Archivio del Tag ‘malattia’
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Dibbuk, l’altro nome del Covid: è il demone della paura
L’interpretazione cabalistica del nome Covid, che non è stato scelto a caso, è stata proposta da uno studioso rumeno-tedesco, Bogdan Herzog, che normalmente si occupa di geopolitica. Ora ha dimostrato di avere conoscenze particolari anche in ambito esoterico. La parola Covid, letta al contrario, diventa Divoc. Come noto, in ebraico sono importanti soprattutto le consonanti. Nell’ebraico non esiste la lettera V, e quindi la V di Covid si può rendere con la lettera Beth, che ha doppia valenza fonetica (V e B). Divoc, quindi, diventa Diboc (o Dibuc). Il Dibbuk, nella tradizione esoterico-cabalistica, è un’entità di quelle che, solitamente, si ritiene causino il fenomeno della possessione: potrebbe essere definito un demone, o anche un’entità disincarnata (una sorta di fantasma). Quindi “un’entità che possiede”: qualcosa che appartiene al dominio “sottile”, iper-fisico. Il fatto che dietro questa sindrome, con cui si è terrorizzato il mondo, vi sia qualcosa che appartiene a quest’ambito (e appunto, alla “possessione”) suggerisce la natura “diabolica” di questo disegno.Sapete, il diavolo spesso ci tiene a lasciare la sua firma. Questa interpretazione è stata ripresa anche da Maurizio Blondet. Secondo, me Bogdan Herzog ha colto un aspetto interessante. Nella sua analisi cita anche la famosa pecora Dolly: al contrario si legge Yllod (e anche Ylud ha un significato, in ebraico). Quindi, Herzog ha utilizzato una sorta di “decodifica” di certi nomi che sono stati usati, e che da un punto di vista cabalistico denotano un significato trans-umanista. In questo caso, si tratta di una lettura veramente esoterica di ciò che c’è dietro la facciata medico-scientifca (comunque fraudolenta, come sappiamo): indica la presenza di qualcosa di abbastanza oscuro. Questa interpretazione la trovo molto interessante. E comunque è un dato di fatto: leggendo Covid al contrario, la parola ebraica che viene fuori è esattamente quella, Dibbuk. E non credo sia una coincidenza: non credo che sia stato scelto a caso, questo nome. “COrona VIrus Disease” va bene, ma potevano sceglierle diversamente, le inziali: potevano essere disposte in modo diverso.Oltretutto, quello del Covid è un “eggregore nero” creato sostanzialmente dalla paura, suscitato e alimentato da una sistematica opera di terrorismo. Ma che ci sia qualcosa di effettivamente occulto, mantenuto in vita ritualmente, basta vederlo attraverso tutti i riti che sono associati a questa “pandemia”. Un esempio? Il saluto col gomito. Il saluto rituale – nei partiti politici, nelle religioni – viene sempre associato a un’operazione di “ricarica dell’eggregore”. Secondo gli studiosi che hanno decodificato gli strumenti occulti nel nazismo, il saluto romano in voga nella Germania hitleriana era un meccanismo con cui milioni di tedeschi “ricaricavano” il loro eggregore nero. Lo dice espressamente anche l’esoterista Franz Bardon in una delle sue opere, “Introduzione all’ermetica”. Sono piccoli rituali, non dichiarati, con cui le persone – inconsapevolmente – alimentano un eggregore. E quando un eggregore è collegato ai suoi membri in maniera non consapevole, è un eggregore necessariamente “vampirico”.Altro dato interessante: in questi giorni, primo anniversario del Covid, Boris Johnson ha fatto fare una sorta di rito laico a tutti gli inglesi. O meglio: a quelli che si sono voluti prestare a questo inquietante rito nero, per commemorare le vittime. Consisteva in questo: mettersi dietro la porta di casa, a un’ora precisa e tutti insieme, con una candela accesa. Ne ha parlato anche il Tg1. Attenzione: questo è un rituale, a tutti gli effetti: tutte quelle persone, insieme (e per giunta con una candela, cioè un elemento vivo) significano il compiersi di un’operazione eggregorica. Quindi, a mio parere, in tutta la vicenda Covid (presentata come emergenza sanitaria) ci sono aspetti che vanno molto al di là della stessa dimensione politica. C’è veramente un eggregore nero, che viene alimentato.Ricordate la pantomina oscena della cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Londra del 2012? Tra i figuranti della coreografia c’era un tizio che era praticamente il sosia di Boris Johnson. E c’era una specie di mago nero che, con una bacchetta, orchestrava i movimenti di centinaia di bambini spaventati, nei loro letti d’ospedale. Quello è il Dibbuk: è quell’entità nera che “possiede”, e infatti ha creato una possessione collettiva, ipnotizzando chiunque abbia creduto a tutta questa storia. Vogliamo parlare di un altro simbolo importante, come la mascherina? Evoca la malattia e ti rende un malato, un depresso: è il messaggio che tu stesso dai, al tuo inconscio.In più, dal punto di vista esoterico, la maschera ha un significato ben preciso. Prendete il film “Eyes Wide Shut”: certi rituali richiedono l’uso di maschere. Ora, portare la maschera ha un valore che può essere letto in due modi. Uno è positivo: nascondere (o mettere tra parentesi) la propria personalità, può voler dire annullare la propria personalità “profana” per elevarsi al di sopra di essa. Ma l’uomo comune – se costretto a indossare una maschera – non incarna affatto il proprio sé superiore: sta semplicemente annullando la sua individualità. Quindi lo si schiaccia verso il basso, nell’anonimato. Quello che hanno fatto, quindi, ha significati molto precisi: di annullamento della coscienza delle persone. Siamo davvero di fronte a un’operazione “nera”, di attacco all’umanità.(Matt Martitini, dichiarazioni rilasciate nella puntata 16 della trasmissione web-streaming “L’orizzonte degli eventi”, condotta il 25 marzo 2021 sul canale YouTube di “Border Nights” con Tom Bosco e Nicola Bizzi. Martini è co-autore del saggio “Operazione Corona, colpo di Stato globale”, edito da Aurora Boreale).https://www.youtube.com/watch?v=c78F3mjxkC4L’interpretazione cabalistica del nome Covid, che non è stato scelto a caso, è stata proposta da uno studioso rumeno-tedesco, Bogdan Herzog, che normalmente si occupa di geopolitica. Ora ha dimostrato di avere conoscenze particolari anche in ambito esoterico. La parola Covid, letta al contrario, diventa Divoc. Come noto, in ebraico sono importanti soprattutto le consonanti. Nell’ebraico non esiste la lettera V, e quindi la V di Covid si può rendere con la lettera Beth, che ha doppia valenza fonetica (V e B). Divoc, quindi, diventa Diboc (o Dibuc). Il Dibbuk, nella tradizione esoterico-cabalistica, è un’entità di quelle che, solitamente, si ritiene causino il fenomeno della possessione: potrebbe essere definito un demone, o anche un’entità disincarnata (una sorta di fantasma). Quindi “un’entità che possiede”: qualcosa che appartiene al dominio “sottile”, iper-fisico. Il fatto che dietro questa sindrome, con cui si è terrorizzato il mondo, vi sia qualcosa che appartiene a quest’ambito (e appunto, alla “possessione”) suggerisce la natura “diabolica” di questo disegno.
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Soluzione finale: le agenzie di morte che ci condannano
L’Italia mediterranea e cattolica è una fettina di terra e di civiltà minacciata dal fanatismo neo-islamico che viene dal sud e dal nichilismo libertario che viene dal nord. Entrambi nel loro estremo gradino tendono a uno stesso fine, anzi a una stessa fine, la soluzione finale. La morte nel nome di Dio e della sua Legge o nel nome della nostra assoluta libertà e totale autodeterminazione. A volte le due insidie non provengono da direzioni opposte, cioè dai flussi migratori che premono sulle nostre coste meridionali e dai modelli culturali che discendono dai paesi di provenienza protestante e calvinista. Ma provengono ambedue dall’Europa del nord, dai giovani neo-islamici di seconda o di terza generazione, nati e cresciuti in Francia, nei Paesi Bassi, in Inghilterra e in Germania. E dai ragazzi che vivono nelle società più avanzate del nord Europa, sul piano dei diritti umani: vale a dire l’Olanda, il Belgio, i paesi scandinavi, la stessa Svizzera. Quel che colpisce in entrambi i casi è la persuasione di morte che accompagna le loro esperienze più estreme, più radicali.Gli uni uccidono per purificare il mondo e onorare il loro Dio, tener fede alla loro religione e punire gli infedeli e alla fine si dispongono a morire nel nome di Allah. E gli altri prevedono che una vera libertà, un vero diritto alla piena sovranità della propria vita, preveda che in caso di depressione, di rifiuto di vivere, di sofferenza si possa esser liberi di togliersi la vita. Insomma l’atto supremo della fede degli uni e della libertà degli altri è lo stesso: la soluzione finale. Libertà per la morte. L’abissale differenza, va detto, è che i primi coinvolgono gli altri, anzi danno la morte agli altri e in secondo tempo a se stessi, mentre i secondi danno la morte a se stessi e la garantiscono agli altri che lo decidano in autonomia. Lo spirito di morte e di distruzione è il segno che lasciano sulla terra la devozione cieca ad Allah e la volontà soggettiva degli uomini autonomi. La parabola che conduce a quest’ultima decisione/recisione suprema nasce dal primato della coscienza individuale che fu il grido di rivolta del luteranesimo e poi del calvinismo rispetto alla fides cattolica e alla religio precristiana. Quando lungo la strada perdi la fede in Dio, il senso morale del dovere di vivere, ti resta il libero arbitrio, la solitudine assoluta al cospetto del destino, e dunque il diritto alla vita e alla morte.Non si tratta più, come ben capite, di eutanasia, o di evitare l’accanimento terapeutico tenendo in vita artificialmente vite umane ridotte ormai dalla malattia allo stato semi-vegetativo. Ma si tratta di suicidi assistiti, anche se la parola suicidio va subito rimossa per non turbare i sonni dell’ipocrisia libertaria; e come l’aborto diventò un’interruzione di gravidanza, quasi per una specie di black-out della corrente elettrica, così il suicidio assistito viene ingentilito e incipriato dal più tenue lasciar andare e dalla finzione di dire che è la ragazza a spegnersi lentamente non bevendo e non mangiando. Ma la società civile, lo Stato, la sanità che glielo consente e l’agevola nel nome della predetta libertà assoluta, viene totalmente rimossa dagli orizzonti. Anzi, arcigno, autoritario, dispotico è chiunque si frapponga alla decisione di farla finita e cerchi di impedirla in tutti i modi.Non entro nel merito della vicenda Noa che ha scosso l’Europa e nemmeno nella casistica importante delle centinaia di persone, ragazzi minorenni inclusi, che prendono quella strada e molti media plaudono a questo nuovo ius aeuropeum, lo vedono un segno di modernità, di rispetto, di “più Europa”. E non entro nemmeno nel merito della campagna sentimentale-filosofica che l’accompagna, vale a dire che amare significhi “lasciar andare”, mentre la natura, la cultura, l’anima della nostra civiltà ci hanno sempre suggerito l’inverso, che amare vuol dire prendersi cura, vuol dire a chi ami – come diceva il filosofo Cristiano Gabriel Marcel – “tu non morirai”. Ma mi soffermo sul disagio di vivere in una società in cui viene reputato un segno estremo di libertà ciò che permette auto-distruzione: la droga, l’aborto, il suicidio assistito, il rigetto della natalità, la libertà di andarsene se si è depressi… Vedo in tutto questo il venir meno del senso religioso della vita, in base al quale nessuno è assoluto padrone della sua vita; non fummo noi a darci la vita, non saremo noi a darci la morte, si risponde sempre a qualcuno, comunità è condividere un destino, ogni vita è collegata alle altre e al mondo.Il senso religioso della vita dice che vivere è un diritto ma è anche un dovere, un compito. E non solo: si esce dalla disperazione e dalla depressione più acuta solo se si ha il coraggio di proiettarsi fuori da sé: di sporgersi nel mondo, nella vita, assumersi compiti, vivere anche per qualcuno, per qualcosa; amare qualcun altro fuor di noi stessi, fare un figlio e prendersi cura di lui, formare una famiglia, o tornare alla famiglia da cui si è originati; lavorare, impegnarsi in un’attività e in un’impresa, ritrovarsi in una fede… Insomma proiettarsi oltre se stessi, oltre la propria vita. Facile a dirsi, avete ragione di obiettare; ma è assurdo che una società, una famiglia, una scuola, non debbano avere questo compito primario nei confronti dei ragazzi, ancora acerbi, che decidono di togliersi la vita. Bisogna educare e se è il caso frenare, fermare. Non si può permettere a un minorenne di decidere che la sua vita non meriti di essere vissuta senza neanche provarci, è presto per tirare le somme. Rinunciare a questo compito è arrendersi nel nome della libertà alla soluzione finale. Reputo questa resa come bestiale, disumana, incivile. Difendiamo la nostra civiltà, la nostra umanità da queste agenzie di morte.(Marcello Veneziani, “Soluzione finale per l’Europa”, da “La Verità” del 9 giugno 2019; articolo ripreso dal blog di Veneziani).L’Italia mediterranea e cattolica è una fettina di terra e di civiltà minacciata dal fanatismo neo-islamico che viene dal sud e dal nichilismo libertario che viene dal nord. Entrambi nel loro estremo gradino tendono a uno stesso fine, anzi a una stessa fine, la soluzione finale. La morte nel nome di Dio e della sua Legge o nel nome della nostra assoluta libertà e totale autodeterminazione. A volte le due insidie non provengono da direzioni opposte, cioè dai flussi migratori che premono sulle nostre coste meridionali e dai modelli culturali che discendono dai paesi di provenienza protestante e calvinista. Ma provengono ambedue dall’Europa del nord, dai giovani neo-islamici di seconda o di terza generazione, nati e cresciuti in Francia, nei Paesi Bassi, in Inghilterra e in Germania. E dai ragazzi che vivono nelle società più avanzate del nord Europa, sul piano dei diritti umani: vale a dire l’Olanda, il Belgio, i paesi scandinavi, la stessa Svizzera. Quel che colpisce in entrambi i casi è la persuasione di morte che accompagna le loro esperienze più estreme, più radicali.
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Summa Symbolica: finalmente svelato il segreto dei simboli
«Vi siete mai chiesti perché l’acqua delle nostre fontane esce così spesso dalla bocca di un leone?». Il re della savana non è certo un animale acquatico. Eppure è associato, da sempre, alla sorgente d’acqua. Per quale motivo? E’ vero, non ce lo siamo domandato. «Infatti, non siamo più abituati al “pensiero simbolico”, cioè il pensiero contenuto nei simboli, che ci spinge a chiederci sempre il perché delle cose, che in prima battuta non capiamo». Parola di Gianfranco Carpeoro, simbologo con alle spalle trent’anni di appassionati studi. Tutto si aspettava, l’autore, tranne che vedere la sua ultima fatica, “Summa Symbolica”, schizzare in alto nelle classifiche librarie online: è il primo trattato divulgativo interamente dedicato a svelare il grande “segreto” dei codici simbolici che, in fondo, affollano la nostra vita quotidiana, con i loro “perché” a cui non facciamo caso. Il leone e l’acqua? «Qual è la città più acquatica d’Italia?». Venezia, ovviamente. «E qual è il simbolo araldico di Venezia? Il leone alato di San Marco, l’evangelista rappresentato appunto dal leone». Da Venezia al Nilo: «Gli egizi scolpirono teste di leone sulle chiuse in pietra che regimavano le acque del fiume durante la piena, quando nel cielo dell’Egitto campeggiava la costellazione del Leone». Il che rimanda a un archetipo ancestrale: il Diluvio. Simboli, che hanno viaggiato in incognito fino a noi, per raccontarci – a modo loro – la parte nascosta della nostra storia, la meta-storia dell’umanità.Autore di romanzi ermetico-esoterici come “Il volo del Pellicano”, “Labirinti” e (di prossima pubblicazione) “Il Re cristiano”, Carpeoro – al secolo Gianfranco Pecoraro, avvocato e già pubblicitario, saggista, musicologo, direttore di riviste – nel 2016 ha pubblicato per “Revoluzioni” il dirompente saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che svela il contesto simbolico destinato a “firmare” i peggiori attentati che hanno recentemente insanguinato l’Europa, dietro il paravento di sigle come l’Isis. Attentati che, per l’autore, sono opera della “sovragestione” dell’Occidente, un vertice occulto che mette insieme settori dell’élite politico-economica e apparati di intelligence al servizio dell’oligarchia reazionaria. Retroterra comune: il codice simbolico adottato dalla massoneria, «ormai quasi interamente infiltrata e corrotta dal potere, il cui linguaggio è quello del “pensiero magico”, cioè l’opposto del “pensiero simbolico”». Traduzione: «Il potere ha organizzato una sorta di deriva “magica” della conoscenza, in tutti i campi, introducendo il dogma». Tema sul quale Carpeoro ha spesso insistito, in seminari e conferenze, nonché nelle video-chat “Carpeoro Racconta”, su YouTube, la domenica mattina con Fabio Frabetti della trasmissione web-radio “Border Nights”.Pensiero magico e pensiero simbolico, dicotomia decisiva per il nostro destino: «Se ci piace una ragazza, andiamo dal “mago” a chiedere come potrebbe accorgersi di noi, anziché chiedere – innanzitutto a noi stessi – perché mai quella ragazza dovrebbe innamorarsi di noi». Così per tutto: «Se siamo malati ricorriamo al medico, ma finchè siamo sani preferiamo la cartomante». Per Carpeoro, il “pensiero magico” – funzionale al potere – ha scalzato il “pensiero simbolico”, condizionando negativamente l’evoluzione dell’umanità: «Finiamo per essere tutti prigionieri di “cerchi magici”, nei quali non valgono le regole della vita, della realtà, ma quelle del “mago” di turno: fattucchiera, pubblicitario, leader politico, economista». Tutti sapienti manipolatori. Il loro obiettivo: «Farci fare, a nostra insaputa, quello che vogliono loro». Capeoro cita il suo antico maestro, l’intellettuale triestino Francesco Saba Sardi, autore del saggio “Dominio” che ripercorre l’origine della civiltà. «Tutto nacque con la comparsa dell’agricoltura. I nomadi scoprirono l’importanza del possesso della terra. Servivano improvvisamente nuove figure: contadini e soldati. Fu lì che nacque il potere, in forma di dominio. E nacque grazie all’invenzione della religione: è stato il “magus”, preteso “ponte” tra l’umano e il divino, a utilizzare la sua superiore conoscenza per indurre gli altri a lavorare e combattere al posto suo. Potere, religione, guerra. Era l’inizio del Neolitico, e da allora quello schema non è cambiato, governa il mondo tuttora».Al “pensiero magico”, Carpeoro contrappone il “pensiero simbolico”: «Non ti spinge a imparare “come” fare una cosa, ma ti costringe innanzitutto a chiederti se farla, e perché». Risultato: la libertà dell’individuo, la sua crescente consapevolezza, l’espansione autonoma della coscienza. E’ il risultato di quella che Carpeoro, per spiegare il meccanismo simbolico, chiama “l’intelligenza del dado”: «Di ogni faccia riconosciamo immediatamente il valore numerico, senza dover contare i puntini: e questo dipende dalla loro precisa disposizione». Simbolo, dal greco “symballo”, unire: mettere insieme, in un’unica rappresentazione, aspetti lontani tra loro. Tutto, a monte, nasce dall’archetipo, cioè dall’insieme di eventi – materiali e immateriali – che sono «depositati nella memoria ancestrale dell’universo», a cui abbiamo accesso «soltanto in un modo, nei sogni del sonno profondo: quello che non sappiamo ricordare, perché non disponiamo del codice linguistico per tradurli». Così, nell’ètà classica, «l’umanità ha tradotto gli archetipi in due modi: nel mito, che è la narrazione dell’archetipo, e nel simbolo, che ne è la rappresentazione». E il simbolo, secondo il francese René Guénon, ha una caratteristica fondamendale: funziona, ci fa pensare, perché rappresenta sempre qualcosa di più grande.Il simbolo è come uno specchio, per dirla con Ermete Trismegisto: «Tutto ciò che è in alto è come ciò che è in basso, tutto ciò che è in basso è come ciò che è in alto». E questo, aggiunge il sommo esoterista, «per realizzare il miracolo di una cosa sola, da cui derivano tutte le cose, grazie a un’operazione sempre uguale a se stessa». L’editoria ha sfornato bellissimi volumi che catalogano i simboli, o si occupano specificamente di qualcuno di essi. Ma nessuno, finora, aveva mai presentato uno studio unitario sulla simbologia, «materia a cui di regola non è riconosciuta dignità propria». Spesso, afferma in una nota l’editore di “Summa Symbolica”, L’Età dell’Acquario, la simbologia viene affrontata solo in affiancamento ad altre discipline: semiologia, filosofia, letteratura, storia dell’arte. Lo studio di Carpeoro (di cui è uscito per ora solo il primo volume, 221 pagine) affronta invece la materia in modo finalmente organico e sistematico: la prima parte, da qualche giorno in libreria, svela le origini antiche del linguaggio simbolico e le sue dinamiche generali, verificate e catalogate con approccio scientifico: la sua essenza, i singoli simboli e gli schemi simbolici complessi, il rapporto con il mito e gli archetipi, le leggi che lo regolano, la presenza del simbolo nelle leggende, nelle fiabe, nei sogni.«Dopo aver studiato il mondo dei simboli fin dal 1981 – racconta Carpeoro – nel 199 ho maturato la decisione di raccogliere tutti i miei appunti in un’opera organica. L’ho terminata nel 2003, ma è stata più volte aggiornata nel corso degli anni, assumendo dimensioni tanto imponenti da rendere necessaria una sua suddivisione in più parti». In confidenza: «Non speravo che quest’opera avrebbe mai trovato un editore, né tantomeno che un libro simile potesse suscitare tanto interesse, tra i lettori». La prima parte – oggetto del volume appena uscito – ha un taglio esclusivamente metodologico, proviene da uno studio del 1994 che si intitolava “Il Metodo Carpeoro” e costituisce «il primo tentativo di individuare le regole e le leggi del mondo dei simboli in modo totalmente originale e autonomo rispetto ad altre discipline». L’auspicio dell’autore? E’ che «sia riconosciuto, agli studi simbolici e tradizionali, quel carattere di scientificità fino a oggi loro negato».La chiave della missione? I simboli, il potere, li conosce benissimo. E ovviamente li usa a nostro danno, in modo “magico”. Conoscerli a nostra volta significa innanzitutto imparare a difendersi dagli abusi della manipolazione quotidiana. Fino a scoprire che il mondo dei simboli racchiude in sé qualcosa di meraviglioso, che ci riguarda direttamente: è un racconto, per immagini, della nostra vera storia, che attinge all’universo della “memoria ancestrale” della specie. E’ un sistema profondamente analogico che può contenere vere e proprie rivelazioni: ci lascia intuire come siamo fatti, da dove veniamo, chi siamo davvero – e cosa potremmo diventare, se imparassimo a espandere la nostra coscienza. «Accanto alla dimensione fisica esiste una dimensione metafisica», sottolinea Carpeoro. «Analogamente, accanto alla storia esiste anche una meta-storia: è la storia del pensiero non ufficiale, che ha spesso viaggiato sottotraccia, giungendo fino a noi, utilizzando proprio il linguaggio cifrato dei simboli». Funziona, eccome: magari non capiamo perché l’acqua fuoriesca dalla bocca del leone, ma quelle fontane ci sono familiari, ci piacciono. Le troviamo bellissime, anche se non sappiamo perché.(Il libro: Giovanni Francesco Carpeoro, “Summa Symbolica. Istituzioni di studi simbolici e tradizionali, vol.1”, L’Età dell’Acquario, collana Biblioteca dei simboli, 221 pagine, 24 euro).«Vi siete mai chiesti perché l’acqua delle nostre fontane esce così spesso dalla bocca di un leone?». Il re della savana non è certo un animale acquatico. Eppure è associato, da sempre, alla sorgente d’acqua. Per quale motivo? E’ vero, non ce lo siamo domandato. «Infatti, non siamo più abituati al “pensiero simbolico”, cioè il pensiero contenuto nei simboli, che ci spinge a chiederci sempre il perché delle cose, che in prima battuta non capiamo». Parola di Gianfranco Carpeoro, simbologo con alle spalle trent’anni di appassionati studi. Tutto si aspettava, l’autore, tranne che vedere la sua ultima fatica, “Summa Symbolica”, schizzare in alto nelle classifiche librarie online: è il primo trattato divulgativo interamente dedicato a svelare il grande “segreto” dei codici simbolici che, in fondo, affollano la nostra vita quotidiana, con i loro “perché” a cui non facciamo caso. Il leone e l’acqua? «Qual è la città più acquatica d’Italia?». Venezia, ovviamente. «E qual è il simbolo araldico di Venezia? Il leone alato di San Marco, l’evangelista rappresentato appunto dal leone». Da Venezia al Nilo: «Gli egizi scolpirono teste di leone sulle chiuse in pietra che regimavano le acque del fiume durante la piena, quando nel cielo dell’Egitto campeggiava la costellazione del Leone». Il che rimanda a un archetipo ancestrale: il Diluvio. Simboli, che hanno viaggiato in incognito fino a noi, per raccontarci – a modo loro – la parte nascosta della nostra storia, la meta-storia dell’umanità.
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Maggiani: mi manca Pertini, la sua fede onesta nel futuro
Sono passati trent’anni e più e Pertini è ancora lì che mi manca. Ho amato quell’uomo come lo hanno amato milioni di suoi concittadini, l’ho amato per le loro stesse ragioni, per le ragioni del suo antipodo Indro Montanelli, “Non è necessario essere socialisti per amare Sandro Pertini. Tutto ciò che egli dice e fa odora di pulizia, di lealtà e di sincerità”. Ma non è questo che me lo fa mancare in modo così struggente, colmo di nostalgia. Mi manca di Sandro Pertini la sua giovinezza. Certo che era vecchio di anni, ma quello anagrafico è stato un particolare di nessuna importanza, ha “preso” il Quirinale che era ancora un ragazzo, a quel tempo lo ero anch’io. Aveva addirittura il portamento della giovinezza, e dietro quei suoi occhialacci aveva il suo sguardo. Aveva della giovinezza la sfacciata sincerità, la sincerità come una sfida, come un gesto di baldanza anche contro l’evidenza, e il candore della malizia proprio come un ragazzo.E la forza, la prestanza, delle idee, mai troppo complicate o ombreggiate, mai troppo prudenti; naturalmente era irascibile, scontroso e affettuoso in modo grandioso, nel modo gradasso dei ragazzi che fa così innamorare le ragazze. Naturalmente fumava come una ciminiera, fumava come se non ci fosse domani, perché per un ragazzo in effetti non c’è domani se il domani è quello dei vecchi, di decadenza e malattia e estinzione, il domani della gioventù è l’avvenire. L’ottuagenario Sandro Pertini era madido di avvenire, aveva tanto di quell’avvenire per le mani che gliene avanzava abbastanza anche per me e per la Repubblica intera. Ecco quello che mi manca di più di quell’uomo, e di me, che la sua, e la mia, gioventù avesse un tale potere da essere la gioventù della Nazione, che la Repubblica potesse ancora essere la giovane repubblica colma di avvenire.Disse Sandro Pertini nel suo ultimo discorso da presidente ai giovani cittadini d’Italia: …E se non volete che le vostre giornate scorrano grigie e monotone, date una nobile ragione alla vostra esistenza. Scegliete voi liberamente, come liberamente scegliemmo noi nella nostra adolescenza. Fate la vostra scelta purché essa presupponga il principio di libertà, se non volete incamminarvi su una strada che vi porterebbe a rovina sicura.(Maurizio Maggiani, “Pertini”, da “Il Secolo XIX” del 25 settembre 2016, articolo ripreso dal sito ufficiale di Maggiani).Sono passati trent’anni e più e Pertini è ancora lì che mi manca. Ho amato quell’uomo come lo hanno amato milioni di suoi concittadini, l’ho amato per le loro stesse ragioni, per le ragioni del suo antipodo Indro Montanelli, “Non è necessario essere socialisti per amare Sandro Pertini. Tutto ciò che egli dice e fa odora di pulizia, di lealtà e di sincerità”. Ma non è questo che me lo fa mancare in modo così struggente, colmo di nostalgia. Mi manca di Sandro Pertini la sua giovinezza. Certo che era vecchio di anni, ma quello anagrafico è stato un particolare di nessuna importanza, ha “preso” il Quirinale che era ancora un ragazzo, a quel tempo lo ero anch’io. Aveva addirittura il portamento della giovinezza, e dietro quei suoi occhialacci aveva il suo sguardo. Aveva della giovinezza la sfacciata sincerità, la sincerità come una sfida, come un gesto di baldanza anche contro l’evidenza, e il candore della malizia proprio come un ragazzo.
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Carpeoro: siate consapevoli, e aprirete una falla nel sistema
Qual è lo schema della manipolazione? E’ anch’esso uno schema rituale. Io ho sempre pensato che il potere, quello che Saba Sardi chiama “dominio”, agisca sulle persone in cinque fasi, che sono quasi un rito. Queste cinque fasi sono sempre le stesse, e si chiamano: astrazione, estrazione, ostruzione, istruzione, distruzione. Sono azioni, per questo hanno tutte la stessa desinenza. Perché astrazione? Perché bisogna creare il vuoto. E quindi, il primo schema della manipolazione è quello di togliere l’individuo da una realtà che può capire, può farlo pensare, può renderlo autonomo nei confronti del pensiero. Quindi la prima cosa che devo fare è: fargli il vuoto intorno, e possibilmente anche il vuoto dentro. E questo lo faccio astraendolo dalla realtà, cioè facendo delle operazioni di astrazione. Fatto questo, poi c’è l’estrazione: dopo che l’ho messo in un mondo finto, di plastica, devo comunque estrarlo da un contesto dove lui possa tornare; devo creargli una finta casa: dopo che gli tolto la casa vera, devo costruirgliene attorno una finta, datta di fondali cinematografici, di effetti speciali. E questa è l’estrazione.Questa casa, che gli ho costruito attorno, piena di cose posticce, poi devo rendergliela unica e invalicabile: e quindi devo fare un’operazione di ostruzione, cioè devo rendere impossibile tornare indietro. Poi devo trasformare questa persona, adattarla al meccanismo-ingranaggio generale che ho creato, e questa operazione si chiama istruzione. E poi, dopo, c’è la fase finale, che si chiama distruzione, e si può considerare a livello individuale ma anche non individuale. Un grande iniziato, che si chiamava Isaac Newton, fece 5 pagine di previsioni, tra l’altro ripubblicate recentemente dalla fondazione a lui dedicata, che ha pubblicato tutto i suoi atti inediti in un sito Internet. Newton era anche un matematico, scopritore del cosiddetto calcolo infinitesimale. Facendo conteggi, Isaac Newton ha collocato la possibilità della fine del mondo nel 2060: quanto è lontano il 2060? Una stima del ministero americano dell’ambiente, basata sull’elevazione dell’area priva di ossigeno degli oceani – si chiama “area della morte”, è la fase più profonda e completamente priva di ossigeno, di luce, di possibilità di vita – rivela che questa fascia, nell’ultimo secolo, si è elevata del 400%. Provate a pensare a cosa succede se muoiono completamente gli oceani. E, se questo work in progress va avanti così, questa stima degli americani porta all’incirca al 2060. Il che vuol dire che Newton con la matematica ci sapeva fare.Tutte le operazioni dei millenni di vita dell’uomo che conosciamo sono dominati dal pensiero magico. Della nostra avventura conosciuta, rispetto ai 22 milioni di anni di storia scientifica della vita e dell’universo, quanti anni conosciamo, analiticamente? Cinquemila? Settemila? Diecimila? Nella storia generale dell’universo, i diecimila anni di cammino dell’uomo che conosciamo cosa sono? Un pulviscolo. Noi, siccome abbiamo l’epos, li dilatiamo, pensiamo che chissà che storia sia. Ma non è mica tutta questa grande storia. Né sarebbe un esempio di vita lunga di una civiltà, se morisse dopo diecimila anni (credo che la dominazione dei dinosauri sulla Terra sua mille volte tanto, centomila volte tanto). Queste migliaia di anni che conosciamo, della nostra vita, sono anni di implemento delle conseguenze del pensiero magico. Gradualmente, abbiamo trasferito tutte le nostre risorse, tutto il nostro cammino evolutivo e tutta la nostra creatività dalla possibilità di un pensiero simbolico alla scelta del pensiero magico. Se una persona è malata di cancro, tra un medico e una cartomante preferisce il medico. Ma se non è ancora malata di cancro, sceglie la cartomante. Il nostro problema è che, quando eravamo sani, abbiamo scelto la magia. Adesso che malati lo siamo, chissà, forse… Però è molto difficile.Gesù Cristo nel Vangelo dice che bisogna scegliere la via stretta, ma noi non scegliamo sepre la via stretta. E’ talmente difficile imparare a considerare le nostre possibilità di espansione individuale come collegate alle nostre capacità, alla nostra vita, alle opportunità reali che abbiamo, che gli ultimi anni che stiamo vivendo sono il record dei superenalotti, delle lotterie. Non siamo più abituati a mettere in concatenazione la nostra felicità – il nostro lavoro, la nostra creatività – al merito. Se uno pensa ad arricchirsi, questo è il prodotto di un pensiero magico: perché, prima di pensare a come arricchirsi, dovrebbe valutare perché arricchirsi. Non siamo più abituati a collegare nemmeno l’arricchimento al merito, ad un valore, a una differenza: basta andare dal tabaccaio. Noi oggi abbiamo queste altre ritualità. Abbiamo distaccato, trasformato il sacro.Noi oggi siamo schiavi di idoli diversi. Sempre di idolatria si tratta, ma abbiamo sostituito il sacro come ricerca con il sacro come autoasserzione. Abbiamo cioè trasformato il sacro in qualcosa che si definisce da sé, non in qualcosa che definiamo noi. E questa operazione di idolatria è abilmente descritta nella Bibbia quando gli ebrei si ritrovano ad adorare il Vitello d’Oro, mentre Mosè gli porta giù dalla montagna delle leggi. La differenza è tra adorare il Vitello d’Oro e proseguire in un percorso per cui il tuo capo spirituale ti porta giù delle leggi. Sapete, le leggi non sono una cosa qualunque: sono lì per regolare la nostra vita. Certo, non sempre ci sono delle buone leggi: è per questo che Mosè se le fa dare da Dio. Non voglio entrare nella polemica su Jahvè-Dio sollevata da Biglino, col quale peraltro sono in buonissimi rapporti. Qui interpreto Dio come simbolo: una entità suprema che dà la legge, sottolinea quanto sia importante, una legge. E quando Mosè scende con le leggi, quelli sono già passati al Vitello d’Oro. Questo non descrive forse il pensiero magico e il pensiero simbolico? Non me la sono inventata io, questa scelta tra il Magus e il Magister: nell’antichità, la troviate enne volte. Si è trasferita in tutto. Si è trasferita nella nostra vita sociale.Noi oggi continuiamo a inseguire un politico che ci risolva dei problemi, che ci attribuisca dei diritti. Ma io non voglio un politico che mi risolva i problemi. Voglio un politico che metta me in condizione di risolverli. Non è pensiero magico? Qui c’è una politica che vi ha tolto i vostri diritti, cioè la possibilità di risolvere da voi i vostri problemi. E qualunque tipo di politico viene e dice: non ti preoccupare, te li risolvo io. Nessuno ti dice: non ti preoccupare, perché creeremo condizioni perché te li risolva tu. E’ lì che poi falliscono le democrazie. Perché uno non mi può spacciare una democrazia sostitutiva per una democrazia rappresentativa. Sono due cose diverse. Qui, le nostre vite sono state delegate per procura notarile, irevocabile. Ma io non voglio delegare la mia vita, io voglio avere da te il diritto di farmela da solo, la mia vita. E questo diritto tu non me lo dai. E sembra quasi che sia giusto, scontato, che tu non me lo dia. Nessuno si chiede: ma perché nessun politico mi dice come sarò in condizione, io, di fare le cose? Sulla base di una nostra pigrizia, di una nostra graduale astrazione dalla vita concreta e dalle regole democratiche, ci danno ormai per scontato che i problemi ce li deve risolvere qualcun altro. In pari con un’altra cosa: che la colpa è sempre di qualcun altro.E’ in parallelo: da un lato ti dicono che i problemi te li risolvono loro, dall’altro ti spiegano che, comunque, la colpa è sempre di tizio – Gelli, Sindona, Craxi, Totò Riina, è sempre colpa degli altri. Dobbiamo entrare nella logica che il cambiamento è nostro: siamo noi che dobbiamo diventare dei soggetti rivoluzionari. Il che non significa che non saremo più propensi a sacralizzare, ritualizzare e simboleggiare delle cose; significa che, quando lo facciamo, lo dobbiamo fare consapevolmente. Il margine è tutto lì, tra consapevolezza e inconsapevolezza. In quante ore della nostra giornata facciamo cose di cui siamo pienamente consapevoli? Numeriamo le azioni di una nostra giornata, e verifichiamo alla fine che conto ne esce. Secondo me si farebbero delle belle scoperte, ma questa non è una funzione che Facebook ha previsto; quindi non ve ne accorgerete mai, perché un diario non lo tenete più. Immaginate che su Facebook ci sia una funzione “verifica consapevolezza” – ma Facebook quella funzione non la metterà mai, perché fa parte dell’altro meccanismo, dell’altro versante. E se scopriste che il 90% della vostra vita è fatto di atti inconsapevoli? La consapevolezza comporta automaticamente una falla nel sistema di potere. Questo è un potere che vive sull’inconsapevolezza. E’ questa è l’unica vera rivoluzione, l’unica chiave rivoluzionaria della nostra vita.(Gianfranco Carpeoro, estratto della conferenza “Riti, rituali e quotidianità, il vero e il falso”, tenuta a Curtarolo, Padova, il 17 maggio 2016).Qual è lo schema della manipolazione? E’ anch’esso uno schema rituale. Io ho sempre pensato che il potere, quello che Saba Sardi chiama “dominio”, agisca sulle persone in cinque fasi, che sono quasi un rito. Queste cinque fasi sono sempre le stesse, e si chiamano: astrazione, estrazione, ostruzione, istruzione, distruzione. Sono azioni, per questo hanno tutte la stessa desinenza. Perché astrazione? Perché bisogna creare il vuoto. E quindi, il primo schema della manipolazione è quello di togliere l’individuo da una realtà che può capire, può farlo pensare, può renderlo autonomo nei confronti del pensiero. Quindi la prima cosa che devo fare è: fargli il vuoto intorno, e possibilmente anche il vuoto dentro. E questo lo faccio astraendolo dalla realtà, cioè facendo delle operazioni di astrazione. Fatto questo, poi c’è l’estrazione: dopo che l’ho messo in un mondo finto, di plastica, devo comunque estrarlo da un contesto dove lui possa tornare; devo creargli una finta casa: dopo che gli tolto la casa vera, devo costruirgliene attorno una finta, fatta di fondali cinematografici, di effetti speciali. E questa è l’estrazione.
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Quando nel mondo c’era ancora posto per Muhammad Alì
Il primo a usare lo sport come arma politica e umanitaria, il primo a togliere violenza alla boxe, inserendo velocità, intelligenza e leggerezza al posto della potenza. Così l’amico Gianni Minà ricorda “il più grande”, Muhammad Alì, l’unico showman della seconda metà del ‘900 capace di far arrivare il suo pensiero ovunque, attraverso interviste improvvisate e conferenze stampa a ritmo di rap. Metamorfosi: da Cassius Marcellus Clay, ragazzo di Louisville allevato dalla buona borghesia bianca, a campione della Nation of Islam, quella di Malcom X e delle Black Panthers. La medaglia d’oro vinta a Roma e gettata nel fiume dopo l’affronto subito in un ristorante di New York che si era rifiutato di servirlo in quanto afroamericano, poi l’arresto – e il lungo esilio dalle competizioni – per l’obiezione di coscienza contro il servizio militare («nessun Vietcong mi ha mai chiamato “negro”»). E ancora: la sfolgorante affermazione del suo stile sul ring (“danzerò come una farfalla, pungerò come un’ape”), la sfida contro il devastante Sonny Liston, l’epica resurrezione del ‘74 contro Foreman, lo spaventoso incontro-capolavoro dell’anno seguente a Manila contro il rivale di sempre, l’immenso Joe Frazier.«Un uomo che a 50 anni la pensa come a 20 ha sprecato 30 anni della sua vita» amava ripetere Muhammad Ali, il campione di pugilato nato in Kentucky in una famiglia afroamericana con antenati bianchi, scrive Gianni Riotta su “La Stampa”, in morte del campione. «Nella sua vita Ali cambiò nome, religione per tre volte, prima cristiano, poi aderente alla setta estremista Nazione dell’Islam che considerava i bianchi “diavoli”». Poi «si unì all’Islam sunnita ortodosso, ma con alcune pratiche della filosofia Sufi». Alì, continua Riotta, «aveva cambiato il codice del boxeur, mai schivare i colpi ma testa indietro a eluderli, irridendo gli uppercut, guardia bassa contro ogni regola, ad invitare i pugni senza paura». Dopo di lui, l’espressione “messo alle corde” ha cambiato significato: «Alì si sdraiava al limite del ring e assorbiva i colpi dell’avversario, trasformando il proprio corpo in punching ball da allenamento. La sua capacità di assorbire la sofferenza commosse i tifosi, nella sconfitta al vecchio Madison Square Garden di New York contro Frazier, 15 round di massacro con lo scrittore Norman Mailer a fare il cronista e Frank Sinatra a scattare foto».Stessa tattica nel 1974 a Kinshasa, in Zaire, contro Foreman, «la folla a gridare “Ali Bòmaye”», Alì uccidilo! «Per 8 round Ali si sacrifica incassando colpi che avrebbero ucciso tanti altri pugili, poi atterra Foreman». L’anno dopo, a Manila, Alì soffre contro Frazier, vince e confessa: è stato come morire. «Ora sappiamo che era davvero “morire”», scrie Riotta. «L’Ali tremante che accende il braciere olimpico ad Atlanta 1996 soffriva di un morbo di Parkinson che molti medici credono accelerato dai colpi subiti. Aveva fatto in tempo a liberare alcuni ostaggi americani, sequestrati da Saddam alla vigilia della I Guerra del Golfo, 1990, e la Casa Bianca di Bush padre lo criticò, “showman”. Durante la missione a Baghdad gli finirono le medicine contro il Parkinson, faticava a parlare, alzarsi dal letto, e si diffuse la voce che fosse incapace, invalido, poco lucido. E l’11 settembre 2001, il cronista di “Selezione” dal “Reader’s Digest” andò a trovarlo nella sua tenuta di Berrien Springs, in Michigan, 88 acri di campagna, e gli chiese cosa pensasse davanti al blitz dei fondamentalisti islamici. Ali ripeté, con la parlata strascicata che botte e malattia gli aveva inflitto, la sua fede, Islam è religione di pace, uccidere donne, uomini e bambini innocenti non è da musulmani credenti nel Corano».«La boxe è l’imitazione di una lotta per la vita o per la morte, perché a volte i pugili muoiono sul ring o per le conseguenze di un combattimento – le loro vite, accorciate dallo stress e dai colpi ricevuti. La vita sul ring è ingrata, brutale e corta», scrive Joyce Carol Oates nella perfezione del suo saggio “Sulla Boxe”. «Di questa mattanza – conclude Riotta – Alì fu The Greatest davvero, eroe imperfetto della virtù più rara nei nostri giorni del rancore: crescere, maturare, sbagliare, correggersi, cambiar idea, restando se stessi nel cuore». L’ultima uscita pubblica è stata contro il proclama di Donald Trump sul divieto di ingresso dei musulmani in America: una discriminazione anche contro i cittadini Usa, misura che l’avrebbe riguardato di persona. Alì era stato in rapporti amichevoli con l’impresario Trump, ma ora era «impaurito per l’odio che vedeva montare nel suo paese e nel mondo». Al congedo da Kinshasa, nel memorabile docu-film “Quando eravamo re”, di Lion Gast, all’aeroporto il trionfatore Alì accarezza i bambini congolesi che lo festeggiano: «Voi siete buoni, non avete idea di come sia il posto da cui vengo io». Ed era solo il 1974: un mondo in cui c’era ancora posto per un eroe come Muhammad Alì.Il primo a usare lo sport come arma politica e umanitaria, il primo a togliere violenza alla boxe, inserendo velocità, intelligenza e leggerezza al posto della potenza. Così l’amico Gianni Minà ricorda “il più grande”, Muhammad Alì, l’unico showman della seconda metà del ‘900 capace di far arrivare il suo pensiero ovunque, attraverso interviste improvvisate e conferenze stampa a ritmo di rap. Metamorfosi: da Cassius Marcellus Clay, ragazzo di Louisville allevato dalla buona borghesia bianca, a campione della Nation of Islam, quella di Malcom X e delle Black Panthers. La medaglia d’oro vinta a Roma e gettata nel fiume dopo l’affronto subito in un ristorante di New York che si era rifiutato di servirlo in quanto afroamericano, poi l’arresto – e il lungo esilio dalle competizioni – per l’obiezione di coscienza contro il servizio militare («nessun Vietcong mi ha mai chiamato “negro”»). E ancora: la sfolgorante affermazione del suo stile sul ring (“danzerò come una farfalla, pungerò come un’ape”), la sfida contro il devastante Sonny Liston, l’epica resurrezione del ‘74 contro Foreman, lo spaventoso incontro-capolavoro dell’anno seguente a Manila contro il rivale di sempre, l’immenso Joe Frazier.
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Se arriva la Troika: prepariamoci alla fine dell’Italia
C’è gente in Italia che si augura che arrivi. La Troika, s’intende, ovvero la struttura mista Commissione Ue, Bce e Fondo Monetario Internazionale che, in cambio di prestiti, impone ai governi la sua ricetta politica. Eugenio Scalfari l’ha persino scritto in una delle sue omelie domenicali. Matteo Renzi, ogni volta che gli capita, dice che non succederà, eppure un certo umore circola in giro: le banche d’affari invitano a non comprare italiano, il Pil cala, “Moody’s” vede nero, Mario Draghi chiede “cessioni di sovranità”. Non siamo ancora all’estate 2011, quando la Troika s’affacciò per la prima volta da noi, ma anche allora le cose precipitarono assai in fretta: ad aprile lo spread era 122 punti, più basso di adesso, ad agosto 400, a novembre 552 e i rendimenti sui Btp decennali oltre il 7%. Al tempo arrivò Mario Monti, stavolta il commissariamento sarebbe completo.Non è che la Troika si presenti così e suoni al palazzo del governo: arriva su invito, a seguito di eventi che sono quasi sempre identici. Funziona così. Il paese X, per qualche motivo, comincia ad avere difficoltà a finanziarsi sul mercato: gli investitori chiedono interessi troppo alti. È qui, quando il paese X teme di non poter pagare stipendi e pensioni, che arriva la Troika proponendo un bel prestito e sostenendo che il problema è il debito pubblico. Per avere i soldi, però, bisogna firmare un bel “Memorandum”, una lista assai nutrita di cose da fare. La ricetta è sempre la stessa per tutti i paesi: tagli di spesa pubblica, stipendi e pensioni; licenziamenti nel settore statale; aumenti di tasse; privatizzazioni e liberalizzazioni selvagge (servizi pubblici in primis); riforme del mercato del lavoro (libertà di licenziare). Al termine della “cura” – aiutata da cospicue pressioni sull’opinione pubblica – il paziente è più malato di prima, il welfare e i beni pubblici un ricordo.In sostanza, e per paradosso, l’arrivo della Troika europea coincide con la distruzione del modello sociale europeo. Non solo: i debiti pubblici – causa di ogni male – aumentano in maniera esponenziale. Non c’è da sorprendersi: il fine non è comprimere il debito dello Stato, ma quello estero, bloccando le importazioni attraverso un taglio dei redditi disponibili. È in questo modo che i creditori (spesso banche del Nord) rientrano dei soldi prestati negli anni di vacche grasse. In principio fu la Grecia: un debutto, e neanche troppo felice. Ad aprile 2010 il debito pubblico greco è ormai classificato “spazzatura” dalle agenzie di rating: la Germania aveva nel frattempo fatto sapere che i debiti dei singoli paesi dell’Eurozona non sono garantiti dalla Bce. È a quel punto che arriva la Troika con la sua borsa: promette un prestito da 110 miliardi, poi divenuti oltre 300 negli anni. Piccola notazione: i soldi non sono gratis – e nemmeno prestati all’1% come la Bce fece coi mille miliardi dati alle banche – ma concessi al ragguardevole interesse del 5,5%. In cambio, la Troika ha preteso tagli strutturali per 30 miliardi di euro a regime. Per capirci: il Pil greco ammonta a 180 miliardi, quindi è come se all’Italia chiedessero una manovra da 250 miliardi.Atene procede a rilento, ma comunque ha già licenziato 8.500 statali e altri 6.500 seguiranno entro quest’anno (alla fine saranno 30.000 su 750.000 totali). La tv pubblica è stata chiusa dalla sera alla mattina, la rete degli ambulatori specialistici pure; scuola, università e ospedali sono stati falcidiati. L’ultimo Memorandum, questa primavera, ha imposto alla Grecia di vendersi pure le spiagge (110 per la precisione) e un piano di privatizzazioni capillari da qui al 2020. La Troika, peraltro, non si occupa solo di spesa pubblica, ma di ogni aspetto della vita economica: pretende, per dire, che la Grecia cambi le leggi su come si pastorizza il latte (a vantaggio delle multinazionali). I risultati, però, non sono brillanti: quest’anno se n’è accorto persino l’Europarlamento. Il reddito disponibile delle famiglie dal 2009 è diminuito del 40%, gli stipendi del 34%, servizi e benefit sociali del 26%. La disoccupazione era al 9% cinque anni fa e ora supera il 27%, il Pil s’è ridotto di un quarto. Pure i conti pubblici, ovviamente, non migliorano: il rapporto deficit-Pil nel 2013 era al 12,7%, il debito pubblico al 175% (dal 129% del 2009).Il secondo paese a essere curato dalla Troika è stato l’Irlanda, messa nei guai a fine 2010 dal fallimento del suo sistema bancario e costretta a chiedere un prestito di 78 miliardi di euro. La struttura economica dell’Irlanda (un sistema basato sul esportazioni, tassazione irrisoria e poco welfare) sembrava fatta apposta per applicare i diktat dei Memorandum, eppure “l’allievo modello” non se la passa così bene come si vorrebbe far credere: dopo una sostanziosa sforbiciata dei salari e manovre per il 19% del Pil, il debito pubblico – che nel 2008 era solo al 44% del Pil – oggi sfora il 125%. E ancora: la crescita degli ultimi due anni è stata solo dello 0,2% nonostante la spinta di un deficit che l’anno scorso s’è attestato al 7,6%. Il valore degli immobili è il 57% in meno rispetto a cinque anni fa, il debito delle famiglie il 200% del reddito. La disoccupazione nel 2013 è passata dal 14,5 al 12,6%, ma il calo è dovuto in larga parte all’emigrazione (lo stesso discorso vale per Spagna, Portogallo e Grecia).Il Consiglio d’Europa, infine, ha denunciato che l’Irlanda non offre garanzie minime per malattia, disoccupazione, sopravvivenza, infortuni sul lavoro e benefici di invalidità. Sarà per questo che – a dicembre 2013 – quando Fmi, Bce e Ue hanno proposto all’Irlanda un nuovo prestito – il governo di Dublino ha risposto subito: “No, grazie”. In realtà, i funzionari della Troika continueranno a fare ispezioni biennali fino al 2031. Sei anni in meno di quel che toccano al Portogallo, uscito anche lui formalmente dall’ombrello della Troika nel dicembre scorso. Il panorama è lo stesso degli esempi precedenti: dopo tre anni di “cura” 1,9 milioni di persone (il 18% circa della popolazione) vivono sotto la soglia di povertà e i conti pubblici sono un disastro. Una vicenda simbolica: il governo di Lisbona, per realizzare le richieste dei Memorandum, voleva vendersi 85 quadri di Joan Mirò all’asta (ma un giudice, per ora, ha bloccato tutto). Va citato, infine, almeno il caso di Cipro, dove per la prima volta è stato applicato il principio, ora comunitario, che i fallimenti bancari li pagano anche i correntisti. Esagera, Bruno Amoroso, del centro studi Federico Caffè, quando li chiama “i sicari dell’economia”?(Marco Palombi, “Ecco come la triade Bce-Fmi-Ue potrebbe commissariare l’Italia e cosa ci sarebbe da aspettarsi”, da “Il Fatto Quotidiano” del 13 agosto 2014, ripreso da “Come Don Chisciotte”).C’è gente in Italia che si augura che arrivi. La Troika, s’intende, ovvero la struttura mista Commissione Ue, Bce e Fondo Monetario Internazionale che, in cambio di prestiti, impone ai governi la sua ricetta politica. Eugenio Scalfari l’ha persino scritto in una delle sue omelie domenicali. Matteo Renzi, ogni volta che gli capita, dice che non succederà, eppure un certo umore circola in giro: le banche d’affari invitano a non comprare italiano, il Pil cala, “Moody’s” vede nero, Mario Draghi chiede “cessioni di sovranità”. Non siamo ancora all’estate 2011, quando la Troika s’affacciò per la prima volta da noi, ma anche allora le cose precipitarono assai in fretta: ad aprile lo spread era 122 punti, più basso di adesso, ad agosto 400, a novembre 552 e i rendimenti sui Btp decennali oltre il 7%. Al tempo arrivò Mario Monti, stavolta il commissariamento sarebbe completo.
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Faletti, le ultime parole: io, l’uomo più fortunato al mondo
«Per lo più piango. Un’amica psicologa mi ha detto di non trattenere niente. Così, una sera sono uscita sul terrazzo e ho rotto un servizio di piatti orrendo, che non piaceva neanche a Giorgio. Mi ha fatto sentire meglio». A quasi un mese dalla morte di Giorgio Faletti, sua moglie Roberta sceglie “Vanity Fair” e un amico scrittore, Luca Bianchini, per ricordare i loro 14 anni insieme. A partire dal primo invito a cena: «Ero un po’ agitata perché pensavo di non aver argomenti di conversazione per via della differenza di età. Invece fu tutto facile, poi io sono sempre sembrata più adulta e lui più bambino, per cui la distanza era minore. Però ci vollero altre cene prima che ci baciassimo, finalmente, a casa sua. E dopo un po’ mi chiese di andare a vivere da lui a Milano». Ecco un estratto dell’intervista, pubblicata nel numero in edicola da mercoledì 30 luglio.Poi, un giorno del 2002, l’hai ritrovato disteso in camera per via dell’ictus. «Sì, era il giorno in cui avrebbe dovuto fare la sua prima presentazione di “Io uccido” alla Mondadori di via Marghera. Per fortuna ebbi la lucidità di descrivere bene i sintomi al pronto soccorso, per cui lo portarono al Niguarda. Poco dopo, però, dovetti prendere la decisione più difficile della mia vita». Cioè? «C’era un farmaco che poteva sbloccare la situazione, ma in Italia era ancora in via sperimentale. E, non sapendo bene da quanto tempo Giorgio era in coma, avrebbe potuto essere letale. Più il tempo passava, più aumentava il rischio. Il medico mi lasciò dieci minuti per decidere, e io rischiai. Ho sempre pensato che per avere risultati si debbano correre rischi». Come reagì Giorgio quando lo seppe? «Mi chiese di sposarlo. Parallelamente, la sua guarigione venne accelerata dai risultati clamorosi delle vendite di “Io uccido”».Il mondo letterario però non l’ha mai apprezzato veramente. «Infatti ne soffriva. Lui faceva comodo agli editori e ai festival, perché portava pubblico e faceva vendere tante copie. Però gli intellettuali non lo hanno mai veramente accettato». Quando ha scoperto di avere un tumore? «A gennaio, per caso. Doveva fare una risonanza magnetica perché aveva un’ernia da controllare, e da un po’ aveva un fastidioso mal di schiena». Qual è stata la tua reazione? «Ho detto solo: “Cazzo”. Poi ci siamo presi qualche giorno per decidere che cosa fare, io e lui. Ci hanno consigliato un medico di Los Angeles che lavorava con le eccellenze di tutto il mondo. Ma la nostra decisione di curarci in America era dettata soprattutto dalla necessità di avere un po’ di privacy». Quando è precipitata la situazione? «Nell’ultimo mese. Ha iniziato a non sentirsi più bene… faticava a camminare, a parlare. Hanno fatto diversi esami prima di capire che aveva metastasi al cervello. Era il 20 giugno».È lì che ha deciso di tornare? «Lui aveva già deciso di tornare per fare la radioterapia in Italia, ma sono sicura che in cuor suo avesse capito che non c’era più nulla da fare. Desiderava tantissimo tornare in Italia, lo desiderava con tutto se stesso. Tant’è che ha tenuto duro fino a che siamo arrivati qui. Poi ha mollato. Vorrei però che tutti sapessero che non ha mai avuto un momento di rabbia o di sconforto. Mi diceva: “Comunque vadano le cose, io ho avuto una vita che altri avrebbero bisogno di tre per provare le stesse emozioni. E se penso che sarei dovuto morire nel 2002 e in questi 12 anni ho fatto le cose a cui tenevo di più, devo ritenermi l’uomo più fortunato del mondo”».(“Giorgio Faletti: dovevo morire 12 anni fa, sono l’uomo più fortunato del mondo”, intervista di Luca Bianchini alla moglie, Roberta Faletti, concessa per “Vanity Fair” del 30 luglio 2014 a quasi un mese dalla scomparsa dell’attore, cantante e scrittore).«Per lo più piango. Un’amica psicologa mi ha detto di non trattenere niente. Così, una sera sono uscita sul terrazzo e ho rotto un servizio di piatti orrendo, che non piaceva neanche a Giorgio. Mi ha fatto sentire meglio». A quasi un mese dalla morte di Giorgio Faletti, sua moglie Roberta sceglie “Vanity Fair” e un amico scrittore, Luca Bianchini, per ricordare i loro 14 anni insieme. A partire dal primo invito a cena: «Ero un po’ agitata perché pensavo di non aver argomenti di conversazione per via della differenza di età. Invece fu tutto facile, poi io sono sempre sembrata più adulta e lui più bambino, per cui la distanza era minore. Però ci vollero altre cene prima che ci baciassimo, finalmente, a casa sua. E dopo un po’ mi chiese di andare a vivere da lui a Milano». Ecco un estratto dell’intervista, pubblicata nel numero in edicola da mercoledì 30 luglio.
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Cari grillini, che c’entra Renzi con la Grande Guerra?
Lo storico Aldo Giannuli, amico di vecchia data di “Radio Popolare”, ha pubblicato in questi giorni due interessanti articoli dedicati alla “storia per anniversari” in cui pone dei problemi e articola delle riflessioni stimolanti e che ci hanno “tirato in causa”, facendoci riflettere sul nostro lavoro di queste settimane. Storia per anniversari? Parliamone. Come si fa a non essere d’accordo con il professor Giannuli: l’anniversarismo è la malattia infantile (o senile?) della storiografia. Una prova viene dall’attuale dibattito parlamentare. Il vicecapogruppo del “Movimento 5 Stelle”, Andrea Cecconi, ha twittato questo messaggio: “A 100 anni dalla Grande Guerra, la trincea è divenuta ideologica”. In un solo tweet, l’esponente del “Movimento 5 Stelle” fa un parallelismo tra le trincee militari e quelle dell’opposizione e cita uno dei padri della Costituzione, Pietro Calamandrei.Con tutta la comprensione per la posizione del gruppo grillino contro la riforma istituzionale proposta da Renzi è davvero un’iperbole insopportabile quella di paragonarsi a un alpino sull’Ortigara o a un fante sulla Marna. Perché a Palazzo Madama non si rischia di morire; perché i soldati italiani cent’anni fa non stavano difendendo la democrazia contro la dittatura; perché molti di quei militari neanche sapevano perché stavano combattendo in quelle spaventose condizioni. Quello di Andrea Cecconi è lo stesso salto mortale doppio carpiato che fanno i giornalisti quando urlano “strage” per un incidente stradale o “emergenza meteo” quando nevica fuori stagione. Decontestualizzano, ingigantiscono (o minimizzano), falsificano. Perché possono farlo senza “pagare pegno”? Perché nessuno insegna più la storia come si dovrebbe.La citazione di Calamandrei è pertinente: il giurista e politico parlava proprio di quella Costituzione che il vicecapogruppo del “Movimento 5 Stelle” rivendica di difendere con la sua azione parlamentare. Ma suggerisce l’idea che trincee e Costituzione facciano parte di un unico pacchetto. Il che – oggettivamente – è un po’ difficile da sostenere. Spezzo però una lancia a favore dell’anniversarismo, denunciato da Aldo Giannuli come principale colpevole di «una percezione “a chiazze” del sapere storico [...] che spesso è peggio della totale ignoranza della storia, perché ha effetti “falsificanti” anche maggiori». Sarà banale, ma dipende da come si usano gli anniversari: in altre parole dipende dal dosaggio di capacità divulgativa, precisione nelle fonti e contestualizzazione. Ci sono medium che sono capaci di farlo e altri no. Non dico che con il progetto multimediale “Autista moravo” abbiamo dimostrato di saperlo fare, ma posso assicurare che molti ascoltatori ci hanno comunicato la gratificazione per aver capito meccanismi della storia recente e dell’attualità che prima ignoravano.Meno banale è l’aspetto delle fonti. Mano a mano che entriamo negli anniversari più “vicini”, maggiore è la possibilità di utilizzare fonti audio e video, che rendono più vivace la narrazione. Non è semplice usarle correttamente, ma indubbiamente è più facile mostrare i filmati su come si muoveva la cavalleria, vedere le foto della battaglia, ascoltare il racconto dei sopravvissuti, confrontare i quotidiani. E quindi anche interrogarsi sulla propaganda usata come arma (consigliabile, da questo punto di vista la mostra “La Grande Guerra su grande schermo” aperta da poco al Museo Storico di Trento), sulla manipolazione dell’opinione pubblica, sulle deformazione a posteriori degli avvenimenti. Insomma: non dobbiamo abbandonare l’anniversarismo, ma abbiamo bisogno di storici competenti e di mass media che sappiano usarlo con intelligenza.(Danilo De Biasio, “Storia per anniversari? Parliamone”, dal sito di “Radio Popolare” del 31 luglio 2014).…..storia, Aldo Giannuli, Radio Popolare, anniversari, malattia, infanzia, senilità, storiografia, prove, Parlamento, M5S, Beppe Grillo, Movimento 5 Stelle, Andrea Cecconi, Twitter, social network, Grande Guerra, Prima Guerra Mondiale, ideologia, militari, opposizione, Costituzione, Pietro Calamandrei, riforme, Matteo Renzi, iperbole, alpini, trincee, Ortigara, fanteria, Marna, Palazzo Madama, rischio, morte, soldati, democrazia, dittatura, giornalisti, media, disinformazione, strage, incidenti, emergenza, meteo, menzogne, falsificazioni, scuola, studio, diritto, politica, colpa, cultura, conoscenza, ignoranza, fonti, multimediale, radio, attualità, audio, video, testimonianze, narrazione, cavalleria, sopravvissuti, giornali, propaganda, armi, musei, Trento, manipolazione, opinione pubblica, competenza, intelligenza, Danilo De Biasio,Lo storico Aldo Giannuli, amico di vecchia data di “Radio Popolare”, ha pubblicato in questi giorni due interessanti articoli dedicati alla “storia per anniversari” in cui pone dei problemi e articola delle riflessioni stimolanti e che ci hanno “tirato in causa”, facendoci riflettere sul nostro lavoro di queste settimane. Storia per anniversari? Parliamone. Come si fa a non essere d’accordo con il professor Giannuli: l’anniversarismo è la malattia infantile (o senile?) della storiografia. Una prova viene dall’attuale dibattito parlamentare. Il vicecapogruppo del “Movimento 5 Stelle”, Andrea Cecconi, ha twittato questo messaggio: “A 100 anni dalla Grande Guerra, la trincea è divenuta ideologica”. In un solo tweet, l’esponente del “Movimento 5 Stelle” fa un parallelismo tra le trincee militari e quelle dell’opposizione e cita uno dei padri della Costituzione, Pietro Calamandrei.
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Grillo: stop al racket dell’oscuro parassita chiamato Europa
Dobbiamo togliere di mezzo ogni ostacolo che impedisca ai cittadini di sapere cosa accade, chi prende le decisioni, chi ne fa le spese e chi governa senza essere mai stato eletto dal popolo, ma cambia la vita di chi resta senza lavoro, di chi non ha i soldi per comprarsi da mangiare, di chi è costretto a licenziare i suoi dipendenti o a dichiarare fallimento. Dobbiamo dire alla gente chi sono i nominati, da chi sono stati messi sulle loro poltrone e perché sanno solo ripetere che “serve più Europa”, “servono più soldi alle banche”, “serve più rigore”. L’austerity! Cioè tagli alla spesa pubblica, ma soprattutto ai salari, agli stipendi e alle pensioni. E quando qualcosa si taglia, qualcos’altro deve per forza aumentare: le tasse. Le tasse in Italia sono diventate così alte che ormai bisogna lavorare fino a ottobre non per guadagnare, ma solo per riuscire a pagarle. Ci hanno detto che la soluzione era l’austerity. Era una soluzione, certo, ma era quella sbagliata! In Irlanda e in Portogallo ha funzionato talmente bene che c’è stato un esodo quasi senza precedenti verso altri paesi.In Italia ha funzionato anche meglio: solo nel 2013, più di trecento aziende al giorno sono state costrette a chiudere. Il motivo è semplice: i grandi sacerdoti dell’austerity hanno basato la loro religione su dati parziali. Non serviva essere economisti per accorgersi che una compressione della spesa in un momento di crisi avrebbe portato a una stagnazione, la quale avrebbe peggiorato la crisi. Perfino al Fondo Monetario Internazionale, alla fine, se ne sono accorti: Blanchard ha ammesso l’errore, ma nessuno ha cambiato direzione. Ne ammazza di più la medicina della malattia, ma nessuno che pensi di interrompere il salasso: si continua a succhiare sangue alle aziende, alle imprese, ai lavoratori, ai pensionati, ai cittadini, ai quali si sottrae ogni giorno una fetta di sovranità, per conferirla nelle mani di un oscuro centro di potere governato da non eletti. Così, questa Europa si è trasformata in un gigantesco parassita, un parassita che vive sulle nostre spalle, un parassita che ci afferra per la gola e ci toglie ossigeno.Ci rassicurano che le cose vanno meglio, che la crisi sta passando, che si intravede la luce alla fine del tunnel, ma sono i fari del treno che ci sta per venire addosso! Il treno si chiama Fiscal Compact, il nuovo irrigidimento del Patto di Stabilità e di Crescita che negli anni è stato sforato dalla stragrande maggioranza degli Stati europei. Così, a un paziente già ammalato, hanno somministrato il colpo di grazia: il pareggio di bilancio. Che in Italia abbiamo inserito addirittura nella Costituzione. Significa che se non abbiamo soldi non possiamo neppure trovarne, privi come siamo di sovranità monetaria, senza indebitarci. Una genialata! In più, ci hanno chiesto di ridurre il rapporto debito pubblico-Pil al 60% in 20 anni. Significa prendere un tessuto economico già disastrato, un tessuto imprenditoriale disperato, un tessuto assistenziale ai limiti dell’inesistente, e applicarvi tagli a pioggia pari anche a 50 miliardi all’anno per vent’anni! E lo chiamano “grande sogno europeo”! Ci accorgeremo presto delle conseguenze del Fiscal Compact sui paesi già piegati dal rigore a tutti i costi. «E poi», come in un celebre romanzo di Agatha Christie, «non ne rimase nessuno».Non contenti, per salvare gli amici degli amici, cioè il mondo della tecno-finanza la cui sconsiderata ingordigia ha ridotto in povertà decine di milioni di persone, hanno istituito il Mes, il Meccanismo Europeo di Stabilità, e l’hanno ratificato quatti quatti, zitti zitti, come piace a loro. Il Mes indebita interi popoli all’infinito, impegnandosi per centinaia di miliardi che possono essere rinnovati a piacere da un gruppo di oscuri oligarchi che si ritrovano in Lussemburgo, come una setta, senza che nessuno possa leggere le carte che si passano, senza che nessuno possa citarli in giudizio, senza che nessun governo nazionale, neppure futuro, possa rifiutarsi di pagare. E a fronte di questo salasso, che per l’Italia vale da subito 125 miliardi e poi chi lo sa, se un giorno dovessimo avere bisogno di essere salvati, il Mes ci presta i soldi. Ce li presta! E’ come se tu pagassi una kasko per l’assicurazione della tua auto e poi, quando qualcuno ti viene addosso, ti prestano i soldi per il carrozziere. Ce li prestano in cambio di “condizionalità”. Le chiamano “condizionalità”. Ma significano “cessioni di sovranità”. Si infilano nei Parlamenti nazionali e sottraggono ai cittadini ogni giorno un pezzetto dei loro diritti, per conferirli dentro a qualcosa che non c’è ancora. E’ a questo che è servita la crisi. Perché le guerre oggi non si fanno più con i carri armati. Si fanno con lo spread. Da un carrarmato ti puoi difendere: lo spread non lo vedi e non lo senti. E’ un assassino perfetto. Silenzioso ed ineffabile.Grazie allo spread puoi creare strumenti micidiali come l’Erf. Hanno sempre questi nomi biblici, quasi rassicuranti: il Fondo Europeo di Riscatto. Ti fanno credere che devi essere riscattato, perché sei un Piigs. Sei un Piigs anche se versi più soldi all’Europa di quanti alla fine l’Europa non te ne renda. E allora come ti riscattano? Se non ce la fai a rispettare il Fiscal Compact, vengono a suonare con l’esattore alla frontiera, e ti costringono a consegnare gli asset patrimoniali nazionali, le riserve valutarie, le riserve auree e parte del gettito fiscale fino ad ottenere garanzie per tutta la parte eccedente il rapporto del 60% del debito sul Pil. Un curatore fallimentare poi vende tutto. Una immensa Equitalia al cubo! E se consideriamo il gettito fiscale come lo stipendio di uno Stato, l’Europa si trasforma in un creditore che ti impone la cessione del quinto senza che tu possa avere più il controllo del tuo conto in banca.Cosa sarebbe tutto questo? Cosa stiamo diventando? E’ un’immensa Matrix, siamo governati da scienziati pazzi che fanno esperimenti di ingegneria tecnologico-finanziaria su interi popoli e se poi gli esperimenti falliscono e decine di milioni di persone muoiono, allora fa niente: siamo tutti sacrificabili. L’importante è che la casta mondiale, quel 10% degli abitanti della Terra che detiene il 90% delle ricchezze, sopravviva e continui a godere di ottima salute. In Grecia negli ultimi due anni si sono suicidate oltre 7.000 persone: gente che l’ha fatta finita non perché avesse perso il lavoro, ma perché non aveva più neppure da mangiare. Ci sono genitori che hanno deciso di abbandonare i propri figli negli orfanotrofi per garantirgli almeno un pasto al giorno e un letto caldo per l’inverno. In Italia, rispetto ai livelli pre-crisi, ci sono tre milioni di poveri in più (+93,9%), 3 milioni e 700.000 persone disoccupate in più (+122,3%), il Pil è crollato del 9%, la produzione industriale è precipitata del 23,6%, le costruzioni del 43,15%, i consumi delle famiglie si sono ridotti dell’8%, gli investimenti del 27,5%, c’è il -7,8% di occupazione e abbiamo perso quasi due milioni di posti di lavoro.E’ questo il grande successo dell’Europa? Una élite di mentitori di professione che cambia i metodi di calcolo alla bisogna, facendo così sparire in un attimo i dati che non devono essere mostrati? A noi in Italia raccontano spesso che servono più sacrifici, perché “ce lo chiede l’Europa”. Ma l’Europa che vogliamo noi non è quella che continua a drenare linfa dalla propria gente, che rovina i suoi imprenditori, i suoi lavoratori, che toglie lo Stato sociale ai deboli e tutela i ricchi e i forti. L’Europa che vogliamo noi non è quella che costringe le democrazie in crisi a versare centinaia di miliardi che finiscono su un conto in Lussemburgo a finanziare le democrazie che stanno bene, quelle della Tripla A, come la Germania. L’Europa che vogliamo noi non è quella oscura, un buco nero nel quale tutto entra e dal quale nulla esce, ma è l’Europa della democrazia diretta, dei referendum popolari, delle informazioni che circolano e della conoscenza condivisa. E’ l’Europa consapevole delle scelte ambientali che possono ancora cambiare le sorti del nostro pianeta. E’ l’Europa della libertà individuale, dei diritti, della sostenibilità. E’ l’Europa dei cittadini, non quella di Van Rompuy.(Beppe Grillo, estratti dal discorso “L’Europa che vogliamo”, pronunciato a Strasburgo il 1° luglio 2014).Dobbiamo togliere di mezzo ogni ostacolo che impedisca ai cittadini di sapere cosa accade, chi prende le decisioni, chi ne fa le spese e chi governa senza essere mai stato eletto dal popolo, ma cambia la vita di chi resta senza lavoro, di chi non ha i soldi per comprarsi da mangiare, di chi è costretto a licenziare i suoi dipendenti o a dichiarare fallimento. Dobbiamo dire alla gente chi sono i nominati, da chi sono stati messi sulle loro poltrone e perché sanno solo ripetere che “serve più Europa”, “servono più soldi alle banche”, “serve più rigore”. L’austerity! Cioè tagli alla spesa pubblica, ma soprattutto ai salari, agli stipendi e alle pensioni. E quando qualcosa si taglia, qualcos’altro deve per forza aumentare: le tasse. Le tasse in Italia sono diventate così alte che ormai bisogna lavorare fino a ottobre non per guadagnare, ma solo per riuscire a pagarle. Ci hanno detto che la soluzione era l’austerity. Era una soluzione, certo, ma era quella sbagliata! In Irlanda e in Portogallo ha funzionato talmente bene che c’è stato un esodo quasi senza precedenti verso altri paesi.
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Huxley, il profeta: ci fanno amare la nostra schiavitù
Il 22 novembre 1963 il mondo era troppo preoccupato per l’assassinio di Kennedy per prestare attenzione all’arrivo da oltre atlantico di due scrittori: CS Lewis e Aldous Huxley. Cinquant’anni dopo, Lewis riceve l’onorificenza di una targa al Poets’ Corner dell’Abbazia di Westminster, che verrà consegnata venerdì durante una cerimonia. Le fanfare sono rimaste più silenziose per Huxley. Le ragioni sono molteplici: “Le cronache di Narnia” hanno consentito al loro autore d’essere inserito nella Lega Tolkien; “Shadowland”, il film sulla sua vita interpretato da Anthony Hopkins, ha fruttato milioni; i suoi scritti sulle tematiche religiose hanno fatto di lui un personaggio a livello mondiale in parecchi ambiti spirituali. Per esempio, esiste una Società CS Lewis della California; una Rivista CS Lewis ed un Centro studi CS Lewis ed amici presso un’università dell’Indiana. Aldous Huxley non è mai stato oggetto di una tale attenzione.Eppure ci sono buone ragioni per considerarlo il più utopista tra i due. Infatti una delle ironie della storia è che le previsioni sul nostro futuro ingabbiato dai network si possono trovare tutte negli incubi dell’immaginazione di Huxley e del suo collega di Eton George Orwell. Orwell temeva che saremmo stati distrutti dalle cose di cui abbiamo paura – l’apparato di controllo statale così suggestivamente evocato in 1984. L’incubo di Huxley, rappresentato ne “Il Mondo Nuovo”, il suo grande racconto distopico, era che noi saremmo stati annientati dalle cose che tanto amiamo. Huxley era un rampollo dell’aristocrazia intellettuale inglese. Suo nonno era Thomas Henry Huxley, il biologo vittoriano che fu il più efficace divulgatore della teoria dell’evoluzione di Darwin (era soprannominato “il bulldog di Darwin”). Sua madre era nipote di Matthew Arnold. Suo fratello Julian e il fratellastro Andrew furono entrambi eminenti biologi.Alla luce di queste circostanze non stupisce che Aldous divenne uno scrittore che si spinse ben oltre i normali interessi degli ambienti letterari – si occupò di storia, filosofia, scienza, politica, misticismo e psicologia. Il suo biografo scrisse: «Scelse come suo motto personale l’iscrizione appesa al collo di un logoro straccione in un dipinto di Goya: Aún aprendo, Continuo ad imparare». Era, in un certo senso, un moderno Voltaire. “Il Mondo Nuovo” fu pubblicato nel 1932. Il titolo deriva dalle parole di Miranda nella Tempesta di Shakespeare: “Oh meraviglia! / Quante buone creature vi sono qui! / Come è bella l’umanità! Oh splendido mondo nuovo, / fatto di tali genti”. E’ ambientato nella Londra d’un lontanissimo futuro – il 2540 – e descrive una società immaginaria ispirata da due fattori: l’estrapolazione effettuata da Huxley delle tendenze scientifiche e sociali ed il suo primo viaggio negli Usa, durante il quale fu colpito da come la popolazione potesse essere palesemente soggiogata dalla pubblicità e dal consumismo.In quanto intellettuale affascinato dalla scienza, intuì (correttamente, come si è poi visto) che i progressi scientifici avrebbero finito per dare agli uomini dei poteri fino allora considerati di esclusiva appartenenza degli dèi. I suoi incontri con uomini dell’industria come Alfred Mond lo indussero a pensare che le società sarebbero state gestite con criteri ispirati al razionalismo manageriale della produzione di massa (fordismo) – ed è per questo che l’anno 2540 diventa nel racconto “l’anno 632 del Nostro Ford”. Huxley descrive la produzione di massa di figli attraverso ciò che oggi chiamiamo fecondazione in vitro; la manipolazione del processo dello sviluppo dei bambini per produrre diverse “caste” con livelli di capacità attentamente modulati, in grado di renderli adeguati ai vari ruoli sociali e industriali ad essi assegnati; e infine il condizionamento pavloviano dei bambini fin dalla nascita.In questo mondo nessuno si ammala, tutti hanno la stessa durata della vita, non esistono guerre, e le istituzioni, il matrimonio e la fedeltà sessuale sono superflue. La distopia di Huxley è una società totalitaria, gestita da una dittatura apparentemente benevola, i cui soggetti sono stati programmati per godere della propria sottomissione attraverso il condizionamento e l’uso di un narcotico – il Soma – che è meno dannoso e più gradevole di qualunque droga conosciuta. I governanti del Mondo Nuovo hanno risolto il problema di far amare alle persone la propria schiavitù. Questo ci riporta ai due scrittori di Eton, cardini del nostro futuro. Sul fronte orwelliano, stiamo andando abbastanza bene – come hanno recentemente dimostrato le rivelazioni di Edward Snowden. Abbiamo costruito un’architettura di controllo statale che lascerebbe Orwell senza fiato. E sicuramente, per chi di noi è preoccupato da tutto questo, si è rivelata durevole la capacità di Internet di agevolare tale controllo totalizzante che ha catturato la massima attenzione.In qualche modo comunque ci siamo dimenticati dell’intuizione di Huxley. Non ci siamo accorti che la nostra vertiginosa infatuazione per i giochi prodotti da Apple e Samsung – insieme alla nostra insaziabile fame di Facebook, Google e altre compagnie che ci forniscono servizi “gratuiti” in cambio degli intimi dettagli sulle nostre vite private – potrebbe rivelarsi essere una droga così potente come lo era il Soma per gli abitanti del Mondo Nuovo. Quindi anche se non ci scordiamo di CS Lewis, dedichiamo un pensiero allo scrittore che intuì un futuro in cui saremmo arrivati ad amare la nostra schiavitù digitale.(John Naughton, “Aldous Huxley, il profeta della nostra nuova distopia digitale”, dal “Guardian” del 21 aprile 2014, ripreso da “Come Don Chisciotte”).Il 22 novembre 1963 il mondo era troppo preoccupato per l’assassinio di Kennedy per prestare attenzione all’arrivo da oltre atlantico di due scrittori: CS Lewis e Aldous Huxley. Cinquant’anni dopo, Lewis riceve l’onorificenza di una targa al Poets’ Corner dell’Abbazia di Westminster, che verrà consegnata venerdì durante una cerimonia. Le fanfare sono rimaste più silenziose per Huxley. Le ragioni sono molteplici: “Le cronache di Narnia” hanno consentito al loro autore d’essere inserito nella Lega Tolkien; “Shadowland”, il film sulla sua vita interpretato da Anthony Hopkins, ha fruttato milioni; i suoi scritti sulle tematiche religiose hanno fatto di lui un personaggio a livello mondiale in parecchi ambiti spirituali. Per esempio, esiste una Società CS Lewis della California; una Rivista CS Lewis ed un Centro studi CS Lewis ed amici presso un’università dell’Indiana. Aldous Huxley non è mai stato oggetto di una tale attenzione.
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Nella tela di Atropo, coi malati abbandonati nelle strade
Sappi, amica, che la citta è sotto assedio e che presto dovrà soccombere. I nuovi egemoni hanno fatto circondare l’acropoli con una coltre invisibile. Ti è stato risparmiato, di provare questa vergogna, e questo è giusto, poiché tu scegliesti di rifiutare anche l’abbraccio del sudario. Ora gli umani sono prossimi all’inèdia, ed è stato detto loro che debbono essere grati, perché non morranno subito. Prima dovranno amare il loro destino, e desiderarne ogni più recondita fibra. Quando il colpo finale verrà vibrato, ad essere spazzate via saranno statue, con orbite vuote per il troppo piangere, non più creature animate da un soffio vitale.Chiederai chi siano questi padroni, venuti a dettare legge dal nulla. Tre è il loro numero, come tre furono le tessitrici. Ricordi Klotho la filatrice, Lachesis colei che assegna in sorte, e poi l’inesorabile, Atropo, la vecchia che tagliava la vita degli uomini.Le tre Moire regnarono senza nemici, senza doversi curare d’alcuna resistenza. Le genti d’allora sapevano, o credevano di sapere, che al destino non v’è rimedio, che anche pensare agli dei è solo un gioco, il canto sussurrato del bimbo che si avventura nell’oscurità, e racconta a sé stesso una favola. Così chi viaggiava sotto il sole trascorreva i suoi giorni, col capo piegato e le spalle appesantite dal giogo della paura. Poi la scintilla della sfida iniziò a brillare, e non seppe più fermare il suo brillìo. Dapprima, prese la forma del mito, e come tale si nascose nel conforto dell’ambiguità. Icaro, Prometeo, sceglievano di opporsi a quel che era scritto, ma venivano puniti. A questi esseri finiti e fragili non pareva vero di poter scegliere, e sapevano sempre trovar conforto nell’immaginar torture per chi fuggiva dalla gabbia. Quando il pensiero emerse da quest’informe boscaglia di pulsioni, fu un nuovo inizio.A quell’epoca, se ne accorsero in pochi, ché la lotta per sopravvivere non permetteva di guardare oltre l’orizzonte della propria fatica. Alcune frasi dei filosofi, tuttavia, presero a viaggiare, e viaggiando crearono scandalo. Non potrò essere felice al banchetto se qualcuno è troppo povero per prendervi parte. Queste parole segnarono la fine d’un età dove il privilegio veniva lodato come un merito. Certo, la superstizione non cessò d’ammorbare l’aria, ma un’inquietudine s’era diffusa, una nostalgia dei giorni a venire. Infine, quando ormai gli idoli giacevano a terra infranti, la lotta assunse il volto più vero e più acre, la posta in palio divenne il dominio d’ogni cosa. Da un lato, gli avvoltoi, bramosi di cibarsi dei dolori altrui, dall’altro le moltitudini, non più afflitte dal ricorso all’oppio dell’autorità.Fu uno scontro immenso, lungo un secolo, non privo di compromessi, astuzie e inganni. I vincitori non tralasciarono nulla, anche i ricordi e le speranze degli schiavi. Ora le Moire sono tornate, e di nuovo impongono la misura della vita di ciascuno. Esse vengono per dividere. Immaginale, se puoi giungere a tanto, mentre preparano una mistura di silicio per estrarne delle monete fatte di fumo e di ombra. Gli uomini credono che questo rito sia verità incarnata, e fremono perché si credono inadeguati al cospetto dei giochi di prestigio. E’ giunta voce che non si debbano più prestare cure agli abitanti della città, non ne sono degni, non hanno seguito le esortazioni che giungevano dall’alto.I malati verranno abbandonati ai bordi delle strade, e questo creerà nuove e più gravi pestilenze. I fanciulli, abbandonati da chi li ha messi al mondo, già cadono svenuti ai piedi dei loro insegnanti. Forse dovrei dire che fosti fortunata, amica, a vederti risparmiare tutto ciò. Non lo credo. In ogni tuo singolo giorno, hai tenuta alta la lanterna per illuminare la via. Così facendo, donasti fiducia ad ognuno di noi.(Alberto Melotto, “La tela di Atropo”, 8 maggio 2014. Pubblicista e collaboratore di “Megachip”, Melotto è il presidente torinese di “Alternativa”, laboratorio politico fondato da Giulietto Chiesa).Sappi, amica, che la citta è sotto assedio e che presto dovrà soccombere. I nuovi egemoni hanno fatto circondare l’acropoli con una coltre invisibile. Ti è stato risparmiato, di provare questa vergogna, e questo è giusto, poiché tu scegliesti di rifiutare anche l’abbraccio del sudario. Ora gli umani sono prossimi all’inèdia, ed è stato detto loro che debbono essere grati, perché non morranno subito. Prima dovranno amare il loro destino, e desiderarne ogni più recondita fibra. Quando il colpo finale verrà vibrato, ad essere spazzate via saranno statue, con orbite vuote per il troppo piangere, non più creature animate da un soffio vitale. Chiederai chi siano questi padroni, venuti a dettare legge dal nulla. Tre è il loro numero, come tre furono le tessitrici. Ricordi Klotho la filatrice, Lachesis colei che assegna in sorte, e poi l’inesorabile, Atropo, la vecchia che tagliava la vita degli uomini.