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Medici: cure ignorate e tardive, ed ecco la strage Covid
«Dare la Tachipirina a casa, restando “in vigilante attesa”, è una follia. Noi potremmo avere gli ospedali vuoti, e non avremmo un bollettino con tutti questi morti. Sono più di 70.000. Diciamo che magari, all’inizio, non sapevamo come agire. Ma almeno 50.000, di questi 70.000 decessi, li potevamo evitare». Parola di medico: a esprimersi così è il dottor Andrea Stramezzi, medico volontario Covid a Milano. Lo ha intervistato Angela Camuso, in un servizio giornalistico per la puntata del 20 gennaio di “Fuori dal coro”, trasmissione condotta da Mario Giordano su “Rete 4″. Una pagina esemplare di giornalismo, attorno a una notizia sconcertante: si può morire di Covid se è anziani e già affetti da altre patologie. Ma si muore soprattutto perché ormai è tardi, perché nessuno è intervento tempestivamente – a casa – nelle prime fasi della malattia. Preso per tempo, il Covid fa meno paura: guariscono praticamente tutti, anche i più vecchi. Basta usare i farmaci giusti: che esistono, ma sono medicinali-fantasma. Il governo Conte non ha pensato di inserirli in un protocollo da far applicare in modo metodico, sistematico. Se lo si fosse fatto, dicono i medici, non avremmo avuto nessuna catastrofe. Nessuna strage, nessuna emergenza nazionale.L’Italia, premette Angela Camuso, ha il tasso di letalità da Covid più alto d’Europa: il 3,5%. Siamo tra i peggiori al mondo. Imbarazzante: peggio di noi solo Messico e Iran, oltre al Regno Unito. In Spagna, la mortalità è al 2,7, come anche in paesi molto meno dotati di strutture sanitarie, come Argentina e Brasile. Francia, Romania e Ungheria sono al 2,4%. Negli Stati Uniti si è messo in croce Trump per le sue indecisioni su come affrontare l’emergenza, ma il tasso di letalità statunitense è sotto il 2%. La Russia dichiara un tasso dell’1,7%, la Germania dell’1,6. Meglio ancora l’India, col suo 1,5%: un terzo, rispetto al disastro italiano (prendendo per buoni, ovviamente, i dati ufficiali che classificano alla voce Covid un numero elevatissimo di decessi). «Centinaia di medici – racconta la giornalista di “Fuori dal coro” – hanno scoperto che la ragione principale di questa ecatombe è che gli ammalati restano a casa senza cure per giorni e giorni, finché le loro condizioni sono così gravi da imporre il ricovero: il guaio è che, spesso, finiscono in ospedale quando ormai è troppo tardi».Chiarisce Andrea Mangiagalli, medico di base a Milano: «Questa è un’influenza molto più complicata delle altre, ma pur sempre una malattia influenzale virale, come quelle che personalmente curo da trent’anni. I miei pazienti li ho curati già nella prima fase, nessuno è stato ricoverato: e sono tutti vivi». Conferma il dottor Umberto Rossi, pneumologo di Livorno: «Se si interviene per tempo con i farmaci giusti nelle prime fasi, tutti (o quasi tutti) guariscono». Gli fa eco la collega livornese Tiziana Felice, anestesista: a salvare vite umane «sono banalissimi farmaci del nostro prontuario medico, che usiamo da anni». Farmaci di cui, però, nessuno parla. Lo afferma il dottor Riccardo Szumski, medico di base a Treviso: «Il dramma è che le autorità sanitarie negano questa possibilità: non la diffondono». Nessun tam-tam ufficiale, istituzionale, sui farmaci salva-vita. «L’indicazione nazionale dell’Aifa è stata “Tachipirina e aspettare”. Ma aspettando si finisce molto male», sottolinea Szumski. E’ ormai accertato: «Nell’arco di 10 giorni, questa malattia può fare un disastro», ribadisce il dottor Mangiagalli. E’ essenziale intervenire subito, e coi protocolli di cura appropriati: che ancora non vengono diffusi presso tutti i medici italiani.«Il paziente Covid ha diritto a essere visitato, come chiunque altro», protesta la dottoressa Tiziana Felice: «La persona va curata: non è che può essere abbandonata al suo destino». Da nord a sud, conferma Angela Camuso, l’abbandono dei malati nella prima fase della malattia è registrato in tutta la penisola. «Con mio grande rammarico, vedo che a essere trasportate in ospedale sono tutte persone che erano state lasciate a casa, senza una terapia adeguata», denuncia un medico del 118 che lavora in provincia di Biella. E tra la casa del paziente e l’ospedale, dice la dottoressa Felice, dopo un anno di emergenza contina a esserci «una terra di nessuno», in cui si aspetta inutilmente (senza cure) per poi finire in reparto quando ormai, in molti casi, è troppo tardi. «Se tutti continuano a pensare che la malattia si possa “curare” solo in ospedale, non ne verremo fuori più», si allarma il dottor Mangiagalli.Curare il Covid? Si può fare, e con ottimi risultati: basta agire per tempo, e con i medicinali giusti. A quel punto, spesso guarisce anche chi – per l’età avanzata e la presenza di altre malattie, anche gravi – non è esattamente in buona salute. «Io ho curato quasi 200 pazienti, per lo più anziani: anche oltre gli 80 anni, e persino oltre i 90», dice da Milano il dottor Andrea Stramezzi: «Molti hanno co-patologie. Decessi, però, nemmeno uno. Ho trattato persino pazienti con due tumori compresenti, e persino metastasi polmonari». Solo nella cosiddetta “seconda ondata”, a Treviso, il dottor Szumski sta curando 150 persone. Bilancio: «Ho 5 ricoverati e zero decessi». Sottolinea il medico: «Questa non è un’esperienza solo mia, è di moltissimi altri colleghi. Siamo entrati in collegamento, in tutta Italia, e stiamo cercando di intervenire». Essendo latitante lo Stato, a cominciare dal ministero della sanità, a rimboccarsi le maniche sono i medici in prima linea, ospedialieri e terroriali. Si sono organizzati nell’ambito di associazioni mediche come “Ippocrate”, che offrono assistenza domiciliare gratuita ai malati di Covid. Loro sì, hanno messo a punto «un vero e proprio protocollo per le cure precoci».«E se i risultati dalla nosta esperienza sul campo sono ottimi – si domanda lo stesso Szumski – perché non dare delle indicazioni precise?». Inutile aspettare il governo: «Dobbiamo tutti darci una svegliata». Ricapitolando: le cure esistono, ma non ci sono linee-guida. I medici sono abbandonati a se stessi, più o meno come i malati alle prese coi primi sintomi. Certo, «la prima fase della malattia ha sopreso tutti, noi compresi», ammette il dottor Andrea Mangiagalli. «Poi però ci siamo dati da fare, in modo totalmente autonomo, per capire come si poteva intervenire per evitare che i malati finissero in ospedale». Il problema, ricorda il medico, è che questa malattia che ha delle fasi che si susseguono in tempi piuttosto rapidi. Dunque, «bisogna stare molto attenti, perché le condizioni di alcuni pazienti (non tutti: quelli che hanno qualche patologia preesistente) possono evolvere in tempi molto rapidi». La soluzione non può essere quella prospettata dalle autorità sanitarie. Limitarsi ad aspettare, somministrando solo Tachipirina? «Noi non abbiamo mai seguito questa tattica, per curare nessuna malattia».Insiste il dottor Mangiagalli: «Se a un paziente con dolore cardiaco dicessimo “prendi l’Aspirina e aspetta, poi vedi come va”, probabilmente poi finiremmo in galera». All’inizio del 2020, è vero, il Covid aveva spiazzato tutti. Ma il disorientamento è durato solo qualche settimana: «Già dopo il primo mese, ci siamo resi conto che non si poteva più fare così». Andrea Mangiagalli ricorda una data, il 27 marzo. «Quel giorno abbiamo deciso che avremmo iniziato a curarli, i pazienti, anziché lasciarli a casa a “friggere” nella loro febbre. Lo abbiamo deciso nel giro di nemmeno un mese, dopo aver visto che i pazienti ricoverati con l’ambulanza non tornavano più a casa». Nessun mistero, sulle guarigioni: «Abbiamo farmaci assolutamente disponibili in tutto il mondo, in tutte le farmacie. Sono principi che usiamo bene, alcuni usati da trent’anni: come l’idrossiclorochina, che abbiamo utilizzato (funziona, anche se è stata raccontata come un farmaco che uccide: e invece a uccidere è il Covid). Abbiamo utilizzato l’eparina come anticoagulante, perché questa è una malattia che ha una fase trombotica molto pericolosa e spesso asintomatica. E abbiamo usato anche gli antibiotici».Però non esistono linee-guida: ci sono i farmaci, ma non le istruzioni su come usarli – distribuite in modo sollecito e uniforme a tutti i medici d’Italia. «Le ultime indicazioni pubblicate – dice ancora Mangiagalli – parlano solo di “vigile attesa”, misurazione della saturazione e controllo della temperatura. Una modalità assolutamente attendistica, che non è propria della medicina generale, e neppure della medicina in senso assoluto». Parole pesanti come una condanna, nel paese dove il ministro della sanità Roberto Speranza perdeva tempo a scrivere libri, nell’estate 2020, anziché ascoltare i medici che guariscono e quindi convocare le Regioni perché diramassero ai sanitari, attraverso le Asl, il protocollo che insegna a traformare il Covid in una malattia facilmente curabile. «Tutti i pazienti che abbiamo trattato a casa sono guariti», conclude Mangiagalli. «Quei pochi che sono transitati dall’ospedale ci sono rimasti per pochissimi giorni, e non ne è morto nessuno. E non solo i miei: ormai sono migliaia, in Italia, i pazienti trattati e guariti così».«Dare la Tachipirina a casa, restando “in vigilante attesa”, è una follia. Noi potremmo avere gli ospedali vuoti, e non avremmo un bollettino con tutti questi morti. Sono più di 70.000. Diciamo che magari, all’inizio, non sapevamo come agire. Ma almeno 50.000, di questi 70.000 decessi, li potevamo evitare». Parola di medico: a esprimersi così è il dottor Andrea Stramezzi, medico volontario Covid a Milano. Lo ha intervistato Angela Camuso, in un servizio giornalistico per la puntata del 20 gennaio di “Fuori dal coro“, trasmissione condotta da Mario Giordano su “Rete 4″. Una pagina esemplare di giornalismo, attorno a una notizia sconcertante: si può morire di Covid se si è anziani e già affetti da altre patologie. Ma si muore soprattutto perché ormai è tardi, perché nessuno è intervento tempestivamente – a casa – nelle prime fasi della malattia. Preso per tempo, il Covid fa meno paura: guariscono praticamente tutti, anche i più vecchi. Basta usare i farmaci giusti: che esistono, ma sono medicinali-fantasma. Il governo Conte non ha pensato di inserirli in un protocollo da far applicare in modo metodico, sistematico. Se lo si fosse fatto, dicono i medici, non avremmo avuto nessuna catastrofe. Nessuna strage, nessuna emergenza nazionale.
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Comunisti, cioè santi: sul Pci, frottole lunghe 100 anni
Antonio Gramsci era un santo. Palmiro Togliatti un fior di riformista, sulla scia del socialista Filippo Turati. Il Partito comunista era non solo del Migliore (Togliatti, appunto), ma anche dei migliori, essendo i suoi elettori colti e moralmente irreprensibili. La svolta della Bolognina e la trasformazione in Partito democratico della sinistra fu una geniale intuizione di Giorgio Napolitano, e non di Achille Occhetto. Botteghe Oscure prese le distanze da Mosca un poco alla volta, ma con decisione, fin dal dopoguerra, quando scelse di partecipare al processo democratico. Budapest non è mai esistita. La Primavera di Praga, neppure. I Gulag sono un’invenzione della propaganda. L’Unione Sovietica era pacifista, a differenza dei guerrafondai statunitensi. I dissidenti erano fascisti sotto mentite spoglie. Questo, a sommi capi, è il ritratto del Partito comunista italiano, nato cento anni fa con la scissione di Livorno, che abbiamo potuto leggere sui quotidiani, in pratica tutti, spesso in articoli firmati da… (ex?) comunisti.Massì. Non facciamo i bastian contrari a tutti i costi. È stupido ricordare fatti sgradevoli. San Gramsci disse che la piccola e media borghesia erano «la barriera di umanità corrotta, dissoluta, putrescente, con cui il capitalismo difende il suo potere economico e politico, umanità servile, abietta, umanità di sicari e di lacchè». Quindi proseguiva, con divino afflato, che la classe sociale in questione bisognava «espellerla dal campo sociale, come si espelle una volata di locuste da un campo semidistrutto, col ferro e col fuoco». Col ferro e col fuoco, che carino. Sul riformismo di Togliatti, sarebbe proprio cercare il pelo nell’uovo il voler ricordare queste parole del Migliore: «Nella persona e nell’attività di Filippo Turati si sommano tutti gli elementi negativi, tutte le tare, tutti i difetti che sin dalle origini viziarono e corruppero il movimento socialista italiano, che lo condannarono al disastro, al fallimento, alla rovina. Per questo la sua vita può bene essere presa come simbolo e, come un simbolo, anche la sua fine. L’insegna sotto cui questa vita e questa fine possono essere poste è l’insegna del tradimento e del fallimento. Nella teoria Turati fu uno zero».Uno zero? Dai, Palmiro, non fare l’invidioso, sappiamo tutti (?) che in realtà Turati fu il tuo maestro. Quanto alla guerra di Liberazione, chiedere informazioni nel triangolo rosso e lungo il confine orientale: regolamento di conti a mano armata (quella comunista), brigate tradite e sotterrate (dai gappisti), infoibamenti (dai gappisti e dai compagni titini). La “svolta” democratica era tatticismo, voluto e ordinato da Mosca, che stava rafforzando la presa sull’Europa dell’Est e non poteva permettersi l’apertura di un fronte in Italia. In quanto alle posizioni del Partito comunista davanti all’ingresso dei carri armati in Ungheria, sono limpide. Ecco qua cosa scriveva Giorgio Napolitano: «L’intervento sovietico ha non solo contribuito a impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, ma alla pace nel mondo». Secondo “l’Unità”, gli insorti non erano socialisti in cerca di riforme ma «teppisti, spregevoli provocatori e fascisti».Beh, direte voi, però a Praga nel 1968… No, signori, davanti alla repressione, il Partito comunista, con Berlinguer in ascesa a fianco di Luigi Longo, non riuscì ad andare oltre un «forte dissenso». Ah, il dissenso. Vogliamo parlare del tentativo, andato a vuoto, di impedire la pubblicazione del “Dottor Zivago” di Boris Pasternak? Rossana Rossanda si prese la briga di far capire all’editore Giangiacomo Feltrinelli che quel romanzo era brutta propaganda anti-comunista. Darlo alle stampe significava «passare il segno». Non solo Rossana Rossanda. Scese in campo tutta la prima linea della dirigenza: Pietro Secchia, Paolo Robotti, Palmiro Togliatti, Luigi Longo, Mario Alicata. E quando il Premio Nobel per la letteratura Aleksandr Solgenitsin fu esiliato? I comunisti di casa nostra giudicarono l’atto proporzionato, una dimostrazione di responsabilità da parte dei sovietici. Certo, l’esilio era una misura restrittiva dei diritti individuali, ma Solgenitsin aveva sfidato lo Stato e sostenuto aberranti tesi controrivoluzionarie.Sì, però dopo… a un certo punto le cose saranno cambiate. Nel 1977, non ancora. Quello fu l’anno della Biennale del dissenso voluta da Carlo Ripa di Meana. Ordine diretto di Mosca, subito raccolto dai compagni italiani: boicottate la mostra veneziana. Inutilmente cercherete notizia di questi o analoghi fatti. Prevale, nella stampa e nell’editoria, l’adorazione per la storia formidabile del comunismo italiano, senza macchia e senza paura. D’altronde, il comunismo ha perso come sistema politico ma ha vinto come sistema culturale, come mentalità di massa. Facciamo un esempio. Chi ha pagato il conto più salato in questi mesi piagati dalla pandemia? La piccola o media borghesia, impossibilitata a lavorare e ingannata dai mitici ristori, ovvero soldi a pioggia che non arriveranno mai nella misura necessaria e promessa. D’altro canto, come potrebbe lo Stato italiano, che non ha un centesimo, provvedere davvero a tutto? Bene, ricordate le parole di Gramsci da cui siamo partiti? La borghesia «da espellere… col ferro e col fuoco»?(Alessandro Gnocchi, “Il Pci celebra cento anni di menzogne”, dal “Giornale” del 19 gennaio 2021).Antonio Gramsci era un santo. Palmiro Togliatti un fior di riformista, sulla scia del socialista Filippo Turati. Il Partito comunista era non solo del Migliore (Togliatti, appunto), ma anche dei migliori, essendo i suoi elettori colti e moralmente irreprensibili. La svolta della Bolognina e la trasformazione in Partito democratico della sinistra fu una geniale intuizione di Giorgio Napolitano, e non di Achille Occhetto. Botteghe Oscure prese le distanze da Mosca un poco alla volta, ma con decisione, fin dal dopoguerra, quando scelse di partecipare al processo democratico. Budapest non è mai esistita. La Primavera di Praga, neppure. I Gulag sono un’invenzione della propaganda. L’Unione Sovietica era pacifista, a differenza dei guerrafondai statunitensi. I dissidenti erano fascisti sotto mentite spoglie. Questo, a sommi capi, è il ritratto del Partito comunista italiano, nato cento anni fa con la scissione di Livorno, che abbiamo potuto leggere sui quotidiani, in pratica tutti, spesso in articoli firmati da… (ex?) comunisti.
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“I militari vegliano su Trump: sventeranno il golpe di Biden”
Perché nessuno dice le cose come stanno? Negli Usa «molto probabilmente è stato tentato un colpo di Stato», con i brogli delle presidenziali a vantaggio di Biden. E in attesa che le prove vengano valutate dalla Corte Suprema, «i militari Usa fanno capire che difenderanno la Costituzione a qualsiasi costo». Lo scrive Mitt Dolcino, analizzando la convulsa fase post-elettorale. Le prove del “golpe” verranno presentate alla Corte Suprema, che le valuterà fra qualche settimana. «Questo sarà l’iter legale: chiaro, ormai». Da ciò deriva che, ancora oggi, «non possiamo affermare che Biden sarà il prossimo presidente Usa», checché ne dicano i media, «che ormai sembrano un organo di propaganda globale e globalista». I dettagli salienti sarebbero infatti altri: «Da quanto è emerso fino ad ora, sia il virus di Wuhan che i dati elettorali derivanti dalle macchinette di voto e dai voti postali correlati non sono analizzati dai federali, dalla Cia o dalla polizia, ma dai militari Usa: che sono il controllore ultimo della correttezza elettorale e della sopravvivenza dello Stato costituzionale statunitense, anche e soprattutto in questi casi». Come ha specificato il capo di stato maggior, generale Mark Milley, i militari Usa «non giurano fedeltà al presidente, ma alla Costituzione: che difendono a costo della morte».Ergo: potrebbero non riconoscere (e anzi, contrastare) un presidente eletto in modo fraudolento? La seconda considerazione ancora è più intrigante, secondo Mitt Dolcino: «Forse per la prima volta in tempi di pace – diciamo, da 150 anni a questa parte – i militari Usa sono stati davvero dentro al potere esecutivo, con Trump». Fin dall’inizio del suo mandato, il presidente non ha scelto di farsi proteggere dai servizi segreti o dall’Fbi, «ossia da coloro che avevano permesso gli attentati a Jfk e Reagan». Trump «ha preferito i militari, di cui si è circondato: infatti è ancora vivo, senza postumi di traumi». Parallelamente, nel caso della più che sospetta frode elettorale di novembre, «ben ricordando come – prima del computo del voto postale e annesse macchinette – Trump aveva vinto ampiamente le elezioni, saranno sempre loro, i militari, a indagare sui flussi di dati sospettamente golpisti». I media alternativi affermano che, nel 2016, Trump avrebbe vinto «perché i militari all’ultimo momento avrebbero staccato i collegamenti satellitari (che viaggiano su canali non pubblici) con le macchinette Dominion, già presenti per il voto di allora, impedendo così la frode». Ad avvertire Trump dei sotterfugi sarebbe stato il generale Michael Rogers, allora direttore della Nsa.«Sta di fatto che, ancora oggi, sono gli apparati militari a reperire le prove della eventuale frode elettorale». Ossia: «I militari saranno quelli che supporteranno Sidney Powell (avvocato, ex procuratore, registrata anche come giudice militare) nelle sue cause alla Corte Suprema, provando il golpe elettorale». E lo faranno «con i dati dei voti ottenuti e decifrati dai canali Internet tradizionali, decrittabili alla bisogna». Secondo Mitt Dolcino, «i militari saranno dunque quelli che potranno poi intervenire, nel caso ritenessero che qualche forma di golpe elettorale fosse in corso, anche imponendo la legge marziale». Per Mitt Dolcinio, «il momento è topico». E attenzione: «Nessuno, in nessuna parte del mondo, è davvero al sicuro. A maggior ragione in Europa. E soprattutto in Italia, dove le basi militari Usa si sprecano». In altre parole: i militari americani potrebbero intervenire con la massima decisione anche sul territorio europeo, se dovesse emergere il ruolo di politici o funzionari italiani (o tedeschi) nella manipolazione elettorale negli Usa.«Faccio solo presente che il sottosuolo della base livornese di Camp Darby contiene, si dice, più carri armati di tutti i tank italiani a disposizione del nostro esercito, senza contare le grandi basi di Aviano, Ghedi e Sigonella, più altri siti coperti». In tale contesto, aggiunge Dolcino, «è pazzesco che paesi alleati facciano finta di non vedere che negli Usa, forse, un golpe c’è davvero stato». Il tentativo di “esautorare” gli Usa, recalcitranti di fronte al Grande Reset globalista, «non può finire bene, comunque vada», perché i militari lo sventerebbero. Nel caso paesi stranieri avessero ingerito contro gli Usa, «la reazione ci sarà, statene certi», scrive ancora Mitt Dolcino. «E’ infatti notizia degli scorsi giorni che militari di altissimo grado si siano espressi per la legge marziale, negli Usa, in caso di prove sufficienti – che, lo ricordo, saranno i militari stessi a reperire ed analizzare – di tentato colpo di Stato elettorale». Nel caso le prove emergessero concrete, forti e decisive, i militari – nel rispetto dei limiti costituzionali – potrebbero anche «intervenire militarmente per porre fine a tale, per ora ipotetico, tentativo di ribaltamento costituzionale “golpista”».Perché nessuno dice le cose come stanno? Negli Usa «molto probabilmente è stato tentato un colpo di Stato», con i brogli delle presidenziali a vantaggio di Biden. E in attesa che le prove vengano valutate dalla Corte Suprema, «i militari Usa fanno capire che difenderanno la Costituzione a qualsiasi costo». Lo scrive Mitt Dolcino, analizzando la convulsa fase post-elettorale. Le prove del “golpe” verranno presentate alla Corte Suprema, che le valuterà fra qualche settimana. «Questo sarà l’iter legale: chiaro, ormai». Da ciò deriva che, ancora oggi, «non possiamo affermare che Biden sarà il prossimo presidente Usa», checché ne dicano i media, «che ormai sembrano un organo di propaganda globale e globalista». I dettagli salienti sarebbero infatti altri: «Da quanto è emerso fino ad ora, sia il virus di Wuhan che i dati elettorali derivanti dalle macchinette di voto e dai voti postali correlati non sono analizzati dai federali, dalla Cia o dalla polizia, ma dai militari Usa: che sono il controllore ultimo della correttezza elettorale e della sopravvivenza dello Stato costituzionale statunitense, anche e soprattutto in questi casi». Come ha specificato il capo di stato maggiore, generale Mark Milley, i militari Usa «non giurano fedeltà al presidente, ma alla Costituzione: che difendono a costo della morte».
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Fiat, Repubblica e Vaticano SpA. Moncalvo: siamo alla follia
Stiamo sprofondando nella follia: l’Italia crolla, e nessuno ne parla. «C’è da meravigliarsi che non accada qualcosa, perché lo sconquasso sociale è gigantesco, tra il Vaticano che entra in società con Lapo Elkann (con l’Obolo di San Pietro, destinato ai poveri) e una catena di giornali che, invece di fare le inchieste sul resto del mondo, dovrebbero interrogarsi su chi sono e cosa fanno, realmente, i loro padroni». Gigi Moncalvo, giornalista di lunga esperienza, è letteralmente esterrefatto dalla sequenza degli eventi: Fiat-Fca che cede il comando ai francesi, poi annuncia l’apertura di uno stabilimento (non in Italia: in Marocco) e si prepara a ricevere in omaggio 136 milioni di euro dal governo Conte. Nel frattempo, i giornali tacciono: quelli del gruppo “Espresso” (”Repubblica”, in primis) vengono comprati da John Elkann «al prezzo delle sigarette». Spiccioli: costano la decima parte di quello che Exor ha speso per ricapitalizzare la Juventus, dopo le spese pazze per Cristiano Ronaldo. E attenzione: l’acquisto del gruppo “Espresso-Repubblica” è meno dell’1% del totale degli investimenti finanziari della Exor. «Negli ultimi sei mesi, la holding della famiglia Agnelli ha investito 23,3 miliardi». In Italia, posti di lavoro a rischio: ma i media sorvolano.
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Dezzani: il M5S, piano Usa nato per sterilizzare la protesta
Quando una nuova arma è perfezionata è abitudine sperimentarla in qualche poligono di tiro lontano da occhi indiscretti. Ma le armi convenzionali sono solo uno degli strumenti cui il sistema ricorre per esercitare il proprio dominio, scriveva l’analista geopolitico Federico Dezzani nel lontano 2015, quando a Palazzo Chigi sedeva il Matteo Renzi prima maniera, non ancora alleato dei grillini. Eppure, già allora, proprio di quelli Dezzani si occupava, definendo il Movimento 5 Stelle “la stampella del potere”. Tre anni dopo, i grillini sono andati al governo con Salvini ma piazzando lo sconoscito Conte nella sala dei bottoni. E oggi, puntualissimi, sono negli stessi ministeri ma con l’odiato Renzi e il “partito della Boschi”. Colpa di Salvini? Ma va là, direbbe Dezzani, che già quattro anni fa aveva le idee chiarissime sulla vera funzione del MoVimento, che infatti ha ricondotto all’ovile le pecorelle populiste facendo loro ingoiare persino l’inchino supremo alla Grande Germania, con l’elezione di Ursula von der Leyen a capo della Commissione Europea. A maggior ragione acquista sapore, oggi, la rilettura dell’analisi del profetico Dezzani: quello di Grillo era solo un bluff, fin dall’inizio. Operazione sofisticata, che ha ingannato milioni di elettori.
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Perché Falcone e Borsellino saltarono in aria in quel modo
Saltarono in aria, quei giudici, perché avrebbero fatto saltare per aria il sistema. «Con Falcone arriva il segnale della pace tra Stato e mafia, mentre con la strage di via D’Amelio in cui muore Borsellino si dà il via alle leggi che azzerano i poteri della magistratura». Sul blog “Petali di Loto”, il 19 luglio 2019 – anniversario della strage di via D’Amelio – Stefania Nicoletti richiama le analisi offerte nel corso degli anni dall’avvocato Paolo Franceschetti, con l’aiuto dell’allora collega Solange Manfredi. Già legale delle “Bestie di Satana”, Franceschetti ha dedicato studi coraggiosi al fenomeno dei delitti rituali (dal Mostro di Firenze in poi), tutti “firmati” in realtà da killer dediti a forme di esoterismo degenerate in occultismo criminale. Uomini protetti da forti coperture a livello istituzionale, a volte funzionale alla strategia della tensione o comunque alla manipolazione psicologica delle masse. «Esempio: l’individuo che viene arrestato non è mai un giudice, un politico, un notaio, un medico, un ufficiale, un docente universitario. E’ sempre un contadino semi-analfabeta, una povera madre presentata come pazza, un giovane drogato e sbandato. E’ il capro espiatorio perfetto, attraverso cui far sapere alla gente che è in buone mani e non corre pericoli, visto che il potere è pulito. Invece è vero esattamente il contrario».Lo si è intuito, in modo atrocemente sanguinoso, osservando i retroscena inquinatissimi delle morti ravvicinate di Falcone e Borsellino. Dopo la seconda, in particolare, si cominciò a parlare di “trattativa Stato-mafia”. Affrontò il tema Vincenzo Calcara, uno dei pochi collaboratori di giustizia che possono veramente essere chiamati “pentiti”. «Il dottor Borsellino – scrisse, nel suo memoriale – era in possesso di verità scomode», di fronte alle quali «in tanti si devono vergognare per averlo lasciato solo al suo destino». Calcara era stato segnato dall’incontro col magistrato, che gli aveva cambiato la vita: una vera e propria redenzione morale. C’erano due piani alternativi per uccidere Borsellino, ricorda Franceschetti: il primo prevedeva l’uso di un fucile di precisione ed era affidato proprio a Calcara, mentre nel secondo caso – un’autobomba – il futuro pentito avrebbe svolto soltanto un lavoro di copertura. «Poi però da Palermo arrivò l’ordine, direttamente da Totò Riina: prima, avrebbe dovuto essere ucciso Giovanni Falcone». Così, Calcara riuscì a non uccidere l’uomo che, anni dopo, gli avrebbe salvato la vita, facendolo rinascere come essere umano. Ma Riina era veramente “il capo dei capi”, o invece era solo il “prestanome” di qualcuno molto più potente, protagonista occulto dell’infinita finita strategia delle tensione italiana?Lo stesso Riina affermò che Borsellino non sarebbe stato “condannato” dalla mafia, ma probabilmente da uomini dello Stato. E nel caso, perché mai? «Forse perché aveva capito che la cosiddetta “trattativa” non era altro che un accordo per realizzare un piano eversivo di destabilizzazione dello Stato, condotta da un “sistema criminale” composto da mafia, massoneria deviata e servizi segreti deviati?». Riguardo alla possibile manovalanza, alternativa o contigua a quella strettamente mafiosa, Solange Manfredi cita le dichiarazioni rese da un ex paracadutista della Folgore, Fabio Piselli, coinvolto nelle indagini sul rogo della nave “Moby Prince”. Una ricostruzione scioccante, che mette insieme la strage di Capaci e quella di via D’Amelio, l’autobomba fiorentina di via dei Georgofili e la bomba romana di via Fauro. Italia fragilissima, all’epoca: Tangentopoli e passaggio cruciale dalla Prima alla Seconda Repubblica, sotto le forche caudine di Bruxelles, dopo aver spazzato via – a colpi di inchieste – l’intera classe politica. Decisivo, secondo Solange Manfredi, il ruolo nefasto di una sigla-fantasma ma onnipresente, in quegli anni: la Falange Armata.Esisteva dal 1985, sembra, ma compare per la prima volta soltanto il 4 gennaio 1991, quando a Bologna vengono uccisi tre carabinieri nel quartiere del Pilastro. L’ultima apparizione mediatica è del 27 novembre 1994, con il seguente comunicato: “Di Pietro è un uomo morto”. Di mezzo ci sono Falcone e Borsellino, le minacce a Di Pietro per le indagini su Craxi, un’autobomba scoperta a Roma in via dei Sabini a cento metri da Palazzo Chigi, il palagiustizia di Padova dato alle fiamme. Il 19 luglio ‘92, la Falange Armata rivendica l’attentato costato la vita a Borsellino. Un anno dopo, il 16 settembre del ‘93, la Procura di Roma individua in 16 ufficiali del Sismi i telefonisti che rivendicarono le azioni della fantomatica sigla terroristica. Cos’era, la Falange Armata? Secondo l’ex parà Fabio Piselli, «è stata una operazione modello, continuata e mai inquinata, compartimentata e soprattutto posta in sonno e mai disattivata da parte di un organo inquirente o ispettivo». In questo modo «ha raggiunto i propri obiettivi». Dopodiché “l’operazione” «è stata semplicemente conclusa», e i suoi “operativi”, di fatto, «hanno continuato a fare il proprio lavoro», dedicandosi ad altre mansioni e lasciando gli inquirenti impegnati a inseguire una falsa pista, cioè «una “organizzazione”, e non una semplice “operazione”».Risultato scontato: indagini finite in un nulla di fatto, «o con l’arresto di mere, ignare pedine, o di qualche povero innocente sacrificato per confondere gli inquirenti, il quale si è fatto qualche mese di galera ingiustamente e la cui vita è stata rovinata». Omicidi, rapine, attentati, sequestri. E poi: infiltrazioni in attività militari e politiche, trafugamento di armi dello Stato, addestramento di civili in attività militari. Ancora: spionaggio politico e militare, intercettazioni illegali, violazione e utilizzo del segreto d’ufficio, peculato, attentato alla democrazia. «E’ ciò che l’operazione Falange Armata ha posto in essere fra il 1985 ed il 1994 attraverso gli operatori, attivati singolarmente o in piccole squadre», dice Piselli. E’ tutto? No, certo. Sulla “trattativa”, la prima indagine fu archiviata nel 2000 per decorrenza dei termini, ricorda Franceschetti, prima che Antonio Ingroia riaprisse il caso, su cui ormai si sono scritti fiumi di inchiostro. Quello di cui invece Franceschetti è rimasto l’unico a parlare, invece, è un dettaglio sfuggente: il ricorrere – veramente impressionante – delle stesse modalità simboliche che costellano i fatti di sangue “mediatici”, sia gli attentati terroristici che molti delitti in apparenza comuni, destinati alla semplice cronaca nera.Dopo anni di ricerche, Franceschetti ha individuato una “firma” ancora più elusiva di quella della Falange Armata: è la Rosa Rossa, specializzata in delitti rituali anche eccellenti, come quelli del cantante Rino Gaetano e del ciclista Marco Pantani. Personaggi da “punire” secondo lo schema – dantesco – della “legge del contrappasso”, attraverso modalità maniacalmente simboliche, a partire dai nomi dei luoghi (mai casuali) e delle date in cui i delitti si consumano. La morte come tragico cerimoniale, in cui si mette in scena – capovolgendolo – ciò che il malcapitato aveva rappresentato, in vita. Gaetano? Vittima di uno stranissimo incidente stradale, soccorso da una strana ambulanza e morto dissanguato dopo esser stato rifiutato da quattro diversi ospedali – esattamente come nella “Canzone di Renzo”, uscita postuma, in cui saranno gli stessi assassini a portare a spalle la bara. Pantani? Ucciso al residence “Le Rose” di Rimini. Accanto al corpo, un biglietto: “Oggi le rose sono contente, e la rosa rossa è la più contata”. A chi dava fastidio, Pantani? Al business del doping, che coinvolge potenti ambienti massonici: droghe prodotte nei laboratori di Big Pharma, testate sui ciclisti e poi immesse sul mercato (anche quello della guerra, destinate ai soldati).E Rino Gaetano? Nel brano “Nuntereggae più” cita Vincenzo Cazzaniga, storico percettore dei fondi neri Usa indirizzati alla Dc, mentre nella canzone “Mio fratello è figlio unico” menziona “il rapido Taranto-Ancona”, che poi le indagini sugli anni di piombo avrebbero rivelato essere “il treno delle spie”, usato dai servizi deviati per trasportare gli esplosivi destinati alle stragi nelle piazze. Secondo Franceschetti, neppure Falcone e Borsellino sono sfuggiti al lugubre copione simbolico del “contrappasso”: riferendosi all’inferno della Divina Commedia, «la persona da eliminare morirà secondo la logica di far patire alla vittima il “peccato” che questa avrebbe commesso». Un classico: «Molti dei testimoni del disastro di Ustica, il Dc-9 dell’Itavia abbattuto, moriranno in un incidente aereo». Lo stesso Fabio Piselli, testimone dell’incendio della “Moby Prince”, è caricato su un’auto che poi viene incendiata: doveva quindi morire in un rogo, anche lui. Oppure il caso del perito Luciano Petrini: stava facendo una perizia sulla strana fine del colonnello Mario Ferraro, del Sismi, trovato impiccato all’asciugamani del bagno. Ebbene, Petrini morirà a colpi di portasciugamani».La casistica esaminata da Franceschetti è davvero vasta. L’antropologa Cecilia Gatto Trocchi, che smascherava crimini di matrice esoterica, volò dal balcone: «Chi sale troppo in alto, viene gettato dall’alto». Le vie dei killer sono pressoché infinite: «Qualcuno può morire fulminato dalla corrente elettrica come il giovane contestatore siciliano Giuseppe Gatì, perché il fulmine simboleggia la folgore di Zeus che punisce la persona che ha osato troppo». E la chiave simbolica della spaventosa morte di Falcone e Borsellino, entrambi dilaniati dall’esplosivo? Tragicamente semplice: «Li hanno fatti letteralmente saltare in aria, perché quei due stavano per far saltare in aria il sistema parallelo che collega la mafia alla parte oscura del potere ufficiale». Falcone, innanzitutto, «doveva morire in Sicilia – e non a Roma, dove sarebbe stato più facile assassinarlo – perché proprio sull’isola si erano svolte le sue indagini: la regola del contrappasso esigeva quindi che morisse nella stessa terra ove aveva “peccato”». Inoltre, aggiunge Franceschetti, «doveva saltare in aria in modo eclatante, proprio perché voleva far saltare il sistema». Attenzione: «Falcone aveva capito che il fulcro del sistema criminale in Italia non è la mafia. E’ lo Stato. E sono le banche. Quindi doveva saltare in aria perché l’esplosione con cui muore fa da contrappasso all’esplosione che lui voleva assestare al “sistema”».Non è casuale neppure la scelta del luogo dell’agguato: «Falcone è morto a Capaci, a simboleggiare che chiunque sia “capace”, deve morire». La cosa può suonare ridicola, ammette Franceschetti, ma suggerisce di riflettere sul fatto che «stiamo parlando di un’associazione che non lascia nulla al caso, neanche i nomi delle persone che vengono messe in determinate posizioni di vertice politico, finanziario, o amministrativo». C’è anche dell’altro, dietro al nome Capaci: la cittadina prese il nome dalla parola “pace” (Capaci, “cca-paci”) per siglare la fine di una leggendaria punizione, la reclusione sulla vicina Isola delle Femmine di 13 fanciulle. Scoppierà una “pace”, dopo “l’attentatone” costato la vita a Falcone e alla sua scorta? «Esatto: non a caso, come risulta dalla sentenza sulla strage di via dei Georgofili (che riuniva in un solo processo ben sette stragi, commesse a Firenze, Milano e Roma) e dalla sentenza sul Capitano Ultimo, dopo la strage di Capaci venne avviata la famosa trattativa tra Stato e mafia, di cui si fece portavoce il generale Mario Mori, per raggiungere, appunto, la pace». Probabilmente, aggiunge Franceschetti, la morte così eclatante di Falcone «segna anche, simbolicamente, uno spartiacque tra il vecchio metodo di eliminazione dei magistrati (ucciderli) e quello nuovo (delegittimarli). Non più attentati, quindi, ma le cosiddette “armi silenziose per una guerra tranquilla”».La morte di Falcone simboleggia quindi una storica tregua? Fateci caso: dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, la mafia siciliana sembra quasi non esistere più: finiscono in carcere Riina e Provenzano, imprendibili per decenni, dopodiché cala il silenzio. «Addirittura, l’allora procuratore antimafia Pietro Grasso è andato al “Maurizio Costanzo Show” a declamare gli immensi successi dello Stato sulla mafia», ormai ridotta – secondo lui – al lumicino. Ricapitolando, il simbolismo della strage di Capaci è: auto, esplosione, Isola delle Femmine, Capaci. «Il probabile significato: Falcone voleva far saltare il sistema (esplosione), quindi dal cielo (auto) arriva la punizione che lo fa saltare in aria; dopodiché dovrà scendere la pace, tra lo Stato e la mafia (Capaci). Così muoiono le persone capaci di arrivare al cuore del sistema». Non è tutto: «A firmare la strage, ci sono due elementi: il gruppo di mafiosi si era posizionato sulla collina vicino Capaci; e la collina si chiama “Raffo Rosso“, ove raffo in ebraico significa “Dio che guarisce”. RR, firma della Rosa Rossa». L’organizzazione di cui parla Franceschetti si ispirerebbe – in modo deformato e deviato – alla confraternita sapienziale inziatica dei Rosa+Croce? Eccola: «La moglie di uno degli agenti di scorta, la donna straziata che fece il famoso discorso ai funerali, si chiama Rosaria Costa: le iniziali, RC).E Borsellino? «Fu ucciso nello stesso modo, anzitutto perché aveva seguito le orme dell’amico. Poi perché anche lui, col Memoriale Calcara, aveva avuto notizie che erano in grado di far saltare il sistema». Non mancano ulteriori indizi simbolici: «Credo che un aspetto della simbologia della sua morte vada trovata anche nella via dove avvenne l’esplosione, via Mariano D’Amelio: un politico che fece leggi sulla magistratura. Chiaro il messaggio: la magistratura deve essere azzerata». Dopo quelle orrende mattanze, «inizialmente sembrò che la magistratura acquistasse più poteri, e che lo Stato volesse realmente fare la guerra alla mafia». Nacque infatti lo strumento del 41 bis, il carcere duro per i mafiosi, e ci furono alcuni ritocchi al codice di procedura penale. «Ma poco dopo – aggiunge Franceschetti – arrivarono leggi che, di fatto, azzerarono il potere della magistratura riducendolo ad un formalismo vuoto, cosicché oggi l’80% dei reati cade in prescrizione, e per reati gravissimi vengono comminate pene ridicole». Sparì di fatto il reato di falso in bilancio, scomparve l’ergastolo per il reato di “attentato agli organi costituzionali”, si cercò di limitare le intercettazioni. Di fatto, dopo la morte di Borsellino, scattò «un’opera sistematica di demolizione dei poteri dei magistrati». Fantasie? Non esattamente, purtroppo.Saltarono in aria, quei giudici, perché avrebbero fatto saltare per aria il sistema. «Con Falcone arriva il segnale della pace tra Stato e mafia, mentre con la strage di via D’Amelio in cui muore Borsellino si dà il via alle leggi che azzerano i poteri della magistratura». Sul blog “Petali di Loto”, il 19 luglio 2019 – anniversario della strage di via D’Amelio – Stefania Nicoletti richiama le analisi offerte nel corso degli anni dall’avvocato Paolo Franceschetti, con l’aiuto dell’allora collega Solange Manfredi. Già legale delle “Bestie di Satana”, Franceschetti ha dedicato studi coraggiosi al fenomeno dei delitti rituali (dal Mostro di Firenze in poi), tutti “firmati” in realtà da killer dediti a forme di esoterismo degenerate in occultismo criminale. Uomini protetti da forti coperture a livello istituzionale, a volte funzionale alla strategia della tensione o comunque alla manipolazione psicologica delle masse. «Esempio: l’individuo che viene arrestato non è mai un giudice, un politico, un notaio, un medico, un ufficiale, un docente universitario. E’ sempre un contadino semi-analfabeta, una povera madre presentata come pazza, un giovane drogato e sbandato. E’ il capro espiatorio perfetto, attraverso cui far sapere alla gente che è in buone mani e non corre pericoli, visto che il potere è pulito. Invece è vero esattamente il contrario».
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Bombacci: morì fascista il primo leader comunista italiano
Cent’anni fa apparve in Italia il primo leader comunista, amico personale di Lenin; morì poi da fascista, fucilato a Dongo e appeso per i piedi dai suoi compagni in Piazzale Loreto, accanto a Mussolini. Si chiamava Nicolino Bombacci e fu eletto nel 1919 alla guida del partito socialista. Era il capo dei massimalisti, somigliava non solo fisicamente a Che Guevara e ricordava Garibaldi. Era un puro e un confusionario; rappresentava, per dirla con De Felice, il comunismo-movimento, rispetto a chi poi si arroccò nel comunismo-regime. Fu lui a volere la falce e martello nella bandiera rossa, sull’esempio sovietico. Questa storia rimossa dai comunisti merita di essere raccontata. Il 1°maggio di cent’anni fa era nato a Torino “Ordine Nuovo”, fondato da Antonio Gramsci, Amadeo Bordiga e Palmiro Togliatti. A quel tempo, disse poi Tasca (che, esule dal Pci, finì a Vichy con Pétain): «Eravamo tutti gentiliani». Sull’onda della rivoluzione bolscevica nel giugno di cent’anni fa “Ordine Nuovo” propose i soviet in Italia. Quel progetto li ricongiunse a Bombacci e insieme poi fondarono a Livorno il Partito Comunista. «Deve la sua fortuna di sovversivo a un paio d’occhi di ceramica olandese e a una barba bionda come quella di Cristo»: così Mussolini dipinse il suo antico compagno, poi nemico e infine camerata Bombacci.Romagnolo e maestro elementare come Mussolini, cacciato anch’egli dalla stessa scuola perché sovversivo, compagno di lotte e di prigione del futuro duce, e nemico dei riformisti, Bombacci si separò da Mussolini dopo la svolta interventista. Per tornare al suo fianco a Salò ed essere ucciso, dopo aver gridato “Viva il socialismo, viva l’Italia”. A differenza di Mussolini, Bombacci veniva dal seminario (come Stalin e Curcio) e da una famiglia papalina di Civitella di Romagna. Bombacci diventò il principale bersaglio dei fascisti che gli urlavano “Con la barba di Bombacci / faremo spazzolini. Per lucidare le scarpe di Mussolini” (la stessa canzone fu riadattata al Negus quando l’Italia fascista conquistò l’Etiopia). I fascisti lo trascinarono alla gogna, tagliandogli la barba. Zazzera biondastra e incolta, volto magro, zigomi sporgenti, malinconici occhi turchini e una voce appassionata, impetuoso trascinatore di piazza. Così lo ricordava Pietro Nenni: «Una selva di capelli spettinati, uno scoppio di parole spesso senza capo né coda. Nessun tentativo di convincere, ma lo sforzo di piacere. Un’innegabile potenza di seduzione. E in tutto questo, un soffio di passione…».Sposato in chiesa, tre figli e varie storie d’amore alle spalle, Bombacci si schierò con Gramsci dalla parte di D’Annunzio a Fiume con la Carta del Carnaro. Quando nacque il Pcd’I, Mussolini dirà in un discorso alla Camera: «Li conosco i comunisti, sono figli miei». Bombacci fece uscire il folto gruppo parlamentare socialista dalla Camera prima che parlasse il Re nel giorno dell’insediamento, al grido di “Viva il socialismo”. Bombacci fu l’unico dei comunisti italiani in diretti rapporti con Lenin. Bombacci ricevette da lui denaro, oro e platino per la propaganda. A Mosca, Bombacci tornò coi vertici del partito nel quinto anniversario della rivoluzione bolscevica, il 9 novembre del 1922 che nel calendario russo coincideva, col nostro 28 ottobre: quell’anno ci fu la Marcia su Roma. Bombacci sostenne l’intesa tra l’Italia fascista e l’Urss comunista, anche in Parlamento. Poi suggerì ai comunisti d’infiltrarsi nei sindacati fascisti (strategia che Togliatti poi teorizzò come “entrismo”). Fu lui il primo comunista a entrare (indenne) nella Camera con Mussolini al potere.Continuò a far la spola con Mosca, soprattutto dopo che l’Italia fascista era stata il primo paese occidentale a riconoscere l’Urss e ad avviare rapporti economici. Bombacci tornò a Mosca il 1924 ai funerali di Lenin ed era ritenuto il n.1 in Italia. Fu espulso dal partito quattro anni dopo, per deviazionismo e indegnità, dopo aver dato vita a un’agenzia di export-import tra l’Italia e l’Urss; Bombacci fu il precursore delle coop rosse. Per tutta la vita navigò tra i debiti; Mussolini aiutò i suoi famigliari e gli trovò un’occupazione all’Istituto di cinematografia educativa, in una palazzina di Villa Torlonia, proprio dove risiedeva il Duce. E gli finanziò un giornale fasciocomunista degli anni trenta, “La Verità”, che evocava la “Pravda” a cui Bombacci aveva collaborato. Odiato da Starace e dai fascisti, la “Verità” continuò a uscire fino al ’43. Dalle sue pagine teorizzò l’autarchia. Bombacci sognava d’unificare le rivoluzioni di Roma, Mosca e Berlino; ma con la rottura del patto Molotov-Ribbentrop, il comunismo si alleò con le plutocrazie occidentali, e lui, anti-capitalista, si schierò col fascismo.Ai tempi di Salò, Bombacci aveva i capelli corti e la barba non era più incolta; una palpebra gli si era abbassata davanti all’occhio, vestiva con abiti gessati. Ma coltivava ancora il suo velleitario socialismo. A Salò il sindacalista Francesco Grossi lo ricorda «caloroso nell’esporre, gli brillavano gli occhi chiari ed acuti che rivelavano una totale pulizia interiore». Perorò la socializzazione nella prima bozza della Carta di Verona e sognò la nascita dell’Urse, l’unione delle repubbliche socialiste europee. Con Carlo Silvestri voleva riaprire il caso Matteotti per dimostrare che quel delitto fu messo di traverso tra Mussolini e il socialismo per evitare il riavvicinamento. Con Silvestri Bombacci promosse l’estremo tentativo di consegnare le sorti della Rsi al partito socialista di unità proletaria con un messaggio consegnato a Pertini e a Lombardi, che i due leader partigiani cestinarono. Bombacci continuò a predicare tra gli operai la rivoluzione sociale: nel suo ultimo discorso a Genova il 15 marzo del ’45 ritrovò la foga della sua gioventù; lo raccontò in una lettera entusiasta a Mussolini. Fucilato con Mussolini a Dongo, fu esposto col cartello “Supertraditore”. Cadde cogli occhi azzurri spalancati verso il cielo, come si addice a un sognatore ad occhi aperti.(Marcello Veneziani, “Cent’anni fa il primo comunista italiano – che morì fascista”, da “La Verità” dell’11 giugno 2019).Cent’anni fa apparve in Italia il primo leader comunista, amico personale di Lenin; morì poi da fascista, fucilato a Dongo e appeso per i piedi dai suoi compagni in Piazzale Loreto, accanto a Mussolini. Si chiamava Nicolino Bombacci e fu eletto nel 1919 alla guida del partito socialista. Era il capo dei massimalisti, somigliava non solo fisicamente a Che Guevara e ricordava Garibaldi. Era un puro e un confusionario; rappresentava, per dirla con De Felice, il comunismo-movimento, rispetto a chi poi si arroccò nel comunismo-regime. Fu lui a volere la falce e martello nella bandiera rossa, sull’esempio sovietico. Questa storia rimossa dai comunisti merita di essere raccontata. Il 1°maggio di cent’anni fa era nato a Torino “Ordine Nuovo”, fondato da Antonio Gramsci, Amadeo Bordiga e Palmiro Togliatti. A quel tempo, disse poi Tasca (che, esule dal Pci, finì a Vichy con Pétain): «Eravamo tutti gentiliani». Sull’onda della rivoluzione bolscevica nel giugno di cent’anni fa “Ordine Nuovo” propose i soviet in Italia. Quel progetto li ricongiunse a Bombacci e insieme poi fondarono a Livorno il Partito Comunista. «Deve la sua fortuna di sovversivo a un paio d’occhi di ceramica olandese e a una barba bionda come quella di Cristo»: così Mussolini dipinse il suo antico compagno, poi nemico e infine camerata Bombacci.
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Abolire le lezioni di storia: i docenti non insegnano niente
Un po’ di giorni fa, le associazioni dei docenti di storia e l’Istituto Storico per la Storia della Resistenza hanno lanciato un grido di dolore contro la proposta di abolire la traccia di storia fra quelle degli esami di Stato, additando l’incultura di chi ha fatto l’infausta proposta ed hanno colto l’occasione per la solita geremiade sulle cattedre perse, della marginalizzazione delle ore di insegnamento della storia ridotte ad una sola negli istituti tecnici, eccetera. La commissione ministeriale che ha approvato questa riforma degli esami di Stato è certamente composta da allevatori di bestiame capitati non si sa come in quella posizione, non discuto. Ma bisogna riconoscere che qualche ragione ce l’hanno: è un fatto che nell’ultimo decennio (più o meno) la traccia è stata scelta solo dall’1% dei candidati. E la cosa, cari colleghi, non vi dà nessun sospetto? Se il 99% degli studenti scansa la traccia di storia, non dipenderà dal fatto che la storia gli è stata insegnata con i piedi? Non cominciamo con le solite scuse sulla vulgata corrente che marginalizza le materie umanistiche e disincentiva i giovani a studiare la storia, su quella trappola infernale che è Internet, eccetera eccetera; il punto è che i nostri docenti non riescono ad interessare i ragazzi alla materia in questione.E questo si inserisce nel problema più generale dei troppi insegnanti che, magari, conoscono la materia ma non la sanno insegnare, e questo vale per tutte le discipline. In estate lessi di una classe di un istituto livornese dove erano stati bocciati o rimandati 40 studenti su 41, e un imbecille di docente confessava come giustificazione: «Non riusciamo a farli studiare». Come dire che “non sappiamo fare il nostro mestiere”, visto che il compito del docente è proprio quello di motivare i ragazzi a studiare. Morale: licenziamo in blocco i docenti di quella classe e faremo una cosa santa. Ma, si dice, della storia ha bisogno non solo la cultura ma anche la democrazia, perché, si dice, la storia ha un alto valore formativo. Ecco: il punto è proprio questo: la storia, così come viene insegnata, ha ancora questo valore formativo? Direi proprio di no. Per il modo in cui è ora mal insegnata non ha alcun valore culturale e, meno che mai, professionale. La storia non serve a “far bella figura in società” o ad assecondare una qualche voglia individuale di intrattenimento. La storia ha una funzione precisa nella spiegazione e critica del presente e, solo a questa condizione, è elemento utile al dibattito politico e culturale.Frugare a caso nel passato non serve a niente, quello che serve è risalire lungo la catena dei nessi causa effetto-che spieghino l’attuale stato di cose e servano da lente di ingrandimento per individuare cosa va conservato e cosa mutato nell’attuale ordinamento. Ora, c’è qualcuno che ha il coraggio di sostenere che l’attuale insegnamento serva a questo? Quanti docenti sarebbero in grado di spiegare il passaggio dalla formula merce-denaro-merce a quella denaro1-merce-denaro2 e spiegarne la portata storica? Quale insegnante saprebbe spiegare le conseguenze della decisione di Nixon sulla non convertibilità del dollaro nel 1971? Quanti docenti hanno una pur vaga idea del pensiero politico di Gandhi, Sukarno, Kemal Ataturk o sanno chi sono stati Nasser, Al Qutb o Franz Fanon? E chi saprebbe presentare adeguatamente il processo di codificazione dello Stato moderno europeo o il passaggio dalla decretazione alla legge? Ne dubito fortemente, perché i nostri docenti in massima parte sono filosofi o letterati che non capiscono nulla di diritto o economia e poco di sociologia o politologia.D’altro canto, i libri di testo che hanno a disposizione non parlano di certe cose e ripropongono la solita sbobba identica a se stessa da almeno 60 anni. Sì, ci abbiamo appiccicato a forza qualche capitolo sulla storia delle donne, dei giovani o dell’ambiente (che nessun docente trova il tempo di spiegare e che sono posti senza alcun legame con tutto il resto) ma la struttura resta quella di sempre, nella quale è possibile distinguere con chiarezza i suoi vari strati alluvionali: alla base il catechismo della “religione della Patria” con i suoi martiri (Menotti, Speri, Bandiera) e il suo glorioso cammino verso l’unità; poi il capitolo sulla Prima Guerra Mondiale per lo più di derivazione fascista; quindi la grande cupola dell’insegnamento crociano con il suo culto per l’analogia e il suo insopportabile moralismo, per cui il fine della storia è il giudizio morale (insomma, il voto in condotta a chi ci ha preceduto) e la sua totale insensibilità ai dati istituzionali ed economici; infine un po’ di catechismo antifascista.Beninteso: sono antifascista da sempre, non ritengo affatto che l’antifascismo sia un valore superato, ma non sopporto alcun tipo di catechismo. Si può capire che nel primo trentennio della Repubblica fosse necessario radicare la condanna del fascismo, ma vogliamo capire che la storia del fascismo va studiata in riferimento al tipo di modernità che si è costruita in questo paese? E che dopo il fascismo ci sono stati 70 anni di storia che sono bellamente ignorati dai nostri manuali? E senza che questo attenui di un etto la condanna del fascismo. L’antifascismo va benissimo, ma facciamolo vivere nel quadro del presente e non trasformiamolo in un polveroso museo di memorie. Insomma, è accettabile che il nostro insegnamento ignori cose come la decolonizzazione, la strategia della tensione, il Sessantotto, i mutamenti dell’ordine monetario, il crollo dell’Urss e dell’ordinamento bipolare, la trasformazione imperiale della presidenza americana, le rivoluzioni di Cina, Indonesia, Algeria, Vietnam, le guerre mediorientali, eccetera eccetera? Caro colleghi, ma in che secolo vivete?E non si tratta solo di recuperare il passato più recente, ma di leggere con altri occhi anche tutto il resto della storia alla luce dell’attuale ordinamento del mondo. Ad esempio, siamo sicuri che la storia degli Assiri, dei Babilonesi, dei Fenici sia così importante, mentre si trascurano del tutto le ben più importanti civiltà di India e Cina? Certo che la storia romana dobbiamo studiarla, ma è necessario beccarsi tutta la solfa delle dinastie gallo-romane, l’elenco completo delle battaglie di Cesare, gli imperatori più insignificanti, e non tentare una comparazione con le parallele vicende dell’India? Il medioevo va studiato, ma è così fondamentale dare tanto spazio alla lotta per le investiture, piuttosto che dare uno sguardo all’evoluzione dell’economia cinese a metà del XIV secolo, con il passaggio all’economia del riso e con il parallelo affermarsi del dispotismo asiatico? E, nella storia moderna, si potrebbe restringere un po’ il solito elenco di guerre e battaglie, ma dare più spazio alla nascita del diritto commerciale o al colbertismo. Quanto alla storia contemporanea, va bene che si parli della Shoà, ma non sarebbe più urgente e importante parlare del colonialismo e del suo residuo permanente? Magari ci riuscirebbe di capire meglio un fenomeno come il terrorismo jhadista.Tutto questo, però, presupporrebbe un corpo docente ben altrimenti formato. Anche l’istituzione del corso di laurea in storia è stato un vero disastro: nessun insegnamento di economia, diritto, scienza della politica, una infarinatura appena di sociologia, psicologia e antropologia e, in cambio, una valanga delle storie più minute e meno utili. Solito schema per le storie generali all’interno del solito eurocentrismo. Un marziano che scendesse sulla Terra e leggesse i nostri manuali di storia per farsi unìidea, capirebbe che l’unico protagonista della storia è sempre stato l’uomo bianco, salvo qualche rapida comparsata di qualche altro; che la storia umana ha seguito un unico cammino rettilineo, e che gli umani si sono sempre preoccupati solo dell’aspetto ideologico, dedicando di tanto in tanto qualche cenno di attenzione ai processi materiali. Cari colleghi, diciamolo, voi non fate storia, fate una noiosissima antiquaria. E non parliamo dell’aspetto metodologico: quanti docenti hanno idea di cosa sia la scienza della complessità o sarebbero spiegare cosa è un modello di simulazione e come funziona (anche un semplice wargame)? Quanti se la sentirebbero di accennare un approccio comparatistico? E quanti potrebbero provare una spiegazione dei processi storici in termini di psicoanalisi di massa? Lasciamo perdere.Già sento la risposta: «Dobbiamo rispettare i programmi ministeriali». Già, l’annosa piaga dei programmi ministeriali che mi fanno pensare che sia arrivato il momento di sbarazzarci della scuola statale (non ho detto della scuola pubblica, ma di quella statale): un modello organizzativo che ha avuto i suoi meriti ma che oggi, forse, è il caso di superare. In ogni caso, non mi è capitato di leggere di nessuna protesta dei docenti, dei loro sindacati, delle loro associazioni disciplinari contro i famigerati programmi ministeriali, pecoronescamente applicati. Tutto ciò premesso, come si fa a sostenere che l’attuale insegnamento della storia abbia una qualche utilità e possa riscuotere più di qualche sbadiglio dei ragazzi? Capisco la difesa più che della storia, degli impiegati statali incaricati di spiegare la “storia” da cui cercano “di tirare quattro paghe per il lesso”, ma se l’insegnamento della storia deve essere questo, forse è meglio che lo aboliamo del tutto. E forse i ragazzi odieranno di meno la storia e qualcuno inizierà a studiarla per proprio conto.(Aldo Giannuli, “Una modesta proposta sull’insegnamento della storia: aboliamolo. Lettera aperta ai colleghi storici”, dal blog di Giannuli del 30 ottobre 2018).Un po’ di giorni fa, le associazioni dei docenti di storia e l’Istituto Storico per la Storia della Resistenza hanno lanciato un grido di dolore contro la proposta di abolire la traccia di storia fra quelle degli esami di Stato, additando l’incultura di chi ha fatto l’infausta proposta ed hanno colto l’occasione per la solita geremiade sulle cattedre perse, della marginalizzazione delle ore di insegnamento della storia ridotte ad una sola negli istituti tecnici, eccetera. La commissione ministeriale che ha approvato questa riforma degli esami di Stato è certamente composta da allevatori di bestiame capitati non si sa come in quella posizione, non discuto. Ma bisogna riconoscere che qualche ragione ce l’hanno: è un fatto che nell’ultimo decennio (più o meno) la traccia è stata scelta solo dall’1% dei candidati. E la cosa, cari colleghi, non vi dà nessun sospetto? Se il 99% degli studenti scansa la traccia di storia, non dipenderà dal fatto che la storia gli è stata insegnata con i piedi? Non cominciamo con le solite scuse sulla vulgata corrente che marginalizza le materie umanistiche e disincentiva i giovani a studiare la storia, su quella trappola infernale che è Internet, eccetera eccetera; il punto è che i nostri docenti non riescono ad interessare i ragazzi alla materia in questione.
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Denaro, potere, guerra: seguite i soldi, quelli dei Rothschild
Hanno condizionato la storia mondiale degli ultimi due secoli e mezzo, influendo con i loro capitali ed i loro prestiti bancari su tutte le importanti vicende. Dalla battaglia di Waterloo in poi non c’è un evento storico che non li coinvolga e che dalle loro finanze non sia stato in qualche modo determinato. Ma a scuola non si studiano, sui libri di testo non compaiono e le notizie sui componenti di questa importantissima famiglia di banchieri ebrei scarseggiano in modo per lo meno sospetto. C’è chi giura che incombano massicciamente anche sull’economia mondiale attuale e sulla crisi che ha messo in ginocchio l’Occidente. Prestiti stellari, debito pubblico, speculazione finanziaria, “signoraggio”, banche centrali nelle mani di pochi potentissimi banchieri privati. Questi gli ingredienti che, inquietantemente, sembrano comporre la storia, recente o meno, di quella che è considerata la famiglia più potente del mondo. Meyer Amschel Rothschild nacque nel ghetto di Francoforte il 23 febbraio 1744. Discendente da un’antica famiglia di rabbini e predicatori ashkenazi di Worms (nata dall’unione dell’antichissima dinastia dei rabbini Hahn-Elkan con quella altrettanto antica degli Worms) era figlio del ferramenta Amschel Moses Rothschild (detto “Bauer”, così come il nonno Moses Callman) – che esercitava anche l’attività di cambiavalute.Il ragazzo crebbe al numero 148 di quella Judengasse (la “via degli Ebrei”), in cui si trovava la bottega del padre, che lo lasciò orfano a dodici anni. Meyer Amschel cominciò così a prendersi cura dei suoi fratelli mettendo a frutto la sua abilità di conoscitore di monete antiche, abilità che lo portò a diventare presto consulente e fornitore di importanti collezionisti. In virtù di questo successo decise di abbandonare il pesante soprannome (“Bauer” significa contadino ed era quindi troppo svilente), mantenendo solo il cognome Rothschild, derivante dall’espressione “Rot Schild”, ossia Scudo Rosso, dalla forma dell’insegna che campeggiava sull’antica bottega di famiglia. A venticinque anni il suo principale cliente era già il Langravio di Assia-Kassel, Guglielmo IX. A presentargli il futuro principe elettore fu probabilmente il generale Emmerich Otto August Von Estorff (1722-1796), conosciuto negli anni precedenti, quando Meyer faceva il cassiere nella banca dei ricchissimi Oppenheimer, ad Hannover. Von Estorff (che nel 1764 aveva fatto affari fondando una società agricola a Celle, in Bassa Sassonia), era un estimatore di quel giovane che aveva saputo curare con profitto i suoi interessi, mettendosi contemporaneamente in luce nella stessa banca in cui lavorava, al punto di riceverne in premio un certo numero di azioni.Guglielmo IX era molto ricco, anche grazie alla consuetudine – tipica dei principi tedeschi dell’epoca – di “noleggiare” come mercenari ai sovrani stranieri i suoi soldati migliori, ricavandone notevoli profitti economici. Gli affari migliori li aveva fatti con il Re d’Inghilterra, a cui aveva affittato le sue truppe per supportarlo contro le colonie americane ed il loro generale George Washington. Quella ricchezza andava investita ed accresciuta. E Meyer era l’uomo giusto. Il rapporto col principe fruttò molto. Guglielmo IX vide aumentare il proprio capitale grazie agli investimenti che il suo consulente finanziario effettuava per suo conto, soprattutto in ambito militare. In compenso Meyer Amschel, potendo contare sulle conoscenze giuste, riuscì ad aprire una sua banca a Francoforte. Da Gutele Schnapper – figlia di un mercante ebreo, che lo aveva sposato, a diciassette anni, nell’agosto del 1770 – ebbe dieci figli: cinque femmine e cinque maschi (anche gli Schnapper erano una famiglia antichissima, imparentata anch’essa con quella dei Worms). Nelle mani dei suoi cinque figli (nell’ordine: Amschel, Salomon, Nathan, Karl e Jakob Meyer), Meyer Amschel avrebbe consegnato la sua fortuna.Un importante biografo della famiglia, H. R. Lottman, sostiene che delle femmine non ci siano giunti nemmeno i nomi. In realtà sappiamo che le cinque fanciulle si chiamavano Schönche Jeanette, Isabella, Babette, Julie e Henriette, ma la consuetudine di non divulgare molto l’identità delle femmine della famiglia fu spesso osservata scrupolosamente, poiché proprio attraverso di loro i Rothschild si imparentarono con le altre importanti dinastie ebree d’Europa, facendole sposare a volte con i figli delle figlie di altri uomini di potere il cui cognome, in quel modo, non potesse venir direttamente collegato al loro. Oppure, come vedremo, maritandole con altri Rothschild, quando ciò si rendeva necessario per mantenere in famiglia titoli e capitali. Il matrimonio più rilevante, tra quelli delle figlie di Amschel, fu probabilmente quello che toccò ad Henriette, andata in sposa ad Abraham Montefiore, membro della potente famiglia ebrea londinese emigrata a Livorno e zio di quel ricchissimo Moses Montefiore, imprenditore di successo e futuro filantropo ed attivista per la causa sionista.A rafforzare l’unione tra le due importanti famiglie ebraiche, il matrimonio tra Nathan e la cognata di Moses, Hannah Cohen, futura cugina di terzo grado di Karl Marx (che sarebbe nato dodici anni dopo il matrimonio). Un’unione che diede il via ad un imponente sodalizio finanziario tra i Rothschild ed i Montefiore, a cominciare dalla compagnia di assicurazione Alliance (l’attuale Rsa – Royal & Sun Alliance, une delle più grandi multinazionali assicurative del mondo), che i due fondarono nel 1824. Appena furono indipendenti, i figli maschi vennero mandati ad aprire nuove filiali della banca del padre nelle più importanti città europee. Anche se la tradizione sostiene che l’ideatore di questa dispersione sia stato papà Meyer Amschel, stando alle date, a qualche studioso sembra più credibile che tale provvedimento sia stato preso da Nathan, il primo figlio ad accumulare forti ricchezze, stabilitosi a Londra già dal 1805. Ad ogni modo solo il primogenito, Amschel, fu trattenuto a Francoforte come principale collaboratore e poi successore del genitore. Salomon fu inviato a Vienna, Karl (il cui vero nome era Calmann Meyer), a Napoli e Jakob, resosi poi celebre con il nome “James”, a Parigi.Dal gennaio del 1800, grazie al rapporto privilegiato con il Casato di Assia, i nostri banchieri erano diventati agenti dell’imperatore d’Austria. Il loro prestigio, negli anni, crebbe a dismisura, soprattutto a causa della loro straordinaria abilità nel trasferire merci e fondi di principi e Re – usufruendo il più possibile di lettere di cambio – soprattutto tra l’Europa continentale e l’Inghilterra. E ciò, incredibilmente, anche in situazioni di emergenza, come nei casi in cui le nazioni interessate si trovavano nel bel mezzo di una guerra. Situazione, questa, che spesso vedeva schierate l’una contro l’altra le nazioni in cui si trovavano le cinque agenzie dei Rothschild. Gli affari dei cinque fratelli cominciarono a diventare determinanti, all’interno dello scenario politico internazionale. Un esempio fra tutti. Lo storico Jean Bouvier nel suo “Les Rothschild” (Edition Complexe, 1983), ha giustamente sostenuto che Napoleone sia stato sconfitto su un campo di battaglia prettamente finanziario. Ebbene, già dietro la sconfitta di Waterloo del grande imperatore francese c’è lo zampino dei Rothschild. Furono loro, infatti, a finanziare le operazioni militari del duca di Wellington che portarono alla vittoria dell’esercito inglese. Esattamente come, dopo l’uscita di scena di Napoleone, erogarono i prestiti per la restaurazione, in Francia, del potere di Luigi XVIII.Ma non basta. Il Langravio di Assia, negli ultimi anni del potere di Napoleone, aveva tergiversato chiedendosi se convenisse di più schierarsi con Bonaparte o con le molteplici coalizioni realizzatesi contro di lui. Napoleone non glielo aveva perdonato, ed era piombato sull’elettorato, occupandolo e spedendo il Langravio in esilio. In quella circostanza Amschel Meyer aveva esibito tutto il suo opportunismo, continuando in segreto ad aiutare finanziariamente l’esule Guglielmo (con l’aiuto di Nathan, che aveva custodito i risparmi del principe sottraendoli alla razzia napoleonica e, nel frattempo, utilizzandoli per comprare oro per un valore di 800 mila sterline) e, contemporaneamente, intraprendendo nuovi proficui affari con i francesi, ingraziandoseli al punto di ottenere che venisse sancita la parità di diritti tra gli abitanti del ghetto ed il resto della popolazione dell’Assia, e ciò in cambio del versamento di una somma pari a ben vent’anni di imposte! E ciò, si noti bene, nonostante l’imperatore fosse determinato ad arrestare in tutti i modi il processo di emancipazione degli ebrei innescato dalla Rivoluzione Francese. Dal marzo 1810, poi, Jakob si era trasferito a Parigi in modo definitivo, e gli affari con l’imperatore erano diventati una prassi quotidiana.D’altra parte, negli anni precedenti, aveva improvvisamente moltiplicato le sue ricchezze ed il suo potere grazie ad un affare di cui gli storici tradizionali non hanno mai parlato, ma che lo studioso “non allineato” Vittorio Giunciuglio (nel suo “Un ebreo chiamato Cristoforo Colombo”, 1994), ha spiegato molto bene in seguito alle sue lunghe ricerche su Cristoforo Colombo. James, infatti, aveva ricevuto da Napoleone l’incarico di smerciare le migliaia di lingotti d’oro sottratti al rivale Banco di San Giorgio, istituto finanziario genovese importantissimo, nonché prima banca della storia europea. Il Banco conteneva, oltre ai depositi della corona francese, su cui la Repubblica voleva mettere le mani, niente meno che l’immensa ricchezza di Colombo, accumulata in tutti i suoi viaggi. Genova era stata occupata dai francesi proprio per metter fuori combattimento e depredare quello che costituiva il principale rivale della Banca Rothschild. Una fortuna smisurata, che aveva successivamente trasformato James in uno degli uomini più importanti del mondo.Ma al di là dei lingotti genovesi, Napoleone sapeva pochissimo del resto degli affari di James. Il quale, in quella nuova sede, aveva potenziato enormemente il traffico di oro ed effetti bancari tra Inghilterra, Francia e resto d’Europa, facendo trasportare il metallo prezioso in vagoni con scomparti segreti e, quando risultava impossibile occultare tali traffici, riuscendo a convincere il ministro napoleonico delle finanze Mollien che il flusso d’oro verso Londra giocasse un ruolo favorevole alla Francia, comportando di fatto un forte indebolimento economico per l’Inghilterra. In pratica i Rothschild stavano facendo affari con dominati e dominatori, vincitori e sconfitti. E nessuno l’aveva davvero capito. Una prassi che, come vedremo, la famiglia saprà consolidare nel tempo. Si racconta che Amschel Meyer, deceduto il 12 settembre 1812, sul letto di morte abbia diviso il mondo tra i suoi cinque figli. Sta di fatto che questi sono gli anni dell’irrefrenabile ascesa di Jakob, ribattezzatosi James. Con la prima sconfitta di Napoleone a Waterloo egli riuscì a registrare la sua banca presso il tribunale di Parigi e ad accogliere, grazie a Nathan, la valuta inglese necessaria per finanziare la salita al trono di Luigi XVIII.Fu il suo primo contratto con un Re. All’età di ventun anni il nostro James vantava un giro d’affari superiore al milione di franchi, l’equivalente di circa cinque milioni di euro attuali. Nel frattempo Bonaparte il 26 febbraio 1815 fuggiva dall’isola d’Elba con cinquecento uomini. Nemmeno un mese dopo, la sera del 20 marzo, sedeva già al posto di comando, presso la residenza delle Tuileries, ma ancora una volta James non si perse d’animo. Non sappiamo che rapporto intercorse tra l’imperatore ed il banchiere in quei leggendari successivi Cento giorni, ma è un dato di fatto che l’esito della battaglia campale di Waterloo sia arrivata alle orecchie dei Rothschild prima che a quelle di chiunque altro. La leggenda vuole che James abbia seguito le operazioni militari da un’altura ed abbia subito informato il fratello Nathan a Londra – che per finanziare le truppe inglesi aveva trasferito nel continente lingotti d’oro per un valore di 15 milioni di sterline tra il 1813 ed il 1815, di cui 6 milioni soltanto tra il gennaio ed il giugno dell’ultimo anno – ottenendo in quel modo guadagni eccezionali in ambito finanziario. Secondo un’altra versione Nathan sarebbe stato informato dal suo agente di Ostenda, Rowerth.Il Lottman – in generale sempre molto “fiducioso” nelle qualità morali e civili della famiglia – così scrive: «In realtà il servizio di informazioni dei Rothschild, che con la consueta efficienza collegava i punti chiave del continente servendosi di battelli e diligenze, portò a Nathan la notizia prima che arrivasse a chiunque altro; ma egli, da buon suddito del Re qual era, ne informò immediatamente il governo inglese. I Rothschild diventarono ancora più ricchi, ma non furono gli unici beneficiari della vittoria». Nel 1816, grazie alle pressioni esercitate da Metternich, i Rothschild ottennero dall’Imperatore d’Austria il titolo di baroni; un riconoscimento estremamente inusuale, mai concesso a commercianti, per giunta ebrei. Il titolo andò a tutti i fratelli tranne Nathan, che in qualità di suddito britannico non poteva ottenere un’onorificenza austriaca. James, barone a soli ventiquattro anni, largheggiò permettendosi di invitare a cena lo stesso Metternich o il duca di Wellington. Divenne amico e consulente finanziario del duca d’Orleans, futuro Luigi Filippo, Re dei francesi, che una volta sul trono non si sarebbe certo dimenticato dei favori del barone. Il tutto visto non proprio di buon occhio dalle varie comunità ebraiche europee, cui non sfuggiva l’alleanza tra i ricchissimi banchieri semiti ed i loro potentissimi, aristocratici persecutori.(Pietro Ratto, “Rothschild, il nome impronunciabile”, dal newsmagazine “InControStoria”. Ratto è autore del saggio “I Rothschild e gli altri”, Arianna editrice, 160 pagine, euro 9,80).Hanno condizionato la storia mondiale degli ultimi due secoli e mezzo, influendo con i loro capitali ed i loro prestiti bancari su tutte le importanti vicende. Dalla battaglia di Waterloo in poi non c’è un evento storico che non li coinvolga e che dalle loro finanze non sia stato in qualche modo determinato. Ma a scuola non si studiano, sui libri di testo non compaiono e le notizie sui componenti di questa importantissima famiglia di banchieri ebrei scarseggiano in modo per lo meno sospetto. C’è chi giura che incombano massicciamente anche sull’economia mondiale attuale e sulla crisi che ha messo in ginocchio l’Occidente. Prestiti stellari, debito pubblico, speculazione finanziaria, “signoraggio”, banche centrali nelle mani di pochi potentissimi banchieri privati. Questi gli ingredienti che, inquietantemente, sembrano comporre la storia, recente o meno, di quella che è considerata la famiglia più potente del mondo. Meyer Amschel Rothschild nacque nel ghetto di Francoforte il 23 febbraio 1744. Discendente da un’antica famiglia di rabbini e predicatori ashkenazi di Worms (nata dall’unione dell’antichissima dinastia dei rabbini Hahn-Elkan con quella altrettanto antica degli Worms) era figlio del ferramenta Amschel Moses Rothschild (detto “Bauer”, così come il nonno Moses Callman) – che esercitava anche l’attività di cambiavalute.
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Costa Concordia: credete davvero che sia stato un incidente?
Sicuri che sia stato davvero un incidente, e non invece un naufragio deliberato? Nel caso, quello della Costa Concordia risulterebbe “firmato” in modo inequivocabile, massonico. Troppe coincidenze alimentano fondati sospetti, afferma l’avvocato Gianfranco Pecoraro, alias Carpeoro, saggista e studioso di simbologia. “Seguite i soldi”, direbbe un detective americano, e forse scoprirete che dietro al disastro della nave da crociera incagliatasi davanti all’Isola del Giglio il 13 gennaio 2012 potrebbe nascondersi il più classico dei moventi, quello economico. E cioè: sbarazzarsi di una nave ormai anziana, scansando gli esorbitanti costi dello smantellamento. Un’ipotesi non così fantascientifica, per Carpeoro, che nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo” svela il codice esoterico con cui settori deviati dell’intelligence Nato avrebbero “firmato” gli attentati in Europa eseguiti da manovalanza islamista targata Isis. «In una serie di elementi di questa vicenda – afferma Carpeoro, parlando della Concordia ai microfoni di “Border Nights” – ho trovato qualcosa che somiglia al meccanismo consueto, che è quello della “firma”. Cioè: attraverso la scelta di circostanze e di date, qualcuno l’ha “firmato”, l’evento». Gli ipotetici autori? «Soggetti che generalmente lavorano per servizi, per società segrete anche paramassoniche». E i 32 morti? «Non voluti: probabilmente un errore di calcolo, che però si appoggiava su un’ipotesi criminosa».
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Di Maio e Gentiloni, Salvini con Silvio: Italia, non pervenuta
Non una parola sui vaccini, silenzio assoluto sull’euro, eppure (o meglio: e quindi) Luigi Di Maio si candida a premier, rispolverando l’antico refrain gandhiano (“prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono, poi vinci”), come se i 5 Stelle avessero davvero combattuto qualche epica battaglia contro il potere responsabile della grande crisi, anche italiana. «Era il segreto di Pulcinella», annota Antonio Fanna sul “Sussidiario” commentando la “discesa in campo” del vicepresidente della Camera, che «ha avviato da tempo il giro delle sette chiese per accreditarsi negli ambienti che contano, perché con gli elettori bisogna mostrare la faccia antisistema ma con i potenti si deve apparire affidabili». Il newsmagazine accusa i grillini: «Il copione ipocrita non cambia: antisistema davanti agli elettori, e codice etico interno addio, modificato a uso e consumo di chi decidono i capi», decisi a proteggersi, come nel caso della Raggi, del sindaco livornese Nogarin e dello stesso Di Maio, denunciato dall’ex candidata genovese dei 5 Stelle. «Sulle proteste contro la magistratura e chi dà seguito alle “querele sul nulla”», per il “Sussidiario” Di Maio «si allinea con Matteo Salvini e la Lega dalle tasche svuotate».
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Sycamore, Usa-Siria: il più grande traffico d’armi della storia
Migliaia di tonnellate di armi, per miliardi di dollari. Si chiama “Timber Sycamore” e, secondo il giornalista Thierry Meyssan, è stato il più grosso traffico di armi della storia, grazie alla complicità di ben 17 paesi. E’ stato organizzato dalla Cia, sotto Obama, insieme al Pentagono, a servizi Nato e agli alleati mediorientali. Obiettivo: armare l’Isis contro il governo siriano di Bashar Assad. Traffico scoperto e svelato, a suo rischio e pericolo, da una coraggiosa giornalista bulgara, Dilyana Gaytandzhieva, autrice di un clamoroso scoop sul suo giornale di Sofia, “Trud”. Tutto comincia a fine 2016, quando la reporter – durante la liberazione di Aleppo da parte dell’esercito siriano appoggiato dall’aviazione russa – scopre armi di origine bulgara in 9 diversi arsenali abbandonati dai jihadisti. La Bulgaria, ricorda Meyssan, è governata da Boyko Borisov, da tempo identificato come “capomafia” dai servizi internazionali di polizia, che lo ritengono espressione diretta della Sic, uno dei maggiori cartelli criminali europei. Ma né la Nato né l’Ue, organizzazioni in cui la Bulgaria milita, hanno mai contestato l’ascesa al potere da parte di Borisov.E se la Bulgaria è stata uno dei principali esportatori di armi in Siria, aggiunge Meyssan, ha beneficiato di una “triangolazione segreta” con l’Azerbaigian, sempre sotto copertura Cia: per esportare armi destinate al terrorismo non solo in Siria, ma anche in Libia, in Afghanistan e persino in India. «Dall’inizio delle primavere arabe – premette Meyssan in un report su “Megachip” – la Cia e il Pentagono hanno organizzato un gigantesco traffico di armi in violazione di numerose risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu». Si badi: anche quando società private fanno da paravento, è impossibile esportare “attrezzature sensibili” senza l’autorizzazione dei governi interessati. Qui si tratta di un traffico gigantesco e particolarmente elusivo: gli armamenti trasportati erano infatti di tipo sovietico, per distinguerli da quelli (di fabbricazione Nato) in dotazione alle poche unità non-Isis, ufficialmente inquadrate dal Pentagono. Le altre armi, quelle per i tagliagole dello Stato Islamico, dovevano sembrare sottratte alle truppe di Assad.Forse, in questa ricostruzione, è di aiuto il nome stesso dell’operazione, “Sycamore”, che designa in inglese l’albero di sicomoro. Ancora una volta, le vicende dell’intelligence militare Nato in Medio Oriente sembrano dimostrare l’adozione di nomi tratti da testi antichi e sacre scritture: il sicomoro è l’albero sul quale, secondo il Vangelo, si arrampicò il gabelliere Zaccheo (inviso al popolo) per poter osservare Gesù senza essere visto. Non che fossero tutti ignari, comunque, delle manovre degli “amici del sicomoro”: già si sapeva, dice Meyssan, che la Cia avesse fatto appello proprio alla famigerata Sic di Borisov per produrre urgentemente il Captagon, la nuova “droga dei soldati” destinata agli jihadisti, distribuita in Libia prima ancora che in Siria. Una inchiesta di Maria Petkova, pubblicata dalla rete di segnalazione investigativa balcanica “Brin”, ha rivelato che tra il 2011 e il 2014 la Cia e il Socom (Pentagon Special Operations Command) avevano acquistato armi per 500 milioni di dollari dalla Bulgaria per conto dell’Isis. «Poi, in seguito, abbiamo appreso che altre armi erano state pagate dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti e trasportate da Saudi Arabian Cargo e Etihad Cargo».Secondo Krešimir Žabec, del quotidiano di Zagabria “Jutarnji List”, alla fine del 2012 la Croazia ha consegnato 230 tonnellate di armi a jihadisti siriani per un valore di 6,5 milioni di dollari. «Il trasferimento in Turchia è stato gestito da tre Ilyushin della compagnia Jordan International Air Cargo, e le armi sono state poi paracadute dall’esercito del Qatar». Secondo Eric Schmitt del “New York Times”, l’intero sistema era stato creato dal generale David Petraeus, allora direttore della Cia, agli ordini di Barack Obama. Nel 2012, continua Meyssan, quando la milizia libanese filo-siriana Hezbollah era sulle tracce del traffico Cia-Socom, venne commesso in Bulgaria un attentato contro turisti israeliani all’aeroporto di Burgas, centro nevralgico di quel traffico. «Ignorando l’inchiesta della polizia bulgara e la relazione del medico legale, il governo di Borisov accusò del crimine Hezbollah mentre l’Unione Europea classificò la resistenza libanese come un’organizzazione terroristica». Posizione poi smentita dal nuovo ministro degli esteri, Kristian Vigenin, dopo la caduta provvisoria di Borisov. E non è tutto. Secondo una fonte curda vicina al Pkk, nel maggio-giugno 2014 i servizi segreti turchi hanno noleggiato treni speciali per consegnare armi ucraine a Raqqa, la “capitale” di Daesh. «Le armi ucraine sono state pagate dall’Arabia Saudita, così come un migliaio di veicoli Hilux (pick-up a doppia cabina) appositamente modificati per resistere alle sabbie del deserto».Secondo un’altra fonte, belga, l’acquisto dei veicoli era stato negoziato con la ditta giapponese Toyota dalla società saudita Abdul Latif Jameel. E Andrey Fomin della “Oriental Review” aggiunge che il Qatar, «che non voleva essere tagliato fuori, ha acquistato per i jihadisti la versione più recente del complesso di difesa missilistica Air “Pechora-2D” presso la società statale ucraina UkrOboronProm. La consegna è stata effettuata dalla società cipriota Blessway Ltd». Ancora: secondo Jeremy Binnie e Neil Gibson, della rivista professionale di armamenti “Jane’s”, il comando militare Sealift della Us Navy ha pubblicato due bandi nel 2015 per il trasporto delle armi dal porto rumeno di Costanza fino al porto giordano di Aqaba. Il contratto è stato vinto dalla Transatlantic Lines. Trasporto poi «eseguito il 12 febbraio 2016, subito dopo la firma del cessate il fuoco da parte di Washington, in violazione del suo impegno». Pierre Balanian, di “Asia News”, dichiara che questo sistema è stato esteso nel marzo 2017 con l’apertura di una linea marittima regolare della compagnia statunitense Liberty Global Logistics, che collega il porto italiano di Livorno a quello di Aqaba in Giordania, nonché allo scalo marittimo di Gedda in Arabia Saudita.Secondo il geografo Manlio Dinucci, notista del “Manifesto”, questa linea-fantasma era destinata principalmente alla consegna di blindati in Siria e in Yemen. Stando a due giornalisti turchi, Yörük Işık e Alper Beler, gli ultimi contratti dell’era Obama sono stati eseguiti da Orbital Atk, che ha organizzato, attraverso Chemring e Danish H. Folmer & Co, una linea regolare tra Burgas (Bulgaria) e Gedda. Per la prima volta – precisa Meyssan – stiamo parlando non solo di armi prodotte dalla bulgara Vmz (Vazovski Machine Building Factory), ma anche da Tatra Defense Industrial Ltd, della Repubblica Ceca. «Molte altre operazioni si sono svolte in segreto, come dimostrano gli affari del carico Lutfallah II, ispezionato dalla marina militare libanese il 27 aprile 2012, o il cargo Trader, battente bandiera del Togo, ispezionato dalla Grecia il 1° maggio 2016», aggiunge sempre Meyssan. «Il totale di queste operazioni rappresenta centinaia di tonnellate di armi e munizioni, forse anche migliaia, prevalentemente pagate dalle monarchie assolute del Golfo, con il pretesto di sostenere una “rivoluzione democratica”. In realtà, le petro-dittature intervenivano solo per dispensare l’amministrazione Obama dal rendere conto al Congresso statunitense».In altre parole, il Parlamento Usa doveva restare all’oscuro dell’operazione “Sycamore”. «Tutto questo traffico era sotto il controllo personale del generale Petraeus, dapprima attraverso la Cia, di cui era direttore, poi tramite la società di investimenti finanziari Kkr, per la quale ha lavorato successivamente». Petraeus ovviamente «ha beneficiato dell’assistenza di alti funzionari, occasionalmente sotto la presidenza di Barack Obama e poi – massicciamente – sotto quella di Donald Trump». Gli Usa in cabina di regia, più alleati europei (Belgio, Croazia), nazioni Nato come la Turchia, paesi mediorientali (Giordania) e petro-monarchie del Golfo. E non solo: Meyssan rivela anche il ruolo, fin qui segreto, di uno Stato ex-sovietico come l’Azerbaigian, grande produttore di petrolio attraverso le piattaforme di Baku sul Mar Caspio. Secondo Sibel Edmonds, agente “pentita” dell’Fbi, poi fondatrice della National Security Whistleblowers Coalition (associazione che diffonde notizie riservate e imbarazzanti) l’Azerbaigian vanta un passato estremamente collaborativo, nei confronti del terrorismo Cia: sotto il presidente Heydar Aliyev, dal 1997 al 2001 ha ospitato a Baku nientemeno che la primula rossa di Al-Qaeda, il medico egiziano Ayman Al-Zawahiri, già braccio destro di Osama Bin Laden.Al-Zawahiri sarebbe stato nascosto a Baku «su richiesta della Cia». Sebbene fosse ufficialmente ricercato dall’Fbi, aggiunge Meyssan, il super-terrorista «viaggiò regolarmente su aerei della Nato in Afghanistan, Albania, Egitto e Turchia». Di più: avrebbe anche «ricevuto frequenti visite dal principe Bandar Bin Sultan dell’Arabia Saudita». Per i suoi rapporti in materia di sicurezza con Washington e Riad, aggiunge Meyssan, l’Azerbaigian – la cui popolazione è in prevalenza sciita – si è unito alla sunnita Ankara, «che lo sostiene nel suo conflitto con l’Armenia per la secessione della Repubblica di Artsakh (Nagorno-Karabakh)». L’anziano, storico presidente Heydar Aliyev è morto negli Stati Uniti nel 2003, lasciando il posto al figlio Ilham Aliyev. Dopo la fine dell’Urss, la Camera di Commercio Usa-Azerbaigian è diventata «il retrobottega di Washington», esibendo accanto al presidente Aliyev personaggi del calibro di Richard Armitage, James Baker, Zbigniew Brzezinski, Dick Cheney, Henry Kissinger, Richard Perle, Brent Scowcroft e John Sununu.Secondo la giornalista bulgara Dilyana Gaytandzhieva, nel 2015 il ministro per i trasporti Ziya Mammadov ha messo la compagnia statale Silk Way Airlines a disposizione della Cia, con spese a carico dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi, sotto la copertura di “voli diplomatici”, al riparo dalle ispezioni previste dalla Convenzione di Vienna. «In meno di tre anni – sottolinea Meyssan – oltre 350 voli hanno beneficiato di questo straordinario privilegio». Naturalmente, aggiunge, il “voli diplomatici” non sono autorizzati a trasportare materiale bellico. Ma a chiudere un occhio – oltre agli Stati coinvolti direttamente nel traffico – furono paesi come Germania, Serbia, Polonia, Romania, Slovacchia, Repubblica Ceca e Gran Bretagna, più Turchia e Israele. Risultato: «In meno di tre anni, la Silk Way Airlines ha trasportato armamenti per un valore di almeno un miliardo di dollari». Secondo Dilyana Gaytandzhieva, l’organizzazione clandestina ha trafficato armi anche in Pakistan e Congo, sempre a carico di sauditi ed Emirati. Alcune delle armi consegnate in Arabia Saudita sarebbero state “reindirizzate” in Sudafrica e quelle arrivate in Pakistan sarebbero servite a commettere attentati “islamisti” in India, mentre quelle trasportate in Afghanistan «sarebbero pervenute ai Talebani, sotto il controllo degli Stati Uniti, che fingono di combatterli».In questi anni, conclude Meyssan, tra i principali mercanti d’armi figurano le aziende statunitensi Chemring, Culmen International, Orbital Atk e Purple Shovel. Poi i caucasici: «Oltre alle armi di tipo sovietico prodotte dalla Bulgaria, l’Azerbaigian, sotto la responsabilità del ministro dell’industria della difesa Yavar Jamalov, acquistò delle scorte in Serbia, Repubblica Ceca e anche in altri Stati, dichiarando ogni volta che l’Azerbaigian era il destinatario finale di questi acquisti». Per quanto riguarda il materiale elettronico di intelligence, «Israele ha messo a disposizione la ditta Elbit Systems, che ha finto di essere il destinatario finale, in quanto l’Azerbaigian non ha il diritto di acquistare questo tipo di apparecchiature». Israele, che ha finto di essere neutrale lungo tutto il conflitto siriano, ha comunque bombardato più volte l’esercito di Damasco. Ogni volta, Tel Aviv ha accampato «il pretesto di aver distrutto armi destinate agli Hezbollah libanesi». In realtà, oggi sappiamo che Israele ha supervisionato le consegne di armi agli jihadisti, rivestendo quindi un ruolo centrale nella guerra sporca contro la Siria. Per l’Onu, falsificare certificati di consegna per la fornitura di armi a mercenari e terroristi è un crimine internazionale. L’operazione Timber Sycamore, nei suoi vari aspetti, è il caso criminale più importante di traffico di armi nella storia: «Coinvolge almeno 17 Stati e rappresenta diverse decine di migliaia di tonnellate di armi per svariati miliardi di dollari».Migliaia di tonnellate di armi, per miliardi di dollari. Si chiama “Timber Sycamore” e, secondo il giornalista Thierry Meyssan, è stato il più grosso traffico di armi della storia, grazie alla complicità di ben 17 paesi. E’ stato organizzato dalla Cia, sotto Obama, insieme al Pentagono, a servizi Nato e agli alleati mediorientali. Obiettivo: armare l’Isis contro il governo siriano di Bashar Assad. Traffico scoperto e svelato, a suo rischio e pericolo, da una coraggiosa giornalista bulgara, Dilyana Gaytandzhieva, autrice di un clamoroso scoop sul suo giornale di Sofia, “Trud”. Tutto comincia a fine 2016, quando la reporter – durante la liberazione di Aleppo da parte dell’esercito siriano appoggiato dall’aviazione russa – scopre armi di origine bulgara in 9 diversi arsenali abbandonati dai jihadisti. La Bulgaria, ricorda Meyssan, è governata da Boyko Borisov, da tempo identificato come “capomafia” dai servizi internazionali di polizia, che lo ritengono espressione diretta della Sic, uno dei maggiori cartelli criminali europei. Ma né la Nato né l’Ue, organizzazioni in cui la Bulgaria milita, hanno mai contestato l’ascesa al potere da parte di Borisov.