voti in fuga dai vecchi partiti prossimi al collasso». E il trait d’union tra il palazzo di giustizia milanese e la Lega Nord, sempre secondo Dezzani, è fisicamente incarnato dal console americano Peter Semler, cioè il funzionario statunitense che, alla fine del 1991, un paio di mesi prima dell’arresto di Mario Chiesa, “incontra” Antonio Di Pietro nei suoi uffici per discutere delle imminenti inchieste giudiziarie. E’ lo stesso funzionario che, «quasi contemporaneamente, “incontra” i dirigenti della Lega Nord».In una recente intervista a “La Stampa”, Semler ammette di aver pranzato con due dirigenti leghisti il 1° gennaio 1992: «Quello che mi colpì di più era un ex poliziotto, ex militare. Giocammo al golf club di Milano e mi dissero: “Cambierà tutto”». Rileva Dezzani: «C’è da scommettere che non siano stati i due leader della Lega Nord ad avvertire il console americano che tutto sarebbe cambiato, bensì l’opposto». Il Carroccio, infatti, all’epoca «è parte integrante della manovra angloamericana per smantellare il Psi e la Dc», con la sua corrosiva e talvolta violenta retorica contro la partitocrazia della Prima Repubblica, lo Stato clientelare ed assistenzialista (indimenticabile il cappio sventolato nel 1993 a Montecitorio, per “appendervi” i politici corrotti). Ma perché mai, continua Dezzani, l’attacco è sferrato “su base regionale”, attraverso una formazione che inneggia alla Padania onesta e laboriosa, contro la Roma corrotta e la ladrona, sede di “un Parlamento infetto”? Ovvero: perché la stessa funzione non è assolta da un partito di protesta “nazionale”, come è oggi il Movimento 5 Stelle?«Compito della Lega Nord – riprende Dezzani, parlano al presente storico – è anche quello di attuare il piano geopolitico che l’establishment atlantico ha in serbo per l’Italia in questa drammatica fase della vita nazionale: passare dall’Italia unita all’unione, o confederazione, di tre macroregioni», ovvero la Repubblica del Nord (o Padania), una repubblica del Centro e una del Sud: «E’ il periodo, infatti, delle “stragi mafiose” e Cosa Nostra ed il Carroccio sembrano lavorare all’unisono (d’altronde, la regia a monte è comune) per ritagliarsi ognuno il proprio feudo, cannibalizzando lo Stato nazionale». Da qui, Dezzani mette in luce l’entrata in scena di una figura-chiave del leghismo delle origini, il personaggio politico che avrebbe dovuto essere “la mente” del processo di secessione della Repubblica dal Nord: Gianfranco Miglio, classe 1918 (scomparso poi nel 2001). Allievo del filosofo liberale Alessandro Passerin d’Entrèves (a lungo docente all’Università di Oxford e quella di Yale) e del giurista Giorgio Balladore Pallieri (primo giudice italiano alla Corte europea dei diritti dell’uomo).Docente all’Università Cattolica di Milano, teorizzatore del decisionismo, studioso del federalismo e ascoltato consulente in materia di riforme costituzionali, vero e proprio “giacobino di destra”, Gianfranco Miglio è un intellettuale molto gettonato dai politici e dagli alti manager della Prima Repubblica in cerca di consigli. Miglio comincia coll’assistere l’uomo più potente d’Italia, Eugenio Cefis: presidente dell’Eni dal 1967, dopo la morte di Enrico Mattei, fino al 1971, e poi numero uno della Montedison dal 1971 al 1977. Secondo Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, uscito nel 2016, Cefis è stato il capo della Loggia P1, vero dominus delle strategie coperte per la manipolazione occulta dell’Italia. Carpeoro la chiama “sovragestione”: un intreccio di poteri fortissimi eterodiretti dagli Usa, reti massoniche e servizi segreti deviati. Un livello di potere assai più alto e protetto di quello rappresentato dalla P2 di Gelli, che infatti all’occorrenza fu sacrificato sull’altare dell’opinione pubblica, a differenza del potentissimo Cefis, che è anche l’uomo-ombra di “Petrolio”, il romanzo incompiuto sulla fine di Mattei che forse è costato la vita a Pasolini. Tornando alla ricostruzione di Dezzani sulle mosse di Miglio: dopo aver collaborato con Cefis, l’ideologo della Padania ha fatto anche da consulente al primo ministro Bettino Craxi.Nei tumultuosi anni che seguono la caduta del Muro di Berlino – scrive Dezzani – il professor Miglio compie una spettacolare e singolare metamorfosi: nel giugno del 1989, constata la precarietà delle finanze pubbliche e del panorama politico italiani, suggerisce nientemeno che «sospendere le prove elettorali per un certo periodo, dar vita a un lungo Parlamento, bloccare il ricambio parlamentare, che so, per 8-10 anni», affidando quindi poteri speciali al Pentapartito per fronteggiare le emergenze. Dopo nemmeno due anni, Miglio è invece diventato “l’ideologo” della costituenda Lega Nord, nonché il più severo e spietato censore della partitocrazia, dello Stato parassitario e della deriva mafiosa del Meridione: «E’ difficile spiegare questo repentino cambiamento e il suo “affiancamento” a Umberto Bossi, se non come un’operazione studiata a tavolino, concepita da quegli “ambienti liberali ed anglofoni” che Miglio frequenta sin dalla gioventù».Gianfranco Miglio, annota Dezzani, è l’architetto di quelle riforme costituzionali che dovrebbero scardinare l’assetto geopolitico dell’Italia, servendosi della Lega Nord e di Umberto Bossi come semplici grimaldelli. Esisterebbero, secondo il professore, due Italie: una europea, da agganciare alla nascente Unione Europea, e una mediterranea, da abbandonare alla deriva verso il Levante e il Nord Africa. Lo Stato unitario ha fatto il suo tempo e sulle sue macerie bisogna edificare uno Stato federale, o meglio ancora confederale, costruito da tre entità separate: una Repubblica del Nord, una del Centro e una del Sud. Al governo centrale della neo-costituita Unione Italiana, spetterebbero soltanto la difesa e parte della politica estera. «Il disegno sottostante alle ricette di Miglio è chiaro: sfruttare l’inchiesta di Tangentopoli che sta sconquassando la politica, il crollo del Pentapartito, la strategia della tensione e l’emergenza finanziaria, per cancellare l’Italia unitaria come soggetto geopolitico. Un’Italia che, con Enrico Mattei, Aldo Moro e le politiche filo-arabe di Bettino Craxi e Giulio Andreotti, ha dimostrato di poter infastidire gli angloamericani nello strategico bacino mediterraneo».Le elezioni politiche del 5 aprile 1992 vedono la Lega Nord raccogliere una discreta percentuale dei voti in uscita dalla Dc e dal Psi: in Lombardia il Carroccio raccoglie il 23% delle preferenze, ad un solo punto dai democristiani, ma si ferma all’8,65% a scala nazionale, mentre le varie leghe del Sud non decollano. «Non è andata così bene, dovevamo essere determinanti», ammette Bossi, ben sapendo che la secessione del Nord dal resto d’Italia implicherebbe una forza elettorale che la Lega dimostra di non avere. Bottino elettorale: 55 deputati e 25 senatori. Sono abbastanza, «per portare a compimento la demolizione della Prima Repubblica e il rapido smantellamento dell’economia mista, come auspicato dai croceristi del Britannia». Ecco il punto, per Dezzani: «Non c’è una singola mossa del Carroccio, infatti, che si discosti dall’agenda che l’establishment atlantico ha in serbo per l’Italia: la Lega è decisiva per bloccare l’elezione di Giulio Andreotti al Quirinale, si schiera contro l’ipotesi di una presidenza del Consiglio affidata a Bettino Craxi, è favorevole ad un aggressivo piano di privatizzazioni».«Gli economisti di Bossi credono nella Thatcher», titola la “Repubblica”, riportando che la Lega vuole «privatizzare tutte le imprese di Stato, dall’Iri all’Eni, all’Efim. Senza risparmiare le banche pubbliche come Bnl, Comit, Credito italiano, San Paolo di Torino. Largo ai privati anche per le Ferrovie, l’Enel e le Poste». La Lega di Bossi, aggiunge Dezzani, è fautrice di un “liberismo spinto” contrapposto allo Stato-padrone, definito ovviamente come «parassitario, bizantino, romano-centrico, corrotto, ladrone». Non solo, il Carroccio «gioca di sponda con le “menti raffinatissime” che stanno attuando una spietata strategia di destabilizzazione per meglio saccheggiare i risparmi degli italiani e l’industria pubblica: mentre i servizi segreti “deviati” piazzano bombe in tutt’Italia e gli squali dell’alta finanza si accaniscono sui Btp, la Lega Nord getta altra benzina sul fuoco, incitando allo sciopero fiscale, sconsigliando di comprare i titoli di Stato, evocando la separazione del Sud mafioso dal resto dell’Italia, gridando all’imminente secessione della Padania».«Ma se la casa crolla, il Nord deve andarsene», è un sintomatico titolo della “Repubblica” del 31 dicembre 1992. Nell’articolo, il professor Miglio dipinge un futuro a tinte fosche per l’Italia. E pronostica un imminente, drammatico peggioramento della situazione economica, anticamera della secessione della Repubblica del Nord: «Se si arrivasse a non riuscire a controllare più niente, se non si riuscisse più ad avere i servizi, se la sicurezza e le garanzie crollassero, è evidente che ciascuno penserebbe a se stesso. Probabilmente anche il Sud se ne andrebbe per conto suo». Bingo: per Dezzani, «le parole dell’ideologo del Carroccio sono musica per chi, a Washington e Londra, lavora per tenere l’Italia in costante fibrillazione». Poco dopo, nel 1993, l’inchiesta di Mani Pulite ha sortito gli effetti sperati: Dc e Psi, che l’analista definisce «i vincitori morali della Guerra Fredda», sono stati spazzati via dal pool di Milano. «L’unico grande partito risparmiato dalle inchieste giudiziarie è stato il Pci, riverniciato ora come Pds, cui gli angloamericani contano di affidare il governo facendo affidamento sulla sua ricattabilità», dato che «nella Russia allo sfascio si comprano gli archivi del Kgb a prezzo di saldo».Se dalle successive elezioni uscisse un Nord saldamente in mano al Carroccio e un Centro-Sud in mano alla sinistra, «si concretizzerebbe lo scenario di una secessione “de facto” della Padania dal resto dell’Italia». Per la Lega Nord non che resta, a questo punto, che «ricevere la benedizione “ufficiale” da parte dell’establishment atlantico, dopo lunghi rapporti reconditi ed opachi». Così, il 18 ottobre 1993 una delegazione del Carroccio si reca in visita al quartier generale della Nato a Bruxelles. E il 23 ottobre è la volta degli Stati Uniti: una prima tappa a New York, per incontrare il milieu dell’alta finanza e di Wall Street, e una seconda tappa a Washington, dove sono in programma pranzi di lavoro con deputati e senatori repubblicani ed esponenti della National Italian American Foundation. Ma ecco che accade qualcosa di inatteso: «La “discesa in campo” di Silvio Berlusconi, annunciata nell’autunno del 1993, è un evento non previsto dall’establishment atlantico», che secondo Dezzani puntava sulla bipartizione Lega (Nord) e sinistra (Centro-Sud). In più, il Cavaliere vince: «La neonata Forza Italia si impone alle elezioni politiche del 27-28 marzo 1994, drenando buona parte dei voti in uscita dal Psi e dalla Dc e imponendosi come primo partito del Nord Italia».La Lega, ferma all’8% delle preferenze su scala nazionale, dimostra ancora di non avere una forza sufficiente per strappare la secessione della Padania e attuare gli ambiziosi cambiamenti costituzionali sognati da Gianfranco Miglio. Forte di 122 deputati e 59 senatori, il Carroccio dispone però di un manipolo di parlamentari sufficienti per staccare la spina al primo governo Berlusconi, di cui è entrata a far parte nella cornice del Popolo della Libertà. Per Dezzani, riemerge quindi la vera natura della Lega Nord «come strumento politico nelle mani di Londra e Washington». E quando Berlusconi, durante la conferenza mondiale dell’Onu contro la criminalità organizzata, riceve un invito a comparire dal pool di Milano, Umberto Bossi «completa l’operazione per disarcionare il Cavaliere, togliendogli la fiducia e avvallando il “ribaltone” che insedia l’ex-Bankitalia Lamberto Dini a Palazzo Chigi». Si marcia così rapidamente verso nuove elezioni, e «ancora una volta il Carroccio agisce in perfetta sintonia con l’establishment atlantico: scegliendo di correre da solo e di non rinnovare l’alleanza col Popolo della Libertà, spiana la strada ai governi di Romano Prodi e Massimo D’Alema: seguirà “il contributo straordinario per l’Europa”, la scandalosa privatizzazione della Telecom, “la marchant bank” di Palazzo Chigi, la liquidazione finale dell’Iri, il vergognoso cambio di 2.000 lire per ogni nuovo euro, l’avvallo alle operazioni militari della Nato contro la Serbia».E così, mentre «quel che rimane dell’economia mista è smantellato a prezzi di saldo e i risparmi degli italiani sono immolati sull’altare della moneta unica», Umberto Bossi continua a blaterare di secessione, di camice verdi, di milizie armate del Nord, di rivolta fiscale. Dezzani lo definisce «utile idiota manovrato dall’oligarchia atlantica». La Lega tornerà al governo solo dopo le elezioni del 2001, quando i giochi “europei” saranno ormai fatti. Morale: «Le vicende della Lega Nord, di Gianfranco Miglio e di Umberto Bossi sono legate a doppio filo alla nascita Seconda Repubblica, alla perdita di qualsiasi sovranità nazionale e all’avvento della moneta unica». Secondo Dezzani, il Senatùr ne è perfettamente cosciente. Intervistato recentemente dal “Corriere della Sera”, dichiara: «Se venisse giù l’euro, verrebbe giù tutto, una situazione che nessuno saprebbe gestire. Tra l’altro, pagheremmo di più le materie prime, cosa che per un paese di trasformazione come l’Italia sarebbe un disastro. Berlusconi parla di doppia moneta, il che è una presa per il culo. Ma non è che Berlusconi non sia in grado di capire le cose». Per Dezzani, «sono le ultime battute dell’ennesima “stampella del potere”», sia pure in camicia verde.Ogni fase politica della Repubblica italiana è stata scandita da un partito “di protesta”, funzionale agli interessi dell’establishment atlantico: si comincia con L’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini per terminare col Movimento 5 Stelle di Gianroberto Casaleggio, passando per il Partito Radicale di Marco Pannella e la Lega Nord di Umberto Bossi. Fino alla recente svolta nazionalista, filorussa e anti-euro, il Carroccio è infatti stato uno dei tanti prodotti di Washington e Londra, schierato su posizioni “thatcheriane” ed europeiste. E’ la tesi di Federico Dezzani, analista geopolitico, impegnato in una ricostruzione “non convenzionale” della storia recente del nostro paese. Nei primi anni ‘90, ricorda, la Lega Nord avrebbe dovuto essere lo strumento per attuare un ambizioso disegno geopolitico: la frantumazione dello Stato unitario e la nascita di una confederazione di tre “macroregioni”, così da cancellare l’Italia come attore del Mar Mediterraneo. Questo, secondo Dezzani, il vero ruolo della Lega Nord durante Tangentopoli, a cominciare dalla figura, allora determinante, del suo ideologo, il professor Gianfranco Miglio.
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Barnard: leggete a chi vanno i miliardi della Bce. E vomitate
Mi prenderei a sberle. Avevo un documento agghiacciante in scrivania e non l’ho aperto per mesi. Dentro c’è la verità su chi Mario Draghi sta veramente finanziando coi miliardi del Quantitative Easing (Qe) mentre storce il naso se Roma chiede 20 euro per gli abruzzesi in ipotermia, sfollati da mesi, con morti in casa e la vita devastata, o per mettere 11 euro in più nel Job Act infame di Renzi e Poletti. Quando io gridavo a La7 “Criminali!” contro gli eurocrati, l’autore del programma, Alessandro Montanari, mi si avvinghiava alla giacca dietro le quinte e mi rampognava fino alla diarrea. Quel genio di Oliviero Beha mi rampognò in diretta, è in video. Ma voi leggete sotto, mentre pensate ai sofferenti d’Italia. Bacinella del vomito a portata di mano, raccomando. Il pdf in questione mi arrivò a fine ottobre via mail da Amsterdam, fonte autorevole oltre ogni dubbio. M’ingannò, porcaputtana, il subject mail che era “Draghi finanzia il Climate Change”. Pensai, ok, ci arrivo, un attimo, c’è la Siria, Trump, il referendum… Ma dentro quel pdf c’era ben di peggio. Ora alcuni fatti spiegati alla nonna per capire il resto dell’incubo Ue.La Banca Centrale Europea crea tutti gli euro che esistono. E’ una specie di governo di questa Ue. Dopo appena 13 anni la moneta unica aveva letteralmente fatto a pezzi ogni singolo paese dell’Eurozona, Germania inclusa (diedi i dati in Tv 3.000 volte). Tutto il mondo finanziario extra europeo sapeva (e sa) che l’euro è fallito. A quel punto l’unico modo perché l’unione monetaria non crollasse in una catastrofe economica da libri di storia era se il creatore dell’euro, la Bce, si metteva a comprare una gran massa dei beni finanziari emessi dagli Stati-euro che ormai erano visti come semi-spazzatura dal mondo. Questo per artificialmente tenerne i prezzi e gli interessi a un livello di decenza. Draghi con la Bce lo fece: l’operazione si chiama Quantitative Easing (Qe). Ma non bastò, anzi, le cose andarono anche peggio per motivi che già scrissi 3 milioni di volte. Il problema era che anche le aziende private nell’Eurozona andavano da vomitare.Dovete sapere che anche le aziende emettono beni finanziari, cioè titoli. E allora Draghi alla disperazione si presentò l’anno scorso a giugno e annunciò un altro Qe, però questa volta per le aziende, col nome di Cspp. E si mise a comprare miliardi in titoli di aziende per puntellarle anche se semidecomposte. Dovete capire che un’azienda ha in pratica due modi di finanziarsi con prestiti: chiedere in banca o emettere titoli. E Draghi annuncia che ora la Bce gli compra i titoli. Ok. Uno dice: be’, se serve a salvare il mobilificio di Ancona con 80 operai, perché no? La risposta è tragica e ci apre sulle porte dell’infamia della Bce. Le piccole aziende non possono emettere titoli, sono condannate alla gogna del prestito da banche, fine. Infatti la Bce di Draghi precisò che avrebbe acquistato titoli di aziende “corporate”. Che significa? Che avrebbe comprato i titoli dei cani grossi, come Telecom, o Vw. Ops! Ma per noi italiani già questa è una sciagura, perché da noi le piccole medie aziende sono il 98% delle imprese e creano il 78% della ricchezza dell’Italia. Sfiga. Crepate. Titoli Benetton? Certo che li compriamo, dice Draghi.E allora uno apre il pdf che mi arrivò a fine ottobre per mail, e scopre, transazioni bancarie alla mano, a chi stanno andando i 125 miliardi che Draghi ha programmato di sborsare per ‘puntellare’ le aziende. E uno vomita. Petrolieri, mega imprese di servizi, industrie di armi, auto di stralusso, nucleare, colossi delle privatizzazioni, giganti dal fashion o del farmaco, persino casinò e produttori di champagne. Centoventicinque miliardi di regali a ’sti tizi. Operaio, commessa, crepate in Liguria, Marche, Puglia… L’ipotermico di Teramo? Ma scherziamo? Mille eurooooo? Ma cosa pretende? Palate di miliardi di euro invece a Shell, Eni, Repsol, Total, una trentina di aziende spagnole di servizi del gas, produttori di centrali nucleari come Teollisuuden, come Siemens, e Urenco. Poi gli Agnelli con la finanziaria Fiat Exor (Ferrari), Renault, Mercedes, Vw. Poi criminali di guerra come Thales, che hanno venduto armi in Africa sulla puzza di milioni di cadaveri. Poi i nemici giurati dell’acqua pubblica, cioè i colossi francesi Vivendi e Suèz. E ancora i super-colossi: Solvay, Nestlé, Coca Cola, Unilever, Novartis, Michelin, Ryanair, Luis Vuitton, Danone, assicurazioni Allianz, Deutsche Telekom, Bayer, Telefonica, Moët & Chandon, e il mostro delle scommesse Novomatic…Soldiiiiiiiiiiiiii yes! La Bce fa proprio l’interesse del pubblico, con qualcosa come 17.900 piccole medie aziende europee che sono il cuore dell’impiego in Ue totalmente fuori dal festino. Ecco cosa dovete rispondere a chi vi rampogna “Ci vuole più Europa”. Basterebbe questo articolo per tagliargli la gola, a ’sti assassini. In Italia ’sta porcata vede fiumi di soldi versati in prima fila ai super big dell’energia, ma nessuno becca palate di liquidi come l’Eni; seguono Snam, Enel, Terna, Hera, e altri minori. Poi: Atlantia (Mediobanca, Goldman Sachs, BlackRock e Cassa Risp. Torino), le Generali, Telecom Italia, Luxottica, e i soliti Agnelli con Exor. E tu che cazzo vuoi? Tu chi sei, cittadino? Chi sei, sfigato piccolo imprenditore? Chi siamo noi, eh?, da quando Jaques Attali, uno dei padri della Bce, ci definì «la plebaglia europea»? Eccovi una notizia. Anche se, mi si perdoni, non sono immani tragedie come i 104 indagati del Pd di Travaglio-Gomez, la Raggi e la Cgil che fa i ruttini sul Job Act. Good luck Italians, good luck piccoli imprenditori e dipendenti che mai avete capito un cazzo.(Paolo Barnard, “A chi vanno i miliardi della Bce – zitta centrItalia, crepa”, dal blog di Barnard del 30 gennaio 2017).Mi prenderei a sberle. Avevo un documento agghiacciante in scrivania e non l’ho aperto per mesi. Dentro c’è la verità su chi Mario Draghi sta veramente finanziando coi miliardi del Quantitative Easing (Qe) mentre storce il naso se Roma chiede 20 euro per gli abruzzesi in ipotermia, sfollati da mesi, con morti in casa e la vita devastata, o per mettere 11 euro in più nel Job Act infame di Renzi e Poletti. Quando io gridavo a La7 “Criminali!” contro gli eurocrati, l’autore del programma, Alessandro Montanari, mi si avvinghiava alla giacca dietro le quinte e mi rampognava fino alla diarrea. Quel genio di Oliviero Beha mi rampognò in diretta, è in video. Ma voi leggete sotto, mentre pensate ai sofferenti d’Italia. Bacinella del vomito a portata di mano, raccomando. Il pdf in questione mi arrivò a fine ottobre via mail da Amsterdam, fonte autorevole oltre ogni dubbio. M’ingannò, porcaputtana, il subject mail che era “Draghi finanzia il Climate Change”. Pensai, ok, ci arrivo, un attimo, c’è la Siria, Trump, il referendum… Ma dentro quel pdf c’era ben di peggio. Ora alcuni fatti spiegati alla nonna per capire il resto dell’incubo Ue.
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Il giovane Renzi e l’idea (geniale) del Ponte sullo Stretto
Il Jobs Act, l’Italicum, il taglio del Senato, la rottamazione della Costituzione, le privatizzazioni selvagge come quella di Poste Italiane. Ma Renzi non ci fa mancare nulla, e ora rispolvera persino il Ponte sullo Stretto, per anni in pole-position nella classifica horror di berlusconiana memoria. «Non bastavano i regali alle lobby delle fonti fossili e degli inceneritori, ora rassicuriamo anche chi vorrebbe guadagnare dalla realizzazione di un’opera tanto faraonica (soprattutto nei costi) quanto inutile», protesta il presidente di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza. «Il premier sa bene, e lo dice, che le emergenze italiane sono ben altre: perché allora continua a sostenere le lobby del ‘900 e le loro idee vecchie e superate?». Rigenerazione urbana, fonti rinnovabili, mobilità sostenibile, chimica verde? Voci non pervenute, così come agricoltura di qualità, raccolta differenziata, sicurezza delle scuole, ferrovie utili. Niente da fare: la leggenda del Ponte sullo Stretto – fabbrica di progetti costosi, più che di pilastri veri e propri – va sempre bene per dare la caccia all’elettorato in fuga dal Cavaliere.«Tre anni fa il futuro premier bocciava il Ponte sullo Stretto, auspicando che quella montagna di denaro pubblico necessaria – 8 miliardi di euro – fosse indirizzata piuttosto a realizzare nuove scuole e a migliorare quelle esistenti», ricordano Fabio Granata, Anna Donati e Annalisa Corrado, esponenti di “Green Italia”, che in un post ripreso da “Il Cambiamento” condannano questa «spericolata inversione a U», augurandosi che l’uscita di Renzi sia solo «la sua ennesima promessa non mantenuta». Gli italiani, del resto, «credevano che quello del Ponte fosse un capitolo chiuso, perché di fronte ad un paese costantemente piegato dal dissesto idrogeologico, con infrastrutture che collassano per il maltempo e situazioni come quelle di Messina senz’acqua potabile, indegne di un paese civile, anche solo parlare di Ponte sullo Stretto è uno schiaffo alla realtà». Già, la realtà: «E’ quella dei cittadini dell’Aquila ancora sfollati, quelli della Liguria che passano da un’alluvione con smottamenti e morti a un piano-casa tutto cemento, o il popolo inquinato di Taranto e di Crotone». Allegria: «Dopo le trivelle, gli inceneritori, le autostrade, mancava solo il Ponte assurto a ‘nuovo simbolo per l’Italia’ per dimostrare che il premier crede che le ricette da boom economico degli anni ‘60 siano ancora attuali, mentre c’è un mondo che va in un’altra direzione».«Di straordinario – ricorda Leandro Janni, presidente siciliano di Italia Nostra – il ponte sullo Stretto di Messina ha solo il tempo e i soldi sprecati per un’opera insostenibile dal punto di vista tecnico, ambientale ed economico». Il progetto definitivo, elaborato da Eurolink SpA, è considerato talmente lacunoso dalla Commissione di valutazione di impatto ambientale da far avanzare la richiesta, il 10 novembre 2011, di ben 223 integrazioni su tutti gli aspetti nodali (strutturali, trasportistici, economico-finanziari, geologici, idrogeologici, naturalistici, paesaggistici, relativi alle emissioni atmosferiche, ai rumori e alle vibrazioni), a cui Eurolink non è ancora riuscita rispondere esaurientemente. Sconcertante, se si pensa che da oltre 10 anni la cattiva politica – cui ora si associa il “giovane” Renzi – vorrebbe costruire, «in una delle aree a più alto elevato rischio sismico del Mediterraneo, un ponte sospeso, ad unica campata di 3,3 km di lunghezza, sorretto da torri di circa 400 metri di altezza, a doppio impalcato stradale e ferroviario». Oggi il ponte più lungo al mondo, il Minami Bisan-Seto in Giappone, è lungo un terzo di quello progettato per Messina.Si tratta di un’opera che ad oggi verrebbe a costare 8,5 miliardi di euro, continua il “Cambiamento”: oltre mezzo punto di Pil, e senza un piano economico-finanziario che ne dimostri la redditività e l’utilità. Impietoso il dossier dei prestigiosi tecnici italiani ingaggiati dagli ambientalisti per “smontare” il disastroso progetto di Eurolink. Primo problema, il terremoto: viene garantita l’invulnerabilità del manufatto solo per eventi sismici fino a 7,1 Richter, escludendo quindi «in maniera ascientifica» che ci possa essere un sisma di maggiore energia in una zona di rischio molto elevato. Inoltre, nel calcolo dei materiali da scavo viene dimenticato il conteggio di 3,5 milioni di metri cubi di terreno estratto o movimentato. Sos ambiente: non è stata ancora elaborata una valutazione di incidenza credibile sullo Stretto di Messina, area di pregio naturalistico teoricamente a tutela europea. L’ultimo progetto, poi, considera “trascurabili” le modifiche apportate: un incremento di 17 metri dell’altezza delle torri, che arriverebbero a quota 400 metri, per sollevare l’impalcato sino ad 80 metri sul livello del mare. Poi lo spostamento della torre sul lato della Calabria, la variazione del tipo d’acciaio e quindi il peso delle funi e delle strutture portanti, e infine il cambiamento dell’altezza dell’impalcato del viadotto Pantano, lato Sicilia.Non è tutto. «Sono state presentate analisi trasportistiche insufficienti ed elaborati progettuali incompleti – aggiungono gli ambientalisti – da cui emerge che a 25 anni dalla realizzazione dell’opera ponte si registrerebbe un traffico pari a 11,6 milioni di auto all’anno per un’infrastruttura dimensionata per 105 milioni di auto l’anno, con un grado di utilizzo, quindi, dell’11% circa». Mostruoso, super-costoso e super-inutile: bravo Renzi. Non fa che aggiungere malinconia e desolazione l’esame dell’équipe tecnica che ha “fatto le pulci” all’improbabile progetto Eurolink. Tra gli oltre 30 esperti che hanno lavorato con le associazioni ambientaliste, scrive il “Cambiamento”, fra gli specialisti dell’università di Messina troviamo Emilio Di Domenico (oceanografia biologica), Gaetano Gargiulo (botanica), Lucrezia Genovese (Cnr), Salvatore Giacobbe (ecologia). Poi Domenico Gattuso (ingegneria, Reggio Calabria), i geologi Giuseppe Gisotti, Alessandro Guerricchio e Gioacchino Lena.Ci sono tecnici come Piero Polimeni, ingegnere pianificatore, esperto di cooperazione e sviluppo locale; Guido Signorino, professore ordinario del dipartimento economia, statistica e sociologia dell’Università di Messina. E poi Stefano Sylos Labini, ricercatore dell’Enea e geologo come Carlo Tansi (Università della Calabria). Non manca il geologo più famoso d’Italia, il conduttore televisivo Mario Tozzi. E ci sono specialisti come il professor Vincenzo Vacante (agraria, Reggio), l’ingegner Claudio Villari, un urbanista come il professor Alberto Ziparo dell’ateneo di Firenze. «Serve altro?», si domanda “Il Cambiamento”. Sì, certo: tanto per cominciare servirebbe un altro premier, magari regolarmente eletto. E poi un’altra Italia, in cui a nessuno verrebbe in mente di proporre opere demenziali e succulente per il sistema mafioso degli appalti, dalla linea Tav Torino-Lione al suo gemello mediterraneo, l’inaffondabile Ponte sullo Stretto.Il Jobs Act, l’Italicum, il taglio del Senato, la rottamazione della Costituzione, le privatizzazioni selvagge come quella di Poste Italiane. Ma Renzi non ci fa mancare nulla, e ora rispolvera persino il Ponte sullo Stretto, per anni in pole-position nella classifica horror di berlusconiana memoria. «Non bastavano i regali alle lobby delle fonti fossili e degli inceneritori, ora rassicuriamo anche chi vorrebbe guadagnare dalla realizzazione di un’opera tanto faraonica (soprattutto nei costi) quanto inutile», protesta il presidente di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza. «Il premier sa bene, e lo dice, che le emergenze italiane sono ben altre: perché allora continua a sostenere le lobby del ‘900 e le loro idee vecchie e superate?». Rigenerazione urbana, fonti rinnovabili, mobilità sostenibile, chimica verde? Voci non pervenute, così come agricoltura di qualità, raccolta differenziata, sicurezza delle scuole, ferrovie utili. Niente da fare: la leggenda del Ponte sullo Stretto – fabbrica di progetti costosi, più che di pilastri veri e propri – va sempre bene per dare la caccia all’elettorato in fuga dal Cavaliere.
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Cofferati: all’Italia serve una sinistra, non il Pd di Renzi
Renzi, fin dal suo insediamento, ha teorizzato l’inutilità del confronto con i corpi intermedi decidendo di non confrontarsi con sindacati, associazioni di categoria, cittadini organizzati e imprese. Per ultimo, il governo in maniera testarda si è rifiutato di ascoltare le piazze in mobilitazione contro la riforma della scuola. Siamo di fronte ad un decisionismo non condivisibile, che passa per una relazione diretta con una indistinta opinione pubblica dove non c’è rispetto per i cittadini. Così si espone il paese a rischi di conflitti rilevanti, quindi l’autoritarismo non porta vantaggi a nessuno, nemmeno a Renzi. Da mesi ho espresso pubblicamente dubbi sulla linea del Pd, ad esempio sul Jobs Act. E quando, oltre ai dissapori sulle scelte economiche e sociali, nel partito ci si rifiuta di discutere anche di legalità – valore fondativo della carta costituente del Pd – sono arrivato alla sofferta decisione di rompere. Definitivamente. In Liguria, durante le primarie, si sono consumati brogli conclamati, tanto che è intervenuta addirittura la magistratura. E invece c’è stata la testarda volontà di rimuovere il tema e di non affrontarlo, nonostante le sollecitazioni ripetute. La legalità dovrebbe essere un valore di qualsiasi forza politica. Il Pd ha cambiato la sua natura.Io responsabile per la vittoria di Toti? È una sciocchezza clamorosa. Una penosa giustificazione di chi non ha più il consenso dei cittadini liguri. Ad analizzare i flussi elettorali si vede chiaramente che Paita ha perso le elezioni perché ha incarnato la continuità con Burlando. Nessun cambiamento rispetto ad una giunta che è stata bocciata dai cittadini. Inoltre Pastorino ha sottratto voti all’astensionismo e al M5S. Senza la sua candidatura, il movimento di Grillo avrebbe superato Paita, che sarebbe arrivata terza. Il Pd non è più il partito che abbiamo fondato, ha rinunciato a quei valori perdendo la sua configurazione di sinistra. Le torsioni neocentriste del governo Renzi sono numerose e su più campi. Prima accennavo al Jobs Act: come si può sostenere che togliere diritti e protezione sociale ai lavoratori sia un’azione di sinistra? Il mercato del lavoro è diviso tra garantiti e non garantiti, tra persone che hanno alcune tutele e un’altra area che ne ha meno o niente affatto. Un’azione di sinistra è estendere a tutti gli stessi diritti, non toglierli in maniera generalizzata per parificare a ribasso.In un paese come il nostro, credo sia importante avere delle forze politiche di sinistra. Il Pd non è in grado di assolvere a questa funzione. Per questo, ritengo centrale mettere in campo una discussione sui valori, il punto dal quale partire per dare un’indicazione e creare coinvolgimento e partecipazione popolare. Se vediamo ai numeri sull’astensionismo, molte, troppe, sono le persone disilluse dall’attuale quadro politico. Non si sentono rappresentate da nessuno. Chi darà loro i valori nei quali identificarsi e per i quali tornare a votare, avrà svolto una funzione utile per la democrazia e avrà realizzato un’area di consenso importante. Vogliamo riunificare persone diverse – e con storie diverse – che sentono il bisogno di appartenenza e di identità a quei valori condivisi. Cosa vuol dire essere di sinistra? Noi indichiamo quali siano le politiche coerenti con quei valori e intorno ad essi cominciamo a creare delle aggregazioni territoriali che permettano il confronto e la ricerca. Con pazienza. Senza far precipitare la discussione nel “contenitore” politico. Insisto: capiamo prima i valori di una moderna sinistra di governo, al passo coi tempi.Rovesciamo l’approccio di intenti. Discutere ora di partito significa mettere assieme frammenti o piccoli partiti già esistenti. Noi dobbiamo avere un’ambizione molto più alta e imboccare un percorso oggettivamente più difficile. Lo spazio c’è, ed è ampio. Pensiamo al risultato dell’Emilia-Romagna, dove alle regionali ha votato soltanto il 37% degli aventi diritto. Fino a qualche anno fa, si arrivava alla soglia del 90. Bisogna evitare l’errore della mera sommatoria tra i soggetti a sinistra del Pd e ripartire da una serie di temi: beni comuni, il lavoro, la Rete. Nel mentre bisogna costruire una classe dirigente che non può essere connotata e condizionata dalla mia generazione, che ha la sola funzione di stimolare questa ricerca e crescita, non di proporsi come dirigente di tale processo. Avvieremo una discussione senza la presunzione di assegnarsi o di autoassegnarsi funzioni di leadership che personalmente non ho mai avuto, ma che in questa fase secondo me non dovrebbe avere nessuno. Per il giurista Rodotà la sinistra deve ripartire dalle realtà associative, i partiti esistenti sono delle “zavorre”: concordo sull’importanza di relazionarsi col mondo associativo e le realtà territoriali. È un lavoro necessario. Tale posizione non è alternativa né in contrasto con la discussione che bisogna aprire sui valori identitari della sinistra.La “coalizione sociale” di Landini? Rispetto al nostro, sono due progetti distinti che devono avere un rapporto stretto e dialettico. E camminare insieme, perché abbiamo un tessuto ricchissimo, a volte addirittura fondamentale, di associazionismo che non ha una rappresentanza politica. Landini come leader della nuova sinistra? La cosa è molto più complessa ed eviterei facili semplificazioni o scorciatoie sul leader. I tempi saranno oggettivamente lunghi e non bisogna farsi condizionare dalle scadenze elettorali. Poi di volta in volta e di luogo in luogo si ragionerà sul da farsi. Un’intesa con il M5S in chiave antirenziana? Grillo ha deciso purtroppo di auto-isolarsi. Nel Parlamento Europeo, dove siedo, non essendoci la dinamica di governo c’è una collaborazione su alcune battaglie con gli esponenti grillini; in Italia, Grillo ha deciso di stare all’opposizione, da solo, e senza interagire con nessuno. Il M5S ha sottratto molti voti all’elettorato tradizionale della sinistra; speriamo di creare un progetto tale, e innovativo, da poterlo riconquistare. Appelli a Cuperlo e Bersani perché trovino il coraggio di uscire dal Pd? Non faccio appelli, ma una costatazione: se una opposizione interna a un partito, oltre ad non ottenere risultati nella linea politica, non ha nemmeno il rispetto del gruppo dirigente, si va per forza di cose ad esaurire, con una perdita di credibilità delle persone che l’hanno esercitata.(Sergio Cofferati, dichiarazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “Il Pd ha cambiato natura, ripartiamo dai valori della sinistra”, pubblicata su “Micromega” il 3 luglio 2015).Renzi, fin dal suo insediamento, ha teorizzato l’inutilità del confronto con i corpi intermedi decidendo di non confrontarsi con sindacati, associazioni di categoria, cittadini organizzati e imprese. Per ultimo, il governo in maniera testarda si è rifiutato di ascoltare le piazze in mobilitazione contro la riforma della scuola. Siamo di fronte ad un decisionismo non condivisibile, che passa per una relazione diretta con una indistinta opinione pubblica dove non c’è rispetto per i cittadini. Così si espone il paese a rischi di conflitti rilevanti, quindi l’autoritarismo non porta vantaggi a nessuno, nemmeno a Renzi. Da mesi ho espresso pubblicamente dubbi sulla linea del Pd, ad esempio sul Jobs Act. E quando, oltre ai dissapori sulle scelte economiche e sociali, nel partito ci si rifiuta di discutere anche di legalità – valore fondativo della carta costituente del Pd – sono arrivato alla sofferta decisione di rompere. Definitivamente. In Liguria, durante le primarie, si sono consumati brogli conclamati, tanto che è intervenuta addirittura la magistratura. E invece c’è stata la testarda volontà di rimuovere il tema e di non affrontarlo, nonostante le sollecitazioni ripetute. La legalità dovrebbe essere un valore di qualsiasi forza politica. Il Pd ha cambiato la sua natura.
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Sofri consulente alla giustizia: arrivati al fondo, si scava
Renzi non è un inetto. Renzi ha alcuni obiettivi da perseguire. Alcuni mandati, alcuni compiti da eseguire. La distruzione del tessuto sociale, la distruzione dell’assetto democratico e la distruzione dello Stato di Diritto. Era già chiaro dall’inizio, con la revisione dell’articolo 416 ter del Codice Penale. Una norma “perfetta” l’avrebbe definita il Procuratore Generale Lombardi. Così, almeno, continua a ripetere la presidente della Commissione Antimafia Bindi. Cieca e sorda rispetto agli effetti che questa “riforma” sta producendo. Una riforma che costringe alla scarcerazione indagati per voto di scambio. Era chiaro dall’inizio, con la cosidetta “depenalizzazione dei reati minori”: 112 reati che non costituiscono più reato penale. Alcuni odiosissimi, come lo stalking, lo stupro e ovviamente evasione fiscale e falsi in bilancio. Nel volgere di un anno sono stati più volte “attenzionati” gli argomenti “evasione fiscale” e “falso in bilancio”. Ogni volta alleggerendo ora la pena e ora il reato per arrivare alla nuova “legge anticorruzione” e alla fine è stato creato un sistema per cui, di fatto, il falso in bilancio non esiste più.Ovviamente non può mancare l’antiriciclaggio. La storia della impunibilità se l’autoriciclaggio avviene per “utilità personale” è tutta da ridere. E mentre per i “reati da poveracci” nulla cambia, i “colletti bianchi” e la casta politica sono al sicuro. Per buona misura, poi, viene introdotta la responsabilità civile diretta dei giudici. Uno strumento perverso per cui chi ha disponibilità di denaro, di fatto condiziona la libertà di giudizio del giudice. Una giustizia sempre più elitaria che i continui aumenti dei contributi unificati rendono inaccessibile al cittadino comune che chiede giustizia. Il contributo aumenta con la “legge di stabilità 2015”, ma era già aumentato a giugno 2014. Una condizione medioevale in cui sussistono diversi piani di giustizia. Una giustizia riservata ai potenti e un’altra (quasi vessatoria, basti pensare al sistema tributario e a Equitalia, che di “equo” non ha nulla) che investe (è il caso di dirlo) i comuni cittadini. Ma non è sufficiente. Occorre, adesso, rimuovere anche il “senso di Giustizia”. Occorre instillare il convincimento (fondato, peraltro) di vivere in un paese in cui è l’ingiustizia ad essere premiata.Ecco, quindi, parlamentari indagati e per i quali viene richiesta autorizzazione all’arresto e sottosegretari indagati, in faccende estremamente contigue a “mafia capitale”, attorno ai quali si sollevano muri di ipocrita garantismo. Ecco Poletti che “legittimamente” va a cena con Buzzi e capi mafia sostenendo che “non sapeva”. Ecco le candidature della Paita in Liguria, di De Luca in Campania, che viene candidato CONTRO legge, ma per il quale, pur rischiando blocchi istituzionali inimmaginabili vengono studiati metodi per consentirgli l’insediamento per consentirgli di nominare la Giunta e governare per il tramite di un vice presidente fantoccio. E non dimentichiamo Poziello (candidato e poi eletto sindaco di Giugliano) anch’egli rinviato a giudizio e sostenuto, manco a dirlo, da De Luca.Quando pensi di aver toccato il fondo, ecco che dal cappello renziano esce un altro coniglio che fa apparire acqua fresca lo scandalo precedente. Serve ad abituarci, a costruire una cultura della illegalità. Con un decreto del 19 giugno, infatti, il ministro Orlando ha nominato Adriano Sofri “consulente” per la riforma carceraria: “Responsabile di istruzione e cultura negli Stati generali delle carceri”. Adriano Sofri consulente del Ministero di Giustizia. Chi sia Adriano Sofri lo spiega il “Corriere.it”. Sofri. Il mandante dell’omicidio del commissario Calabresi. Sofri. È il “renzismo bellezza”. Adriano Sofri, infatti, è il suocero di Daria Bignardi. Il padre di quel Luca Sofri che appella Matteo Renzi con “ciao, capo”.(Stefano Ali, “Sofri consulente del ministero Giustizia, giunti al fondo si scava”, dal blog “Il Capello Pensatore” del 24 giugno 2015).Renzi non è un inetto. Renzi ha alcuni obiettivi da perseguire. Alcuni mandati, alcuni compiti da eseguire. La distruzione del tessuto sociale, la distruzione dell’assetto democratico e la distruzione dello Stato di Diritto. Era già chiaro dall’inizio, con la revisione dell’articolo 416 ter del Codice Penale. Una norma “perfetta” l’avrebbe definita il Procuratore Generale Lombardi. Così, almeno, continua a ripetere la presidente della Commissione Antimafia Bindi. Cieca e sorda rispetto agli effetti che questa “riforma” sta producendo. Una riforma che costringe alla scarcerazione indagati per voto di scambio. Era chiaro dall’inizio, con la cosidetta “depenalizzazione dei reati minori”: 112 reati che non costituiscono più reato penale. Alcuni odiosissimi, come lo stalking, lo stupro e ovviamente evasione fiscale e falsi in bilancio. Nel volgere di un anno sono stati più volte “attenzionati” gli argomenti “evasione fiscale” e “falso in bilancio”. Ogni volta alleggerendo ora la pena e ora il reato per arrivare alla nuova “legge anticorruzione” e alla fine è stato creato un sistema per cui, di fatto, il falso in bilancio non esiste più.
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Renzi azzoppato, all’élite non serve più. E intorno, il nulla
Anche questo meccanismo si è rotto. E ora chi “ha messo lì” Renzi e il suo staff di grembiulini creativi starà interrogandosi se vale la pena di insistere su un cavallo che ha portato a casa, sì, numerosi risultati reazionari (Jobs Act, Italicum, abolizione del bicameralismo, distruzione scuola pubblica, emarginazione dei sindacati, ecc), ma appare incapace di costruire un vero consenso attorno alle politiche dettate dalla Troika. La macchina da corsa trionfante un anno fa alle europee è diventata un carrozzone ansimante, che perde visibilmente olio e pezzi. La pensata degli 80 euro non ha avuto eredi. Il Tfr in busta paga, che doveva replicare quel successo di pubblico, si è rivelato un flop assoluto. Il trucco “ti dò più soldi subito, me li riprendo con gli interessi un po’ alla volta” è stato capito e bocciato da oltre metà della popolazione. Ovvero da quelli che a votare non ci sono proprio andati (solo il 53% e spiccioli ha infilato la scheda nell’urna) più quelli che hanno espresso un voto “contro” (per Salvini o per Grillo).Il Pd resta primo partito, ma senza più la spinta propulsiva che sembrava farne il perno del vagheggiato “partito della nazione”, formula peraltro davvero ridicola nel momento in cui la “nazione” risulta poco più di una macroregione che deve rispettare i “patti di stabilità” elaborati dai funzionari dell’Unione Europea. Renzi doveva sbaragliare i “populismi” facendo il populista. E ha perso questa partita in modo netto. Si salva momentaneamente solo per l’assenza di un vero progetto politico alternativo. Doveva coagulare intorno al proprio modo di apparire e fare una “fiducia” acritica, empatica, insomma una delega in bianco. Nonostante la sterminata legione di mass media schierati in suo favore non c’è riuscito. Doveva spazzare via ciò che restava del vecchio “riformismo” compromissorio. Ed è l’unico successo che può per ora vantare. Il laboratorio ligure gli consegna una “sinistra” troppo fragile e inconsistente per ambire alla vittoria – neanche uno straccio di programma alternativo – ma sufficentemente radicata da farlo perdere.Da quella parte non possono arrivare veri pericoli, perché il personale politico che esprime porta il marchio di infamia di centomila scelte di “austerità”, cancellazione dei diritti (pacchetto Treu, tre riforme delle pensioni – da Dini a Fornero, ecc), corruzione. Al contrario, può esser perfino utile per impedire l’emersione di una soggettività politica indipendente e radicale. Ma Renzi non convince più. E ora i suoi autori devono scegliere: insistiamo su un cavallo zoppo, incapace di creare una nuova “classe politica” minimamente credibile, oppure cambiamo cavallo e discorso dominante? Non c’è fretta, dal loro punto di vista. La botta è dura, ma si può tirare avanti qualche mese mettendo il ronzino al passo, usando questo tempo per costruire figure nuove. Ma cambiare discorso pubblico è più complicato. Quel mix tra “nuovismo senza motivazioni”, rapidità decisionista, battute in dialetto, ammiccamenti e tweet, sembrava davvero una mossa vincente e duratura. Bisognerà inventarsene un altro. I “creativi” vengono pagati per questo…A livello parlamentare non c’è problema. La massa di nominati è tale da non porre dubbi sulla composizione di una maggioranza purchessia. Anzi, la battuta d’arresto del guitto di Pontassieve può compattare ulteriormente una banda di mercenari che vede a questo punto la scadenza della legislatura come la fine delle vacche grasse e il ritorno al grigio lavoro. Ma la faglia tra “politica istituzionale” e soggetti sociali si va allargando a dismisura. Quell’astensionismo che è stato persino incoraggiato, negli ultimi anni, non contiene più soltanto la neutralità indifferente di chi si estranea dal contendere politico. Nasconde ormai un “mugugno” collettivo, potente, incontrollato, che è in cerca di espressione. Su questo fronte si gioca la partita per il cambiamento radicale. Ma non è una partita adatta per chi soffre di “braccino corto”, autoreferenziale, atrofizzato. Serve il cambio di passo, prima possibile.(Alessandro Avvisato, “Nemmeno Renzi convince più”, da “Contropiano” del 1° giugno 2015).Anche questo meccanismo si è rotto. E ora chi “ha messo lì” Renzi e il suo staff di grembiulini creativi starà interrogandosi se vale la pena di insistere su un cavallo che ha portato a casa, sì, numerosi risultati reazionari (Jobs Act, Italicum, abolizione del bicameralismo, distruzione scuola pubblica, emarginazione dei sindacati, ecc), ma appare incapace di costruire un vero consenso attorno alle politiche dettate dalla Troika. La macchina da corsa trionfante un anno fa alle europee è diventata un carrozzone ansimante, che perde visibilmente olio e pezzi. La pensata degli 80 euro non ha avuto eredi. Il Tfr in busta paga, che doveva replicare quel successo di pubblico, si è rivelato un flop assoluto. Il trucco “ti dò più soldi subito, me li riprendo con gli interessi un po’ alla volta” è stato capito e bocciato da oltre metà della popolazione. Ovvero da quelli che a votare non ci sono proprio andati (solo il 53% e spiccioli ha infilato la scheda nell’urna) più quelli che hanno espresso un voto “contro” (per Salvini o per Grillo).
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Grazie a Renzi, il prossimo leader dell’Italia sarà Salvini
Signor Nessuno, chiacchierone, vacuo e inattendibile. Promesse non mantenute, tranne quelle fatte all’élite internazionale di potere. Riforme pericolose, interpretate da una nomenklatura incolore, sottomessa, imbarazzante. Dopo appena un anno, il pessimo Matteo Renzi ha già stancato gli italiani. Non è riuscito a fermare i grillini, e – peggio – sta spalancando praterie all’ipotetico leader del futuro prossimo, Matteo Salvini, vero vincitore delle elezioni regionali 2015. Lo sostiene Andrea Scanzi, all’indomani dello schiaffone che gli elettori hanno rifilato al Pd, che ha perso il 15% dei consensi, 2 milioni di voti in meno rispetto alle europee. «Renzi ha già il fiatone. Da vecchio democristiano quale è, dirà di avere vinto anche quando ha perso. In realtà ha preso una botta in fronte (quella fronte così inutilmente spaziosa) così grande che ancora deve accorgersene». E’ difficile perdere quando si vince 5-2: è proprio un controsenso logico palese. «Renzi però ce l’ha fatta», scrive Scanzi. Quattro regioni erano scontate (Toscana, Marche, Umbria, Puglia), eppure in Umbria «il Pd ha rischiato tanto». Inoltre, i candidati in queste Regioni «non erano renziani della prima ora», ma più spesso politici «talora anche poco ortodossi (Emiliano, Rossi)», già in pista molto prima di Renzi.«L’unica vittoria pienamente renziana è quella in Campania con De Luca, e io non me ne vanterei», annota Scanzi sul “Fatto Quotidiano”. I due candidati veramente renziani sono quelli che le hanno buscate, Alessandra Moretti (Veneto) e Raffaella Paita (Liguria), «entrambe “impresentabili”, anche se per motivi diversi». La Moretti «ha inanellato gaffe su gaffe e incarna la totale impreparazione delle droidi renzine». La Paita «è molto peggio: prosecuzione dichiarata del burlandismo, finta nuova, indagata. Il gattopardismo 2.0 ai livelli più deleteri». Il premier, continua Scanzi, aveva puntato tutto su Moretti («con tanto di video in auto agghiacciante») e Paita («inviandole le Charlie’s Angels del renzismo: Boschi, Madia, Pinotti, Serracchiani»). E naturalmente «se n’è fregato, come sempre, delle critiche. I risultati si sono visti». La Moretti, in particolare, «ha ottenuto un risultato straordinario: Zaia ha preso più del doppio dei suoi voti». Tutto era perfetto per lei: l’appoggio dei media, la rottura tra Zaia e Tosi, l’investitura del Gran Capo. «Macché. Le ha prese come se piovesse. La Moretti aveva promesso, in un tweet leggendario, che avrebbero vinto 7-0 e il suo sarebbe stato il golden gol».Poi, la Liguria: «Perdere con Toti pareva impossibile a tutti, ma Renzi ce l’ha fatta». Toti è stato sottovalutato da tutti, scrive Scanzi. «Anche negli studi televisivi, quando gli espertoni e i parlamentari (anche del Pd) ne parlavano, il loro riassunto fuori onda era: “La Paita è improponibile, ma vincerà perché Toti è un signor nessuno, al limite arriva secondo il Movimento 5 Stelle”». Vecchio problema: «L’intellighenzia tende a ritenere invotabili quelli che reputa antipatici. Tipo Toti. La solita autoreferenzialità. E nel frattempo la destra, abituata a turarsi il naso, vince». Molti, a sinistra, «anche tra i parlamentari di Sel», partito che pure in Veneto appoggiava la Moretti, «pur di non veder vincere Paita e Moretti, hanno votato Toti e Zaia». Una Waterloo, che ribadisce «quanto quelle due scelte siano state scriteriate». E così, sono gli altri a festeggiare: come il M5S, entrato nella “seconda fase”, con candidati autonomi da Grillo e Casaleggio. Il Movimento 5 Stelle è ormai la seconda forza nazionale. «Renzi ha fallito anche qui: nel non ammazzare politicamente l’unica forza che teme realmente. Lo aveva promesso e non ce l’ha fatta».Poi ci sono i presunti “sabotatori”, la lista di sinistra messa in piedi in Liguria da Civati e Cofferati. «Come fece a suo tempo la Bresso in Piemonte, i renziani – tipo la Serracchiani – hanno incolpato Pastorino e i civatiani per la (meravigliosa) sconfitta della Paita in Liguria». Alibi piuttosto comodo. «Questa “nuova” classe politica, tanto dannosa quanto caricaturale – scrive Scanzi – si caratterizza per un’arroganza carnivora smisurata. Prima ti cacciano dalle commissioni o magari dal partito; ti trattano come paria, ti bastonano ogni giorno: poi, se qualcuno nel Pd osa ribellarsi, si arrabbiano perché i sottoposti hanno osato alzare la testa». Ma non tutti sono come Bersani, «che si è ridotto a fare pure lui il testimonial della Paita nonostante le continue mazzate ricevute dai renziani». La Paita ha perso? Colpa sua e di chi l’ha candidata. E ora, chi passerà all’incasso è il trucido Salvini, in totale ascesa: ha un consenso ormai trasversale, ha sfondato anche al centro ed è il vero leader del centrodestra. Se deciderà di presentarsi con tutte le forze del centrodestra, «può eccome vincere le elezioni». Superato il Rubicone, insomma: «Fino a ieri il goffo bulletto Renzi poteva fare il gradasso» e minacciare il voto anticipato, certo di vincere. Oggi non è più così, perché «sono cambiati i rapporti di forza». E l’Italicum, «nato per uccidere il M5S», dato che premia i partiti e non le coalizioni «paradossalmente potrebbe aiutare proprio i 5 Stelle».Signor Nessuno, chiacchierone, vacuo e inattendibile. Promesse non mantenute, tranne quelle fatte all’élite internazionale di potere. Riforme pericolose, interpretate da una nomenklatura incolore, sottomessa, imbarazzante. Dopo appena un anno, il pessimo Matteo Renzi ha già stancato gli italiani. Non è riuscito a fermare i grillini, e – peggio – sta spalancando praterie all’ipotetico leader del futuro prossimo, Matteo Salvini, vero vincitore delle elezioni regionali 2015. Lo sostiene Andrea Scanzi, all’indomani dello schiaffone che gli elettori hanno rifilato al Pd, che ha perso il 15% dei consensi, 2 milioni di voti in meno rispetto alle europee. «Renzi ha già il fiatone. Da vecchio democristiano quale è, dirà di avere vinto anche quando ha perso. In realtà ha preso una botta in fronte (quella fronte così inutilmente spaziosa) così grande che ancora deve accorgersene». E’ difficile perdere quando si vince 5-2: è proprio un controsenso logico palese. «Renzi però ce l’ha fatta», scrive Scanzi. Quattro regioni erano scontate (Toscana, Marche, Umbria, Puglia), eppure in Umbria «il Pd ha rischiato tanto». Inoltre, i candidati in queste Regioni «non erano renziani della prima ora», ma più spesso politici «talora anche poco ortodossi (Emiliano, Rossi)», già in pista molto prima di Renzi.
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Elezioni 2015, siamo al day-after di un sistema che muore
Il mio motto “Chi va a votare avvelena anche te, digli di smettere” ha trovato un altro 10% di cittadini stanchi di sedersi al tavolo assieme ai bari. Questa inesorabile costante avanzata verso la contestazione globale del sistema di rappresentanza fasulla che ci opprime da quaranta anni (iniziò nel ’76 col 14% di astenuti dal voto) questa volta ha fatto presa in particolare nelle cosiddette Regioni rosse dopo aver trionfato nelle scorse elezioni nelle zone in cui l’elettorato è stato tradizionalmente ostile al centro-sinistra. Anche il cemento armato della gestione clientelare dei governi a guida Pci-Pds-Ds-Pd ha mostrato di non reggere alla infiltrazione dell’acqua cheta dei cittadini che, sempre più numerosi, ripudiano i vecchi idoli e fanno crollare gli altari. Il paese sente di non essere governato e si ribella astenendosi dal partecipare ai ludi elettorali in maniera sempre più massiccia e sprezzante. La disaffezione porta l’anarchia in ogni aspetto della vita associata. La mini-astuzia ministeriale di far votare i cittadini a cavallo della festa della Repubblica e i soldi spesi per la campagna pubblicitaria di partecipazione non hanno funzionato.È un dialogo tra sordi. Il sistema sanitario veneto era già in pareggio prima della elezione dell’enologo Zaia (è l’eredità amministrativa austroungarica) e nessuno crede veramente che l’ennesimo cappone del pollaio di Berlusconi farà miracoli in Liguria. I successi dei provocatori Salvini e Grillo sono il sintomo di una malattia, non la cura. Gli italiani aspettano una NUOVA REPUBBLICA che stronchi la selezione a rovescio della classe dirigente che viene attuata a partire dal 1958 con la riforma Fanfani che aprì la porta delle candidature agli impiegati di partito. La disaffezione verso il sistema ha investito anche l’Europa che era la sola idea nuova scaturita dalle rovine della guerra mondiale. Ora è rappresentata da un vecchietto di modesta statura fisica e intellettuale, incapace di assorbire la crisi greca (tutta la Grecia rappresenta meno del 2% del prodotto lordo europeo: chi non può assorbire una perdita del 2%?).L’Europa non fa più figli e non vuole adottare quelli provenienti da altri continenti vicini. Li lasciamo annegare mentre noi anneghiamo in solitudine nei nostri eccessi di liquidità che non sappiamo più impiegare che per comprare obbligazioni di banche sclerotizzate. Le Regioni italiane non servono ad altro che ad arricchire alcune centinaia di impiegati delle segreterie di finti partiti che cercheranno di riempirsi le tasche prima del naufragio che sanno inevitabile. Saranno anche più avidi dei predecessori. Giolitti rimproverò Mussolini alla Camera, dicendo «questo governo mangia troppo», e Mussolini di rimando: «Anche ai suoi tempi si mangiava». Risposta di Giolitti: «Sì, ma si sapeva stare a tavola». Bei tempi.(Antonio De Martini, “Il day after di un sistema che muore”, dal “Corriere della Collera” del 1° giugno 2015).Il mio motto “Chi va a votare avvelena anche te, digli di smettere” ha trovato un altro 10% di cittadini stanchi di sedersi al tavolo assieme ai bari. Questa inesorabile costante avanzata verso la contestazione globale del sistema di rappresentanza fasulla che ci opprime da quaranta anni (iniziò nel ’76 col 14% di astenuti dal voto) questa volta ha fatto presa in particolare nelle cosiddette Regioni rosse dopo aver trionfato nelle scorse elezioni nelle zone in cui l’elettorato è stato tradizionalmente ostile al centro-sinistra. Anche il cemento armato della gestione clientelare dei governi a guida Pci-Pds-Ds-Pd ha mostrato di non reggere alla infiltrazione dell’acqua cheta dei cittadini che, sempre più numerosi, ripudiano i vecchi idoli e fanno crollare gli altari. Il paese sente di non essere governato e si ribella astenendosi dal partecipare ai ludi elettorali in maniera sempre più massiccia e sprezzante. La disaffezione porta l’anarchia in ogni aspetto della vita associata. La mini-astuzia ministeriale di far votare i cittadini a cavallo della festa della Repubblica e i soldi spesi per la campagna pubblicitaria di partecipazione non hanno funzionato.
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Il Pd perde il 15%, dalle urne uno schiaffo al golpe di Renzi
La metà degli elettori è stata casa. Gli altri hanno assestato uno schiaffo al Bomba. Media ponderata del voto di ieri: il Pd come partito perde il 15%, con il carrozzone delle liste di amici ed amici degli amici cala di circa il 9%. Dunque, mister 40,8 non c’è più. Su questo, in realtà, non avevamo dubbi. Restava invece da stabilire di quanto il Bomba si sarebbe sgonfiato rispetto a quel dato delle europee. Un dato gridato a gran voce, per tutto un anno, per zittire avversari e critici di ogni credo e tendenza. Ora lo sappiamo: si è sgonfiato di molto. Questi numeri ci vengono da una media ponderata dei voti di ieri. Il calcolo è stato fatto sulla base delle percentuali ottenute dal Pd, in confronto con quelle raggiunte un anno fa alle europee. I vari cali regionali (il partito di Renzi ha perso consensi ovunque) sono stati poi “pesati” in rapporto agli elettori delle varie regioni, in modo da ricavarne una proiezione nazionale. Perché questo calcolo? Perché è quello politicamente più significativo. Quello che misura la febbre al consenso renziano dopo 15 mesi di governo.Certo, è più facile – e soprattutto più comodo per il Bomba – fare il calcolo delle regioni vinte. Vantandosi così di un 5-2 che non rende affatto conto dell’autentico tracollo di consensi che si è verificato. Lo avevamo scritto giovedì scorso: «In realtà non conterà solo il numero di Regioni conquistate, conterà anche il totale dei voti ottenuti. Anzi, sarà soprattutto quel dato a dirci di quanto si è sgonfiato il famoso 40,8% delle europee». Questo era, ed è, il dato decisivo. Ci sarà tempo per ritornare su altri aspetti rilevanti di queste elezioni, dall’aumento dell’astensionismo, all’ottimo risultato di M5S, alla forte avanzata della Lega, ai miseri dati della sinistra (ex?) arcobalenica. Ora è importante concentrarsi sul Pd, sul partito che, attraverso una legge elettorale truffaldina, sta tentando di costruire un autentico regime imperniato sulla concentrazione di ogni potere nelle mani del suo bulimico leader. Questo disegno autoritario ha ieri subito uno stop, quantomeno in termine di consensi. Uno stop non ancora decisivo, ma un segnale assai più netto di quanto si poteva immaginare.Entriamo nel dettaglio, vedendo anzitutto quanto ha perso il Pd in ogni regione: Liguria -16,10%, Veneto -20,63%, Campania -16,04%, Puglia -13,91%, Toscana -10,0%, Marche -9,91%, Umbria -12,76%. Come si vede il dato è omogeneo da nord a sud. La perdita è a due cifre pressoché ovunque. Particolarmente significativo, oltre alla debacle della Liguria, il tracollo della renziana Moretti in Veneto. La media ponderata di questi dati regionali ci da un calo generale del 15%, che proiettato a livello nazionale porterebbe il partito renziano ad un 26% (40,8-15,0=25,8) dal sapore decisamente bersaniano. Naturalmente questi calcoli faranno imbestialire i piddini. I quali ci ricorderanno, come facevano scompostamente ieri sera in Tv, che i loro candidati si sono avvalsi di liste di supporto in qualche modo riconducibili al loro partito, e che quindi i voti di queste liste vanno sommati a quelli del Pd. Ora, in realtà ci sarebbero molte cose da dire su questa pratica acchiappavoti. Come ci sarebbe da dubitare sul fatto che si tratti sempre ed ovunque di voti piddini in libera uscita. E magari ci sarebbe da ironizzare sui candidati apertamente fascisti di certe liste a sostegno in Campania…Ma lasciamo stare. Dato che noi siamo assai meno scomposti dei tirapiedi renziani mandati in video ieri sera nel disperato tentativo di nascondere la realtà delle cose, abbiamo sommato al Pd tutti i voti di queste listarelle di comodo. Ed ecco i cali che abbiamo così ottenuto: Liguria -11,35%, Veneto -16,80%, Campania -7,03%, Puglia -1,64%, Toscana -8,29%, Marche – 4,97%, Umbria -12,76%. La media ponderata di questi dati ci da un calo generale dell’8,8%. Un dato assai pesante per il Pd, nonostante il generosissimo metodo applicato. Abbiamo infatti sommato al Pd non solo i voti ottenuti dalle “liste del presidente”, ma anche quelli delle altre liste di supporto che non avessero un chiaro simbolo di partito. Questo non per regalare qualcosa ai renziani, bensì per togliergli ogni argomento a difesa. Cosa ci dicono questi risultati? Essi ci dicono che Renzi è battibile. Che il suo disegno autoritario può essere ancora fermato. Che la cosiddetta “luna di miele” del governo è davvero finita. Che anche il più servile sostegno mediatico mai ottenuto da una forza politica nell’Italia repubblicana non è sufficiente a frenare l’emorragia di consensi. Non è tutto, ma è molto.Naturalmente i risultati di ieri non rendono Renzi meno pericoloso di prima. Anzi, per certi aspetti, lo rendono ancora più pericoloso. A capo del governo, a capo del Pd, con il sostegno del potere economico, con una stampa allineata, con una legge elettorale ritagliata su misura, egli non vorrà certo fermarsi nella sua opera distruttrice della democrazia e di ogni diritto sociale. E, d’altronde, dal voto delle regionali non emerge ancora l’alternativa di cui c’è bisogno. Emerge però un grande spazio, basti pensare alla crescita enorme dell’astensionismo. E’ in questo quadro che si dovrà approntare da subito una strategia ed una tattica per battere Renzi all’appuntamento decisivo del referendum sulla controriforma costituzionale. Quel che è certo è che non siamo in una fase stabilizzazione del consenso. Al contrario, le oscillazioni che si verificano ad ogni elezione mostrano proprio la ricerca, necessariamente confusa, di una via d’uscita dall’attuale situazione. Chi emergerà in questo quadro è dunque facile da prevedersi: emergerà, e forse vincerà, chi saprà proporsi con un progetto di alternativa al tempo stesso radicale e credibile. Di sicuro la partita è aperta. Lo schiaffo subito da Renzi non è un ko, ma è un colpo molto forte al suo disegno autoritario. Da queste elezioni non potevamo aspettarci miglior notizia.(Nb – Quando questo articolo è stato scritto – tra le 8 e le 9 di questa mattina – lo scrutinio non era ancora terminato in tutte le regioni. Qualche modestissima variazione delle percentuali è perciò ancora possibile in Campania e Puglia. Ma si tratterà in ogni caso di variazioni del tutto trascurabili).(Leonardo Mazzei, “Mister 40,8% si affloscia”, da “Sollevazione” del 1° giugno 2015).La metà degli elettori è stata casa. Gli altri hanno assestato uno schiaffo al Bomba. Media ponderata del voto di ieri: il Pd come partito perde il 15%, con il carrozzone delle liste di amici ed amici degli amici cala di circa il 9%. Dunque, mister 40,8 non c’è più. Su questo, in realtà, non avevamo dubbi. Restava invece da stabilire di quanto il Bomba si sarebbe sgonfiato rispetto a quel dato delle europee. Un dato gridato a gran voce, per tutto un anno, per zittire avversari e critici di ogni credo e tendenza. Ora lo sappiamo: si è sgonfiato di molto. Questi numeri ci vengono da una media ponderata dei voti di ieri. Il calcolo è stato fatto sulla base delle percentuali ottenute dal Pd, in confronto con quelle raggiunte un anno fa alle europee. I vari cali regionali (il partito di Renzi ha perso consensi ovunque) sono stati poi “pesati” in rapporto agli elettori delle varie regioni, in modo da ricavarne una proiezione nazionale. Perché questo calcolo? Perché è quello politicamente più significativo. Quello che misura la febbre al consenso renziano dopo 15 mesi di governo.
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Tortura per chiunque osi ribellarsi, Genova fu solo l’inizio
La folla che riempie lo stadio di La Spezia, un silenzio livido e uno spettro sul palco, Bob Dylan, alle prese con uno strano concerto segnato dal lutto per la morte di Carlo Giuliani poche ore prima, a una manciata di chilometri di distanza, in mezzo alla follia criminale esplosa a Genova dopo un’accurata preparazione logistica e militare. Lo ha detto un ex dirigente della Nsa, Wayne Madsen, intervistato da Franco Fracassi nel libro “G8 Gate”: i colossi finanziari e le multinazionali che avevano portato Bush al potere temevano i No-Global più di ogni altra cosa, inclusa Al-Qaeda. Per questo furono ben 1.500 gli agenti della National Security Agency impegnati nell’operazione-Genova, insieme a 700 operatori dell’Fbi. Missione: organizzare (e far eseguire alla polizia italiana) la più feroce punizione collettiva della storia occidentale contemporanea. Lo conferma il generale Fabio Mini, già comandante della missione Nato in Kosovo: esistono “strutture” abilitate a smistare falsi militanti, facendoli passare indenni attraverso più frontiere. Loro, i black bloc, incaricati di devastare Genova in modo da creare un alibi per la repressione indiscriminata dei manifestanti pacifici. Fino al reato di tortura, ora contestato all’Italia, 14 anni dopo.A Genova nel 2001 accadde qualcosa di irreparabile e sinistramente profetico, scrive “Come Don Chisciotte”: «Nell’arco di una manciata di giornate ci accorgemmo di essere stati proiettati e letteralmente catapultati nel nuovo millennio». Di colpo, ci siamo scoperti «ingenui figli di un tempo già antico, quel ventesimo secolo che, nonostante l’atomica e i lager, non aveva completamente scalfito le speranze in un mondo migliore». Il funerale delle illusioni: «La nostra Italietta – così piccola e così gracile – sarà pure stata anche la Repubblica delle stragi impunite, delle molte mafie e della corruzione dilagante, ma, ai nostri occhi, rimaneva l’imperfetta democrazia che i padri costituenti ci avevano consegnato per attuare concretamente i principi di uguaglianza e libertà. Invece – scrive “HS” – quello che accadde superò la nostra immaginazione». Sepolta, a Genova, anche l’ingenuità fisiologica del movimentismo, che in fondo «non abbandona l’illusione che si possa dialogare con l’avversario per riformare il sistema in senso migliorativo». Il movimento No-Global bisognava «domarlo, criminalizzarlo e reprimerlo in nome del neoliberismo “neomercantile”», togliendo ai giovani l’arma della politica e della giustizia.Hanno vinto loro, conclude il blog: i ragazzi di oggi non hanno idea di cosa accadde davvero a Genova, perché ormai «appartengono a un altro mondo», nel senso che «sono cresciuti in un contesto in cui la digitalizzazione dei segni, dei simboli e pure dei comportamenti ha quasi oscurato il senso concreto e tangibile delle cose», con la sua spietata durezza. All’epoca della mattanza genovese, Google e YouTube «appartenevano ancora al regno del “futuribile” e del realizzabile». Ora, il paesaggio antropologico è irriconoscibile: «In un certo qual modo smartphone, blueberry, iPod, Whatsapp, Twitter, Facebook e compagnia cantante sono diventati parte integrante delle nostre vite, e per i nostri figli o nipoti non è quasi concepibile un mondo senza la tecnologie digitali. Nel nostro nuovo mondo postmoderno digitalizzato e “virtualizzato” il tempo scorre via veloce come lo scoccare di una scintilla nel buio, si scompone in fantastiliardi di millisecondi, frazionati e separati, insinuando un senso di comprensibile vuoto e di assenza di memoria».Oggi la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo condanna l’Italia per gli atti di tortura inflitti ai manifestanti dalle forze dell’ordine nell’Istituto Pascoli? Confinare le giornate di Genova in quelle aule, dove raggiunse il culmine l’ultimo atto di feroce violenza repressiva, «significa smarrire il senso di quelle ore». Perché nel capoluogo ligure «era accaduto qualcosa di definitivo e irreparabile, qualcosa che non avrebbe potuto essere cancellato lavando quei muri imbrattati di sangue». In realtà, continua il blog, «non abbiamo mai compreso fino in fondo quanto possano contare le parole e i consigli degli “ingegneri sociali”, degli esperti di sociologia, psicologia, antropologia, di questioni militari, geopolitiche, strategiche, di sicurezza e ordine pubblico», perché in fondo siamo rimasti «ragionevoli uomini democratici e perbene». Per questo non ci siamo accorti di essere diventati «altro che le cavie di uno dei più arditi esperimenti mai tentati fino ad allora in un paese dell’Occidente civile e avanzato». Come se in quella torrida estate del 2001 il capoluogo ligure «si fosse trasformato in un enorme laboratorio per applicare i nuovi modelli militarizzati e tecnologicamente avanzati di gestione dell’ordine pubblico». Di lì a poco, «Ground Zero avrebbe cancellato tutte le residue speranze per un “altro mondo possibile”, e dalla guerriglia e controguerriglia urbane artificiosamente costruite, si passava alla guerra permanente e globale», con tanti saluti alle belle speranze del movimento No-Global, che pretendeva pari opportunità e diritti per l’intera umanità.Nel suo libro “Massoni”, Gioele Magaldi illumina le pagine più oscure e confuse della nostra storia recente, rivelando il ruolo spesso decisivo delle “Ur-Lodges”, le superlogge latomistiche dell’élite cosmopolita che sovrintende alle grandi decisioni, anche attraverso istituzioni transnazionali e “paramassoniche” come la Commissione Trilaterale, il Bilderberg, i grandi think-tank che orientano la dirigenza finanziaria, industriale, bancaria, editoriale, culturale, politica, giornalistica. Magaldi, a sua volta massone e associato alla prestigiosa superloggia “Thomas Paine”, nonché animatore del “Movimento Roosevelt” che si propone di scuotere la politica italiana ed europea liberandola dal dogma neoliberista che impone il taglio dello Stato, accusa anche l’ambiente massonico internazionale più progressista, colpevole di aver aderito a cuor leggero già nel 1981 allo storico patto “United Freemasons for Globalization”. Una stretta di mano con i più pericolosi oligarchi che, di lì a poco, avrebbero precipitato il pianeta nella privatizzazione universale. Genocidio di popoli, guerre, rapina delle risorse, delocalizzazioni criminose e scomparsa del lavoro e dei diritti sindacali, fino all’agonia inconcepibile del sistema industriale più evoluto del mondo, l’Europa, messa in ginocchio dall’austerity finanziaria pianificata a tavolino dai supremi globalizzatori.Paolo Franceschetti, ex avvocato e indagatore di strani delitti rituali, riletti come cerimonie del massimo potere oligarchico, si sforza di vedere il bicchiere mezzo pieno: la storia dell’umanità è lastricata di abusi abominevoli, se oggi li si denuncia significa che sta crescendo una consapevolezza diffusa che, prima o poi, cambierà l’orizzonte. Inutile stupirsi della ferocia del supremo potere: lo sostengono voci diversissime tra loro, per formazione e provenienza. Per esempio Paolo Ferraro, prestigioso magistrato allontanato dalla magistratura. O un ex dirigente dei servizi segreti come Fausto Carotenuto. O Paolo Barnard, il primo a denunciare la brutale restaurazione europea, col saggio “Il più grande crimine”. O, ancora, un massone come Gianfranco Carpeoro, allievo di Francesco Saba Sardi e grande studioso del linguaggio simbolico. Dal canto suo, Magaldi esprime un’indignazione lucida e pacata: lo Stato laico, moderno e democratico, fatto di cittadini e non più di sudditi, «non è stato un regalo della cicogna», ma dall’intellighenzia massonica occidentale, impegnata in una lotta plurisecolare contro l’oscurantismo e l’assolutismo. Per questo, insiste, è necessario che insorga il vertice massonico progressista, il solo in grado di contrastare – a livello elitario – la deriva neo-feudale del nuovo potere che, col pretesto di una crisi artificiale costruita a tavolino, sta smantellando la democrazia in tutto l’Occidente.I ragazzi di Genova, che nel 2001 volevano diritti estesi a tutti i popoli del mondo, mai si sarebbero aspettati che quegli stessi diritti considerati inviolabili – a cominciare dall’accesso al lavoro – sarebbero stati presto perduti anche qui, nel cuore di un’Europa devastata dalle leggi speciali imposte dall’élite tecnocratica attraverso il braccio secolare di una moneta unica non sovrana. La scomparsa dell’orizzonte cominciò proprio nelle piazze genovesi trasformate in campo di battaglia: «Genova per noi è stato solo il primo dei tanti esperimenti di ingegneria sociale volti a spezzare qualsiasi volontà di resistenza nei confronti di un sistema iniquo e ingiusto», osserva “Come Don Chisciotte”. «Deposte l’immaginazione e la volontà di cambiamento siamo solo diventati più gretti, cinici ed egoici». Per questo, i globalizzatori dell’abuso «hanno vinto su tutta la linea». De Gennaro resta al suo posto, alla presidenza di Finmeccanica? Ovvio. Lo difende Renzi, l’uomo che in nome delle riforme strutturali dettate dalla Troika e da Wall Street abolisce Senato e Province, introduce il licenziamento facile con il Jobs Act e costruisce una legge elettorale monarchica. La differenza, rispetto al 2001, è che nessuno scende più in piazza. Pochi si accorgono di quello che sta realmente accadendo, nell’area-test chiamata Europa. Al pessimismo universale dei blogger si oppone la voce di Magaldi: insieme alla Francia, sostiene, l’Italia è il solo paese in cui è possibile far partire qualcosa che assomigli a un risveglio. Non a caso, la “punizione” dell’infame G8 del 2001 fu progettata proprio in Italia. Ed era solo l’inizio: la “tortura” continua.La folla che riempie lo stadio di La Spezia, un silenzio livido e uno spettro sul palco, Bob Dylan, alle prese con uno strano concerto segnato dal lutto per la morte di Carlo Giuliani poche ore prima, a una manciata di chilometri di distanza, in mezzo alla follia criminale esplosa a Genova dopo un’accurata preparazione logistica e militare. Lo ha detto un ex dirigente della Nsa, Wayne Madsen, intervistato da Franco Fracassi nel libro “G8 Gate”: i colossi finanziari e le multinazionali che avevano portato Bush al potere temevano i No-Global più di ogni altra cosa, inclusa Al-Qaeda. Per questo furono ben 1.500 gli agenti della National Security Agency impegnati nell’operazione-Genova, insieme a 700 operatori dell’Fbi. Missione: organizzare (e far eseguire alla polizia italiana) la più feroce punizione collettiva della storia occidentale contemporanea. Lo conferma il generale Fabio Mini, già comandante della missione Nato in Kosovo: esistono “strutture” abilitate a smistare falsi militanti, facendoli passare indenni attraverso più frontiere. Loro, i black bloc, incaricati di devastare Genova in modo da creare un alibi per la repressione indiscriminata dei manifestanti pacifici. Fino al reato di tortura, ora contestato all’Italia, 14 anni dopo.
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La Svizzera: Torino-Lione inutile, non ci sono più merci
L’ultima barzelletta sulla Torino-Lione la raccontano gli svizzeri, solitamente noti per la loro austera serietà. E infatti non si scherza neanche stavolta: perché all’appello non mancano i binari, ma le merci. In valle di Susa, si apprende, transita appena un decimo del carico che già ora potrebbe essere tranquillamente trasportato. Attenzione: a essere semi-deserta è la linea ferroviaria attuale, la Torino-Modane, appena riammodernata. Inappellabile la sentenza dei numeri: il traffico alpino Italia-Francia è letteralmente crollato. Anziché nuove linee, servirebbero treni da far circolare sulla ferrovia che già esiste. E invece – questa è la “barzelletta” – il governo italiano pensa sempre di costruire ex novo il più costoso e inutile dei doppioni, la famigerata linea Tav a cui la valle di Susa si oppone da vent’anni con incrollabile determinazione, confortata dai più autorevoli esperti dell’università italiana. Tutti concordi: la super-linea Torino-Lione (il doppione) sarebbe devastante per l’ambiente, pericolosa per la salute e letale per il debito pubblico, dato che costerebbe almeno 26 miliardi di euro. Ma soprattutto: la grande opera più contestata d’Italia sarebbe completamente inutile.L’ennesima conferma ufficiale viene dall’ultimo rapporto dell’Uft, l’ufficio federale dei trasporti elvetico. Si tratta della raccolta totale dei dati delle merci – su strada e su ferrovia – che attraversano annualmente tutti i valichi alpini, da Ventimiglia fino a Wechsel, a sud di Vienna. Da giugno 2002, questo studio è seguito anche dall’Osservatorio del traffico merci nella Regione Alpina dell’Unione Europea. Su tutti i valichi italo-francesi (Ventimiglia, Monginevro, Moncenisio, Fréjus e Monte Bianco) sono passati complessivamente 22,4 milioni di tonnellate di merci, sia su strada che su ferrovia, rispetto al totale di 190 milioni dell’intero arco alpino. Quanto alla valle di Susa, lo stesso osservatorio tecnico istituito dal governo italiano ha stabilito in 32,1 milioni di tonnellate annue la capacità della attuale ferrovia a doppio binario, la linea “storica” che già collega Torino a Lione attraverso Modane. La valutazione risale al 2007, ma ora la linea è stata ulteriormente ammodernata: nel traforo del Fréjus possono transitare treni con a bordo Tir e grandi container. Il “problema”? Presto detto: nell’ultimo anno, in valle di Susa sono transitate appena14 milioni di tonnellate di merci. E di queste, solo 3,4 su ferrovia.«I numeri parlano chiaro», commenta Luca Giunti, attivista No-Tav e referente tecnico per la Comunità Montana valsusina: «Il traffico globale tra Italia e Francia avrebbe potuto tranquillamente essere ospitato soltanto sull’attuale ferrovia, e senza neppure riuscire a saturarla completamente. Invece, sulla direttrice della val Susa è transitato appena un decimo delle merci trasportabili». E il confronto con i rapporti degli anni precedenti, tutti disponibili sul sito svizzero, conferma un trend in continua diminuzione sul versante occidentale delle Alpi, iniziato ben prima della crisi del 2008, mentre a crescere è il trasporto transalpino verso Svizzera e Austria. Motivo: «Italia e Francia hanno economie mature, interessate soltanto da scambi commerciali di sostituzione, mentre il percorso nord-sud collega il centro e l’est Europa con i mercati orientali in espansione». Per contro, la frontiera di Ventimiglia ha accolto, da sola e quasi interamente su strada, 17,4 milioni di tonnellate, 3 in più di quelle piemontesi. «Laggiù la ferrovia ha stretti vincoli e andrebbe ammodernata, con spese e disagi tutto sommato contenuti perché si lavorerebbe a livello del mare e senza dover traforare le montagne. Inspiegabilmente, invece, quel passaggio è trascurato da ogni politica».Anziché potenziare il valico di Ventimiglia, il governo italiano insiste – contro ogni ragionevolezza – nel voler realizzare ad ogni costo il “doppione” valsusino: cioè il progetto «più difficile, più costoso e lapalissianamente più inutile». Decine di miliardi di euro, con benefici attesi soltanto per il lontanissimo 2070, «ma solo se le mostruose previsioni di incremento dei traffici saranno rispettate: ed evidentemente non lo sono!». Ne tiene conto sicuramente la Francia, che ha già escluso la Torino-Lione della sua agenda lavori: l’opera verrà ripresa in considerazione, eventualmente, solo dopo il 2030. In Italia è aperto solo il mini-cantiere di Chiomonte: da quella galleria però non transiterà mai nessun treno, perché quello in via di realizzazione è solo un piccolo tunnel geognostico. Terminato il quale, il buon senso consiglierebbe di fermarsi, tanto più che – a valle di Susa – la stessa progettazione operativa della futura linea, verso Torino, è praticamente ancora inesistente. «Quando si prenderà finalmente atto che il progetto della Torino-Lione è vecchio, inutile ed esoso?», conclude Giunti. «Quando, semplicemente, si rispetteranno i documenti ufficiali e gli atti governativi?». Parlano chiaro persino quelli italiani: le iniziali previsioni di incremento si sono rivelate pura fantascienza, messe a confronto con la realtà. Già oggi, conferma la Svizzera, in valle di Susa il traffico potrebbe crescere del 900%. E senza bisogno di nuove ferrovie.L’ultima barzelletta sulla Torino-Lione la raccontano gli svizzeri, solitamente noti per la loro austera serietà. E infatti non si scherza neanche stavolta: perché all’appello non mancano i binari, ma le merci. In valle di Susa, si apprende, transita appena un decimo del carico che già ora potrebbe essere tranquillamente trasportato. Attenzione: a essere semi-deserta è la linea ferroviaria attuale, la Torino-Modane, appena riammodernata. Inappellabile la sentenza dei numeri: il traffico alpino Italia-Francia è letteralmente crollato. Anziché nuove linee, servirebbero treni da far circolare sulla ferrovia che già esiste. E invece – questa è la “barzelletta” – il governo italiano pensa sempre di costruire ex novo il più costoso e inutile dei doppioni, la famigerata linea Tav a cui la valle di Susa si oppone da vent’anni con incrollabile determinazione, confortata dai più autorevoli esperti dell’università italiana. Tutti concordi: la super-linea Torino-Lione (il doppione) sarebbe devastante per l’ambiente, pericolosa per la salute e letale per il debito pubblico, dato che costerebbe almeno 26 miliardi di euro. Ma soprattutto: la grande opera più contestata d’Italia sarebbe completamente inutile.