Archivio del Tag ‘malaffare’
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Politici sempre in vendita: e questa sarebbe democrazia?
La scoperta di Machiavelli è che l’esercizio del potere, ossia la politica (internazionale e nazionale, compreso il potere giudiziario), è complotto: inganno, finzione, doppiezza, affarismo, segreti, tradimento, calunnia, ricatto, disinformazione, prevaricazione, propaganda, manipolazione, (contro)spionaggio, killeraggio, terrorismo, controllo, limitazione delle libertà – il tutto nascosto o giustificato con ragioni ideali ed etiche. E ovviamente, la politica è anche vigorosa negazione di essere quello che è, soprattutto quando si vuole legittimare come democrazia: vuole il consenso popolare per legittimare i suoi atti contrari all’interesse popolare, consenso che non otterrebbe se non nascondendo e negando la propria natura e sforzandosi di screditare chi la analizza e descrive nella sua realtà complottista, accusandolo di complottismo. Che cosa sono i rapporti tra magistrati e politici, e tra politici e banchieri, emersi da recenti scandali, se non complotti? E i falsi dati sulla cosiddetta pandemia, attribuiti alla Protezione Civile per giustificare l’eversiva sospensione della Costituzione, che ora emergono anche grazie ad onesti giudici del Tar del Lazio, non rivelano un complotto del governo?
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Cacciari: grazie a Conte e al Pd, è in arrivo una catastrofe
Per la Fase 2 post-Covid facevo il tifo per il governo Conte? Non ricordatemelo. Speravo che partendo da una condizione di emergenza, da uno stato di necessità, Pd e M5S riuscissero a elaborare un minimo di strategia. E invece non c’è stata nessunac composizione di contrapposte visioni. Sono due partiti deboli all’esterno e deboli al loro interno. Né il Pd né il M5S hanno preso atto delle trasformazioni avvenute; e l’epidemia, invece che fare da collante, ha accentuato le rispettive debolezze e messo in luce l’assenza di strategia. Il risultato è che non abbiamo un governo che governi la crisi. Siamo alla paralisi. Decreto legge Crescita, dl Rilancio? Un profluvio di decretazione d’urgenza, decreti incasinati, procedure complicate: un inno alla burocrazia e all’assistenzialismo. Guardate cosa hanno combinato con il bonus per le vacanze, l’albergatore che decidesse di accettarlo sarebbe un pazzo. Dal reddito di cittadinanza in poi, i bonus e le indennità sono la cifra del Movimento 5 Stelle. Il M5S sta mettendo in luce la sua inadeguatezza di forza di governo. Il problema vero però è il Pd, che non riesce a imporre un cambio di passo. Sta mostrando l’inconsistenza e l’inconcludenza della sua leadership. Per l’economia vera, per le imprese, per l’occupazione, non c’è nulla. Non so come affronteremo l’autunno.
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Distruggere l’Italia: i grillini eguagliano il “record” di Monti
Da quando governano l’Italia, i grillini hanno stabilito un record assoluto: il danno che hanno prodotto al paese in così breve arco di tempo non ha precedenti. Forse gli unici contendenti sono i tecnici montiani, che avvilirono e danneggiarono scientificamente l’Italia, con cognizione di causa, a differenza dei grillini che lo bombardano a capocchia con gaia incompetenza e una miscela letale di ignoranza e arroganza. No, la questione non è Di Maio, l’Emilia o la Calabria. È l’M5S in sé. Ogni capitolo fallimentare dei grillini ha la faccia di un testimonial. Si comincia con gli enti locali, col fulgido esempio di Virginia Raggi che è riuscita a far rimpiangere tutti i sindaci che l’hanno preceduta (e ce ne voleva) e a dare il colpo di grazia e disgrazia a una città già in ginocchio e autolesionista di suo. Si finisce col premier Contebis che rappresenta la più vistosa negazione del movimento 5stelle: è un maggiordomo di Palazzo, domestico dell’establishment mondiale, annunciatore di rimedi per un domani che si sposta ogni giorno; democristiano con attaccamento vinavil alla poltrona, paraculista e trasformista, ora filo-dem, borioso e fumoso, figurante istituzionale. Incarnazione perfetta e gaia del vuoto al governo e del nulla in politica.Nel mezzo scorrono le relative faccine che testimoniano i vari capitoli del fallimento grillino: la fatuità egizio-partenopea del tardoprogressista Roberto Fico, col suo gne-gne napoletano sinistrese, pessima imitazione della già pessima Boldrini che l’ha preceduto; le improvvisate sciampiste cinquestelle che occuparono i ministeri con risultati penosi; il proverbiale Danilo Tonninelli (una enne l’ha guadagnata sul campo), prototipo del grillino doc, simbolo ottuso di tutti i no grillini a ogni opera; la ministra dell’autoDifesa Elisabetta Trenta che si è moltiplicata per sei ed è passata da Trenta a Centottanta (metri quadri), con le forze armate che portavano a spasso il cane, e lei che riceve gli eserciti di tutto il mondo a casa, perciò ha bisogno di una casa grande; il ministro alla pubblica ricreazione Lorenzo Fioramonti, che ha ridotto la scuola a un osservatorio climatico e si occupa di plastica e merendine da un punto di vista eco-progressista; per non dire delle pulcinellate di Gigino Di Maio, i suoi voltafaccia e i suoi vistosi errori presentati in modo trionfale: povertà abolita, disoccupazione battuta, acciaieria risanata, Alitalia in via di decollo, manette annunciate ai grandi evasori e occhiolino strizzato ai molti evasori, l’infatuazione suicida filo-cinese e altre enormi cappellate. Oggi lui è diventato il capro espiatorio ma il difetto è nel manico e in tutti gli ombrelli della ditta.Il reddito di cittadinanza resta la porcata più vistosa dei grillini, dal punto di vista del danno erariale, del danno sociale, del danno morale. Si ha ogni giorno di più la certezza che non produrrà un solo posto di lavoro in più né un solo lavoro nero in meno. Non è un reddito d’inclusione o d’inserimento, è solo un gravoso costo, parassitario e diseducativo, che peggiora il tessuto sociale del paese e il bilancio dello Stato, santifica l’inerzia, la demeritocrazia e pure il malaffare. È la versione stracciona, plebea e lazzarona del comunismo. All’inizio si disse che era un’indennità-divano, i grillini reagivano indignati, ma quella previsione era già ottimistica: molti titolari del reddito non stanno nemmeno a casa loro ma continuano di soppiatto i loro lavori neri e qualcuno addirittura continua le attività criminose, come si è visto. C’è poi TeleCasalino, un tempo Tg1, un imbarazzante volantino grillino e contino. Per non dire degli altri, dal ministro della giustizia Alfonso Bonafede al ministro Vincenzo Spadafora e a tutta la gaia compagnia dei grillini. E per non risalire ai mandanti, Beppe Grillo e la Casaleggio & Associati, più qualche predicatore manettaro.Il fallimento dei grillini ha la faccia sconsolata dell’esule, il Comandante Ale Diba, al secolo Alessandro Di Battista, la cui eclissi dimostra la fine del fervore originario, quando i grillini erano ancora una minacciosa promessa in pubertà. Non si è mai visto un movimento perdere nel giro di pochi mesi di governo tante milionate di voti e sparire dai territori con una velocità impressionante. Hanno esaurito il credito, ormai. Resta il problema di trovare quale discarica possa contenere così tanti rifiuti ammassati in così poco tempo. La parabola dei grillini è un monito per gli elettori e i cittadini che votandoli s’illusero di punire tutti gli altri: i movimenti eruttati dal nulla, nati soltanto dal cabaret, dal vaffa e dal rifiuto di tutto, dove uno vale l’altro, dove i deputati sono burattini nelle mani della Piattaforma, dove la democrazia diretta è una caricatura che nasconde un’autocrazia eterodiretta da non-eletti, dove si può nominare a sorteggio e si può diventare ministri non sapendo nulla, non avendo mai fatto nulla nella vita, non avendo la più pallida idea, poi producono solo danni e nulla.Per arginare la deriva corrotta della politica, il malaffare, devi trovare gente motivata e seria, non pescata così, random, spesso nullafacente. Appena a uno di questi dai in mano un po’ di potere, diventa un arraffone e vuole sistemarsi per la vita. E quando gli ricapita? Infine i grillini hanno fatto saltare l’unica eredità buona della seconda repubblica, l’alternanza bipolare, reimmettendo al centro un partito bifronte. La sinistra merita giudizi negativi molto severi, sa essere più contro che con i cittadini, almeno quelli in regola. Ma è un avversario da sconfiggere sul terreno dei fatti, della politica e delle idee; invece i grillini sono una mucillagine urticante, una grottesca complicazione del quadro, e da alleati della sinistra al governo sono solo un’aggravante del malgoverno. Che tornino presto al Nulla da cui provengono. È l’augurio per un paese stremato, che ha già troppi guai per doversi caricare pure dei grillini.(Marcello Veneziani, “Il gaio fallimento dei grillini al governo”, da “La Verità” del 24 novembre 2019; articolo ripreso sul blog di Veneziani).Da quando governano l’Italia, i grillini hanno stabilito un record assoluto: il danno che hanno prodotto al paese in così breve arco di tempo non ha precedenti. Forse gli unici contendenti sono i tecnici montiani, che avvilirono e danneggiarono scientificamente l’Italia, con cognizione di causa, a differenza dei grillini che lo bombardano a capocchia con gaia incompetenza e una miscela letale di ignoranza e arroganza. No, la questione non è Di Maio, l’Emilia o la Calabria. È l’M5S in sé. Ogni capitolo fallimentare dei grillini ha la faccia di un testimonial. Si comincia con gli enti locali, col fulgido esempio di Virginia Raggi che è riuscita a far rimpiangere tutti i sindaci che l’hanno preceduta (e ce ne voleva) e a dare il colpo di grazia e disgrazia a una città già in ginocchio e autolesionista di suo. Si finisce col premier Contebis che rappresenta la più vistosa negazione del movimento 5stelle: è un maggiordomo di Palazzo, domestico dell’establishment mondiale, annunciatore di rimedi per un domani che si sposta ogni giorno; democristiano con attaccamento vinavil alla poltrona, paraculista e trasformista, ora filo-dem, borioso e fumoso, figurante istituzionale. Incarnazione perfetta e gaia del vuoto al governo e del nulla in politica.
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Magaldi: politica tribale, a fari spenti nella notte dell’Europa
Dove saremmo, oggi, se Zingaretti avesse imparato la lezione de “La notte della sinistra”, il lucidissimo saggio di Federico Rampini che spiega come proprio il centrosinistra abbia tradito i più deboli? E dove sarebbe lo stesso Di Maio, se avesse varato un vero reddito di cittadinanza, anziché distribuire (a pochi) quella penosa “tessera annonaria della povertà”, che gli stessi beneficiari si vergognano a esibire? Quanto a Salvini: è sicuro di sapere che farsene, dello squillante successo appena ottenuto alle europee? «Il 34% è un gran risultato, ma Renzi superò addirittura il 40%. Poi sparì dalla scena, in un attimo. E oggi tutto si muove ancora più in fretta». Il problema? «La politica è in preda a scontri di tipo tribale, fondati solo sull’appartenenza al proprio clan». Così si viaggia a fari spenti, lacerati e divisi, in un’Europa ancor meno amica dell’Italia: Ppe e Pse dovranno ricorrere a formazioni ultra-euriste (i liberali dell’Alde o i Verdi, neoliberisti pure loro) per neutralizzare la crescita, comunque insufficiente, dei cosiddetti sovranisti. Secondo Gioele Magaldi ci rimetterà l’Italia, tutta intera, grazie a partiti finora capaci solo di scannarsi, insultarsi e demonizzarsi a vicenda. Terranno conto, dunque, del duro monito che viene dalle consultazioni europee del 26 maggio?Per il presidente del Movimento Roosevelt, in campagna elettorale le forze in campo hanno dato una pessima prova di sé: il Pd ha puntato tutto sulla grottesca criminalizzazione della Lega, nemmeno fosse una reincarnazione del fascismo mussoliniano. Salvini, dal canto suo – persa la partita con Bruxelles sul deficit – se l’è presa coi negozietti di cannabis terapeutica, schierandosi coi più retrivi tradizionalisti (contro le famiglie gay) e agitando rosari e crocefissi nei comizi. «Per non parlare di Di Maio, la cui inadeguatezza come leader si è dimostrata lampante», dice Magaldi, in video-chat su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. Bel tomo, il portavoce dei grillini: prima flirta a Parigi coi Gilet Gialli irritando Macron, poi s’inchina alla Merkel (che proprio con Macron ha firmato il Trattato di Aquisgrana, celebrando lo strapotere nazionalistico dell’asse franco-tedesco, in barba allo spirito dell’Ue). Ma peggio: dall’alto dell’attuale 17% (un abisso: 6 milioni di voti persi per strada, in un anno), Di Maio «sarà contento dell’ipocrita crociata discriminatoria intrapresa contro i massoni», fingendo di non sapere che il governo gialloverde pullula di “grembiulini”. «E sarà contento di aver affossato Armando Siri, oggetto per ora di un semplice avviso di garanzia, facendo passare la Lega per una sorta di sentina del malaffare e agitando una pretesa moralità politica che, evidentemente, per i 5 Stelle viene prima della legge, della giustizia amministrata dallo Stato di diritto».Nella prima conferenza stampa post-elettorale, «irrisoria e propagandistica», Matteo Salvini ha fornito «un’irreale valutazione delle forze in campo in Europa». Poi in seconda battuta si è corretto, annunciando un impegno frontale sull’emergenza economica. Ma attenzione, avverte Magaldi: «Non è la prima volta che Salvini dice cose interessanti e poi, alla prova dei fatti, tutto si risolve in nulla». Il leader della Lega ha comunque annunciato di voler sfoderare in campo economico la stessa grinta finora esibita solo sul tema-immigrazione. Vuole dare un ruolo di rilievo a personaggi come Bagnai e Borghi, allo stesso Siri (Flat Tax) e ad Antonio Maria Rinaldi. La promessa: l’economia dev’essere al centro delle preoccupazioni della Lega nel governo italiano, guardando all’Europa. «Magari fosse così», commenta Magaldi. «Queste cose, comunque, le dovrebbero dire tutti, anche il Pd. Come sistema-paese, tutti dovrebbero essere più coesi nel rappresentare le esigenze del popolo italiano e del nostro territorio, che ha bisogno di ingenti investimenti per rilanciare l’occupazione. Tutto ciò accadrebbe, se davvero in Europa ci si preoccupasse della disoccupazione, del benessere dei popoli e della diminuzione delle disuguaglianze. Così non è stato, e così non è».Sulla carta, aggiunge Magaldi, le dichiarazioni di Salvini sono molto interessanti: «Sembra quasi che abbia ascoltato ciò che alla Lega andiamo dicendo da mesi, in pubblico e in privato. Cioè: a fare la differenza non sono gli atteggiamenti truci e smargiassi, ma l’impegno sui temi economici. E ripeto, vale anche per il Pd: non c’è speranza, per questo paese, senza un cambio di paradigma politico-economico». Se il neoliberismo resterà al potere – più tagli, più tasse – non cambierà proprio nulla, a Bruxelles. «Se però il Pse e lo stesso Pd ripartissero da Olof Palme, gigante della socialdemocrazia europea, rompendo con la “terza via” inaugurata dai vari Blair e Clinton, che ha prodotto solo rovine, allora persino il partito di Zingaretti avrebbe la chance di tornare a interpretare le esigenze di quel “popolo della sinistra” di cui parla benissimo il libro di Rampini, che racconta – senza sconti – quello che è stato il suicidio del centrosinistra mondiale, rispetto alla rappresentanza degli interessi degli ultimi. E’ ovvio che poi gli ultimi cerchino di essere rappresentati politicamente altrove, magari dai cosiddetti populisti». Ma il consenso non è per sempre, neppure in quel caso: lo racconta alla perfezione il crollo dei 5 Stelle, che in soli 12 mesi hanno dimezzato i loro voti. Motivo: «Il reddito di cittadinanza si è rivelato una presa in giro».Secondo Magaldi, un vero reddito universale – 500 euro a tutti, senza condizioni (con l’unico obbligo di spenderli, quei soldi) – sarebbe perfettamente sostenibile, perché farebbe volare i consumi, risollevando l’economia. I 5 Stelle pagano oggi in modo catastrofico la loro ambiguità, e sono anche riusciti a sabotare l’altro provvedimento anti-crisi – la Flat Tax – “gambizzando” il suo inventore, Armando Siri. Il Pd zingarettiano, dal canto suo, non ha ancora prounciato una sola parola di autocritica sull’infame tradimento della Seconda Repubblica, in cui il centosinistra – fino a Renzi e Gentiloni – ha svenduto i diritti sociali, dopo aver persino sostenuto il governo Monti e l’inserimento del pareggio di bilancio nella Costituzione. Comodo, oggi, lamentarsi del successo di Salvini. Il quale, peraltro, non è ancora andato oltre i proclami, in materia economica. Cambierà qualcosa, dopo l’inutile bagarre elettorale delle europee? Solo ad un patto, dice Magaldi: che cessi la guerra per bande, di stampo tribale, che oppone i diversi partiti con toni più calcistici che politici. Sono soltanto alibi, per evitare di affrontare il vero problema: se non trovano il coraggio di sfidare il falso dogma del rigore, ancora di casa a Bruxelles, questi partiti consegneranno il paese al declino, alla rassegnazione più desolata di fronte a una crisi che sembra eterna.Dove saremmo, oggi, se Zingaretti avesse imparato la lezione de “La notte della sinistra”, il lucidissimo saggio di Federico Rampini che spiega come proprio il centrosinistra abbia tradito i più deboli? E dove sarebbe lo stesso Di Maio, se avesse varato un vero reddito di cittadinanza, anziché distribuire (a pochi) quella penosa “tessera annonaria della povertà”, che gli stessi beneficiari si vergognano a esibire? Quanto a Salvini: è sicuro di sapere che farsene, dello squillante successo appena ottenuto alle europee? «Il 34% è un gran risultato, ma Renzi superò addirittura il 40%. Poi sparì dalla scena, in un attimo. E oggi tutto si muove ancora più in fretta». Il problema? «La politica è in preda a scontri di tipo tribale, fondati solo sull’appartenenza al proprio clan». Così si viaggia a fari spenti, lacerati e divisi, in un’Europa ancor meno amica dell’Italia: Ppe e Pse dovranno ricorrere a formazioni ultra-euriste (i liberali dell’Alde o i Verdi, neoliberisti pure loro) per neutralizzare la crescita, comunque insufficiente, dei cosiddetti sovranisti. Secondo Gioele Magaldi ci rimetterà l’Italia, tutta intera, grazie a partiti finora capaci solo di scannarsi, insultarsi e demonizzarsi a vicenda. Terranno conto, dunque, del duro monito che viene dalle consultazioni europee del 26 maggio?
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Chavez fu ucciso, ma ora è Maduro a uccidere il Venezuela
Hugo Chavez è stato assassinato: la notizia è pressoché certa. Poi ci ha pensato l’indegno Maduro, a “terminare” il Venezuela. Ma non da solo: è stato aiutato, nell’opera di devastazione del paese, dai vizi capitali del “bolivarismo” venezuelano. La giusta crociata contro il latifondo ha finito per affidare le terre a cooperative gestite da incapaci, scelti per la loro fedeltà politica. Idem le imprese, simbolo dell’odiata borghesia “coloniale” e parassitaria, alleata dagli Usa: troppe aziende sono state consegnate ai militari, che le hanno fatte fallire. Risultato: il Pil è franato, togliendo al paese la capacità di produrre beni diversi dal petrolio. E quando il prezzo del greggio è crollato, si è spalancato il baratro. La tragedia? Ad affrontarla non c’era più il popolarissimo Chavez, ma l’incolore Maduro. Che poi, di fronte alle proteste, non ha trovato di meglio che forzare la Costituzione, sospendere la democrazia e far sparare sulla folla, salvo poi accusare gli yankee di aver strangolato il Venezuela. Chi oggi si ostina a difendere Maduro – scrive Giuseppe Angiuli, su “L’Intellettuale Dissidente” – dimostra la stessa cecità del potere imperiale neoliberista che ha fatto la guerra a Chavez fin dal primo giorno, cercando anche di deporlo con il golpe del 2002, neutralizzato dal popolo venezuelano che si strinse attorno al suo leader – l’unico che in tanti anni abbia davvero lavorato, giorno e notte, per il benessere della sua gente.Rifiutarsi di leggere con lucidità la storia recente del Venezuela, scrive Angiuli nella sua accurata ricostruzione, significa innanzitutto fare un torto ai venezuelani, oggi alla fame. Un affronto alla memoria dello stesso Chavez, strenuo difensore del suo popolo. E’ stato grande, Chavez, ma inevitabilmente imperfetto: proprio i suoi errori ottici, secondo Angiuli, hanno creato le premesse di una crisi spaventosa, che oggi – senza più il carisma e l’onestà di fondo del leader – stanno mettendo in pericolo il Venezuela. Il paese perde milioni di cittadini, ridotti a profughi. Mancano cibo e medicinali, e c’è anche il rischio concreto che le sue frontiere vengano violate da un intervento militare ispirato dagli Usa e condotto da paesi come la Colombia e l’inquietante Brasile di Bolsonaro. La domanda che sfugge, nel derby delle opposte tifoserie italiane ed europee, è la seguente: com’è possibile che sia finito nella disperazione di massa uno dei paesi virtualmente più ricchi del mondo? Quella del Venezuela è considerata la prima riserva petrolifera del pianeta: e da parte degli Usa, certamente ostili al regime chiavista, non c’è però mai stato nessun embargo del greggio venezuelano. Al contrario: proprio grazie all’export dell’oro nero, a Caracas negli ultimi vent’anni sono circolati fiumi di petrodollari. Che fine hanno fatto?All’inizio, miliardi di dollari sono serviti a finanziare il grandioso welfare ideato da Chavez per allievare le storiche sofferenze dei poveri. Ma non un soldo è stato investito nell’economia non-petrolifera. In compenso, grazie al controllo centralizzato della gestione dei cambi, è fiorito il contrabbando di valuta estera. E oggi si mangia acquistando alla borsa nera i generi alimentari che i gerarchi di Maduro – che controllano i petrodollari – fanno sparire all’ingresso del paese, prima che possano raggiungere i supermercati, dove i prezzi sarebbero calmierati per legge. Ma l’attuale tragedia del Venezuela – umanitaria, sociale, politica – non può impedire di guardare col necessario distacco (e col rispetto che merita) a quello che è stato il più clamoroso fenomeno sudamericano degli ultimi decenni: la “rivoluzione bolivariana” di Chavez, per 14 anni alla guida del paese caraibico. Un quasi-capolavoro, fondato su una scommessa di tipo socialista: nazionalizzare il petrolio per finanziare grandiosi programmi di assistenza e liberare la popolazione della piaga cronica della povertà, generata dallo spietato sfruttamento delle multinazionali occidentali.Nella sua meticolosa ricostruzione sulla crisi venezuelana pubblicata da “L’Intellettuale Dissidente”, Angiuli scrive che la morte di Chavez, nel marzo 2013, è «quasi certamente avvenuta per avvelenamento radioattivo, messo in atto da non ben identificati servizi segreti di qualche paese nemico». Magari gli Usa, che a Chavez non avevano mai perdonato il coraggio e l’indipendenza politica. O qualche entità sudamericana allineata alla Dottrina Monroe, secondo cui l’America Latina deve restare sottomessa a Washington. Il Venezuela di Chavez – poi letteralmente tradito da Maduro – ha rappresentato una grande speranza per tutto il Sud del mondo. Ma sarebbe sbagliato trasformarlo in un culto, osserva Angiuli: perché Chavez ha commesso l’errore (fatale) di basare il riscatto economico nazionale solo sul petrolio, mortificando l’industria e l’agricoltura. Ancora oggi, ridotto alla fame, il Venezuela continua a dividere: da una parte le destre neoliberiste che hanno sempre criminalizzato il chavismo fin dall’inizio, e dall’altra la vecchia sinistra terzomondista, che arriva a perdonare un dittatore come Maduro pur di non ammettere i gravi errori della politica venezuelana, che hanno messo nei guai il paese ben prima che scattasse l’accerchiamento geopolitico neoliberista che ha isolato il governo di Caracas.Il pensiero unico mainstream «tende a demonizzare alla radice l’intera vicenda del socialismo venezuelano, relegandola nell’ambito del caudillismo alla sudamericana». Per contro, gli epigoni delle residuali correnti marxiste-leniniste si erano illusi di poter finalmente riscattare, in Venezuela, «la tragica sconfitta del comunismo novecentesco», seppellito dalle macerie del Muro di Berlino. All’intera vicenda del “socialismo bolivariano” inaugurato da Hugo Chavez, Angiuli ammette di essersi accostato con emozione, sperando di trovarvi «un nuovo laboratorio politico capace di ripensare l’idea stessa e la pratica del socialismo». Angiuli è stato spesso in Venezuela, a stretto contatto con la società e con gli ambienti filogovernativi. Dopo l’entusiasmo, però, è subentrata l’amara disillusione. Beninteso: a prescindere dall’orrendo regime militare di Maduro, «resta in ogni caso intangibile – precisa Angiuli, a scanso di equivoci – il diritto del popolo venezuelano di costruire il suo futuro in condizioni di libertà, sovranità e autonomia rispetto a qualsiasi intervento di destabilizzazione esterna, a cominciare dalle esplicite minacce di invasione che ultimamente provengono dai governi dell’ultradestra insediatisi al potere delle nazioni vicine, con lo scontato supporto degli Usa che da sempre considerano quella parte del mondo come il proprio cortile di casa».Detto questo, ammette Angiuli, «è triste giungere alla conclusione di dover affermare che il socialismo venezuelano ha purtroppo tradito una buona parte dei suoi propositi, e oggi non può più costituire un modello positivo di giustizia e di benessere per i popoli oppressi di tutto il mondo». Cionondimeno, il “bolivarismo” di Chavez era partito con le migliori intenzioni. Analizzarne i difetti è indispensabile: provare a capire «cosa non ha funzionato in Venezuela» è fondamentale, per tentare di spiegarsi la drammatica situazione in cui oggi versa il paese che dette i natali al “libertador” Simon Bolivar, «un personaggio passato alla storia quale nemico giurato del colonialismo ispanico». Anche Hugo Chavez ha fatto la storia: la sua presa del potere a Caracas, a cavallo tra il 1998 e il 1999, ha simboleggiato per l’intero continente di Neruda e Garcia Marquez «la più grande sfida di discontinuità storico-politica rispetto alla lunga notte neoliberista, vissuta per alcuni decenni dall’America Latina». Micidiali le dittature militari filo-Usa degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta. Per questo, è naturale che il chavismo abbia suscitato «una grande ondata di legittime speranze fra tutti i popoli».Ex ufficiale paracadutista dell’esercito venezuelano, tradizionalmente “popolare” anche nei suoi ranghi più alti, Hugo Chavez – autore di un fallito tentativo di colpo di Stato del 1992 ai danni dell’allora presidente in carica Carlos Andres Perez – era riuscito in pochi anni a far coagulare attorno a sé «i migliori sentimenti e le aspirazioni di riscatto delle fasce sociali medio-basse del suo paese, fino a quel momento escluse dal godimento dei profitti della “Venezuela Saudita”». L’ideologia di Chavez? Un mix originale e composito, «che attinge tanto al panamericanismo di Simon Bolivar quanto all’umanesimo socialista di ispirazione massonica caro a Giuseppe Garibaldi e a Salvador Allende». Innegabili le influenze esercitate dal pensiero di Antonio Gramsci e dalla prassi rivoluzionaria di Ernesto Che Guevara e Fidel Castro. «Cuba rivoluzionaria, la piccola isola che da decenni resiste ad un crudele embargo degli Usa, per Chavez costituiva un esempio di dignità e un prototipo da emulare, soprattutto sotto il profilo dell’indipendenza nazionale e della lotta all’imperialismo a stelle e strisce». E proprio a partire dagli accordi di mutua assistenza con la Cuba di Fidel – petrolio in cambio di medici – Hugo Chavez, appena insediatosi alla presidenza, iniziò a «costruire sapientemente il suo modello di integrazione politica latinoamericana attorno ai principi generali di cooperazione, equità e solidarietà».Lo stesso Che Guevara, nei suoi scritti, aveva ben individuato la “maledizione” dei paesi dell’America Latina, «storicamente condannati a programmare le loro economie non in base ai propri bisogni interni, bensì in rapporto agli appetiti famelici dei loro paesi dominanti». Fin dall’epoca del colonialismo ispano-portoghese, gli europei avevano imposto a quei territori un modello “rentista” o monoculturale, «tutto basato sull’estrazione a costo zero di materie prime»: un “prelievo forzoso” grazie a cui sarebbero state edificate le basi dell’impero industriale e capitalistico dell’Occidente. A partire dal suo esordio, ricorda Angiuli, «uno dei principali meriti politici di Hugo Chavez è stato quello di sottrarre il controllo dell’oro nero del Venezuela a quella ristretta borghesia “compradora” fortemente compromessa col capitalismo a stelle e strisce». Una borghesia che «per decenni, dopo essersi appropriata della rendita petrolifera, era stata abituata a delocalizzare sistematicamente i suoi profitti a Miami, umiliando il paese estrattore con delle infime royalties e con dei contratti-capestro». Fino a quel momento, gli immensi giacimenti petroliferi non avevano mai consentito al Venezuela di trarre risorse per investimenti sociali. A questo ha provveduto proprio Chavez, all’inizio del suo mandato, con una nossa clamorosa: nazionalizzare la compagnia petrolifera Pdvsa, per poi tenere alto il prezzo del greggio premendo sull’Opec – insieme all’Iraq di Saddam e alla Libia di Gheddafi – al fine di contenere i volumi di estrazione.Destinare la rendita petrolifera alla spesa assistenziale finalizzata ad appianare le gravi diseguaglianze sociali del suo popolo – prosegue Angiuli – ha costituito indubbiamente l’atto più rivoluzionario compiuto da Hugo Chavez. Interventi imponenti, per garantire servizi sanitari anche nei “barrios” più poveri e alfabetizzare milioni di venezuelani, compresi i gruppi indigeni. Diritti: la nuova Costituzione varata da Chavez nel 1999 «contiene sulla carta alcuni principi inediti che possono fare da insegnamento anche alle democrazie più avanzate». E’ fondata su una netta separazione fra i poteri e contempla molteplici strumenti di democrazia diretta: c’è anche l’istituto del “referendum revocatorio”, che consente perfino di far dimettere il presidente a metà mandato, mediante una consultazione popolare indetta dal basso. La nuova Carta, poi, decreta l’intangibilità di Madre Natura quale soggetto titolare di diritti. E in più tutela l’identità etnoculturale delle comunità dei nativi amerindi, «facendosi così portatrice di un generale messaggio di rinascita dell’orgoglio indigeno», dopo secoli di sottomissione ai “conquistadores” e ai “gringos”.Il primo decennio del chavismo, riconosce Giuseppe Angiuli, è stato contrassegnato «da un risveglio delle coscienze del popolo venezuelano e da una straordinaria voglia di partecipare a riscrivere la storia del proprio paese da parte di milioni di persone, fino ad allora del tutto escluse dalla scena politica e incapaci perfino di intendere lo stesso concetto di cittadinanza». Solo gli osservatori più prevenuti, sottolinea l’analista, possono avere finto di non accorgersi della reale genuinità che ha connotato i primi anni del processo politico “bolivariano”, contraddistinti da un fermento rivoluzionario autentico, addirittura emozionante. E contro l’imperialismo mercantile “yankee”, Chavez s’è mosso anche a livello geopolitico: ha dato vita all’Alba (Alianza Bolivariana para los pueblos de nuestra America), reclutando Cuba, la Bolivia del leader sindacale Evo Morales, l’Ecuador dell’economista Rafael Correa, il Nicaragua sandinista, l’Honduras di Manuel Zelaya e vari piccoli Stati insulari caraibici. Checché ne dicessero i media occidentali, sottolinea Angiuli, il governo di Chavez – fino alla sua rielezione nel 2012 – è sempre stato largamente supportato dal popolo venezuelano. Ma oggi, ribadisce, il Venezuela non sarebbe in crisi nera, se lo stesso Chavez non avesse commesso clamorose ingenuità sul piano economico.Dopo aver distribuito soldi a pioggia per «contrastare la povertà più estrema di una parte significativa della popolazione», il chavismo ha mancato l’appuntamento con lo sviluppo, nonostante la felice congiuntura petrolifera, col prezzo del barile rimasto sopra gli 80 dollari fino al novembre 2014. Nonostante il fiume di valuta forte, piovuto su Caracas per almeno un decennio, il governo «non ha mai messo in campo alcuna seria misura per provare a debellare il vero cancro comune a tutti quei paesi la cui economia, come quella del Venezuela, si basa su un modello “rentista”», ovvero: «La dipendenza dalla estrazione della materia prima quale unica risorsa del proprio modello di sviluppo». Nonostante i tanti proclami, non è mai riuscito a diversificare le attività produttive: anzi, i governi chavisti hanno attuato «una massiccia politica di disincentivo al lavoro delle piccole e medie imprese», determinando così una contrazione drammatica del Pil, in quei settori, «con la conseguenza che la classe media è progressivamente scomparsa». Paradossale: «Oggi i venezuelani conducono in media un tenore di vita clamorosamente più basso di quello che si ricordi anche negli anni più bui della notte neoliberista dell’America Latina». E scontano «una diffusa scarsità di prodotti di prima necessità che oggi forse non si riscontra nemmeno a Cuba, paese ininterrottamente sotto embargo da più di mezzo secolo».Pessimo il bilancio dall’agricoltura: buona l’idea di una riforma agraria per smantellare i latifondi improduttivi. Ma poi è subentrata «una deriva ideologica di tipo estremistico velleitario, che ha condotto ad una espropriazione generalizzata delle terre anche di media dimensione». Terre assegnate «a improvvisate cooperative di lavoratori che non si sono mai realmente dimostrate all’altezza del loro compito», e con incarichi direzionali «troppo spesso affidati obbedendo unicamente a meri criteri di fedeltà politica». Risultato: la produzione agricola è crollata, ricorda Angiuli, persino per i più tipici prodotti alla base della dieta venezuelana: riso e farina di mais, frutta e verdura, polli d’allevamento, uova e caffè. Stessa sorte ha colpito l’industria: «Una analoga degenerazione demagogica del chavismo, nel segno del collettivismo spinto – scrive Angiuli – ha condotto negli anni a una diffusa e capillare occupazione delle fabbriche», da parte di «settori disinvolti delle forze armate». I militari, «arrogandosi il diritto di agire sempre e comunque nell’interesse del “pueblo” e contro l’odiata borghesia nazionale», si sono spesso impadroniti «con modalità arbitrarie e violente» dei mezzi di produzione, «lasciandoli cadere quasi sempre e molto presto in malora e facendo così crollare la produzione anche in quei settori nei quali – prima del chavismo – il Venezuela riusciva tranquillamente a soddisfare il suo fabbisogno interno, raggiungendo perfino l’obiettivo di esportare una discreta quantità di merci all’estero: ferro, acciaio, automobili, caffè».L’aspetto più inquietante di questo fallimento economico di dimensioni catastrofiche, scrive Angiuli, non risiede neppure nella pianificazione centralistica stile Urss e Cina maoista: il paradosso sta nella pessima gestione dell’oceano di petrodollari. Fino al 2013, il petrolio rappresentava ancora il 95% dell’export. Anziché sfruttare quell’enorme massa di denaro per rendere il Venezuela più autonomo economicamente, i governi socialisti «hanno finito per accentuare oltre ogni limite il tradizionale carattere “rentista” dell’economia venezuelana, legandone le sorti in modo irreversibile alla ciclicità dell’andamento del prezzo degli idrocarburi». Gli effetti di questa politica sono esplosi a partire dal 2015, con il crollo della quotazione del greggio: di colpo, il Venezuela ha incassato meno soldi, sia per il welfare che per pagare l’enorme volume di importazioni, cresciuto negli anni col progressivo calo della produzione interna di beni primari. Risultato: «La scarsità di prodotti sugli scaffali dei supermercati si è manifestata in modo crescente e irrimediabile». Ecco perché, osserva Angiuli, sta semplicemente mentendo, Maduro, quando si sforza ogni giorno di attribuire l’odierna crisi alla guerra economica orchestrata dall’odiato imperialismo yankee. Le sanzioni americane – varate da Obama e inasprite da Trump – non bastano a spiegare la catastrofica penuria di generi di prima necessità.Le stesse sanzioni, peraltro, non hanno impedito alle grandi banche d’affari statunitensi, prima fra tutte la Goldman Sachs, di investire copiose somme nell’acquisto di buoni obbligazionari emessi dalla compagnia petrolifera Pdvsa: «Un elemento che smaschera tanto l’ipocrisia del capitalismo a stelle e strisce quanto quella della retorica antimperialista così tanto sbandierata dal governo di Caracas». Inoltre, sebbene Trump abbia proibito nel 2018 l’acquisto di titoli del colosso petrolifero venezuelano, «nessun embargo commerciale petrolifero è mai stato decretato da Washington verso Caracas». Lo confermano i numeri delle esportazioni, che ora – non a caso – Maduro ha addirittura proibito di diffondere, roprio per non compromettere il suo vittimismo retorico che attribuisce al nemico imperialista la causa di ogni male. L’altra verità che Maduro nasconde, continua Angiuli, è che il suo Venezuela ha affidato a una ristretta oligarchia – società riconducibili all’establishment militare – l’intera gestione del cambio dei dollari necessari per accedere al mercato delle importazioni di beni dall’estero. Sono questi privilegiati ad accedere ai dollari, e in modo truffaldino, cioè con un cambio alterato sopravvalutando il bolivar: se la moneta venezuelana era stimata 1.000 a 1, rispetto al dollaro, l’élite governativa monopolista ha invece intascato 10 bolivar per ogni dollaro destinato ad acquistare beni dall’estero.Una volta che gli importatori della ristretta cerchia governativa hanno acquisito i dollari ad un cambio preferenziale e privilegiato, quella valuta forte, «ufficialmente necessaria per pagare le merci che si dovrebbero importare dall’estero», ha finito in realtà per alimentare «un circuito vorticoso e perverso, con cui gli stessi importatori filogovernativi sono troppo spesso riusciti ad occultare clandestinamente sia la valuta che le stesse merci importate». Una colossale frode valutaria, insomma, «che ogni giorno sottrae ricchezza al paese caraibico», e oggi costringe i venezuelani a lasciare le loro case. Elementare: «Se la moneta venezuelana viene scambiata sui mercati ad un valore reale spesso anche di 100 volte inferiore a quello con cui viene scambiata dagli organismi governativi, tutti coloro i quali sono nelle condizioni di mettere le mani sulla rendita petrolifera, una volta ottenuti i dollari col sistema del cambio preferenziale, ne investono effettivamente solo una parte nell’attività di importazione». E al contempo, aiutandosi con sovrafatturazioni fittizie (di merci mai effettivamente acquistate) occultano facilmente grandi quantità di valuta forte, trasferendole dei paradisi fiscali, «ovvero alimentando il mercato nero del dollaro all’interno degli stessi confini del Venezuela». Lo si capisce già all’aeroporto, appena si sbarca a Caracas: si viene assaliti da “agenti del cambio in nero” che offrono disinvoltamente i bolivar in cambio di dollari (o euro) secondo un rapporto di cambio molto distante da quello ufficiale.Per questo, aggiunge Angiuli, da quando si è diffusa la pratica governativa di sopravvalutare artificiosamente il bolivar, «il traffico di valuta è diventato di gran lunga il business più redditizio per chiunque riesca a venire in possesso di una certa quota della rendita petrolifera incamerata dal Venezuela». Negli anni, il fenomeno ha acquisito dimensioni impressionanti e incontrollabili. E il suo principale effetto nefasto sull’economia del paese è il generale disincentivo verso l’avvio di qualsiasi genere di attività produttiva. L’ex ministro per la pianificazione economica Jorge Giordani, grande amico di Chavez (dimessosi nel 2014 da ogni incarico governativo in polemica con Maduro) ha pubblicamente denunciato il furto, attraverso questo meccanismo fraudolento, di qualcosa come 25 miliardi di dollari dall’organismo governativo addetto alle operazioni di cambio su larga scala. E oltre al mercato nero di valuta, c’è anche la piaga che colpisce gli approvvigionamenti: il cibo, i medicinali e i prodotti manifatturieri che dovrebbero entrare in Venezuela a prezzo calmierato vengono in gran parte intercettati e rivenduti clandestinamente. Borsa nera: «Un formidabile, gigantesco contrabbando di merci vendute al mercato nero a prezzi molto più alti di quelli che il governo si sforza inutilmente di imporre nelle catene dei supermercati popolari», nei quali ormai scarseggia di tutto, dallo shampoo al dentifricio, dal sapone alla carta igienica.Giuseppe Angiuli lo descrive come «il disastro di una economia nazionale ormai strutturalmente e capillarmente fondata sul malaffare, sulla frode valutaria e sulla speculazione parassitaria, con un sistema di complicità e protezioni che purtroppo investe anche le sfere più alte del potere centrale». A questo si aggiunge l’iper-inflazione scatenata irresponsabilmente dalla banca centrale del Venezuela, «ricorsa in questi anni in misura sempre più massiccia alla stampa di cartamoneta priva di ogni copertura e valore reale». Tra il 1999 e il 2016, la massa monetaria circolante nel paese è cresciuta di circa il 33.000%. Inflazione folle: nel 2017 si è attestata al’830%, per poi raggiungere l’anno seguente il 4.684,3 percento, vero e proprio record mondiale. Secondo il Fmi, si viaggia ormai verso il “milione per cento” su base annua. Una catastrofe: paralisi economico-produttiva, l’iper-inflazione, crollo del valore reale dei salari. Generale impossibilità di procurarsi da vivere lavorando. Collasso del sistema sanitario nazionale, scarsità di viveri e medicinali, drammatico aumento della mortalità neonatale e della denutrizione infantile. Tutto questo sta oggi facendo vivere al Venezuela «un esodo di proporzioni bibliche dei suoi cittadini verso l’estero, come non si era mai visto nella storia recente del paese».Un fallimento così apocalittico, osserva Angiuli, avrebbe dovuto obbligare da tempo il governo Maduro ad adottare misure radicali, in forte discontinuità rispetto alle politiche suicide fin qui condotte. Di fronte all’esperazione popolare, sfociata in drammatiche proteste, Maduro ha risposto violando la Costituzione, truccando le elezioni e ordinando all’esercito di sparare sulla folla. Hugo Chavez non l’avrebbe mai fatto. Anzi: il “comandante” accettò lealmente il verdetto del referendum perduto, attraverso cui i venezuelani avevano bocciato la sua proposta di riforma costituzionale in senso presidenzialista. Maduro è solo, spelleggiato esclusivamente dai militari. Diversi dirigenti chavisti storici della prima ora – come l’ex ministro dell’ambiente Ana Elisa Osorio, l’ex ministro dell’economia Jorge Giordani, lo storico presidente della Pdvsa Rafael Ramirez e l’ex procuratrice generale Luisa Ortega Diaz – sono stati delegittimati ed emarginati. Qualcuno è riparato all’estero «per sottrarsi alla furia vendicatrice della cricca di potere vicina a Maduro».Non sappiamo quale futuro attende il Venezuela, conclude Angiuli, ma dopo vent’anni di chavismo «i risultati dell’economia del paese parlano un linguaggio implacabile, che non ammette repliche». Un fallimento di dimensioni così catastrofiche dimostra «l’evidente sconfitta politica del gruppo dirigente cresciuto all’ombra di Chavez, che non si è dimostrato all’altezza dei propri compiti storici». I meriti dell’azione ispiratrice dei primi anni del chavismo «andrebbero rivalorizzati e recuperati», ripensando le radici dottrinali del socialismo “bolivariano”, «che andrebbero rinforzate e vivificate». Attenzione: a livello geopolitico, il Venezuela resta «un attore decisivo per la possibile formazione di un nuovo mondo multipolare». E infatti, sottolinea Angiuli, «attorno alla tenuta dell’indipendenza del paese da eventuali aggressioni militari esterne si gioca gran parte del suo futuro». Certo, la catastrofe sociale potrebbe sfociare in esiti terribili. E se il Venezuela «dovesse progressivamente subire delle aggressioni militari da parte degli Usa o di paesi vicini governati dall’ultradestra, come la Colombia o il Brasile», secondo Angiuli occorrerà battersi «a difesa della sacrosanta intangibilità dei suoi confini e della sua legittima sovranità». Quello che non serve, per aiutare il Venezuela a uscire dall’incubo, è continuare a «fornire un sostegno acritico e fideistico al governo di Maduro». Meglio rileggere con onestà la grande storia di Hugo Chavez e anche i suoi limiti, onde avviare al più presto «quegli interventi indifferibili e vitali che il popolo venezuelano si attende, e di cui oggi non può più fare a meno».Hugo Chavez è stato assassinato: la notizia è pressoché certa. Poi ci ha pensato l’indegno Maduro, a “terminare” il Venezuela. Ma non da solo: è stato aiutato, nell’opera di devastazione del paese, dai vizi capitali del “bolivarismo” venezuelano. La giusta crociata contro il latifondo ha finito per affidare le terre a cooperative gestite da incapaci, scelti per la loro fedeltà politica. Idem le imprese, simbolo dell’odiata borghesia “coloniale” e parassitaria, alleata dagli Usa: troppe aziende sono state consegnate ai militari, che le hanno fatte fallire. Risultato: il paese ha perso la capacità di produrre beni diversi dal petrolio. E quando il prezzo del greggio è crollato, si è spalancato il baratro. La tragedia? Ad affrontarla non c’era più il popolarissimo Chavez, ma l’incolore Maduro. Che poi, di fronte alle proteste, non ha trovato di meglio che forzare la Costituzione, sospendere la democrazia e far sparare sulla folla, salvo poi accusare gli yankee di aver strangolato il Venezuela. Chi oggi si ostina a difendere Maduro – scrive Giuseppe Angiuli, su “L’Intellettuale Dissidente” – dimostra la stessa cecità del potere imperiale neoliberista che ha fatto la guerra a Chavez fin dal primo giorno, cercando anche di deporlo con il golpe del 2002, neutralizzato dal popolo venezuelano che si strinse attorno al suo leader – l’unico che in tanti anni abbia davvero lavorato, giorno e notte, per il benessere della sua gente.
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Poi la sinistra, cioè il potere, stritolerà Salvini (e gli italiani)
Lo so come andrà a finire. Lo so perché conosco la storia, conosco la gente, conosco i potentati, conosco gli immigrati. Li conosco come li conoscete voi, per esperienza, precedenti, realismo e uso di mondo. Fino a ieri la scena era la seguente: non ho sentito un italiano che non fosse d’accordo con Salvini, che non giudicasse assurdo incriminare un ministro dell’interno che fa il suo dovere, oltre che il suo mandato elettorale, di salvaguardare i confini della nazione, come è previsto dalla Costituzione, e tutelare gli italiani, respingere gli arrivi clandestini e ribadire che i migranti non sbarcano in Italia ma in Europa. È assurdo che dobbiamo ricordarci dell’Europa quando si tratta di pagare i debiti o di non sfondare i bilanci. E invece dobbiamo scordarci dell’Europa quando arrivano i migranti perché allora, d’un tratto, diventiamo nazione e ce la dobbiamo sbattere noi. La nostra sovranità consiste nell’obbligo di accoglierli, anche se tutti gli altri non li vogliono. Fino a ieri non c’era una persona con cui ho parlato che in un modo o nell’altro non fosse di questa idea. Viceversa non ho sentito un tg, un programma, un commentatore, un uomo di potere o un giornale che non fosse schierato contro l’Italia, contro gli italiani, contro Salvini e dalla parte dell’Europa che se ne frega dei migranti, dalla parte dei giudici che incriminano i ministri nel nome della legge, dalla parte dei migranti che sbarcano illegalmente.Una partita secca, il popolo compatto da una parte, il potere compatto dall’altra. In compagnia di Salvini quasi nessuno, la Lega c’è ma non si vede, c’è solo lui, c’è la Meloni e poi giù il deserto. I grillini, quando non sono appesi al Fico, e dunque pendono a sinistra, fanno i furbetti come di Maio che pur di galleggiare e di restare dove sta, e giocare a fare il superministro, è pronto a rimangiarsi tutto e a scaricare l’Alleato su cui sono puntati i cannoni mediatico-giudiziari del Palazzo, dai catto-bergogliosi alla sinistra sparsa. Come volete che finisca una partita così, pensate che gli italiani tramite Salvini possano ottenere qualcosa se tutto l’Establishment è compatto ai piedi dell’Europa e in favore degli sbarchi, senza curarsi delle conseguenze, ma solo calcolando i profitti politici che ne deriveranno a loro? Salvini verrà virtualmente imprigionato, fino a che sarà neutralizzato. Non andrà in galera ma sarà emarginato, chimicamente castrato. Ed è curioso pensare che tutti coloro che hanno battuto la sinistra sono sempre stati – di riffa o di raffa – considerati criminali: Berlusconi, Salvini, la destra, perfino Cossiga quando si oppose all’establishment, Leone quando si oppose al compromesso storico e Craxi quando cercò di far valere il primato della politica e dell’Italia e si oppose al catto-comunismo.Ma è possibile che qualunque avversario della sinistra che abbia vinto in Italia col consenso popolare debba essere per definizione un delinquente, per affari e malaffari, eversione e violazione della Costituzione, per fascismo, razzismo o altre fobie ormai a voi note? Cambiano gli attori ma la partita è sempre tra sinistra e delinquenti, tra potentati e malavita. L’avversario della sinistra è tollerato solo se è perdente, se è remissivo, se non dà fastidio, fa tappezzeria e magari si piega a loro. Eppure non ho mai visto tanta eversione, tanto disprezzo degli italiani, tanta prevaricazione, abuso e mafia travestita da legge e da democrazia, d’Europa e di Modernità quanto quella di chi detiene il vero potere in Italia. Quando vincono gli outsider, il governo è una cosa, il potere è un’altra, non coincidono. Al governo magari ci mettono le guardie del sistema, i Moavero e i Tria. Ma per il resto sono circondati, il potere è una cupola che tiene in scacco chi governa e in spregio il popolo che li sostiene.Ma so anche per esperienza come finiranno quelle povere vittime appena sbarcate. La diocesi darà loro un tozzo di pane per un po’ ma saranno poi a larga maggioranza, a carico dello Stato italiano, a partire dalla sanità. Qualcuno diventerà spacciatore o verrà ingaggiato dalla criminalità locale, qualcuno commetterà violenze sessuali e abusi come se ne sente ogni giorno essendo tutti maschi, giovani, sfaccendati e con gli ormoni a mille, qualcuno delinquerà e ruberà per conto suo, qualcuno – più onesto o più sprovveduto – andrà a lavorare in campagna e la sinistra potrà dunque speculare anche sul loro sfruttamento come schiavi dei caporali (che notoriamente li ha istituiti Salvini, prima non esistevano, ai tempi di Renzi e Gentiloni e Prodi erano solo un brutto ricordo del passato). Qualcuno di loro odierà il Paese che li ha accolti, sfamati e vestiti e si darà alla violenza eversiva, talvolta inneggiando sul web, talvolta partecipando attivamente alla guerra contro di noi, fino al terrorismo dei fanatici islamici.E qualcuno, vivaddio, si inserirà nella nostra società e si integrerà. Su 170, forse diciotto, come la nave che li ha portati da noi. Uno su dieci. Per questo so come andrà a finire. Il consenso a Salvini prima o poi si sgonfierà, quando vedranno che non potrà dare i frutti sperati, che il loro Tribuno sarà isolato, le sue decisioni saranno sistematicamente smantellate dai Palazzi. Allora gli italiani si adatteranno, come sempre hanno fatto, abbozzeranno perché non vogliono mica imbarcarsi in una guerra civile. Si rifugeranno nelle tv e negli smartphone. E quello stanno aspettando gli sciacalli e le iene variamente disseminati nei media, nei tribunali, nei palazzi di potere. D’altra parte, è vero, non si può pensare di governare senza creare una classe dirigente, senza dotarsi di una strategia, ma soltanto a pelle, a orecchio, a botte di tweet, video e like. E così resterà quel divario assoluto tra la gente e il potere, ognuno troverà l’alibi per farsi i fatti suoi. E l’Italia sarà bell’e fottuta.(Marcello Veneziani, “Ecco come andrà a finire”, dal “Tempo” del 28 agosto 2018; articolo ripreso sul blog di Veneziani).Lo so come andrà a finire. Lo so perché conosco la storia, conosco la gente, conosco i potentati, conosco gli immigrati. Li conosco come li conoscete voi, per esperienza, precedenti, realismo e uso di mondo. Fino a ieri la scena era la seguente: non ho sentito un italiano che non fosse d’accordo con Salvini, che non giudicasse assurdo incriminare un ministro dell’interno che fa il suo dovere, oltre che il suo mandato elettorale, di salvaguardare i confini della nazione, come è previsto dalla Costituzione, e tutelare gli italiani, respingere gli arrivi clandestini e ribadire che i migranti non sbarcano in Italia ma in Europa. È assurdo che dobbiamo ricordarci dell’Europa quando si tratta di pagare i debiti o di non sfondare i bilanci. E invece dobbiamo scordarci dell’Europa quando arrivano i migranti perché allora, d’un tratto, diventiamo nazione e ce la dobbiamo sbattere noi. La nostra sovranità consiste nell’obbligo di accoglierli, anche se tutti gli altri non li vogliono. Fino a ieri non c’era una persona con cui ho parlato che in un modo o nell’altro non fosse di questa idea. Viceversa non ho sentito un tg, un programma, un commentatore, un uomo di potere o un giornale che non fosse schierato contro l’Italia, contro gli italiani, contro Salvini e dalla parte dell’Europa che se ne frega dei migranti, dalla parte dei giudici che incriminano i ministri nel nome della legge, dalla parte dei migranti che sbarcano illegalmente.
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Il ponte dei soldi, il ponte degli avvoltoi, il ponte del dolore
Il ponte Morandi è crollato a Genova producendo tanti morti, feriti, sfollati, problemi e dolore per la gente comune. La società privata che lo gestisce ha continuato a rappezzarlo negli anni – come ha fatto per tutte le autostrade italiane – con un occhio attento a fare quanto indispensabile per mantenere la concessione, ma soprattutto a garantire enormi profitti. Ed è chiaro che per generare questi enormi profitti, mantenere ed aumentare le concessioni governative e le quotazioni in Borsa, in Italia occorre avere a disposizione un apparato di “protezione”: lobbies massoniche, pezzi di partiti, di Chiesa, circuiti bancari e assicurativi, dirigenti “amici” al ministero delle infrastrutture e dei trasporti, all’Anas, nella magistratura. Un notissimo massone piduista molto introdotto in Vaticano – vero e proprio successore di Gelli – ha per anni manovrato per garantire a questa gente delle autostrade il massimo delle coperture. E quindi il massimo di profitti. Si sa: amicizie, simpatie, protezioni…. generano profitti enormi. Ma questi profitti generano prima o poi tanti morti, feriti, sfollati, problemi di tutti i tipi e dolore per la gente comune. E anche – loro non se ne rendono conto – buchi neri nelle anime di tutta questa filiera di avvoltoi.La Prima Repubblica aveva già al suo interno forti germi di malaffare. Ma nel tessuto del quadro politico di allora c’erano ancora forti freni morali. La Seconda Repubblica, sorta sostanzialmente grazie all’assassinio di Moro, al vero e proprio golpe di Tangentopoli ed all’avvento al potere di ondate di individui proni al capitale finanziario nazionale ed internazionale, ha prodotto una degenerazione pressoché totale. L’industria e i servizi pubblici sono stati saccheggiati da stormi di avvoltoi: trasporti, acqua, energia, chimica, comunicazioni, stabilimenti di tutti i tipi, sono stati distribuiti a voraci pescecani. Il cui scopo non era dare servizi alla gente, ma solo incrementare i profitti. E l’operazione è stata fatta dopo aver tolto dal tessuto politico – con omicidi e colpi di mano – elementi di moralità o quanto meno di sovranità che ancora contavano per la generazione di Moro, Pertini, Craxi e altri leader della Prima Repubblica. Le istituzioni e i partiti, ridotti a deboli strutture rette da ominicchi servi dei poteri finanziari ed anticoscienza nazionali ed internazionali, hanno facilitato tutto questo.Ora questa “Terza Repubblica”, annunciata dalla nuova maggioranza M5S-Lega, afferma di voler fare pulizia, di voler togliere di mezzo questo sistema di malaffare. Noi speriamo veramente che, almeno in parte, riesca veramente a farlo. E che non si fermi solo a voler cambiare con uomini propri le corrotte dirigenze attuali, lasciando sostanzialmente intatto un sistema di potere oscuro e finanziario internazionale che, in fondo, vuole solo rinnovare una classe politica e dirigenziale. Una classe che il potere vero – quello anticoscienza dietro le quinte – considera ormai talmente corrotta, esaurita ed inefficiente da non essere più utile come strumento di manipolazione dell’opinione pubblica. Nel frattempo tragedie umane colme di dolore: tanti morti, feriti, sfollati, problemi di tutti i tipi e dolore per la gente comune. Speriamo che almeno tutto questo generi ancora, per reazione, risvegli di coscienza.(Fausto Carotenuto, “Il ponte dei soldi, il ponte degli avvoltoi, il ponte del dolore”, da “Coscienze in Rete” del 16 agosto 2018).Il ponte Morandi è crollato a Genova producendo tanti morti, feriti, sfollati, problemi e dolore per la gente comune. La società privata che lo gestisce ha continuato a rappezzarlo negli anni – come ha fatto per tutte le autostrade italiane – con un occhio attento a fare quanto indispensabile per mantenere la concessione, ma soprattutto a garantire enormi profitti. Ed è chiaro che per generare questi enormi profitti, mantenere ed aumentare le concessioni governative e le quotazioni in Borsa, in Italia occorre avere a disposizione un apparato di “protezione”: lobbies massoniche, pezzi di partiti, di Chiesa, circuiti bancari e assicurativi, dirigenti “amici” al ministero delle infrastrutture e dei trasporti, all’Anas, nella magistratura. Un notissimo massone piduista molto introdotto in Vaticano – vero e proprio successore di Gelli – ha per anni manovrato per garantire a questa gente delle autostrade il massimo delle coperture. E quindi il massimo di profitti. Si sa: amicizie, simpatie, protezioni…. generano profitti enormi. Ma questi profitti generano prima o poi tanti morti, feriti, sfollati, problemi di tutti i tipi e dolore per la gente comune. E anche – loro non se ne rendono conto – buchi neri nelle anime di tutta questa filiera di avvoltoi.
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Eresia verde: l’ultima ideologia vincente prima del liberismo
Un mondo più pulito, e quindi più giusto. In una parola: più verde. Erano gli anni ‘80, e il nuovissimo radicalismo ecologista del “Sole che ride”, di matrice scandinava, poteva sembrare un lusso. Era una suggestione “da tempo di pace”, inoculata come un virus benefico in un sistema disordinato e molto inquinato eppure in costante crescita, fondato su un consumismo di massa sempre più condiviso, grazie al famoso ascensore sociale funzionante nella vituperata Prima Repubblica, la società consociativa governata da industriali e vescovi, partiti e sindacati. Superata la lunghissima stagione dell’estremismo, delle bombe e del brigatismo, restava la mafia in Sicilia a far strage di magistrati, mentre montava l’insofferenza per lo strapotere di una partitocrazia logora, corrotta e clientelare. Ma in quell’Italia, così provata dagli anni di ferro e di piombo che aveva appena attraversato, non c’era spazio per il dominio della paura. Non c’era neppure l’ombra dei fantasmi pre-moderni ora riapparsi: povertà e disoccupazione di massa, l’angoscia della vecchiaia senza pensione e di un futuro senza figli.La Grecia era ancora il paradiso in cui andare in vacanza, non l’inferno di oggi senza medicine per i bambini. Nessun esodo di esseri umani disperati: apostoli come Thomas Sankara lavoravano per un’Africa libera e dignitosa. Finiva in soffitta anche il gelido bullismo delle superpotenze: in accordo con Reagan, l’intrepido Gorbaciov stava per rottamare i suoi famosi missili. Quella italiana era una società relativamente rilassata e tollerante, ottimista e in parte progressista, già divorzista e abortista, non ostile alle provocazioni culturali. Gli intellettuali scrivevano libri, il “Nome della rosa” metteva alla berlina il potere medievale del Vaticano. E un certo Primo Levi prendeva posizione contro i massacri ordinati da Israele in Libano, il martoriatro paese mediorientale dove i soldati del generale Angioni sfilavano tra gli applausi, sui loro carri armati bianchi. Rivista oggi, quell’Italia imperfetta e minata da mali endemici era infinitamente più coesa e meno cinica, più serena e fiduciosa dell’attuale euro-periferia cronicamente depressa.C’è di mezzo un’era glaciale, è vero: senza Internet, le notizie facevano ancora notizia. Il terremoto in Irpinia e il business della camorra, la bomba di Bologna e la strage di Ustica, il bambino finito nel pozzo a Vermicino. Non esisteva Facebook, per gli italiani parlava Renzo Arbore. Minoli intervistava Agnelli, Gianni Minà ospitava De André. Guardava avanti, quell’Italia, verso successi inimmaginabili: una stagione di trionfi per l’economia, gli anni rampanti di Bettino Craxi, il boom del made in Italy. Stupiva il mondo, la penisola dell’Iri, proprio quando l’Inghilterra sprofondava nell’austerity varata dalla Thatcher. C’era già allora chi pensava di sabotarlo, il Belpaese – i medesimi poteri che l’avevano riempito di bombe, seminando il terrore nelle piazze. E c’era chi, al contrario, sperava di correggerne lo sviluppo tumultuoso, bonificandone le scorie. C’era stato un evento epocale, che aveva costretto tutti a fermarsi e pensare. Era saltata in aria un’enorme centrale nucleare sovietica, in Ucraina. Messaggio esplicito: nessuno può sentirsi al riparo; non c’è frontiera che tenga, di fronte a un simile disastro. Retromessaggio: il mondo ormai è strettamente interconnesso. La nube tossica di Chernobyl aveva investito l’intera Europa, ma l’Italia fu l’unico paese ad avere il coraggio di mettere al bando l’energia atomica.Riletto oggi, l’ideologo ecologista Alex Langer potrebbe sembrare un visionario epigono di Gandhi. Nel loro positivismo scientifico fondato sulla fiducia nella ragione, i fisici Gianni Mattioli e Massimo Scalia, primissimi parlamentari verdi, erano altrettanto consapevoli di predicare nel deserto: sapevano che sarebbero stati ignorati e poi derisi, prima di essere ascoltati. Dalla loro avevano una convinzione speciale, oggi estinta: la forza dell’ideologia. Cioè la visione profonda, prospettica, di un mondo diverso. Un pensiero lungo: come sarebbe bello, se la nostra consapevolezza di oggi potesse produrre, domani, una vita migliore – più sicura, più felice, con più diritti. Volevano un paese trasformato, in un pianeta progressivamente ripulito. Erano certi che la missione avrebbe richiesto decenni di duro lavoro, anche oscuro, fatto di studio e di consultazione progressiva con cittadini e territori, italiani e non. Sognavano un mondo “glocal”, i primi Verdi, rifondato secondo il preciso schema operativo riassunto dal loro slogan: pensare globalmente e agire localmente. Non seminavano odio, ma futuro. Non chiedevano di votare “contro”, ma “per”: in palio, secondo loro, poteva esserci un domani diverso e inclusivo, migliore per tutti. Non ha nemici, l’ideologia – solo avversari temporanei, popolo da persuadere, alleati potenziali da conquistare alla causa.Non hanno mai sbancato la lotteria delle elezioni, i Verdi italiani – anzi, col tempo si sono degradati fino a scomparire nell’irrilevanza, tra infime diatribe di potere. Non altrettanto si può dire delle loro idee: grazie a quell’eresia, è stata messa in cassaforte una legislazione scrupolosamente attenta alla tutela dell’ambiente. Una rivoluzione copernicana, tradotta in politica, ha imposto (per legge) un cambio di paradigma, nei confronti dell’ecosistema, dai piani regolatori ai depuratori delle fabbriche e delle città. Poi la cultura “green” è diventata moda, veganesimo chic, persino malaffare (l’opaco business delle rinnovabili). In mano al marketing politico-affaristico, l’ecologismo maninstream s’è fatto dogma, conformismo da pensiero unico, politically correct. Ma intanto la natura è salita in cattedra nelle scuole, e lo splendore dei parchi ha piena cittadinanza, tuttora, in televisione. Potevano sembrare una setta di pazzoidi stravaganti, i discepoli di Langer, quando parlavano di prevenzione sanitaria e sovranità dei territori, qualità della vita e sicurezza alimentare: oggi l’Italia ha norme severissime, in materia, a tutela della genuinità delle filiere corte.E’ la filosofia del biologico, settore sempre più trainante, che ha spinto con successo milioni di giovani verso il ritorno all’agricoltura intelligente, pulita e selettiva. E persino nelle regioni terremotate dell’Italia centrale, ancora ingombre di macerie, è il consumatore della porta accanto a tenere in piedi l’economia del contadino, del piccolo artigiano. Cambiano le stagioni e tramontano i partiti, ma le idee camminano. Se hanno prodotto futuro, lo si vede alla distanza. Chi ne ha subito il fascino, in questi anni, ha condiviso un immaginario fondato su un’estetica, prima ancora che su un’etica: un mondo più verde è innanzitutto più bello. Oggi, i vincitori delle elezioni sono costretti a parlare soltanto di soldi: reddito garantito, meno tasse. Sono misure d’emergenza, richieste dalle circostanze. Siamo infatti tornati al “tempo di guerra”: non c’è più spazio per pensieri lunghi. Eppure, chi poi le guerre le vince per davvero – compresa l’ultima, mondiale – dalla sua parte non ha solo gli arsenali, ha anche e soprattutto un’idea chiara in testa, per il “dopo”. E’ quella, in fondo, che assicura la vittoria. Quella che oggi manca ancora, non a caso, rendendo proibitiva la percezione del futuro.E’ tutto più difficile, nel mondo digitale ultra-globalizzato? Eppure, in teoria, dovrebbe essere più facile far circolare idee, farle attecchire. A latitare è forse l’humus, il fertile terreno su cui coltivarle, dandosi tutto il tempo necessario. Sul piano culturale, l’ultima incarnazione dell’ecologismo nato negli anni ‘80 è stata la teoria economica della “decrescita felice”, sviluppata dall’italiano Maurizio Pallante con il francese Serge Latouche. La loro intuizione, mutuata da Bob Kennedy: alla crescita del Pil non corrisponde affatto quella del benessere. Non c’è stato bisogno di metterla alla prova: a stroncarla ha provveduto la “decrescita infelice” imposta dall’oligarchia europea. Una studiosa come Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta”, conferma che oggi, grazie alla deformazione strutturale del profitto finanziarizzato, la crescita del Pil non solo non migliora le condizioni del cittadino medio, ma addirittura le peggiora, accrescendo le diseguaglianze. Forse la soluzione non sta nel prodotto interno lordo, crescente o decrescente, ma risiede da tutt’altra parte: nel futuro, nel mondo delle idee.Il brutto film di oggi sembra fatto apposta per oscurarlo in ogni modo, l’avvenire: è un copione dell’orrore a corto raggio, che propone una normalità di sacrifici e sofferenze, terrorismo e guerra. Viviamo in un kolossal, scritto e diretto dal peggiore degli autori: la paura. Un labirinto cieco, che sembra senza uscita. Ma da ogni dedalo c’è sempre una qualche scappatoia – magari verticale, da indovinare alzando gli occhi al cielo. La forza dell’ideologia sta anche nell’universalismo delle idee: se qualcosa è buono qui, dev’esserlo anche altrove. Vale per tutti, ovunque: le idee non hanno nazionalità, ma possono salvare le nazioni. Globalizzare la democrazia, fermando il mostro onnivoro: roba da avanguardisti carbonari. Dicevano, i seguaci di Alex Langer: ma perché mai avvelenarci l’anima, in un paese favoloso (un Eden, per il turismo verde) che detiene la maggior parte dei beni culturali della Terra? Parole spese quarant’anni fa. Qualcuno oggi sa come saremo fra tre anni?(Giorgio Cattaneo, “Eresia verde, l’ultima ideologia vincente prima del neoliberismo”, dal blog del Movimento Roosevelt del 29 marzo 2018).Un mondo più pulito, e quindi più giusto. In una parola: più verde. Erano gli anni ‘80, e il nuovissimo radicalismo ecologista del “Sole che ride”, di matrice scandinava, poteva sembrare un lusso. Era una suggestione “da tempo di pace”, inoculata come un virus benefico in un sistema disordinato e molto inquinato eppure in costante crescita, fondato su un consumismo di massa sempre più condiviso, grazie al famoso ascensore sociale funzionante nella vituperata Prima Repubblica, la società consociativa governata da industriali e vescovi, partiti e sindacati. Superata la lunghissima stagione dell’estremismo, delle bombe e del brigatismo, restava la mafia in Sicilia a far strage di magistrati, mentre montava l’insofferenza per lo strapotere di una partitocrazia logora, corrotta e clientelare. Ma in quell’Italia, così provata dagli anni di ferro e di piombo che aveva appena attraversato, non c’era spazio per il dominio della paura. Non c’era neppure l’ombra dei fantasmi pre-moderni ora riapparsi: povertà e disoccupazione di massa, l’angoscia della vecchiaia senza pensione e di un futuro senza figli.
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Grillo, Togliatti, l’Europa. E la marea degli elettori (grillini)
C’è qualcosa di sinistro, in quello che sembra il suicidio programmato del Movimento 5 Stelle, dopo il boom elettorale del 2013 che aveva punito l’esanime Bersani e lo stra-rottamato Berlusconi, entrambi reduci dal catastrofico sostegno al governo Monti-Troika, con l’ultra-rigore dei tagli sanguinosi alla spesa, il massacro sociale, la legge Fornero, il pareggio di bilancio in Costituzione. «Noi non siamo contro l’euro», chiarì Gianroberto Casaleggio intervistato da Travaglio alla vigilia delle europee 2014, come se si potesse stare all’opposizione del sistema in Italia ma non in Europa. Non fidatevi dei 5 Stelle, ammonì ripetutamente Paolo Barnard, che ai neo-parlamentari pentastellati aveva invano offerto un Piano-B per l’Italia (recupero di sovranità finanziaria) attraverso il team internazionale di economisti democratici guidato da Warren Mosler. Nemmeno tre anni dopo, si scopre che Grillo – dopo aver verbalmente “divorziato” dall’euro – ha manovrato segretamente al Parlamento Europeo per imbucare i 5 Stelle tra i massimi sostenitori dell’euro-establishment, per il giubilo dello stesso Monti.State attenti a Luigi Di Maio, avvertì nei mesi scorsi l’avvocato e saggista Gianfranco Carpeoro, quando la stella di Renzi si stava chiaramente appannando: «Se cade il premier, il potere ha già scelto Di Maio come suo successore, con la benedizione degli Usa, delle cui sedi diplomatiche il leader grillino è assiduo frequentatore». Da 5 Stelle a “stelle e strisce”, «attraverso i rapporti che legano Grillo a un personaggio come Michael Ledeen, che proviene da settori della massoneria reazionaria collegata all’intelligence». A Roma, prima di sprofondare negli imbarazzi dell’immobile giunta Raggi, i 5 Stelle avevano rifiutato – dopo averla pubblicamente apprezzata – la proposta “rivoluzionaria” avanzata dall’economista Nino Galloni: fare della capitale un avamposto dimostrativo e strategico per la rinascita della sovranità italiana, devastata dall’élite globalista pro-euro con la complicità della vera super-casta, quella non colpita da Tangentopoli.La candidatura di Galloni, propugnata dal massone progressista Gioele Magaldi, avrebbe rappresentato una sfida aperta ai registi della storica de-industrializzazione del paese, ormai sottomesso alla Germania, a sua volta ridotta a spietato guardiano di un’Europa programmaticamente in declino, da “smontare” dall’interno, scoraggiandone l’indipendenza e la proiezione economica verso la Russia. Se Alexis Tsipras è stato demolito da Bruxelles e “Podemos” non fa più paura a nessuno, a inquietare i dominus Ue del dopo-Brexit è soprattutto Marine Le Pen. In ogni modo – anche con le recenti missioni diplomatiche dello stesso Di Maio – i 5 Stelle hanno rimarcato la loro distanza sostanziale da qualsiasi prospettiva “eversiva”, rispetto all’ordoliberismo euro-teutonico fondato sulla mortificazione della spesa strategica, quindi sui tagli che producono solo crisi e disoccupazione. Dai 5 Stelle, nessuna vera ricetta alternativa: solo la proposta di irrobustire gli ammortizzatori sociali con il “reddito di cittadinanza”, da finanziare solo con tagli “intelligenti” alla spesa, senza cioè intaccare sistema, basato sul principio – aberrante – del rigore “istituzionale” imposto dall’Ue.Nel movimento-fenomeno creato in modo spettacolare da Grillo e gestito per via telematica, con consultazioni on-line ma senza congressi né contronti tra linee apertamente divergenti, le illusioni dell’“uno vale uno” hanno rivelato, in controluce, tutt’altra realtà: a suon di esplusioni e “scomuniche”, è emersa una versione 2.0 del “centralismo democratico” togliattiano, un nuovo unanimismo con in più una vocazione – leninista – a non rivelare mai, apertamente, il vero obiettivo strategico: la logica sembra quella dei continui sacrifici democratici, la perenne autocensura richiesta alla base, in nome del bene supremo e quasi fideistico, il Sol dell’Avvenire. Finora, come riconosce anche il mainstream, il “format” 5 Stelle ha funzionato benissimo, se non altro come formidabile “gatekeeper” per drenare e canalizzare il dissenso, contenendolo nei binari della prassi democratica. Ma a che prezzo? E a vantaggio di chi?Se la lucidità del “popolo grillino” deve anche fatalmente fare i conti con la passione fisiologica che travolge ogni genuina tifoseria, laddove si pretende che le proprie pecche siano sempre deformate, ingigantite e strumentalizzate dal perfido nemico, diabolico per definizione, i soliti implacabili sondaggi (ovviamente gestiti dallo stesso mainstream) si divertono a rilevare un calo dei consensi, a partire dall’agonia romana per arrivare all’harakiri di Strasburgo. L’inizio della fine? Di fatto, quasi un elettore italiano su tre ha manifestato – votando 5 Stelle – la propria volontà di radere al suolo un sistema letteralmente marcio, chiedendo essenzialmente aria pulita. Il calo della “pazienza” di molti elettori può segnalare il tramonto di una leadership solo in apparenza democratica, ma in realtà piuttosto “sovietica”? E il disastro del Parlamento Europeo – con gli stessi liberali ultra-euro che, in extremis, sconfessano il patto segreto con Grillo – costringerà il “popolo” pentastellato a domandarsi, finalmente, che Europa vuole e come intende arrivarci, per mettere in sicurezza l’Italia, cestinando i comodi slogan tattici dei vari Di Battista contro le piccole caste e il piccolo malaffare delle banche?C’è qualcosa di sinistro, in quella che sembra l’anteprima del possibile suicidio programmato del Movimento 5 Stelle, dopo il boom elettorale del 2013 che aveva punito l’esanime Bersani e lo stra-rottamato Berlusconi, entrambi reduci dal catastrofico sostegno al governo Monti-Troika, con l’ultra-rigore dei tagli sanguinosi alla spesa, il massacro sociale, la legge Fornero, il pareggio di bilancio in Costituzione. «Noi non siamo contro l’euro», chiarì Gianroberto Casaleggio intervistato da Travaglio alla vigilia delle europee 2014, come se si potesse stare all’opposizione del sistema in Italia ma non in Europa. Non fidatevi dei 5 Stelle, ammonì ripetutamente Paolo Barnard, che ai neo-parlamentari pentastellati aveva invano offerto un Piano-B per l’Italia (recupero di sovranità finanziaria) attraverso il team internazionale di economisti democratici guidato da Warren Mosler. Nemmeno tre anni dopo, si scopre che Grillo – dopo aver verbalmente “divorziato” dall’euro – ha manovrato segretamente al Parlamento Europeo per imbucare i 5 Stelle tra i massimi sostenitori dell’euro-establishment, per il giubilo dello stesso Monti.
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Carpeoro: Renzi è finito. E’ solo, nessuno si fida più di lui
Napolitano è stato il garante di Renzi nei confronti del sistema economico-finanziario europeo e degli altri capi di Stato: nessuna sorpresa, quindi, che oggi si schieri con Renzi. Ma il problema è che il referendum è solo lo strumento per far fuori Renzi. E un sostituto di Renzi già pronto in realtà non c’è, neanche il leader grillino Di Maio. Quindi passerebbe un altro annetto: prima di eliminarlo vogliono che Renzi rantoli, per un bel po’ di tempo. E Napolitano, che è stato il suo garante nazionale e internazionale, non ci sta. Ma questo cosa cambia? Il voto del 4 dicembre non cambia niente, gli italiani sono destinati a subire le stesse cose che subivano prima del referendum. Le cose cambieranno solo per Renzi. Perché anche il potere, nel senso più deteriore del termine, richiede una rete di complicità. E Renzi ha commesso un errore: al di là del sostegno che gli ha dato Napolitano, in questo momento è politicamente solo. Non ha più nessuna complicità: i possibili complici li ha “solàti” tutti. Berlusconi, Letta, D’Alema, Bersani: non ha mantenuto nessuno degli impegni che, con loro, aveva preso verbalmente. E quindi adesso è drammaticamente solo, sta precipitando in un dirupo e non trova nessun appiglio per fermare la caduta.Anche la gestione più deteriore possibile del potere richiede una rete di connivenze e di complicità, e Renzi queste connivenze e complicità non le trova più da nessuna parte: non è stato neanche creduto sul fatto di cambiare la legge elettorale. La gente, ormai, prima di credere a un impegno fatto verbalmente da Renzi gli dice “vabbè, fatti un’ipoteca sulla casa, firma una cambiale, e vediamo se lo mantieni”. Perché nessuno si fida più di Renzi. Avendo “solàto” tutti i possibili complici, in questo momento è assolutamente solo. Ora, nel leader di potere, questo tipo di solitudine crea un cambiamento nell’assetto psicologico: nella disgrazia, ti senti perdente perché la gente non si fa più trovare al telefono. Oggi lo spettro della sua (probabile) sconfitta non riesce più a inquadrarlo, anche perché ha motivo di temere la stessa vittoria: anche se vince, continua a non avere più la possibilità di avere delle complicità. Potrà giocarsela alle elezioni, tra un anno, ma ci deve arrivare: e sarà dura. Sta toccando con mano che probabilmente si è messo in un cul de sac dal quale non troverà vie d’uscita, perché la fiducia dei suoi possibili complici non la ritroverà più. Non ha più energia, né forza. E la gente l’ha percepito, l’isolamento di Renzi. Ormai lo vede con occhi diversi: le stesse cose che fa non hanno più lo stesso peso. E una persona totalmente isolata, dove va?Renzi, di suo, non ha nessuna voglia di entrare nella massoneria. Voleva entrare nel circolo internazionale delle Ur-Lodges, che è cosa diversa – voleva entrare soprattutto nel circuito di quelle conservatrici, perché in quelle progressiste non si è neanche peritato di provare a entrare. Siccome il circolo delle Ur-Lodges gli ha detto “no, prima devi diventare massone, poi vediamo la tua posizione”, lui allora ha cercato di entrare nella massoneria italiana. Ma è stata una scusa, da parte delle Ur-Lodges, perché tante volte hanno ammesso gente che non era nella massoneria, non erano iniziati massoni, e altre volte hanno fatto iniziazioni massoniche fittizie in logge di comodo per far entrare qualcuno. Quindi Renzi ha bussato anche alle porte della massoneria italiana tradizionale solo perché gli era stata data quella risposta. Il problema è che anche la massoneria italiana tradizionale, pur nello stato in cui è messa adesso, gli ha risposto picche. Perché Renzi non aveva garanti: non aveva nessuno che garantisse per lui. Persino Napolitano, che ha accettato di fargli da garante politico, si è rifiutato di fargli da garante massonico, o para-massonico. E questo perché? Perché si era già alterata la fiducia personale, in Renzi.Il garante, in massoneria si chiama “fratello presentatore”: qualcuno ti deve presentare, per entrare in massoneria. Devi averlo, un “fratello presentatore”, che è responsabile di te. Se presenti una persona sbagliata è un errore grave, che pregiudica anche la valutazione del “fratello presentatore”: nel senso che, un domani, se questo “fratello presentatore” deve concorrere per fare il “venerabile” di una loggia, il parere di quelli che servono perché lui faccia il “venerabile” può essere negativo: se non hai saputo giudicare uno, puoi non saper giudicare una loggia intera. Oggi, peraltro, nel 90% dei casi si entra in qualcosa che non coincide più con la dottrina, con le tradizioni e con lo schema originario della massoneria, che era vocato all’evoluzione spirituale. Oggi la massoneria diventa quello che conviene al potere del posto, nella migliore delle ipotesi diventa una specie di Rotary o Lions, oppure diventa funzionale a schemi di malaffare, o a esigenze politiche – tutto diventa, meno che la cosa originaria.Renzi è uno che non mantiene gli impegni: e questo, pure tra i delinquenti, è un difetto grave. Renzi è uno che non mantiene la parola; si è diffusa, questa cosa. L’aura di entusiastico consenso popolare che lo ha circondato all’inizio, nei settori non popolari era già incrinata, per le modalità con cui ha preso il posto di Letta e le modalità con cui ha praticamente raggirato Berlusconi e lo stesso D’Alema, che all’inizio lo aveva appoggiato perché gli aveva promesso un posto da commissario europeo che poi non gli ha dato. Anche tra persone equivoche funziona così: se lo fai una volta ti possono perdonare, ma se lo fai sempre la gente ragiona e pensa “lo farà anche con me”. Quindi in questa maniera Renzi si è isolato, tutti i suoi problemi dipendono dall’isolamento totale che ha attorno: nessuno si fida più di lui, né quelli che non sono come lui (che sono tanti e, purtroppo, passivi), né quelli che sono come lui.(Gianfranco Carpeoro, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella diretta streaming del 27 novembre 2016, su YouTube).Napolitano è stato il garante di Renzi nei confronti del sistema economico-finanziario europeo e degli altri capi di Stato: nessuna sorpresa, quindi, che oggi si schieri con Renzi. Ma il problema è che il referendum è solo lo strumento per far fuori Renzi. E un sostituto di Renzi già pronto in realtà non c’è, neanche il leader grillino Di Maio. Quindi passerebbe un altro annetto: prima di eliminarlo vogliono che Renzi rantoli, per un bel po’ di tempo. E Napolitano, che è stato il suo garante nazionale e internazionale, non ci sta. Ma questo cosa cambia? Il voto del 4 dicembre non cambia niente, gli italiani sono destinati a subire le stesse cose che subivano prima del referendum. Le cose cambieranno solo per Renzi. Perché anche il potere, nel senso più deteriore del termine, richiede una rete di complicità. E Renzi ha commesso un errore: al di là del sostegno che gli ha dato Napolitano, in questo momento è politicamente solo. Non ha più nessuna complicità: i possibili complici li ha “solàti” tutti. Berlusconi, Letta, D’Alema, Bersani: non ha mantenuto nessuno degli impegni che, con loro, aveva preso verbalmente. E quindi adesso è drammaticamente solo, sta precipitando in un dirupo e non trova nessun appiglio per fermare la caduta.
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Strana morte del Papa ‘antifascista’. Il suo medico? Petacci
Tutti si ricorderanno di Papa Giovanni Paolo I, al secolo Albino Luciani, «che occupa il soglio pontificio per soli 33 giorni (magari il numero vi dice qualcosa…) prima di morire improvvisamente, il 29 settembre 1978, secondo la versione ufficiale, per un infarto miocardico». La verità è probabilmente ben diversa, scrive Marcus Mason sul blog “Lo Sciacallo”: il nuovo Papa aveva in testa di realizzare una sorta di “grande repulisti” all’interno del voluminoso apparato burocratico ecclesiastico, eliminando «corruzione e malaffare all’interno delle Mura Leonine». Nel mirino, «alcuni esponenti di rilievo della finanza vaticana». Probabile quindi che «si sia deciso di uscire dall’imbarazzo risolvendo il problema alla base: mettendo Luciani in condizioni di non nuocere». Ma attenzione: quarant’anni prima, c’era stato un altro pontefice «la cui dipartita dà ancora adito a più di un dubbio: si tratta di Achille Ratti, salito al soglio col nome di Pio XI». La sua “colpa”? Non piaceva a Mussolini e men che meno a Hitler: il pontefice si stava preparando a una dichiarazione clamorosa contro l’adozione delle leggi razziali che sancirono il genocidio degli ebrei anche in Italia.Ratti nasce a Desio, nel milanese, il 31 maggio 1857, ricorda lo “Sciacallo”. Si dedica alla carriera religiosa a partire dal 1867, quando inizia a frequentare il seminario di Seveso e successivamente quello di Monza, fino ad entrare nell’ordine terziario francescano nel ‘74. Viene ordinato sacerdote a Roma nel dicembre ‘79 dal cardinale La Valletta. Si occupa di istruzione, prima come prefetto della Biblioteca Ambrosiana di Milano e in seguito come insegnante, fino al suo ingresso nell’élite ecclesiastica negli anni ‘90 del XIX secolo. Arriva ad ottenere, sotto Benedetto XV, il prestigioso incarico di prefetto della Biblioteca Vaticana. Dopo una serie di incarichi diplomatici all’estero (anche “visitatore apostolico” in Polonia), viene nominato nel 1921 arcivescovo di Milano, dove fonda l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Alla morte di Benedetto XV, è eletto nuovo pontefice. Una volta in carica, Ratti si adopera per dirimere la cosiddetta “questione romana”, cioè l’ostilità tra Italia e Vaticano, ancora irrisolta dai tempi di Porta Pia. Il Papa «si mostra in più di un’occasione in contrasto con i provvedimenti del regime fascista», ma poi cambia posizione nel 1929, anno in cui, l’11 febbraio, Stato italiano e Chiesa Cattolica firmano i celeberrimi Patti Lateranensi, «in cui a quest’ultima vengono concessi privilegi economici e gestionali spropositati».Da lì in poi, continua Mason, la Chiesa si mostra quasi totalmente in linea con la politica mussoliniana, «non proferendo parole sulle atrocità italiane nelle colonie nordafricane, né sull’azzeramento delle libertà di pensiero e di stampa in patria». Poi però le cose si complicano in seguito all’alleanza organica col nazismo: «L’atteggiamento ambiguo di Ratti non può proseguire a partire dal 1938 quando l’Italia, su imbeccata di Hitler, promulga le aberranti leggi razziali», scrive Mason. «Pio XI, che mai ha avuto in simpatia il dittatore nazista (nel maggio 1938, quando Hitler era venuto in visita in Italia, non aveva voluto incontrarlo), individua nella cerimonia per il decennale dei Patti Lateranensi, che si sarebbe tenuta l’11 febbraio 1939, il momento giusto per pronunciare un forte discorso». Secondo Bianca Penco, una dirigente dell’epoca della Fuci, la Federazione Universitaria Cattolica Italiana, il pontefice «avrebbe condannato apertamente la deriva politica che Mussolini aveva intrapreso, evidenziando una violazione palese degli stessi Patti che l’Italia si era impegnata ad onorare, oltre alla denuncia delle persecuzioni antisemite e anticristiane ormai dilaganti in Germania».E’ superfluo rimarcare quale enorme danno d’immagine tutto ciò avrebbe rappresentato per il Duce e per lo stesso Hitler, sottolinea Mason. Ma, del resto, Pio XI non avrebbe mai pronunciato quel discorso: nella notte del 10 febbraio, secondo la versione ufficiale, viene colpito da un attacco cardiaco e muore. «Casualmente», frattanto, il cardinale segretario di Stato, Eugenio Pacelli (il futuro Papa, Pio XII) «fa distruggere le copie esistenti del discorso in questione». I conti tornano, sostiene Mason, anche perché l’operato di Pacelli come pontefice durante la Seconda Guerra Mondiale è sotto accusa da settant’anni, «tacciato di viltà, ignavia e connivenza nei confronti delle atrocità che venivano compiute». Va da sé che, «alla luce di questi fatti, la morte fulminea di Pio XI si circonda di un’aura di mistero». E dunque: «Se davvero è stato ucciso, chi può aver commesso il delitto?». In un suo memoriale, nel 1972 il cardinale Eugène Tisserant scrive, a proposito di Ratti: «Lo hanno eliminato, lo hanno assassinato». E individua il presunto colpevole nel medico personale del Papa, Saverio Petacci, nientemeno che il padre di Claretta, l’appassionata amante del Duce che poi morirà fucilata insieme a lui nel ‘45. «Un’incredibile coincidenza, naturalmente».Ma c’è di più: la donna, continua Mason, era solita annotare su un diario la cronaca delle sue giornate più importanti. Ma la pagina inerente al 5 febbraio 1939 è incompleta. Termina con la frase: «Legge i biglietti e si inquieta per una cosa che segna… Poi dice: questi sanno…».Silenzio fino al 12 febbraio, quando il diario prosegue senza però fare il minimo accenno ai fatti in questione. C’è solo una frase del Duce, che annuncia a Claretta che si recherà alle esequie di Ratti in compagnia della moglie. «Ci pare lapalissiano che alcune pagine scottanti del diario della Petacci siano state fatte scientemente sparire», scrive Mason. Pagine in cui, «forse si trovava la prova del fatto che quella di Pio XI fu una morte su commissione». Certezze? Nessuna. Dubbì, però, sì. E tanti. «Chissà, forse un giorno scopriremo questo grande cimitero dei libri dove sono conservate le risposte ai grandi misteri della storia; e tra le “Guerre di Yahweh” e la versione integrale della “Steganographia” di Tritemio, magari troveremo le pagine del diario di una giovane donna italiana».Tutti si ricorderanno di Papa Giovanni Paolo I, al secolo Albino Luciani, «che occupa il soglio pontificio per soli 33 giorni (magari il numero vi dice qualcosa…) prima di morire improvvisamente, il 29 settembre 1978, secondo la versione ufficiale, per un infarto miocardico». La verità è probabilmente ben diversa, scrive Marcus Mason sul blog “Lo Sciacallo”: il nuovo Papa aveva in testa di realizzare una sorta di “grande repulisti” all’interno del voluminoso apparato burocratico ecclesiastico, eliminando «corruzione e malaffare all’interno delle Mura Leonine». Nel mirino, «alcuni esponenti di rilievo della finanza vaticana». Probabile quindi che «si sia deciso di uscire dall’imbarazzo risolvendo il problema alla base: mettendo Luciani in condizioni di non nuocere». Ma attenzione: quarant’anni prima, c’era stato un altro pontefice «la cui dipartita dà ancora adito a più di un dubbio: si tratta di Achille Ratti, salito al soglio col nome di Pio XI». La sua “colpa”? Non piaceva a Mussolini e men che meno a Hitler: il pontefice si stava preparando a una dichiarazione clamorosa contro l’adozione delle leggi razziali che sancirono il genocidio degli ebrei anche in Italia.
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Erri De Luca: il referendum, per non restare sudditi a vita
Il malaffare Guidi non è un episodio isolato, ma la prassi: interessi privati in pubblico servizio, con l’aggravante del danno alla salute e all’economia di una comunità. Il personale politico al potere è regolarmente corrotto e se ne infischia delle conseguenze. Le dimissioni preparano a nuovi incarichi e non all’esilio. Il 17 aprile si va a riscattare la nostra cittadinanza contro la riduzione a sudditi del satrapo di turno. Si va a riempire le urne di Sì per affermare la nostra sovranità sul mare, sui fondali, sulle coste e sull’economia della bellezza, nostra irripetibile fonte di reddito e di credito. Per il giurista Stefano Rodotà, con l’attacco frontale ai referendum Renzi prosegue sulla strada della passivizzazione dei cittadini. Al governo serve un’astensione totale dei cittadini, una rinuncia a partecipare e interessarsi, complice una informazione che procede a reti unificate con la censura del referendum. Istigano alla diserzione dalle urne. Al governo serve l’anestesia delle coscienze per proseguire con la svendita e lo stupro del territorio, come fosse cosa sua privata.Siamo alla democrazia drogata da anestetico. Perciò il 17 aprile lo chiamerei giorno di caffeina civile, giorno di adrenalina e di pronto soccorso al nostro suolo. Non è un voto contro il governo, è il voto di chi vuole bene al suo paese. Questo governo, anch’esso non uscito da urne, gode di una congiuntura favorevole: ha maggioranze parlamentari variabili dovute al fine corsa di Forza Italia che vuole sfruttare tutta la durata della legislatura. Da questa posizione irripetibile di vantaggio il governo spadroneggia. Il guasto del nostro paese è la corruzione. Questa è la tirannia penetrata nelle fibre della società, che produce inerzia. Attribuisco al 17 aprile un’ importanza superiore al quesito del referendum: assume il senso di un risveglio di cittadinanza oppure, l’alternativa, la sottomissione all’emiro nostrano. Chi sta con le trivelle in mare vede l’Italia come un suo emirato.Per il comitato del No, con il blocco futuro delle concessioni l’Italia avrebbe bisogno di sopperire al gas e al petrolio “perso” rifornendosi altrove, il che si tradurrebbe nell’arrivo di un maggior numero di petroliere che aumenterebbero i rischi di inquinamento da idrocarburi nei nostri mari. Inoltre le trivellazioni porterebbero ad un risparmio di quasi 5 miliardi l’anno sulla bolletta energetica. Come replico? Sono balle desolate. Le concessioni, come dice la parola, concedono ai petrolieri di vendere l’estratto a chi vogliono loro. Quel gas, quel petrolio non è nostro, per concessione è loro. Da noi intanto con tenacia cresce l’energia rinnovabile che investe sulla dipendenza dal sole e dal vento, per liberarsi dalla dipendenza dei trivellatori, degli sfruttatori e dei loro concessionari politici. Il settore chimico della Cgil si è schierato per il No al referendum per il rischio della perdita dei posti di lavoro? Non è così. Quei posti di lavoro sono altamente specializzati e trovano collocazione ovunque. È puro corporativismo analfabeta, da parte di un sindacato, pronunciarsi contro questo referendum voluto da sette Regioni e per legittima difesa.(Erri De Luca, dichiarazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “Referendum, caffeina civile contro l’anestesia delle coscienze”, pubblicata da “Micromega” il 4 aprile 2016).Il malaffare Guidi non è un episodio isolato, ma la prassi: interessi privati in pubblico servizio, con l’aggravante del danno alla salute e all’economia di una comunità. Il personale politico al potere è regolarmente corrotto e se ne infischia delle conseguenze. Le dimissioni preparano a nuovi incarichi e non all’esilio. Il 17 aprile si va a riscattare la nostra cittadinanza contro la riduzione a sudditi del satrapo di turno. Si va a riempire le urne di Sì per affermare la nostra sovranità sul mare, sui fondali, sulle coste e sull’economia della bellezza, nostra irripetibile fonte di reddito e di credito. Per il giurista Stefano Rodotà, con l’attacco frontale ai referendum Renzi prosegue sulla strada della passivizzazione dei cittadini. Al governo serve un’astensione totale dei cittadini, una rinuncia a partecipare e interessarsi, complice una informazione che procede a reti unificate con la censura del referendum. Istigano alla diserzione dalle urne. Al governo serve l’anestesia delle coscienze per proseguire con la svendita e lo stupro del territorio, come fosse cosa sua privata.