Archivio del Tag ‘Manhattan’
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Twin Towers, 15.000 morti. Stop ai sussidi per i moribondi
Se vi chiedessero “quante persone sono morte nell’attacco alle Torri Gemelle?”, la maggioranza di voi risponderebbe: circa 3.000. Invece la cifra è di almeno 5 volte superiore, spiega Massimo Mazzucco. «Sono già oltre 15.000 le persone morte in seguito all’attacco delle Torri Gemelle, se si contano anche tutte quelle morte di cancro negli anni successivi, per aver respirato l’amianto che era contenuto nella struttura dei due grattacieli». Per tutte queste persone – soccorritori, pompieri, poliziotti, normali cittadini – il governo americano aveva stanziato circa 7 miliardi di dollari, che avrebbero dovuto ricompensare le vittime e i loro parenti nel corso degli anni. «Ma ora – vergogna dentro la vergogna – il fondo ha comunicato che i soldi stanno per finire, e che da oggi i rimborsi verranno dimezzati per tutti i nuovi malati», scrive Mazzucco, sul blog “Luogo Comune”. In due accurati documentari, “Inganno globale” (trasmesso anche da Canale 5) e “La nuova Pearl Harbor”, Mazzucco ha sbriciolato la versione ufficiale sull’attentato: le Twin Towers non possono essere crollate per l’impatto degli aerei, sono state sicuramente “demolite” in modo deliberato. Una verità tuttora inaccettabile, per moltissimi: come potrebbero mai, gli Stati Uniti, procurarsi da soli una devastazione del genere?La risposta è che i mandanti della strage del secolo – che ha aperto il terzo millennio – non sarebbero stati gli Usa, ma una struttura-ombra annidata nei gangli del Deep State e capeggiata dall’allora vicepresidente Dick Cheney. Una struttura super-segreta, capace di produrre indagini-farsa dopo aver allontanato funzionari Fbi che si erano insospettiti. E in grado di “accecare” la difesa aerea della superpotenza inserendo un videogame negli schermi radar, quella mattina, in cui – per la prima e unica volta nella storia – c’erano solo due intercettori a difendere il cielo della East Coast: oltre 700 caccia erano tutti impegnati in esercitazioni concomitanti, lontanissimo da New York. Nel saggio “La guerra infinita”, Giulietto Chiesa punta il dito contro l’élite neocon firmataria del Pnac: tre anni prima della strage, il Piano per il Nuovo Secolo Americano prevedeva – nero su bianco – l’invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan, all’indomani del provvidenziale casus belli. In un altro saggio, “Massoni”, Gioele Magaldi è ancora più preciso: a progettare il maxi-attentato di Manhattan sarebbe stata la superloggia segreta “Hathor Pentalpha”, creata da Bush senior nel 1980 dopo la sconfitta inflittagli da Reagan alle primarie repubblicane. Obiettivo della “Hathor”: procedere “manu militari” alla globalizzazione neoliberista, anche ricorrendo al terrorismo “false flag” targato prima Al-Qaeda e poi Isis.A quasi 18 anni dalla catastrofe, una quota rilevante dell’opinione pubblica mondiale ha registrato che, come minimo, la versione ufficiale sull’11 Settembre fa acqua da tutte le parti. Certo, ai più sfugge il dato – enorme – su cui ora richiama l’attenzione Mazzucco: le vittime non sono tremila (2.996 morti, più 6.000 feriti) ma addirittura 15.000. Colpa dell’amianto disperso nell’aria durante gli incendi, senza contare le macerie di Ground Zero che continuarono a bruciare – stranamente – per settimane, esalando sostanze altamente tossiche. Triste epilogo, più che beffardo: stanno finendo i soldi stanziati per indennizzare i malati. «Più di 5 miliardi sono già stati spesi fino ad oggi per rimborsare i morti e i danneggiati da malattie respiratorie, e ne restano soltando un paio prima che il fondo si esaurisca», scrive Mazzucco. «Purtroppo – aggiunge – il mesotelioma si rivela a volte solo dopo molti anni, per cui non è possibile sapere quanti ancora si presentaranno agli sportelli governativi per reclamare il compenso per la malattia». Ma la Casa Bianca, così pronta a inviare “aiuti umanitari” nelle nazioni di cui vorrebbe far cadere il governo, «non riesce a trovar dei soldi aggiuntivi per i morti e i malati delle Torri Gemelle», vittime – tecnicamente – della peggior “strage di Stato” della storia.Se vi chiedessero “quante persone sono morte nell’attacco alle Torri Gemelle?”, la maggioranza di voi risponderebbe: circa 3.000. Invece la cifra è di almeno 5 volte superiore, spiega Massimo Mazzucco. «Sono già oltre 15.000 le persone morte in seguito all’attacco delle Torri Gemelle, se si contano anche tutte quelle morte di cancro negli anni successivi, per aver respirato l’amianto che era contenuto nella struttura dei due grattacieli». Per tutte queste persone – soccorritori, pompieri, poliziotti, normali cittadini – il governo americano aveva stanziato circa 7 miliardi di dollari, che avrebbero dovuto ricompensare le vittime e i loro parenti nel corso degli anni. «Ma ora – vergogna dentro la vergogna – il fondo ha comunicato che i soldi stanno per finire, e che da oggi i rimborsi verranno dimezzati per tutti i nuovi malati», scrive Mazzucco, sul blog “Luogo Comune”. In due accurati documentari, “Inganno globale” (trasmesso anche da Canale 5) e “La nuova Pearl Harbor”, Mazzucco ha sbriciolato la versione ufficiale sull’attentato: le Twin Towers non possono essere crollate per l’impatto degli aerei, sono state sicuramente “demolite” in modo deliberato. Una verità tuttora inaccettabile, per moltissimi: come potrebbero mai, gli Stati Uniti, procurarsi da soli una devastazione del genere?
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Hitler, Kennedy, 11 Settembre: è nera la storia dei Bush
Se c’è un motivo per cui si insiste sull’importanza dell’omicidio Kennedy, dopo oltre 50 anni dall’evento, non è certo per “cospirazionismo congenito”, ma per un fatto molto più semplice e tangibile: la stessa persona che era a Dallas il 22 novembre 1963 dormì alla Casa Bianca il 10 settembre 2001. E ciò per sua stessa ammissione, in ambedue i casi. Anzi, nel primo George Herbert Bush, padre-padrone del Nuovo Ordine Mondiale – oltre che del futuro presidente, George Walker Bush – si premurò di informare direttamente l’Fbi della sua presenza a Dallas quel giorno, proprio nelle ore in cui il corteo di Kennedy si presentava all’appuntamento con la storia in Dealey Plaza. Nelle stesse ore Richard Nixon, presente a Dallas da tre giorni per «motivi personali» – peraltro mai accertati – ripartiva alla volta di New York, dove avrebbe appreso dell’avvenuto omicidio di John Kennedy. Sarebbe diventato l’unico uomo al mondo a non ricordarsi del momento esatto in cui apprese la notizia, fornendone negli anni ben tre versioni differenti: all’aeroporto, durante il tragitto in taxi, sotto il portone di casa. «Diventano così tre, contando anche Johnson che lo sarebbe diventato quel pomeriggio, i futuri presidenti che erano a Dallas quel giorno. Un curioso crocevia della storia, se non altro».Lo afferma Massimo Mazzucco, riproponendo su “Luogo Comune” una scheda sulla dinastia dei Bush all’indomani della scomparsa di “Bush padre”, George H., spentosi a Houston il 30 novembre all’età di 94 anni. Dei Bush “segreti” parla diffusamente Gioele Magaldi nel bestseller “Massoni” (Chiarelettere, 2014), svelando che – dopo la sconfitta subita da Reagan alle primarie repubblicane nel 1980 – Bush senior fondò la Ur-Lodge “Hathor Pentalpha”, detta anche “loggia del sangue e della vendetta”. Alla “Hathor”, nella sua ricostruzione fondata su un archivio massonico di 6.000 pagine, Magaldi attribuisce l’attentato a Reagan (cui seguì in modo simmetrico l’attentato a Papa Wojtyla), quindi l’incubazione della strage dell’11 Settembre e infine – ancora nel campo del terrorismo “false flag” – la fabbricazione dell’Isis, ultima incarnazione del “demonio” islamista partorito dallo schema (interamente occidentale) del cosiddetto “scontro di civiltà”, grazie al quale il gruppo di potere capeggiato dalla superloggia dei Bush decise di completare “a mano armata” la globalizzazione violenta del pianeta, attraverso guerre in Medio Oriente innescate da “fake news” come le inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam Hussein.Dal canto suo, Mazzucco si concentra invece su “nonno Bush”, ovvero Prescott, il padre di George H. Lo definisce «la persona più importante di tutte, in questa vicenda», dati i clamorosi legami della famiglia col nazismo. Retroscena imbarazzanti, in grado di illuminare le origini del gruppo di potere che – con l’11 Settembre – ha cambiato la storia del pianeta. Tanto per cominciare, Prescott Bush era a Dallas il giorno dell’attentato a Kennedy. E oltre che ad aver avuto un ruolo determinante, dietro le quinte, in tutta la politica americana del dopoguerra, lo stesso Prescott è risultato esser stato implicato nei pesanti finanziamenti illeciti che contribuirono all’ascesa di Hitler al potere. La vicenda, aggiunge Mazzucco, merita di essere conosciuta per meglio inquadrare la potenza di una dinastia così determinante, nella storia degli Usa e del resto del mondo. Fin dall’inizio, la saga dei Bush è fondata sul fatale intreccio di politica e affari. Il nonno materno di Prescott, George Herbert Walker, aveva fondato a St.Louis, nel 1900, la società finanziaria G. H. Walker and Company. Tale fu il suo successo, che nel 1920 la società si trasferiva con tutti gli onori nella prestigiosa Wall Street di New York. Di lì a poco, il contatto con la Germania: nel 1924 George Walker conobbe l’industriale tedesco Fritz Tyssen, uno dei maggiori finanziatori del nascente partito nazista. «In poco tempo Walker divenne a sua volta il tramite di finanziamenti sempre più voluminosi che dall’America finivano direttamente nelle casse di Hitler».Un’altra compagnia che investiva denaro americano in Germania era la Sullivan & Cromwell di un certo Allen Dulles, che ritroveremo trent’anni dopo alla guida della Cia. Una terza società, la più importante di tutte, era la Harriman & Associates, di un certo Averill Harriman: «Un personaggio con forti legami col paritito nazista tedesco, che in seguito sarebbe divenuto ambasciatore Usa a Mosca, e poi ministro del commenrcio, sotto Truman». Nel 1931, prosegue Mazzucco, Harriman scelse George Walker alla guida della Union Banking Corporation, la banca che gli serviva da tramite per i suoi traffici monetari con la Germania. A sua volta, nel 1934, George Walker fece assumere il nipote Prescott come vicepresidente della Harriman & Associates, accanto al suo boss. Nel 1936 Harriman fondò la Brown Brothers Harriman, ne assunse alla guida legale Allen Dulles, del quale assorbiva nel frattempo la Sullivan & Cromwell. Nel 1937 Harriman entrò in società con i Rockefeller, dando origine alla Brown Brothers Harriman-Schroeder Rock. Già a quel tempo, Rockefeller significava Standard Oil.Come delfino di Harriman, Prescott Bush si era intanto venuto a trovare, prima della guerra, anche nel consiglio di amministazione della Union Banking. Ma nel 1942 – a guerra scoppiata – la banca si vide congelare dall’Fbi di Edgar J. Hoover tutti i beni, in seguito ad una legge che imponeva di interrompere ogni possibile relazione finanziaria con in paesi nemici. «Ma Prescott, con l’aiuto di Dulles, seppe congegnare un meccanismo finanziario che permise alla maggior parte dei capitali di sfuggire al congelamento, dirottandoli semplicemente in operazioni molto meno vistose, ma altrettanto lucrative. Per Prescott fu il trionfo, e per Dulles la garanzia di un futuro senza più limiti alle sue ambizioni». Naturalmente, aggiunge Mazzucco, «Hoover non era stato troppo rigoroso nell’indagare sulla Union Bank di Harriman, e molto probabilmente nacque proprio in quei giorni una reciproca simpatia fra i tre “ragazzi”, che avrebbe poi condizionato la storia per molti decenni a venire». Se Allen Dulles e Edgar Hoover si legano ai Bush già durante il secondo conflitto mondiale, l’uomo-chiave dell’ancoraggio della famiglia Bush nella politica americana del dopoguerra sarà Richard Nixon, «divenuto il pupillo di Prescott – altri direbbero il suo pupazzo». Bush ne aveva finanziato l’elezione al Parlamento, dopo averlo prelevato dai ranghi dell’Fbi.Risale a quegli anni, sostiene Mazzucco, un possibile collegamento fra Nixon e Jack Ruby, l’assassino di Oswald a Dallas. Sempre “nonno Bush” aveva poi piazzato Nixon accanto ad Eisenhower, alla vicepresidenza, facendogli sposare la nipotina dell’ex-generale. «Nixon era quindi diventato il candidato naturale alla presidenza, nel 1960, allo scadere del mandato di Eisenhower, ma aveva perso a sorpresa contro lo sconosciuto Kennedy». Con l’assassinio di Dealey Plaza, tre anni dopo, si riapriva per Nixon (e quindi per Prescott Bush) la strada della Casa Bianca. Il giorno seguente, infatti – come poi raccontò uno dei suoi più stretti collaboratori – si svolse a casa di Nixon una riunione segreta, nella quale vennero discusse le strategie per rientrare sulla scena politica, dopo la bruciante sconfitta del 1960. «Cuba era diventata nel frattempo una dolorosa spina nel fianco, dopo il fallimento dell’invasione della “Baia dei Porci”, che i repubblicani imputavano interamente a Kennedy. Ma il progetto originale, del ‘59, era dello stesso Nixon, il quale evidentemente “se lo era preparato” per ritrovarselo fresco sul tavolo, una volta divenuto presidente».Lo aveva elaborato subito dopo la rivoluzione castrista, collaborando con un certo Howard Hunt della Cia, uomo di Allen Dulles (il direttore Cia in quel periodo) sin dagli anni ‘30. La differenza era che il piano Hunt-Nixon-Dulles prevedeva che al momento giusto l’America avrebbe concesso il supporto militare richiesto dagli “invasori” di Cuba, mentre Kennedy “al momento giusto” si rifiutò di concederlo. Questo causò una crisi insanabile all’interno dell’amministrazione, con la frattura definitiva fra la Cia e Kennedy, che si permise addirittura di licenziare Dulles. «Meno di due anni dopo, Allen Dulles sedeva accanto al giudice Warren, nella famigerata commissione che prendeva il suo nome, e che riusciva in qualche modo ad insabbiare le indagini sull’omicidio più famoso della storia». Curiosamente, annota Mazzucco, anche Howard Hunt si trovava a Dallas il giorno dell’attentato: «Nonostante in seguito abbia tentato di negarlo, fu inchiodato in proposito dalla testimonianza dei suoi stessi figli». E così, «il crocevia texano si fa sempre più fitto». Nel ‘64 però Nixon scelse, saggiamente, di non candidarsi, poichè la popolarità di Johnson – succeduto a Kennedy dopo Dallas – in quel momento era alle stelle. Johnson infatti stracciò letteralmente il candidato repubblicano Barry Goldwater.Nixon sarebbe rientrato alla Casa Bianca solo nel ‘68, dopo la morte del nuovo candidato democratico, Robert Kennedy, anch’egli assassinato in circostanze mai chiarite, «ma di certo non da Shiran Shiran solamente». Una volta che Nixon fu presidente, Howard Hunt fece uno strepitoso balzo di carriera, passando da semplice agente Cia a capo dei servizi segreti della Casa Bianca. Contemporaneamente George H. Bush (“Bush padre”, il figlio di Prescott) veniva nominato da Nixon ambasciatore alle Nazioni Unite. «Ormai le redini del comando, in famiglia, erano passate a George H. Bush». Prescott però moriva, nel 1972, e non potè vedere il figlio diventare direttore della Cia nel 1976, poi vicepresidente sotto Reagan (1980-1988), ed infine presidente egli stesso, dal 1988 al 1992. Non vide nemmeno, peraltro, la sconfitta del figlio nel 1992, che perdeva inaspettatamente la sua rielezione contro uno sconosciuto Bill Clinton. La storia sembrava ripetersi, e fu questa volta George H. Bush a dover attendere la controversa decisione della Corte Suprema, nel 2000, per poter piazzare il figlio – George W. – fra le mura tanto amate. «Talmente amate, parrebbe, che il 10 di settembre del 2001, nonostante il figlio si trovasse in Florida, decise di fermarsi a dormire alla Casa Bianca, sulla via del ritorno da New York al Texas».Lo ha raccontato egli stesso in televisione, più di una volta. Sarebbe ripartito molto presto all’alba, venendo così a trovarsi già vicino a casa, al momento del blocco completo dei voli che seguì gli attentati dell’11 Settembre. «La sera del 10, a fare gli onori di casa c’era Dick Cheney, l’uomo che lo stesso Bush aveva messo accanto al figlio, come vicepresidente, un anno prima. Cheney era anche l’uomo che, in assenza del presidente in carica, avrebbe saldamente preso in mano la situazione durante gli attacchi terroristici, arrivando anche a far deviare, tramite i servizi segreti, i due caccia che si stavano finalmente dirigendo verso l’aereo diretto sul Pentagono, e mandandoli invece su un bersaglio fasullo». Aggiunge Mazzucco: «Che cosa abbia fatto George H. Bush a Dallas nel lontano 1963, e che cosa abbia fatto – o di cosa abbia parlato con Cheney – la notte del 10 settembre 2001, alla Casa Bianca, non lo sapremo probabilmente mai».Stranissima, poi, la telefonata che George H. Bush fece, il 22 novembre 1963, a un agente Fbi, Graham Kitchel. Nel suo report, Kitchel riporta due notizie. La prima: Bush senior gli ha segnalato il nome di un giovane, James Parrott, «forse studente dell’università di Houston». Naturalmente «in via confidenziale», Bush parla di «una voce» che «ha sentito girare» nelle settimane precedenti, secondo cui l’ipotetico Parrott «andava parlando di uccidere il Presidente», quando fosse arrivato a Houston. Sempre all’agente Fbi, Bush fornì indicazioni su come approfondire: due donne della direzione del partito repubbicano della contea di Harris avrebbero potuto fornire maggiori informazioni sull’identità di Parrott. Infine, lo stesso Kitchel scrive: «Bush ha dichiarato di essere in partenza per Dallas, Texas, dove avrebbe alloggiato allo Sheraton-Dallas, per tornare a casa sua il 23 novembre 1963», cioè il giorno seguente. Curioso, segnala Mazzucco: «Mentre Kennedy sta morendo all’ospedale di Dallas, Bush – allora privato cittadino, e presidente di una delle tante compagnie petrolifere di proprietà di famiglia – parte per la stessa città, e si premura di farlo sapere all’Fbi». Sembra proprio di leggere fra le righe «una strana voglia da parte sua di “farsi trovare” a tutti costi dalla stessa Fbi, a Dallas, quella sera».Ancora più curioso, dice Mazzucco, è che Bush utilizzi, come scusa per rendere nota la sua presenza in città, proprio la “voce di possibile attentato al presidente Kennedy, quando verrà a Huston”, visto che a Houston Kennedy c’era già stato. «Di certo si può supporre una cosa: se Bush quella sera è stato contattato dall’Fbi – come appare probabile – avrà sicuramente avuto da loro più informazioni sull’attentato appena avvenuto, di quante ne possa mai aver date sul suo fantomatico “James Parrott”». Curioso infine che l’ora in cui fu ricevuta la telefonata (13.45) corrisponda al momento in cui la notizia della morte di Kennedy, avvenuta intorno alle 13, iniziava a rimbalzare in tutte le agenzie del mondo. «Giusto per assicurarsi un “alibi” fuori città, nel caso estremo, ma anche giusto in tempo per saltare in macchina e raggiungere lo Sheraton di Dallas, dove potersi “rendere reperibile in serata”». Tutte coincidenze? «Può darsi. Ma che dire allora di questo documento, dal quale risulta che Jack Ruby – l’uomo su cui fece perno l’intera organizzazione dell’omicidio di Dallas, e che pensò poi a liberarsi fisicamente di Oswald, prima che potesse parlare – lavorava per Nixon già dal lontano 1947?».Si tratta di un documento dell’Fbi, desecretato qualche anno fa. «Giuro con questa dichiarazione che un certo Jacob Rubinstein di Chicago, potenziale testimone davanti al Comitato per le Attività Antiamericane [Commissione McCarthy], lavora come informatore per l’ufficio del deputato repubblicano della California, Richard M. Nixon. Si richiede di non interrogarlo pubblicamente nelle udienze sopra menzionate». La data: 14 novembre 1947. «E’ noto che in quel periodo Ruby lavorasse per la mafia di Chicago», osserva Mazzucco, «e il documento sembra quindi fornire l’anello mancante per il collegamento fra mondo “pulito” e mondo “sporco”, che fu assolutamente necessario per organizzare a Dallas un attentato che desse le massime garanzie di riuscita». Prescott Bush e la Germania di Hitler, la Cia di Allen Dulles, l’Fbi di Edgar Hoover, quindi Richard Nixon e infine George Herbert e George Walker, padre e figlio, direttamente alla Casa Bianca – l’ultimo sotto la tutela del potente Dick Cheney, emblema del Deep State. Le Torri Gemelle, l’Iraq, l’Afghanistan, l’incendio permanente in Medio Oriente. Potere, attentati, guerra e terrorismo: una dinastia in chiaroscuro, con ombre più che inquietanti attraverso svariati decenni, a tracciare una vera e propria storia parallela, accanto a quella ufficiale.Se c’è un motivo per cui si insiste sull’importanza dell’omicidio Kennedy, dopo oltre 50 anni dall’evento, non è certo per “cospirazionismo congenito”, ma per un fatto molto più semplice e tangibile: la stessa persona che era a Dallas il 22 novembre 1963 dormì alla Casa Bianca il 10 settembre 2001. E ciò per sua stessa ammissione, in ambedue i casi. Anzi, nel primo George Herbert Bush, padre-padrone del Nuovo Ordine Mondiale – oltre che del futuro presidente, George Walker Bush – si premurò di informare direttamente l’Fbi della sua presenza a Dallas quel giorno, proprio nelle ore in cui il corteo di Kennedy si presentava all’appuntamento con la storia in Dealey Plaza. Nelle stesse ore Richard Nixon, presente a Dallas da tre giorni per «motivi personali» – peraltro mai accertati – ripartiva alla volta di New York, dove avrebbe appreso dell’avvenuto omicidio di John Kennedy. Sarebbe diventato l’unico uomo al mondo a non ricordarsi del momento esatto in cui apprese la notizia, fornendone negli anni ben tre versioni differenti: all’aeroporto, durante il tragitto in taxi, sotto il portone di casa. «Diventano così tre, contando anche Johnson che lo sarebbe diventato quel pomeriggio, i futuri presidenti che erano a Dallas quel giorno. Un curioso crocevia della storia, se non altro».
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Salvini con Bannon e Orban? Big Business resusciterà il Pd
Il capitalismo che abbiamo sempre conosciuto, quello che viveva su un’umanità composta da un 20% di benestanti consumatori e da un 80% di schiavi che producono per loro, non esiste quasi più. E non solo. Quell’80% di schiavi si sono evoluti, e hanno cambiato nome: da poveracci neri, marron, o gialli, adesso si chiamano mercati emergenti. E non solo. Mentre prima le loro economie, al netto delle loro materie prime, valevano solo il prezzo delle loro schiene rotte dal lavoro, oggi valgono cifre inimmaginabili. Ecco un quadro. Solamente Cina e India producono insieme 33.000 miliardi di dollari di beni e servizi, contro la rallentata Ue con 21.000 miliardi e gli Usa con 19.500. I sette mercati emergenti principali, cioè Brasile, Cina, India, Indonesia, Messico, Russia e Turchia, hanno quasi raddoppiato il loro potere economico, mentre al contrario i paesi del G7 stanno calando vistosamente nelle percentuali di Pil globale. Secondo uno studio della nota consultancy PwC Uk, nelle prime 32 economie dei prossimi quindici anni ben 20 saranno mercati emergenti, con Cina e India che sorpassano gli Usa, e l’Italia fanalino di coda umiliata persino da Vietnam, Filippine, Corea del Sud, Iran e Pakistan.Oltretutto, è già stato ampiamente previsto che proprio l’odierna crisi degli “emergenti” già cova in sé l’usuale rimbalzo sia speculativo che in termini di produzione, con profitti cosmici per gli investitori. Il punto: gli uomini con le scarpe da 5.000 dollari che stanno a Manhattan, Hong Kong, Davos o a Francoforte sanno fare i loro conti coi soldi, e oggi, al contrario di solo pochi anni fa, non si possono più permettere di ‘offendere’ quelli neri, marron o gialli. L’accusa, o anche solamente il sospetto, di simpatie o contiguità con la parola razzismo è fra le ultime cose che vogliono al mondo. Basta un titolo sul “Wall Street Journal” che insinui quella vicinanza e loro ci smenano miliardi in pochi minuti. No, non deve succedere. L’implacabile sobillare del padano nella direzione dell’ipertrofico allarme migranti ha appiccicato a questo governo una colossale etichetta di razzismo-xenofobia populista agli occhi di tutto il mondo, e ora non ce la leva più nessuno. Unite i puntini e starete capendo cosa accadrà.L’Italia è un paese ancora ricco, con un notevolissimo bottino in assets privati, che ispira grandi appetiti fra gli investitori internazionali. Si pensi solo che Assogestioni, che ha il polso del risparmio delle famiglie italiane, ha registrato a metà 2016 il suo record storico di patrimonio con 1.857 miliardi, più dell’intero Pil nazionale. E’ quindi ovvio che i mercati non rinunceranno a operare in Italia. Ma fosse stato solo per gli sbraiti nazionali a tinteggiature razziste populiste di Matteo Salvini, e delle sue folle nelle piazze o sui social, è anche possibile pensare che gli investitori internazionali avrebbero solo esercitato prudenza, con Roma. In altre parole: far affari, ma con un basso profilo. Invece, come detto, tutto è cambiato per il peggio e senza rimedio dopo che Salvini si è associato inequivocabilmente, platealmente e sbracando del tutto con Steve Bannon e Viktor Orban. Un atto politico irresponsabile per il paese.I mercati pianificano il loro futuro in politica non a 8 stupidi mesi (le europee) come fa l’esaltato fan-club leghista, ma a 10 o 30 anni. Ora gli investitori internazionali, dopo l’irrimediabile svolta di cui sopra e, ricordo ancora, con ¾ di occhio puntato a tenersi buoni i mercati emergenti dei ‘neri, marron e gialli’, stanno scegliendo l’unico loro possibile interlocutore rimastogli in Italia, quello che non rischia di finire sul “Wall Steet Journal” o su “Bloomberg” come razzista populista: il centrosinistra, che peraltro fu sempre il loro favorito. Il Movimento 5 Stelle è per il momento fuori dai loro radar, perché incatenato (e sottomesso risibilmente) alla Lega. A cosa credete che stiano lavorando in quest’epoca i Romano Prodi, Mario Monti, Corrado Passera o i Giovanni Bazoli, e naturalmente Mattarella e Draghi con la loro enorme rete di contatti in finanza e nelle Powerhouse del mondo? Per essere ancor più chiari: Big Business non potrà sposarsi con un trionfo a breve termine (2019) dei razzisti Bannon, Orban, Salvini e codazzo in Ue. Starà calmo in superficie, mentre finanzierà sia la rapida caduta dei populisti che il ritorno dei soliti noti. Ancora dettagli.La storia delle spinte ai partiti da parte della lobbistica e dei mercati, con finanziamenti, appoggi trasversali, lavori di persuasione mediatica, scolastica, accademica, e in particolare di terrorismo economico sugli elettori, l’ho lungamente descritta nella parte storica de “Il Più Grande Crimine”. Ne sarà beneficiario nei prossimi 5-10 anni il centrosinistra, e tornerà a vincere. Basterebbero a questo fine anche solo le aste dei titoli con cui si finanzia il nostro Tesoro, perché sono loro a decidere chi governa o meno, e dunque se tu avrai una vita decente o invece una lunga miseria di fatiche. Quelle aste, di nuovo, le hanno totalmente in mano gli investitori internazionali di cui sopra, perché l’Italia, anche con Salvini e i suoi economisti in malafede, è incastonata nell’Eurozona senza che nessuno seriamente intenda togliervela. E’ desolante nella sua stupidità l’elettorato gradasso tinto di verde nella sua convinzione che nessuno più fermerà il populismo. Balle, loro stessi (e per primi) si squaglieranno al sole quando gli stolti populismi europei mancheranno miseramente di ‘consegnargli il concreto’ nei portafogli.Avete presente i proverbiali topi che saltano dalla nave? Saranno nulla in confronto. Sappiamo bene di cosa è capace l’italiano medio nel suo genio supremo, il trasformismo. Ho descritto quella che sarà una catastrofe a tutto tondo, e per essa dovrete solo ringraziare Matteo Salvini nella sua smisurata e miope ambizione a divenire leader dei populismi dell’Ue assieme a due appestati di fama mondiale, in quella che sarà una slabbrata avventuretta europea di pochi anni destinata agli sberleffi della storia. Ma non è tutto. Ci sono i Faang. Sono ahimè pochissimi gli italiani che assieme a me si stanno rendendo conto che qualcosa di ancor più inaudito sta avvenendo alle spalle delle già epocali manovre post-capitalismo sopra descritte. Please welcome i Faang, cioè la dilagante conquista di ogni frammento di globo da parte delle tecnologie di Facebook (F), Apple (A), Amazon (A), Netflix (N), e Google (G) – ma non ci si dimentichi di Alibaba, Tencent, Huawei, dall’altra parte del pianeta, e di migliaia di altri simili al seguito in ogni dove.Come ho già scritto in due anni di lavoro, i colossi “tech” vanno man mano acquisendo niente meno che le chiavi private della vita sul pianeta in ogni campo, dalla finanza alla medicina alle comunicazioni; dai trasporti civili e commerciali all’energia alle materie prime; dagli alloggi alla difesa al cibo stesso, e si potrebbe continuare all’infinito. Possono farlo perché sono loro, e non più il vecchio capitalismo industriale, a brevettare quasi tutto ciò che di nuovo nasce sulla Terra da almeno 20 anni a questa parte. Ma di più: il loro strapotere è balzato oltre l’atmosfera con il dilagare della loro Artificial Intelligence (Machine Learning in particolare), perché, come epicamente detto dal fondatore di Google-DeepMind Demis Hassabis, «noi vogliamo padroneggiare l’intelligenza, e poi risolvere tutto il resto». Questo fu geniale, perché davvero è solo l’intelligenza il motore dell’umanità, e chi la controllerà con le “tech” controllerà il mondo. Ma anche senza esplorare nei dettagli l’inimmaginabile nuovo potere dei Faang e soci, chiunque oggi non viva nelle catacombe vede ogni giorno come la società e l’economia di ogni centimetro quadrato della Terra stiano vestendosi sempre più di Faang.E rieccoci al punto: per motivi che ho per primo divulgato al pubblico, i nuovi padroni “tech” del pianeta stanno correndo forsennatamente verso posizioni etiche sempre più avanzate, che piazzano in primo piano in ogni loro pubblica mossa, ricerca di laboratorio e prodotto. Fa parte del Dna della loro strategia di vendita globale. Occorrerebbe un saggio enorme per dare conto con esempi di questo, ma dovrebbe essere evidente a chiunque segua anche solo distrattamente il dibattito sulle “tech”. Dunque se la parola “Ethics” è spalmata dappertutto fra i padroni del futuro, le parole “Racism” e la consociata “Populism” sono per essi letteralmente virus di peste bubbonica, e anche solo sfiorassero l’immagine aziendale di questi colossi gli farebbero perdere tali volumi d’affari da impietrire i loro Ad. Riapplicate su Faang e soci quanto già detto sopra nel caso degli investitori internazionali, e ci risiamo: con un Salvini al governo che ora puzza internazionalmente del razzismo populista di Bannon-Orban, i padroni delle chiavi orivate della vita sul pianeta in ogni campo sterzeranno molto alla larga dalla Roma gialloverde, e indovinate su chi punteranno? Vi rendete conto di che razza di spinta politica si tratta? Più che spinta, è una certezza.Concludo riprendendo il testimone da qui: il populismo italiano, prima di Salvini e dei suoi inguardabili compari, aveva il potenziale di svilupparsi in una nuova frontiera della difesa dei nostri diritti costituzionali macellati dalla Ue, alla luce del disgustoso tradimento della sinistra politically correct. Ora è un’etichetta marcia, inavvicinabile e senza futuro. La colpa è ben ferma sulle spalle di Matteo Salvini, “nella sua smisurata ambizione a divenire leader dei populismi dell’Ue assieme a due appestati di fama mondiale, in quella che sarà una slabbrata avventuretta europea di pochi anni destinata agli sberleffi della storia”. Mercati e Faang sono ora costretti a riportarci il Peggior (P) Destino (D) possibile, nella camera a gas chiamata Eurozona. Agli esagitati stupidi che “il trionfo sarà fra 8 mesi” (le europee), ricordo ancora che oggi il loro futuro è pianificato a 10 o 30 anni a partire da questo minuto da chi gli finanzia il 100% dell’ossigeno di cui vivono. E con quest’arma in mano, quelli difficilmente perdono. Che il volere del popolo sia infermabile è la più sonora balla mai raccontata ai popoli. Da chi? Dai populisti alla Salvini.(Paolo Barnard, estratto dal post “Salvini ha sbracato e ci riporterà il Pd, ecco come”, pubblicato sul blog di Barnard il 26 settembre 2018).Il capitalismo che abbiamo sempre conosciuto, quello che viveva su un’umanità composta da un 20% di benestanti consumatori e da un 80% di schiavi che producono per loro, non esiste quasi più. E non solo. Quell’80% di schiavi si sono evoluti, e hanno cambiato nome: da poveracci neri, marron, o gialli, adesso si chiamano mercati emergenti. E non solo. Mentre prima le loro economie, al netto delle loro materie prime, valevano solo il prezzo delle loro schiene rotte dal lavoro, oggi valgono cifre inimmaginabili. Ecco un quadro. Solamente Cina e India producono insieme 33.000 miliardi di dollari di beni e servizi, contro la rallentata Ue con 21.000 miliardi e gli Usa con 19.500. I sette mercati emergenti principali, cioè Brasile, Cina, India, Indonesia, Messico, Russia e Turchia, hanno quasi raddoppiato il loro potere economico, mentre al contrario i paesi del G7 stanno calando vistosamente nelle percentuali di Pil globale. Secondo uno studio della nota consultancy PwC Uk, nelle prime 32 economie dei prossimi quindici anni ben 20 saranno mercati emergenti, con Cina e India che sorpassano gli Usa, e l’Italia fanalino di coda umiliata persino da Vietnam, Filippine, Corea del Sud, Iran e Pakistan.
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Foa in Rai: che succede quando un eretico sale al potere?
Che succede, quando il mondo si capovolge e un eretico sale al potere? In Italia, di solito, se un outsider assoluto conquista una poltrona significa che non è più un vero outsider, perché l’establishment se l’è già “comprato”: intende usarlo per drenare il dissenso, facendo sfogare in modo innocuo e illusorio il malcontento di cui era stato la voce. I posti di comando, in genere, sono pieni di ex rivoluzionari ben remunerati, arruolati per la peggiore delle missioni: rinnegare di fatto la propria storia, i propri ideali, e riallineare il pubblico alla “voce del padrone”, utilizzando il prestigio di quella che, un tempo, era stata una voce diversa, apprezzata proprio perché libera e indipendente, e quindi scomoda. Solo in casi rarissimi un vero eretico può raggiungere il ponte di comando rimanendo se stesso. Come accorgersene? Semplice: basta vedere che tipo di accoglienza gli viene riservata. Ed è il caso della nomina di Marcello Foa, nuovo presidente della Rai: i grandi media, in coro, lo accolgono nella migliore delle ipotesi con freddezza, come se si trattasse di un intruso molesto e sgradevole, un oscuro alieno anziché un illustre collega, mentre le macerie della vecchia politica – rottamata dagli italiani il 4 marzo 2018 – descrivono il neo-eletto come una specie di teppista, di impudente cialtrone. In questo, ricordano da vicino il sovrano disprezzo che i dittatori mostrano sempre per il loro popolo in rivolta, un minuto prima di essere defenestrati dalla storia.C’è qualcosa di meta-politico, di profondamente eversivo, nella sola idea di aver pensato a un cavaliere solitario e coltissimo come Foa, giornalista di razza e gentiluomo, per la presidenza della televisione di Stato, vera e propria fabbrica del consenso, per decenni affidata il più delle volte a mani servili e mediocri. È antropologicamente eversiva, la figura del liberale Foa al vertice della Rai: è il bambino che non può fare a meno di svelare l’imbarazzante nudità del sovrano, del monarca che si gloria nel celebrare una pace apparente, mentre intorno infuria la peggiore delle guerre. La guerriglia di oggi, nella quale Marcello Foa si trova coinvolto – dopo aver dato la sua avventurosa disponibilità a quell’ipotesi democratica chiamata “governo gialloverde” – non è un conflitto come quelli che l’hanno preceduto: è un sordido massacro quotidiano perpetrato ovunque, senza frontiere, senza più neppure le bandiere di un tempo. È una guerra orwelliana, affidata a mercenari. Navi corsare, che combattono (per lo più in incognito) per conto di padroni potentissimi, protetti dall’anonimato. Non c’è più neppure il triste onore della battaglia: si viene sopraffatti in modo subdolo, sistematicamente sommersi da menzogne spacciate per verità di fede, che il sistema mediatico non si cura più di verificare. Ed è proprio per questo che l’attuale sistema mediatico italiano detesta, e teme, Marcello Foa.Ascoltando solo e sempre un’unica campana, il sistema mainstream ci ha raccontato in questi anni che le poderose, ciclopiche Torri Gemelle di Manhattan sono crollate su se stesse, come se fossero state di cartone anziché di acciaio, solo perché colpite – con una manovra proibitiva persino per i migliori “top gun” – da normalissimi e leggerissimi jet di linea fatti di alluminio, dirottati da apprendisti piloti arabi, di cui tuttora non si sa nulla: non un’immagine, al fatale imbarco, di nessuno dei 19 presunti dirottatori (salvo poi rintracciare i loro passaporti, nientemeno, nell’inferno fumante di Ground Zero). Finge di credere sempre e soltanto alla versione ufficiale, il mainstream media, anche quando dimentica di ricordare che furono gli Usa a incoraggiare Saddam Hussein a invadere il Kuwait, dopo averlo spinto a combattere contro l’Iran. Dà retta unicamente al super-governo universale, il club dei telegiornali, anche quando assicura che Saddam disponeva di micidiali armi di distruzione di massa. E tace, invece, quando l’Onu dimostra che quelle armi erano pura fantasia, come i gas siriani di Assad, le fosse comuni di Gheddafi, le violenze della polizia di Yanukovich in Ucraina. E poi applaude a reti unificate, la consorteria mediatica, quando in Italia appaiono i cosiddetti salvatori della patria – i Monti, i Cottarelli – armati del bisturi che useranno per amputare carne viva, risparmi e pensioni, economia italiana di aziende e famiglie, oscurando il futuro dei giovani.All’epoca in cui Marcello Foa lavorava al “Giornale” di Indro Montanelli, il mondo probabilmente appariva infinitamente più semplice – più chiaro, più visibile nei suoi errori e orrori: la guerra fredda, il Medio Oriente e gli sconquassi africani della decolonizzazione, la strategia della tensione organizzata per gambizzare l’Italia e impedirle di prendere il volo come autonoma potenza euromediterranea fondata sulla forza formidabile dell’economia mista, pubblico-privata. In quella redazione milanese, dove Foa è cresciuto professionalmente, su una parete c’era appesa una carta geografica di Israele che indicava come capitale Gerusalemme, già allora, anziché Tel Aviv. Se Enrico Berlinguer impiegò anni per ammettere che si sentiva più al sicuro sotto l’ombrello della Nato piuttosto che tra i carri armati del Patto di Varsavia, Marcello Foa e il suo maestro Montanelli non avevano mai avuto dubbi sul fatto che niente di buono potesse venire, per l’Occidente, da un’oligarchia sedicente comunista che aveva soppresso sul nascere i primi vagiti democratici della Russia, cambiando semplicemente look all’antico dispotismo zarista. L’eroico sacrificio dell’Unione Sovietica, decisivo nell’abbattere il nazifascismo, non poteva cancellare né i Gulag di Stalin né l’esilio di Aleksandr Solženicyn. Era fatto di certezze, il mondo di Foa e Montanelli: la libertà (inclusa quella d’impresa) come fondamento irrinunciabile di qualsiasi comunità civile degna di chiamarsi democratica.Ed è questo che rende Foa insopportabile al potere economico di oggi, dove la libertà d’impresa cede il passo al dominio di immensi oligopoli finanziari globalizzati, privilegiati da legislazioni truccate come quelle dell’Unione Europea ordoliberista. È tanto più sgradevole e insidioso, Foa, perché non proviene – come invece molti anchorman televisivi – dalla contestazione giovanile del capitalismo: credeva, Foa, negli stessi valori professati dall’élite economica di un tempo, orientata pur sempre alla promozione della mobilità sociale, in sostanziale accordo con le forze sindacali dell’allora sinistra. Una dialettica anche aspra, ma vocata in ogni caso al miglioramento complessivo del sistema-paese. E mediata – sempre – dalla politica, letteralmente scomparsa dai radar italiani per 25 lunghissimi anni. Solo oggi, alla distanza, ci si mette le mani tra i capelli nel rivedere il film dell’euforia generale con la quale i cittadini avevano accolto il Trattato di Maastricht e, dieci anni dopo, l’ingresso nell’Eurozona disegnata dalle banche e governata dalla Bce con modalità feudali, imperiali, senza la supervisione di alcun controllo democratico. Succedeva negli anni cui, con la caduta del Muro di Berlino benedetta da Gorbaciov, l’umanità si era illusa che il fantasma della guerra sarebbe stato semplicemente cancellato dalla storia del pianeta.Magari fosse un comune complottista, Marcello Foa: sarebbe più comodo liquidarlo, come velleitario chiacchierone. Chi oggi gli promette guerra, invece, sa benissimo che l’ex caporedattore del “Giornale”, nonché docente universitario, nonché feroce critico del sub-giornalismo odierno, è un vero e proprio disertore. Non era un eretico: lo è diventato negli ultimi anni, disgustato dallo spettacolo al quale è stato costretto ad assistere. Per questo, al di là del reale potere che gli conferisce la carica di presidente Rai, Marcello Foa rappresenta un vero pericolo, per i malintenzionati che oggi gli danno del traditore. Nell’Italia corporativa delle caste, ha osato “sparare” contro la sua – quella dei giornalisti – definendoli “stregoni della notizia”, bugiardi e omertosi spacciatori di “fake news” di regime. E non c’è niente di peggio, per i servi, che l’ex schiavo che si libera delle catene: la sua rivolta personale, intellettuale, suona umiliante per chi si ostina a raccontare che la Terra è piatta, e che è il Sole a orbitarle attorno.Chi l’avrebbe detto? Oggi l’Italia riesce incredibilmente a piazzare una persona autorevole, onesta e competente, alla guida della televisione pubblica. Marcello Foa non è infallibile: ma quando ha sbagliato – anche di recente, prendendo per buona la notizia di presunte istruzioni che il governo tedesco avrebbe impartito alla polizia, per enfatizzare il terrorismo “casereccio” targato Isis – non ha esitato ad ammetterlo, tempestivamente. Quanti, al suo posto, avrebbero avuto lo stesso coraggio? E ora, questo volto pulito del nostro giornalismo è alle prese con una sfida estremamente impegnativa. È davvero impossibile fare molta strada, in politica, se non si è almeno in parte ricattabili, e quindi controllabili, in quanto complici dell’apparato da cui si è stati promossi? Così almeno ebbe a dire un protagonista della vita pubblica italiana come Giuliano Ferrara. Qualcuno – sincero o meno – obietterà che questa regola non vale necessariamente per tutti. Ma è sicuro che, una volta entrati in cabina di regia, le proprie virtù possono trasformarsi in problemi: in un ambiente non esattamente cristallino, le qualità naturali dell’eretico diventano un’enorme seccatura, se non un ostacolo da rimuovere prima che possa mettere in pericolo la sopravvivenza del sistema stesso.Questa è la sfida di Marcello Foa, nella quale è in gioco l’Italia intera: restare fedeli alla propria coscienza significa contribuire a riaccendere la luce sulle notizie. Senza un’informazione trasparente, lo sappiamo, non c’è neppure vera democrazia. Lo sostiene con vigore, Marcello Foa, che resta innanzitutto un uomo leale e garbato – anche quando si permette di dissentire in modo netto sull’operato del presidente della Repubblica: chi oggi lo accusa di aver addirittura insolentito Sergio Mattarella, dopo la bocciatura di Paolo Savona al ministero dell’economia, più che il prestigio del capo dello Stato sembra aver a cuore la disciplina sociale dell’ossequio, da imporre al popolo nei confronti di chiunque rivesta funzioni di potere. Non è questa la democrazia per la quale il giovane liberale Foa tifava, quando polemizzava con quel comunismo da cui provengono moltissimi dei suoi attuali, smemorati detrattori. Non sappiamo come si svilupperà, la sua avventura negli uffici della Rai. Ma sappiamo che – contro ogni previsione – è tornata sotto i riflettori, in Italia, un’antropologia che si credeva estinta. Quella delle persone per bene, a cui il governo in carica affida addirittura la guida della televisione.(Giorgio Cattaneo, “Marcello Foa alla guida della Rai: che succede quando un eretico sale al potere?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 27 settembre 201).Che succede, quando il mondo si capovolge e un eretico sale al potere? In Italia, di solito, se un outsider assoluto conquista una poltrona significa che non è più un vero outsider, perché l’establishment se l’è già “comprato”: intende usarlo per drenare il dissenso, facendo sfogare in modo innocuo e illusorio il malcontento di cui era stato la voce. I posti di comando, in genere, sono pieni di ex rivoluzionari ben remunerati, arruolati per la peggiore delle missioni: rinnegare di fatto la propria storia, i propri ideali, e riallineare il pubblico alla “voce del padrone”, utilizzando il prestigio di quella che, un tempo, era stata una voce diversa, apprezzata proprio perché libera e indipendente, e quindi scomoda. Solo in casi rarissimi un vero eretico può raggiungere il ponte di comando rimanendo se stesso. Come accorgersene? Semplice: basta vedere che tipo di accoglienza gli viene riservata. Ed è il caso della nomina di Marcello Foa, nuovo presidente della Rai: i grandi media, in coro, lo accolgono nella migliore delle ipotesi con freddezza, come se si trattasse di un intruso molesto e sgradevole, un oscuro alieno anziché un illustre collega, mentre le macerie della vecchia politica – rottamata dagli italiani il 4 marzo 2018 – descrivono il neo-eletto come una specie di teppista, di impudente cialtrone. In questo, ricordano da vicino il sovrano disprezzo che i dittatori mostrano sempre per il loro popolo in rivolta, un minuto prima di essere defenestrati dalla storia.
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Casalino e il Deep State. Mazzucco: che ingenui, i 5 Stelle
«Posso non commentare le parole di Rocco Casalino?». Sdegnoso silenzio, solo perché a Casalino si rinfaccia sempre di aver partecipato al “Grande Fratello”? «Appunto: chi si sarebbe accorto di lui, se non fosse stato al “Grande Fratello”? Una volta i dirigenti politici venivano da scuole serie: i comunisti dalle Frattocchie, i democristiani dalla Fuci». Gianfranco Carpeoro, opinionista e saggista, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights” si rifiuta, per decenza, di intervenire sulla polemica innescata dall’improvvida sortita dell’ex comunicatore dei 5 Stelle, ora portavoce del premier Conte: in un fuori-onda ha preannunciato un repulisti, a tappeto, tra i funzionari del ministero dell’economia, chiamandoli «quei pezzi di merda». Nell’audio (rubato, in violazione della privacy), parlando con due giornalisti, Casalino li invita ad annunciare che, se le richieste dei 5 Stelle non verranno esaudite dal ministero di Tria, nel 2019 i pentastellati “bonificheranno” gli uffici dai tecnocrati che “remano contro” i gialloverdi, scatenando una terribile «vendetta». Apriti cielo: la tempesta ormai grandina a reti unificate su tutti i media. «Piuttosto ingenui, i 5 Stelle», osserva il documentarista Massimo Mazzucco, sempre in video-chat con Frabetti: «Possibile che non sapessero, fin dall’inizio, cosa li attendeva nei palazzi romani?».Mazzucco è un abile demistificatore: ben attento a non finire nel variopinto girone del complottismo “gridato”, si dedica da anni a studiare meticolosamente i complotti veri. E’ stato tra i primi a dimostrare che la versione ufficiale sull’11 Settembre fa acqua da tutte le parti. E nell’ultimo film, “American Moon”, certifica che le storiche immagini dell’allunaggio, purtroppo, non sono state affatto realizzate sulla Luna, ma in studi cinematografici o in teatri di posa. Fa sempre notizia il lavoro di Mazzucco, sia che si tratti della “nuova Peral Harbor” scatenata a Manhattan e comodamente attribuita ad Al-Qaeda, sia che sul monitor compaia una seria indagine sulle cure alternative per il cancro. E a proposito di salute: non certo ostile ai 5 Stelle, Mazzucco ha aspramente criticato il clamoroso voltafaccia sui vaccini, coi pentastellati prima tiepidi sul decreto Lorenzin e poi in confusione assoluta, ora che – con Giulia Grillo – avrebbero in mano le leve ministeriali del governo della sanità. Solo che, tra il dire e il fare, c’è appunto di mezzo la politica: «Me ne sono sempre tenuto alla larga, proprio perché temo quell’ambiente», confessa Mazzucco: «In passato ho anche rifiutato di impegnarmi personalmente, quando mi è stato chiesto di candidarmi, perché so che, per come sono fatto, essere costretto a confrontarmi con certe dinamiche mi farebbe perdere il sonno. Non fa per me, ecco tutto».Se però stiamo parlando di un soggetto politico come i 5 Stelle, aggiunge Mazzucco, le cose cambiano: «Nel momento in cui ti candidi a rivoluzionare l’Italia, non puoi non sapere che tipo di ostacoli incontrerai. I tuoi elettori, per primi, si aspettano che tu sappia perfettamente come muoverti. Bel guaio, se adesso scoprono che non sai bene che pesci pigliare». Un intero ministero che “rema contro” ostacolando lo stesso ministro, come nel caso di Tria, secondo la versione di Casalino? «Ma è ovvio, scusate», protesta Mazzucco: «Funziona così persino negli Usa», dove pure c’è un forte spoil-system e un robusto ricambio di funzionari, scelti dal politico che ha vinto le elezioni. «Il fatto è che puoi cambiare il ministro della difesa, non i generali: quelli restano. E se vogliono fare una guerra, prima o poi il ministro lo tirano dalla loro parte». Si chiama Deep State, ed è il potere che avrebbe bypassato lo stesso Bush durante la crisi dell’11 Settembre, per poi bivaccare alla Casa Bianca con Obama. Un potere, sempre lo stesso, che sta cercando di mettere in croce l’imprevedibile Donald Trump, finora sfuggito al suo controllo (e quindi braccato dal fantasma dell’impeachment). Come si può pensare che in Italia, a maggior ragione, non valgano le stesse regole? Come sperare che il Deep State euro-italico ceda docilmente il timone del dicastero dell’economia, teleguidato da Bruxelles?Appena quattro mesi fa, a fine maggio, Luigi Di Maio giunse ad annunciare ben altre dimissioni: non voleva mettere in stato di accusa oscuri funzionari, ma addirittura il capo dello Stato. La “colpa” di Mattarella? Aver impedito alla nascente alleanza gialloverde di insediare al ministero dell’economia Paolo Savona, fortemente avversato da Mario Draghi tramite il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco. Proprio da Visco, irritualmente, Mattarella “spedì” in udienza l’allora premier incaricato, Conte, perché prendesse nota delle raccomandazioni della banca centrale: guai a sforare il tetto (più che esiguo) imposto alla spesa pubblica dai super-poteri europei, pena lo tsunami dello spread. Nel giro di ventiquattr’ore, Di Maio ingoiò il rospo: rinunciare a Savona, pur di far nascere il governo. Giovanni Tria? Lo stesso Savona fu tra quanti ne approvarono la designazione, rivela Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt: «Massone, Tria si dichiarò di opinioni progressiste, disponibile a infrangere – dopo inziali rassicurazioni – l’assurdo vincolo di spesa imposto dall’élite neoliberista che manovra le sedicenti istituzioni europee». Ora però lo stesso Magaldi è perplesso, su Tria: «Si decida a operare nel senso inizialmente concordato, viceversa i gialloverdi dovranno scegliere: o lui, o gli italiani (a cui hanno promesso Flat Tax, reddito di cittadinanza e pensioni dignitose, cancellando la legge Fornero)».Il guaio? Lo scomodissimo endorsement che l’euro-tecnocrate numero uno, «il gran maestro Mario Draghi, supermassone neo-aristocratico», ha tributato a Tria: apertamente elogiato, dal presidente della Bce, per la prudenza sui conti pubblici, ancora una volta improntati alla linea di rigore pretesa da Bruxelles. La battaglia è proibitiva: a “remare contro” il cambio di paradigma – più spesa pubblica, per rianimare l’economia – non sono solo Draghi, Visco e i fantomatici funzionari del ministero di Tria: tutto il mainstream giornalistico sta sparando ad alzo zero contro il nuovo governo. Ogni scusa è buona, a cominciare dall’intransigenza di Salvini sull’allegro “caos all’italiana” nella non-gestione dei migranti. E in questo pozzo di veleni, l’audio di Casalino irrompe come un petardo, per la gioia di telegiornali e talkshow. Tutto fa brodo, pur di continuare a non ragionare. Personaggi come Ferruccio De Bortoli (assistito nientemeno che da Piero Angela, su “Rai News 24”) arriva a rimpiangere la formidabile “ripresa” assicurata all’Italia dai compianti governi Renzi e Gentiloni, con all’economia Pier Carlo Padoan, ennesimo yesman di quel potere europeo che predica le virtù metafisiche del digiuno (altrui). Brutta bestia, il neoliberismo. Il suo capolavoro letterario, basato su conti truccati? La teoria – genere fantasy – della “austerity espansiva”, spacciata da Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, da Harvard: fategli saltare i pasti, e l’affamato guarirà miracolosamente.L’economista Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt e allievo del keynsiano Federico Caffè, interviene spesso nel dibattito pubblico per correggere le “fake news” immesse nel sistema da Carlo Cottarelli, tecnocrate di scuola Fmi e venerato dal Deep State (e dai media) come una sorta di vestale dei conti pubblici. Lo stesso Mattarella sventolò la “nomination” di Cottarelli a Palazzo Chigi per indurre a più miti consigli i gialloverdi, che all’economia volevano Savona. E’ semplicissimo, il ragionamento di Galloni, suffragato da prove incontrovertibili: ogni euro ben speso sotto forma di deficit “renderà” 3 o 4 volte tanto, l’anno seguente, in termini di lavoro, fatturato, assunzioni, gettito fiscale. E dato che la spesa pubblica produttiva fa crescere il Pil, il risultato è automatico: il debito pubblico, di colpo, farà meno paura (proprio perché supportato dalla famosa crescita, quella che forse – durante i governi Renzi e Gentiloni – De Bortoli avrà al massimo intravisto, lontana anni luce dall’Italia, solo grazie al potente telescopio di Piero Angela). Lo scomposto, imbarazzante Casalino? Perfetto, per permettere ai media di continuare – come sempre – a guardare il dito, anziché la Luna (quella vera, non la “American Moon” del film di Mazzucco). Tradotto: fino a quando un signore come Mario Draghi darà bei voti al nostro ministro dell’economia, per gli italiani saranno rogne. Meno soldi per tutti. “Austerity espansiva”: uno strano Ramadan, imposto da oligarchi che nessuno ha mai eletto. Una piovra tenace, con tentacoli ovunque – a partire dai ministeri economici. Appunto: possibile che i 5 Stelle non lo sapessero fin dall’inizio?«Posso non commentare le parole di Rocco Casalino?». Sdegnoso silenzio, solo perché a Casalino si rinfaccia sempre di aver partecipato al “Grande Fratello”? «Appunto: chi si sarebbe accorto di lui, se non fosse stato al “Grande Fratello”? Una volta i dirigenti politici venivano da scuole serie: i comunisti dalle Frattocchie, i democristiani dalla Fuci». Gianfranco Carpeoro, opinionista e saggista, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights” si rifiuta, per decenza, di intervenire sulla polemica innescata dall’improvvida sortita dell’ex comunicatore dei 5 Stelle, ora portavoce del premier Conte: in un fuori-onda ha preannunciato un repulisti, a tappeto, tra i funzionari del ministero dell’economia, chiamandoli «quei pezzi di merda». Nell’audio (rubato, in violazione della privacy), parlando con due giornalisti, Casalino li invita ad annunciare che, se le richieste dei 5 Stelle non verranno esaudite dal ministero di Tria, nel 2019 i pentastellati “bonificheranno” gli uffici dai tecnocrati che “remano contro” i gialloverdi, scatenando una terribile «vendetta». Apriti cielo: la tempesta ormai grandina a reti unificate su tutti i media. «Piuttosto ingenui, i 5 Stelle», osserva il documentarista Massimo Mazzucco, sempre in video-chat con Frabetti: «Possibile che non sapessero, fin dall’inizio, cosa li attendeva nei palazzi romani?».
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Torri Gemelle minate con l’atomica: previsto dagli anni ‘60
«Nessuno riuscirà mai a farmi dire che cosa, esattamente, abbia fatto crollare le Torri Gemelle: sarebbe troppo facile smentirmi, se parlassi di un esplosivo piuttosto che di un altro. Potrei sbagliarmi, e così si metterebbe a tacere la verità sull’11 Settembre, cioè la “demolizione controllata” delle Twin Towers». Lo ripete Massimo Mazzucco, autore di documentari come “La nuova Pearl Harbor”, che rivelano le menzogne diffuse sull’attentato più importante della nostra storia (menzogne che Mazzucco ha riassunto in un magistrale video, appena pubblicato su YouTube). Ma c’è dell’altro che ora emerge, a 17 anni dalla strage di Manhattan costata quasi tremila vittime. Sapevate, per esempio, che il World Trade Center era previsto che fosse “minato” alle fondamenta fin dalla sua costruzione? Niente di strano, o di segreto: era richiesto espressamente dalle autorità di New York, preoccupate di poter comunque “smontare” i grattacieli, una volta divenuti ingombranti oppure obsoleti. Problema: le Twin Towers erano d’acciaio: resistenti agli esplosivi convenzionali. Per questo, le torri furono progettate in modo da essere “minate preventivamente” con ordigni atomici da 150 chilotoni. Chi lo dice? Dimitri Khalezov, all’epoca capo dell’intelligence nucleare sovietica. Ma, di nuovo, niente di eccezionale: a Mosca, la notizia fu semplicemente archiviata tra le news ordinarie della guerra fredda. Nessuno poteva immaginare che un giorno quelle torri sarebbero state fatte esplodere con dentro quasi tremila persone.A rilanciare le rivelazioni di Khalezov, autore di accurati studi sull’11 Settembre, è il blog “La Crepa nel Muro”. La versione dell’ex stratega russo è semplicemente sconvolgente: tutti (al Pentagono, al Cremlino) sapevano, da sempre, che le Twin Towers sorgevano su fondamenta predisposte per essere “minate” con potenti cariche termonucleari. E così anche il quasi altrettanto imponente Edificio 7, sempre in acciaio, crollato su se stesso senza neppure l’alibi dell’impatto con qualche aereo. «A fine anni ‘80 – scrive Khalezov – mi è stato comunicato che esisteva un cosiddetto “regime di demolizione nucleare di emergenza” costruito nelle torri gemelle del World Trade Center di New York». Lo schema di demolizione, aggiunge il russo, era basato su enormi cariche termonucleari di quasi 150 chilotoni, collocate a circa 50 metri sotto le fondamenta di ciascuna delle torri (cioè 70 metri sotto la superficie). Per l’esperto russo, nessuno aveva mai pensato di farle davvero esplodere, quelle cariche: era solo «un modo per evitare qualche problema burocratico». Ovvero: un sistema di demolizione nucleare come quello non doveva servire «per demolirle», ma semplicemente «per ottenere il permesso di costruirle».A quel tempo, infatti, il codice edilizio di New York (così come quello di Chicago) non permetteva al Dipartimento di Costruzioni di autorizzare l’edificazione di un grattacielo «a meno che il produttore non fornisse un modo soddisfacente, per il futuro o in caso di emergenza, di demolire un edificio di quella portata». Dalla fine degli anni ‘60 (quando il progetto delle Torri Gemelle era stato proposto), quel tipo di costruzione – con telaio in acciaio – rappresentava un concetto costruttivo completamente nuovo, «cosicché nessuno aveva idea di come trattarlo, in termini di demolizione». E visto che i metodi di demolizione convenzionali erano applicabili solo ai grattacieli più vecchi, in muratura, «qualcosa di nuovo era stato inventato per le robuste torri d’acciaio», in modo da convincere l’ufficio edilizo a concedere il permesso per costruire le formidabili, “inaffondabili” Twin Towers. «E questo “qualcosa” è stato senza dubbio inventato: la demolizione nucleare». Nessuno se ne stupì più di tanto, neppure a Mosca, visto che la “demolizione nucleare” è regolarmente prevista, dagli strateghi militari americani e russi, per abbattere in condizioni d’emergenza palazzi, infrastrutture, ponti e dighe. Quanto a New York, «nessuno poteva costruire un grattacielo che non potesse essere demolito in futuro: questo è il punto principale nella demolizione dei grattacieli».La ricostruzione di Khalezov, sottolinea “La Crepa nel Muro”, finisce per superare – di gran lunga – anche i peggiori sospetti avanzati dagli oltre tremila tecnici statunitensi (architetti e ingegneri) impegnati a smontare, prove alla mano, l’insostenibile verità ufficiale: mastodonti di acciaio non possono in nessun caso crollare, men che meno su stessi, per effetto dell’impatto con aerei di linea, leggerissimi. Di suo, Khalezov aggiunge le sue competenze in ambito militare: «Credere che un Boeing 767 di alluminio sia capace di penetrare il perimetro ed il nucleo di colonne eccezionalmente spesse, con doppia parete in acciaio, è lo stesso che credere che, improvvisamente, le leggi della fisica si siano prese una vacanza, quell’11 settembre 2001». Quei jet volavano a quasi 500 miglia orarie? Perfetto: pensare che un impatto di quel genere possa sfondare l’acciaio è semplicemente ridicolo, sostiene l’ex dirigente dell’arsenale nucleare sovietico. Che spiega: la velocità di un proiettile penetrante scagliato da un cannone anticarro è quasi il triplo della velocità del suono. Si tratta di almeno 1.000 metri al secondo, mentre la velocità di un Boeing è subsonica, cioè meno di 250 metri al secondo. E attenzione: i proiettili perforanti sono fabbricati con materiale più robusto della corazza che devono perforare: spesso questo materiale è il Wolfram, mentre gli Usa ricorrono generalmente al meno costoso Uranio-238.Domande: che tipo di arei hanno colpito le Torri Gemelle? E com’è possibile che siano stati “inghiottiti” dagli edifici, anziché finire disintegrati nell’impatto? Alcuni – tra cui Massimo Mazzucco – ritengono che i velivoli-bomba non fossero gli aerei di linea dirottati, ma altri. C’è chi ipotizza che i Boeing dell’11 Settembre fossero solo “immaginari”, mentre Kalezhov sostiene che sarebbero potuti penetrare nei grattacieli – senza frantumarsi sulle pareti esterne – grazie a simultanee brecce (secondo lui, evidenti) provocate da esplosivi convenzionali disposti sulle pareti. Ma la rivelazione centrale – largamente ignorata persino dalla “comunità alternativa” che non crede alla versione ufficiale – è proprio quella della “demolizione nucleare”. Eppure, scrive Khalezov, a suggerirla è lo stesso nome dell’area della tragedia: Ground Zero. Non è strano, si domanda il russo, che il luogo dove sorgevano le Twin Towers sia stato immediatamente ribattezzato in quel modo? Soltanto dopo l’11 Settembre, fa notare l’ex analista sovietico, i vocabolari hanno cominciato ad attribuire all’espressione Ground Zero anche altri significati, accanto a quello originario. E cioè: il punto in cui esplode un ordigno nucleare.Per il dizionario encliclopedico Webster’s, Ground Zero significa “punto, sulla superficie della terra o dell’acqua, direttamente sotto, o sopra, nella quale esplode una bomba atomica o all’idrogeno”. Oppure: “Zona Zero: punto nella terra, direttamente sotto l’esplosione di un’arma nucleare” (dizionario della terminologia militare, Peter Collins Publishing, 1999). Idem il dizionario americano Longman, del 2000: Ground Zero, “luogo dove una bomba nucleare esplode, dove succede il danno più grave”. Poi, dal 2001, i maggiori dizionari contemplano, per Ground Zero, anche l’altro significato: luogo del devastante attentato alle Torri Gemelle di New York l’11 Settembre. Sulla dinamica dell’esplosione – con la “misteriosa” fusione dell’acciaio anche nel sottosuolo, protrattasi per giorni e giorni – Dimitri Khalezov fornisce tutti i dettagli di cui è al corrente un ex stratega nucleare: il post su “La Crepa nel Muro”, con disegni e video, illustra nel modo più preciso la dinamica che si innesca quando viene adottato il protocollo denominato “demolizione nucleare”: come può cadere un grattacielo d’acciaio, in che modo si “scioglie”. L’importante, ribadisce Khalezov, è la si smetta di parlare del ridicolo impatto di quei fantomatici aerei d’alluminio, a cui nessuno – sano di mente – può credere.(Dimitri Khalezov è stato un alto funzionario incaricato della cosiddetta Unità Militare 46179, chiamata anche Servizio di Controllo Speciale del 12° Dipartimento del ministero della difesa dell’Urss, per gli addetti ai lavori “intelligence atomica”. Khalezov ha diretto l’unità militare segreta incaricata della rilevazione di esplosioni nucleari (compresi i test atomici sotterranei) di vari avversari dell’ex Urss, ed è stato anche responsabile del controllo e dell’osservazione di diversi trattati internazionali relativi ai test nucleari sperimentali. Dopo l’11 settembre 2001 ha condotto una ricerca approfondita, sostenendo di poter dimostrare che le Torri Gemelle furono demolite, insieme all’Edificio 7, dalle esplosioni di tre cariche termonucleari sotterranee, da cui il nome Ground Zero attribuito al punto della demolizione).«Nessuno riuscirà mai a farmi dire che cosa, esattamente, abbia fatto crollare le Torri Gemelle: sarebbe troppo facile smentirmi, se parlassi di un esplosivo piuttosto che di un altro. Potrei sbagliarmi, e così si metterebbe a tacere la verità sull’11 Settembre, cioè la “demolizione controllata” delle Twin Towers». Lo ripete Massimo Mazzucco, autore di documentari come “La nuova Pearl Harbor”, che rivelano le menzogne diffuse sull’attentato più importante della nostra storia (menzogne che Mazzucco ha riassunto in un magistrale video, appena pubblicato su YouTube). Ma c’è dell’altro che ora emerge, a 17 anni dalla strage di Manhattan costata quasi tremila vittime. Sapevate, per esempio, che il World Trade Center era previsto che fosse “minato” alle fondamenta fin dalla sua costruzione? Niente di strano, o di segreto: era richiesto espressamente dalle autorità di New York, preoccupate di poter comunque “smontare” i grattacieli, una volta divenuti ingombranti oppure obsoleti. Problema: le Twin Towers erano d’acciaio: resistenti agli esplosivi convenzionali. Per questo, le torri furono progettate in modo da essere “minate preventivamente” con ordigni atomici da 150 chilotoni. Chi lo dice? Dimitri Khalezov, all’epoca capo dell’intelligence nucleare sovietica. Ma, di nuovo, niente di eccezionale: a Mosca, la notizia fu semplicemente archiviata tra le news ordinarie della guerra fredda. Nessuno poteva immaginare che un giorno quelle torri sarebbero state fatte esplodere con dentro quasi tremila persone.
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Trump rischia: fu l’unico a denunciare il falso 11 Settembre
Sapevate che Donald Trump fu l’unico cittadino americano, insieme all’immobiliarista Jimmy Walter, a denunciare immediatamente come falsa la versione ufficiale sull’11 Settembre fornita da Bush? Walter fu costretto all’esilio, mentre Trump è oggi alla Casa Bianca: proprio a lui si rivolge il giornalista francese Thierry Meyssan, acuto analista geopolitico, in un appello nel quale si chiede al presidente Usa di fare il punto, finalmente, sui veri responsabili del devastante attacco terroristico al cuore di Manhattan, e sulle micidiali conseguenze che l’attentato ha avuto, in tutto il mondo. Da allora, ricorda Meyssan, il potere dei neocon ha sistematicamente colpito tutti i paesi non ancora globalizzati, a partire dall’Afghanistan e dall’Iraq, con il pretesto di Al-Qaeda e poi dell’Isis, fino alle laceranti devastazioni inflitte alla Libia e alla Siria. Da Meyssan anche un preciso avvertimento, a Trump: l’uomo che lavora al suo impeachment, Robert Mueller, oggi nei panni di procuratore generale, nel 2001 era il capo dell’Fbi, e in quella veste contribuì a mentire sull’11 Settembre, partecipando al grande insabbiamento sui veri mandanti della strage. Ecco il testo della lettera aperta che Meyssan indirizza all’attuale presidente degli Stati Uniti:Signor presidente, i crimini dell’11 settembre 2001 non sono mai stati giudicati nel suo paese. Le scrivo da cittadino francese, il primo a denunciare le incongruenze della versione ufficiale e ad aprire il mondo al dibattito e alla ricerca dei veri esecutori. In un tribunale penale, in quanto giuria, dobbiamo determinare se il sospetto portatoci sia colpevole o meno, e, alla fine, decidere quale punizione dovrebbe ricevere. Quando abbiamo assistito agli eventi dell’11 Settembre, l’amministrazione Bush Junior ci ha detto che il colpevole era Al-Qaïda, e la punizione che avrebbe dovuto ricevere era il rovesciamento di coloro che l’avevano aiutata: prima i Talebani afghani, poi il regime iracheno di Saddam Hussein. C’è tuttavia una serie di prove che attesta l’impossibilità di questa tesi. Se fossimo membri di una giuria, dovremmo oggettivamente dichiarare che i Talebani e il regime di Saddam non sono colpevoli di questo crimine. Questo da solo, naturalmente, non ci consentirebbe di indicare i veri colpevoli. Non potremmo però concepire di condannare parti innocenti sol perché non abbiamo saputo come trovare i colpevoli.Quando il segretario di Stato per la giustizia e il direttore dell’Fbi, Robert Mueller, rivelarono i nomi dei 19 presunti dirottatori, capimmo tutti che stavano mentendo. Avevamo già di fronte a noi, infatti, le liste divulgate dalle compagnie aeree di tutti i passeggeri imbarcati – liste su cui nessuno dei sospettati era presente. Da lì, siamo diventati sospettosi della “Continuità del Governo”, l’istanza incaricata di subentrare alle autorità elette dovessero queste venire uccise durante uno scontro nucleare. Abbiamo avanzato l’ipotesi che questi attacchi mascherassero un colpo di Stato, in conformità col metodo Luttwak: mantenere l’apparenza dell’esecutivo, ma imponendo una politica diversa. Nei giorni successivi all’11 Settembre, l’amministrazione Bush prese diverse decisioni: la creazione dell’Ufficio di Sicurezza Nazionale e il voto per un voluminoso codice antiterrorismo elaborato molto tempo prima, il Patriot Act. Per questioni che l’amministrazione stessa definisce “terroristiche”, questo testo sospende la Carta dei Diritti, che era il vanto del vostro paese. Sbilancia le vostre istituzioni. Due secoli più tardi, sancisce il trionfo dei grandi proprietari terrieri, che scrissero la Costituzione, e la sconfitta degli eroi della Guerra d’Indipendenza, che chiedevano che venisse aggiunta la Carta dei Diritti.Il segretario alla difesa, Donald Rumsfeld, creò l’Office of Force Transformation, sotto il comando dell’ammiraglio Arthur Cebrowski. Quest’ultimo presentò immediatamente un programma, anch’esso pronto da tempo, che prevedeva il controllo dell’accesso alle risorse naturali dei paesi del sud geopolitico. Chiedeva la distruzione dello Stato e delle strutture sociali nella metà del mondo che non era ancora globalizzata. Il direttore della Cia lanciò contemporaneamente la “Worldwide Attack Matrix”, un pacchetto di operazioni segrete in 85 paesi, dei quali Rumsfeld e Cebrowski intendevano distruggere le strutture statali. Considerando che solo i paesi le cui economie erano globalizzate sarebbero rimasti stabili e che gli altri sarebbero stati distrutti, gli uomini dell’11 Settembre hanno dispiegato le forze armate statunitensi al servizio degli interessi finanziari transnazionali. Hanno tradito il suo paese e l’hanno trasformato nell’ala armata di questi predatori. Negli ultimi 17 anni, abbiamo assistito alle bugie che vengono date ai suoi compatrioti dai successori di coloro che redassero la Costituzione e che al tempo si opposero – senza successo – alla Carta dei Diritti. Questi ricchi sono diventati super-ricchi, mentre la classe media è stata ridotta di un quinto e la povertà è aumentata. Abbiamo anche assistito all’attuazione della strategia Rumsfeld-Cebrowski: quasi tutto il Grande Medio Oriente è stato devastato da “guerre civili”. Intere città sono state cancellate dalla mappa, dall’Afghanistan alla Libia, tramite Arabia Saudita e Turchia, che non erano esse stesse in guerra.Nel 2001, solo due cittadini statunitensi hanno denunciato l’incoerenza della versione di Bush, due promotori immobiliari – il democratico Jimmy Walter, poi costretto all’esilio, e lei stesso, poi entrato in politica ed eletto presidente. Nel 2011, abbiamo visto il comandante di AfriCom sollevato dalla propria posizione e sostituito dalla Nato, per essersi rifiutato di sostenere Al-Qaïda nella liquidazione della Libia. Abbiamo poi visto il LandCom della Nato organizzare il sostegno occidentale ai jihadisti in generale, e ad al-Qaïda in particolare, nel loro tentativo di rovesciare la Siria. I jihadisti, considerati “combattenti della libertà” contro i sovietici, poi come “terroristi” dopo l’11 Settembre, ancora una volta sono quindi diventati alleati del Deep State (cosa che, in realtà, sono sempre stati). Con immensa speranza, abbiamo quindi osservato le sue azioni per sopprimere, uno ad uno, tutti i loro sostenitori. È con la stessa speranza che vediamo oggi che sta parlando con la sua controparte russa per riportare vita nel devastato Medio Oriente. È però anche con analoga ansia che vediamo Robert Mueller, ora procuratore speciale, inseguire la distruzione della sua patria attaccando la sua posizione. Signor presidente, non solo lei ed i suoi connazionali soffrite della diarchia che è salita al potere dal colpo di Stato dell’11/9, ma il mondo intero ne è vittima. Signor presidente, l’11 Settembre non è storia antica. È il trionfo di quegli interessi transnazionali che stanno schiacciando non solo il suo popolo, ma tutta l’umanità che aspira alla libertà.(Thierry Meyssan, “Lettera a aperta a Trump sulle conseguenze dell’11 Settembre”, pubblicata da “Voltaire Net” il 30 agosto 2018 e quindi tradotta da Hmg per “Come Come Chisciotte”).Sapevate che Donald Trump fu l’unico cittadino americano, insieme all’immobiliarista Jimmy Walter, a denunciare immediatamente come falsa la versione ufficiale sull’11 Settembre fornita da Bush? Walter fu costretto all’esilio, mentre Trump è oggi alla Casa Bianca: proprio a lui si rivolge il giornalista francese Thierry Meyssan, acuto analista geopolitico, in un appello nel quale si chiede al presidente Usa di fare il punto, finalmente, sui veri responsabili del devastante attacco terroristico al cuore di Manhattan, e sulle micidiali conseguenze che l’attentato ha avuto, in tutto il mondo. Da allora, ricorda Meyssan, il potere dei neocon ha sistematicamente colpito tutti i paesi non ancora globalizzati, a partire dall’Afghanistan e dall’Iraq, con il pretesto di Al-Qaeda e poi dell’Isis, fino alle laceranti devastazioni inflitte alla Libia e alla Siria. Da Meyssan anche un preciso avvertimento, a Trump: l’uomo che lavora al suo impeachment, Robert Mueller, oggi nei panni di procuratore generale, nel 2001 era il capo dell’Fbi, e in quella veste contribuì a mentire sull’11 Settembre, partecipando al grande insabbiamento sui veri mandanti della strage. Ecco il testo della lettera aperta che Meyssan indirizza all’attuale presidente degli Stati Uniti:
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Vedrete che i Benetton (Three Eyes) si terranno Autostrade
«Lasciate perdere i complotti basati sui lampi che si vedono durante il crollo del viadotto Morandi: quelle ciance sul web servono solo a non vedere l’unico vero complotto all’origine del disastro di Genova». E cioè: una sciagurata sottovalutazione del rischio, grazie una concessione-omaggio, imbarazzante e piena di parti segrete. Una profezia? «Vedrete che arriverà una telefonata dall’America, e alla fine la concessione ad Autostrade per l’Italia non verrà revocata. Oppure: verrà bandita una nuova gara d’appalto, che sarà facilmente vinta dagli stessi azionisti di Atlantia, Benetton e soci». Affermazioni che, all’indomani della catastrofe di Genova, Gianfranco Carpeoro – avvocato e saggista – affida alla diretta web-streaming condotta da Fabio Frabetti di “Border Nights”, in tandem con Massimo Mazzucco. Ecco il complotto: «Lo sono, nei fatti, tutte le privatizzazioni fatte in Italia negli ultimi 50 anni. Oggi non sapremmo neppure più come gestirle, le autostrade. Dove trovare i soldi per i cantieri urgenti? L’Ue ci impedirebbe di usarli, con la scusa che sforeremmo il budget». I Benetton? «Hanno fatto ben poco, a livello di manutenzione. E non hanno fatto niente per soccorrere i senzatetto, che avevano bisogno di aiuti immediati. Sono avviliti, per l’accaduto? La sera dopo la tragedia erano a una festa, da loro organizzata a Cortina: mangiavano, bevevano e cantavano». Potevano permetterserlo? Eccome: i Benetton, scandisce Carpeoro, sono un ingranaggio del sistema messo in piedi dalla più potente massoneria sovrazionale, vicina ai Clinton e ai Bush.Altro che maglioncini: tra i soci della concessionaria delle autostrade italiane, oltre agli industriali di Treviso, figurano presenze ingombranti come la londinese Hsbc, uno dei maggiori gruppi bancari del mondo, nonché un fondo di Singapore (Gic Private Limited) e la fondazione bancaria della torinese Crt. Ma soprattutto il primo fondo d’investimenti del pianeta, lo statunitense Blackrock di Larry Fink, che – ricorda Carpeoro – Gioele Magaldi nel suo libro “Massoni” collega direttamente alla Ur-Lodge “Hathor Pentalpha”, sinistra superloggia massonica internazionale fondata dai Bush e sospettata di aver ideato la strategia della tensione, prima in Europa e poi nel mondo, reclutando Bin Laden e ispirando la strage dell’11 Settembre a Manhattan. Di che stiamo parlando? «I Benetton fanno parte di quel mondo: vicinissimi a Obama, a Hillary Clinton, alla superloggia “Three Eyes”». In Atlantia, aggiunge Carpeoro, vi sarebbero quote intestate a Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. Si dice Benetton, ma in realtà i padroni delle nostre autostrade sono tantissimi, e per lo più non italiani, «confermando lo schema delle privatizzazioni italiche». Tra parentesi: «Avete notato che i politici che le promossero – Prodi, D’Alema, Amato – aprirono simultaneamente fior di fondazioni miliardarie? Coincidenze, ovvio».Potrebbe la magistratura congelare i beni dei Benetton? «Certamente, ma anche i giudici tengono famiglia», taglia corto Carpeoro, poco convinto anche della possibilità che il governo Conte possa davvero mantenere la promessa di togliere un osso così ricco alla complessa struttura di potere che – attraverso i Benetton – ha avuto in regalo le austostrade costruite coi soldi degli italiani. Troppo potente, il club, e troppo debole la politica: «Ormai, in Italia, chi è al governo non può decidere quasi niente». La bomba esplosa in Veneto in una sede della Lega vicino a Treviso e l’effrazione domestica suibita dai genitori di Salvini? «Può essere uno strumento di pressione: a Craxi, quando stava per vuotare il sacco sul sistema del finanziamento illegale di cui beneficiavano tutti i partiti, violarono le abitazioni dei figli per indurlo a tacere». Questo, per Carpeoro (e Mazzucco) è il vero “complotto” di Genova: un maxi-regalo ai privati, senza vincoli per gli oneri di manutenzione, a scapito – come si è visto – della sicurezza. Oliviero Toscani rimprovera gli italiani di eccessiva severità verso i Benetton? «Ovvio, è sul loro libro paga: ha mostrato che tutti, in Italia, hanno un prezzo», dichiara Carpeoro. «E ha mostrato che quello è il suo prezzo: per essere inaffidabile, inattendibile e inaccettabile».«Lasciate perdere i complotti basati sui lampi che si vedono durante il crollo del viadotto Morandi: quelle ciance sul web servono solo a non vedere l’unico vero complotto all’origine del disastro di Genova». E cioè: una sciagurata sottovalutazione del rischio, grazie a una concessione-omaggio, imbarazzante e piena di parti segrete. Una profezia? «Vedrete che arriverà una telefonata dall’America, e alla fine la concessione ad Autostrade per l’Italia non verrà revocata. Oppure: verrà bandita una nuova gara, che sarà facilmente vinta dagli stessi azionisti di Atlantia, Benetton e soci». Affermazioni che, all’indomani della catastrofe di Genova, Gianfranco Carpeoro – avvocato e saggista – affida alla diretta web-streaming condotta da Fabio Frabetti di “Border Nights”, in tandem con Massimo Mazzucco. Ecco il complotto: «Lo sono, nei fatti, tutte le privatizzazioni fatte in Italia negli ultimi 50 anni. Oggi non sapremmo neppure più come gestirle, le autostrade. Dove trovare i soldi per i cantieri urgenti? L’Ue ci impedirebbe di usarli, con la scusa che sforeremmo il budget». I Benetton? «Hanno speso ben poco, a livello di manutenzione. E non hanno fatto niente per soccorrere i senzatetto, che avevano bisogno di aiuti immediati. Sono avviliti, per l’accaduto? La sera dopo la tragedia erano a una festa, da loro organizzata a Cortina: mangiavano, bevevano e cantavano». Potevano permetterselo? Eccome: i Benetton, scandisce Carpeoro, sono un ingranaggio del sistema messo in piedi dalla più potente massoneria sovranazionale, vicina ai Clinton e ai Bush.
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Magaldi: una rivoluzione, contro i falsari degli 11 Settembre
Samuel Huntington, chi era costui? Politologo americano, lo presenta Wikipedia. Analista geopolitico dell’amministrazione Usa dai tempi di Jimmy Carter, direttore degli studi strategici e internazionali di Harvard, fondatore di “Foreign Policy” e autore di una ventina di saggi che hanno fatto storia. Uno su tutti, quello sullo “scontro di civiltà”, di risonanza pari alla tesi sulla “fine della storia” teorizzata da Francis Fukuyama, insieme al quale nel 1975 firmò il saggio sulla “crisi della democrazia”, promosso dalla neonata Commissione Trilaterale, suprema istituzione del potere paramassonico. La tesi del volume, firmato da Huntington e Fukuyama insieme a Michel Crozier: troppa democrazia fa male, bisogna tagliarla e ridurre i cittadini all’apatia, alla passività. A sedici anni dall’attacco alle Torri Gemelle c’è ancora chi si interroga sui possibili, veri mandanti del più spettacolare attentato della storia? Non Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” che rivela l’esistenza di 36 Ur-Lodges internazionali nella cabina di regia dei destini del pianeta. Attenti alle date, avverte: il disastro delle Twin Towers il è “sequel” di un altro 11 Settembre, quello del 1973, quando in Cile fu abbattuto Allende dal golpe di Pinochet. Obiettivo strategico: piegare quel che restava del socialismo e avvelenare il mondo con l’ideologia neoliberista. Fine dello Stato sovrano e “dittatura” del capitale finanziario.Un personaggio sinistro, Samuel Huntington: così lo definisce Magaldi parlando ai microfoni di “Colors Radio”, nel ricostruire i retroscena dell’ecatombe newyorkese del 2001 destinata a innescare la “guerra infinita”, comiciata da Afghanistan e Iraq con l’improvvisa comparsa del fantomatico terrorismo globale “islamico”, incarnato da Al-Qaeda e dalla sua ultima filiazione, l’Isis. Uno “scontro di civiltà” solo presunto, quello evocato da Huntington, ma utilissimo a far marcire, a colpi di leggi securitarie, la “crisi della democrazia”, dal Patriot Act di Bush «fino a una legge italiana come quella sui vaccini, imposta in modo autoritario: lo afferma anche un magistrato del calibro di Ferdinando Imposimato». Magaldi articola la sua analisi partendo dal punto di vista esclusivo e privilegiato del retroterra massonico da cui proviene: già figura di spicco del Goi, poi fondatore del Grande Oriente Democratico e affiliato alla Thomas Paine, la più progressista delle superlogge internazionali alla radice del potere attuale, apolide e globalizzato. Da qui l’impegno civile nel Movimento Roosevelt, entità metapartitica che – anche attraverso figure come l’economista Nino Galloni – propone il risveglio democratico della politica italiana, sconfessando il dogma neoliberista: abbiamo bisogno di più Stato e più sovranità. Meglio archiviare Huntington: non è vero che la crisi della democrazia si “cura” riducendo la democrazia stessa, come oggi avviene grazie all’attuale mostro giuridico chiamato Unione Europea.Se siamo in questa situazione, sintetizza Magaldi, è anche perché la storia del secondo ‘900 ci è stata raccontata in modo spesso impreciso e incompleto: il grande progetto di riduzione della democrazia non è cominciato nel 2001 a New York, ma nel 1973 a Santiago del Cile, dove il massone Pinochet tradì il massone Allende, «un uomo forse troppo buono, un sincero socialista nutrito degli ideali filantropici della massoneria progressista». Dietro al complotto, c’era il gruppo allora rappresentato da Henry Kissinger, segretario di Stato sotto Gerald Ford ma soprattutto «esponente di punta della Ur-Lodge “Three Eyes”, massima espressione della destra reazionaria in ambito supermassonico». Forse Allende aveva nazionalizzato l’economia cilena in modo troppo esteso e precipitoso. Tuttavia, per i golpisti, la posta in palio non era il piccolo Cile, ma il resto del mondo. Da quel momento, continua Magaldi, l’élite supermassonica neo-feudale ha messo in atto, meticolosamente, il suo piano: progressivo smantellamento dell’economia mista (Italia compresa), erosione del protagonismo economico statale, dottrina neoliberista dello “Stato minimo”, fine della sinistra sindacale, crisi del welfare, privatizzazioni selvagge e deregulation della finanza: Reagan (e poi Clinton) negli Usa, la Thatcher in Europa.Henry Kissinger, David Rockefeller, Jacob Rothschild, Zbigniew Brzezinski: se gli strateghi della “Three Eyes” avevano scelto la modalità del “guanto di velluto”, lo stile in doppiopetto nell’imporre i vari “regime change” funzionali allo sviluppo neoliberista dell’economia, privatizzata e finanziarizzata, poi questa dinamica – inesorabile, ma relativamente lenta – ha subito un’accelerazione imprevedibile nel 2001, con la catastrofe delle Twin Towers, in realtà «preparata da lungo tempo» in un altro “santuario” supermassonico, la superloggia “Hathor Pentalpha” fondata dai Bush all’inizio degli anni ‘80. Una struttura internazionale che secondo Magaldi ha poi reclutato personaggi come Tony Blair, l’inventore delle “armi di distuzione di massa” di Saddam, e come Nicolas Sarkozy, il liquidatore di Gheddafi (senza dimenticare il turco Erdogan, massimo padrino dell’Isis nella sanguinosa conquista della Siria). Le macerie della tragica geopolitica di oggi, fino ai recenti attentati in Europa, secondo Magaldi sono il risultato ultimo dello sciagurato progetto “Hathor Pentalpha”. Il terrorismo come mezzo principe per ottenere tutto e subito, in modo sbrigativo e spaventoso: alle peggiori stragi seguono colossali affari, carriere-lampo, razzie sistematiche di risorse strategiche, drastica centralizzazione del potere, leggi speciali e soppressione progressiva di libertà civili.E’ lo spettacolo dell’orrore, a cui i media ormai ci hanno abituato. Ma guai a pensare che sarà così per sempre, insiste Magaldi: «Questi poteri non sono affatto invincibili, il loro tragico successo dipende in larga parte dalla nostra inerzia». La passività civile, l’apatia raccomandata dal “sinistro” profeta Huntington. La rissa polemica sull’ultimo 11 Settembre? Errore ottico, dice Magaldi, frutto dello scontro tra negazionisti (scettici o bugiardi) e complottisti poco lucidi. «In realtà non servono chissà quante persone per propiziare una catastrofe come quella di Ground Zero: bastano pochi uomini nei posti giusti, che li limitino ad allargare le maglie della sicurezza e, sostanzialmente, a lasciar fare». Nessun dubbio, per Magaldi, sulla partenità massonica del super-attentato: le Twin Towers, «due torri gemelle, appunto», richiamano immediatamente «le due colonne che campeggiano in ogni tempo massonico», e per giunta a New York, cioè «in una delle città più massoniche al mondo». Oggi, poi, sarebbe in corso una guerra nella guerra: segmenti dell’impenetrabile mondo delle Ur-Lodges, quelli “progressisti”, sarebbero in rivolta contro gli abusi della filiera “reazionaria”, avviati in Cile dalla “Three Eyes” e completati con il terrificante cambio di passo imposto dalla “Hathor Pentalpha” a Manhattan, sedici anni fa. Da allora, stesso copione ovunque: guerra in Medio Oriente e terrorismo in Occidente. «Non durerà per sempre», insiste Magaldi. «Ma tocca a noi uscire dal letargo: serve una vera e propria rivoluzione, civile e politica, per rivendicare i diritti che ci sono stati confiscati e tornare a condizioni di sovranità democratica».Samuel Huntington, chi era costui? Politologo americano, lo presenta Wikipedia. Analista geopolitico dell’amministrazione Usa dai tempi di Jimmy Carter, direttore degli studi strategici e internazionali di Harvard, fondatore di “Foreign Policy” e autore di una ventina di saggi che hanno fatto storia. Uno su tutti, quello sullo “scontro di civiltà”, di risonanza pari alla tesi sulla “fine della storia” teorizzata da Francis Fukuyama. Nel 1975, Huntington produsse un altro saggio epocale, quello sulla “crisi della democrazia”, promosso dalla neonata Commissione Trilaterale, suprema istituzione del potere paramassonico. La tesi del volume, firmato da Huntington con Joji Watanuki e Michel Crozier: troppa democrazia fa male, bisogna tagliarla e ridurre i cittadini all’apatia, alla passività. A sedici anni dall’attacco alle Torri Gemelle c’è ancora chi si interroga sui possibili, veri mandanti del più spettacolare attentato della storia? Non Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” che rivela l’esistenza di 36 Ur-Lodges internazionali nella cabina di regia dei destini del pianeta. Attenti alle date, avverte: il disastro delle Twin Towers il è “sequel” di un altro 11 Settembre, quello del 1973, quando in Cile fu abbattuto Allende dal golpe di Pinochet. Obiettivo strategico: piegare quel che restava del socialismo e avvelenare il mondo con l’ideologia neoliberista. Fine dello Stato sovrano e “dittatura” del capitale finanziario.
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Twin Towers, esplosivi: le prove. Ma l’America non le vuole
Le torri del World Trade Center di New York non sarebbero state distrutte dall’impatto di due aerei di linea, ma da un’operazione di “demolizione controllata”, condotta con esplosivi militari a base di nano-termite. Un’accusa pesantissima, che costringe a rileggere sotto una nuova e drammatica luce l’attentato dell’11 Settembre 2001, confermando i sospetti iniziali sull’assoluta inattendibilità della versione ufficiale. A muoverla è l’associazione americana no-profit “Architects & Engineers for 9/11 Truth”, architetti & ingegneri per la verità sull’11 Settembre. E’ costituita dai 2.363 architetti e ingegneri statunitensi che nell’autunno 2016 hanno firmato una petizione indirizzata al Congresso Usa per riaprire una vera investigazione indipendente sulla distruzione del World Trade Center. Lo ricorda Rino Di Stefano in un’accurata ricostruzione, sul suo blog, del maxi-attentato di New York che ha innescato le guerre in Afghanistan e in Iraq, seguite dai conflitti a catena in Libia e Siria, in cui la sigla terroristica iniziale, Al-Qaeda, ha lasciato il posto alla sua filiazione diretta, Isis, in una spirale di violenza e orrore che, da allora, ha giustificato l’impiego sistematico di eserciti, impensabile prima dell’11 Settembre.Gli “Architects & Engineers for 9/11 Truth”, ricorda Di Stefano, hanno inviato un dettagliato report (“Oltre la disinformazione”) a oltre 20.000 americani: professionisti, professori, legislatori e giornalisti. L’autore del dossier è Ted Walter, alla guida di un team dal curriulum ragguardevole: tra i membri Sarah Chaplin, architetto (università londinese di Kingston), Mohibullah Durrani (docente di ingegneria e fisica al Montgomery College del Maryland), Richard Gage (fondatore dell’associazione per la verità sull’11 Settembre), Robert Korol e Graeme McQueen (Università McMaster dell’Ontario), più l’architetto Roberto McCoy e l’ingegnere Oswald Rendon-Herrero, docente dell’Università Statale del Mississippi. «Secondo la versione ufficiale rilasciata dal governo Bush – ricorda Di Stefano – le Torri Gemelle del World Trade Center di New York (entrambe di 110 piani per un’altezza di 415 metri) sono crollate a causa dell’impatto, e del conseguente incendio, provocato da due aerei di linea nel corso di un attentato portato a termine da un gruppo di terroristi mediorientali. Inoltre, anche la terza Torre, chiamata Wtc 7, un edificio di 47 piani alto 174 metri, sarebbe crollata simmetricamente su se stessa nel pomeriggio di quel giorno, in seguito all’incendio provocato dai detriti della Torre 1».Ebbene, questa soluzione non viene accettata, in quanto definita “non scientifica”, da buona parte degli architetti e degli ingegneri americani. «Questi esperti dell’edilizia dichiarano, infatti, che le tre torri siano state fatte crollare in seguito ad un’accurata operazione di demolizione controllata provocata dalla disposizione di esplosivi e altri dispositivi, fatti detonare al momento opportuno per far crollare le strutture nel modo desiderato». Non solo. «L’associazione degli Architetti & Ingegneri – continua Di Stefano – dice chiaramente che l’operazione sarebbe stata preparata prima dell’11 Settembre da specialisti della demolizione che hanno avuto libero accesso alle torri nei giorni precedenti l’attentato». L’analisi offerta è esclusivamente scientifica. La storia del crollo di edifici a completa struttura metallica (come le Torri Gemelle) è lunga almeno cento anni: durante questo periodo, non si è mai verificato che un edificio di quel genere fosse crollato a causa di un incendio. Tutti, infatti, sono stati abbattuti nel corso di operazioni di demolizione controllata. Nonostante questo dato di fatto, il Nist (National Institute of Standards and Technology), incaricato dal governo Bush di indagare sul disastroso attentato, nei risultati della sua indagine ufficiale ha scritto che ha trovato 22 casi di incendio che tra il 1970 e il 2002 hanno portato al crollo di altrettanti palazzi.Di questi 22 casi, 15 furono crolli parziali, dei quali cinque superavano i 20 piani di altezza. Analizzando invece ogni singolo caso, prosegue Di Stefano, lo studio accertò che soltanto in quattro casi si verificò un totale crollo dell’edificio interessato all’incendio, ma nessuno di questi aveva una struttura metallica, e il più alto era di appena 9 piani. «Vennero fatti anche diversi test presso il Building Research Establishment (Bre) Laboratories di Cardington, in Inghliterra, ma in nessun caso risultò che edifici con una struttura metallica potessero crollare completamente a causa di un incendio, per quanto devastante». La probabilità che un’evenienza di questo tipo potesse accadere, venne scritto, era “extremely low” (estremamente bassa). «Se poi si confrontano gli effetti di un crollo dovuto ad incendio rispetto ad un crollo da demolizione controllata, le differenze saltano agli occhi. Nel primo caso, infatti, il collasso dell’edificio è sempre parziale e si ferma ai piani inferiori. In una demolizione controllata, invece, il collasso è totale, avviene in pochi secondi e la caduta è libera, con una discesa simmetrica sul proprio asse».C’è poi il discorso delle esplosioni, sottolinea Di Stefano: mentre un crollo da incendio, se mai si dovesse verificare un’esplosione, avverrebbe là dove le fiamme si sono sviluppate, «nel crollo da demolizione controllata le esplosioni si vedono chiaramente piano per piano, all’esterno dell’edificio: ed è quello che è accaduto nelle Torri Gemelle». La probabilità di un incendio che possa aver causato il crollo totale di un edificio molto alto con una struttura metallica è estremamente basso, sostengono gli “Architetti & Ingegneri”. «Un evento di questo genere non è mai accaduto prima dell’11 Settembre 2001. D’altra parte, nella storia, ogni crollo totale di un edificio molto alto a struttura metallica, è stato causato da demolizione controllata». Secondo punto: un incendio che induce un cedimento delle strutture, di fatto, non mostra alcuna delle caratteristiche di una demolizione controllata. Inoltre, come può essere visto in ciò che è accaduto l’11 Settembre 2001, la distruzione di Wtc 1, Wtc 2 e Wtc 7 mostra «quasi tutte le caratteristiche della demolizione controllata e nessuna caratteristica del collasso provocato da un incendio». Aggiunge Edward Munyak, ingegnere specializzato in misure anti-incendio: «Un collasso globale progressivo potrebbe anche essere straordinario. Ma averne tre in un giorno va oltre ogni comprensione».Buio pesto dalle indagini ufficiali: «Per oltre un anno dal disastro, il governo Bush ha impedito qualunque investigazione su quanto accadde quel giorno», premette Di Stefano. Prima del Nist, le indagini ufficiali erano state condotte dalla Fema (Federal Emergency Management Agency). «Il primo a parlare di bombe situate all’interno delle Torri Gemelle fu l’ingegner Ronald Hamburger della Asce (American Society of Civil Engineers), che collaborava con la Fema». Tuttavia, Hamburger «si rimangiò i propri dubbi quando gli venne detto che nessuno aveva sentito esplosioni nei pressi delle Torri Gemelle». Non fu il solo a smentire la propria prima impressione: Van Romero, un esperto di esplosivi della New Mexico Tech, rilasciò un’intervista al quotidiano “Albuquerque Journal” sostenendo: «Il crollo dei palazzi è stato troppo ordinato per essere il risultato fortuito dell’impatto di aeroplani contro le strutture». E aggiunse: «La mia opinione, basata su quanto ho visto nei filmati, è che dopo che gli aerei hanno colpito il World Trade Center, ci siano stati dei congegni esplosivi dentro i palazzi che hanno causato il crollo delle torri».Il 21 settembre, dopo aver parlato con non meglio identificati “ingegneri strutturali”, Romero ritrattò tutto. Il fatto è che il fuoco dell’incendio doveva essere ufficialmente la causa del disastro, spiega Di Stefano. I dubbi, però, non mancavano. Il 29 novembre del 2001 William Baker, uno degli ingegneri della Fema, rilasciò al “New York Times” la seguente affermazione: «Noi sappiamo che cosa è accaduto alle Torri 1 e 2, ma perché la 7 è venuta giù?». Come scrissero i cronisti James Glanz ed Eric Lipton del “New York Times”, per mesi dopo l’11 Settembre gli investigatori non riuscirono a ottenere i progetti dettagliati degli edifici crollati, ad ascoltare i testimoni del disastro, a fare ispezioni a Ground Zero e ad ascoltare le voci registrate della gente che era rimasta intrappolata all’interno delle torri. Inoltre, la Fema «impedì che gli investigatori si rivolgessero al pubblico per ottenere fotografie e video che avrebbero potuto aiutarli nelle indagini».Un comportamento “incomprensibile”, da parte del governo. «Gli investigatori non riuscirono neppure a prelevare campioni dei detriti delle Torri in quanto, con una fretta sospetta, le migliaia di tonnellate di macerie vennero prelevate, caricate su alcune navi e inviate in Cina e in India per essere smaltite». Così, il 1° maggio 2002, la Fema presentò un dossier preliminare «nel quale non forniva una spiegazione definitiva per la distruzione di ogni singolo edificio», preferendo proporre la cosiddetta “teoria pancake”. Ovvero: le singole solette di cemento dei vari piani superiori, colpiti dall’aereo, sarebbero crollate sul piano inferiore determinando un effetto domino. «Il punto, però, è che il piano sottostante in condizioni normali avrebbe resistito all’impatto», obiettano i tecnici indipendenti. Se non è accaduto, «è perché è venuta meno la forza della sua resistenza». In altre parole, sintetizza Di Stefano, «quando un piano crollava su quello inferiore, alcune cariche esplosive distruggevano le colonne portanti di quella seconda soletta, innescando un effetto a catena».Il Nist si è fermato alla “teoria del pancake”, mentre per il terzo edificio, il Wtc 7, se l’è cavata sostenendo di non aver notato «alcuna prova» che il crollo dell’Edificio 7 sia stato «causato da bombe, missili o demolizione controllata». Ultimo verdetto nell’agosto 2008: edificio crollato anch’esso a causa del fuoco. A smentire il Nist è un libro firmato da due ricercatori, Frank Legge e Anthony Szamboti, il cui libro è intitolato, esplicitamente “9/11 and the Twin Towers: Sudden Collapse Initiation was Impossible”, cioè “Torri Gemelle, l’inizio del crollo repentino era impossibile”. Sostengono gli autori: «Un lento, prolungato e cedevole collasso non è stato osservato». Lo confermano i video: «La sezione più alta improvvisamente ha iniziato a cadere e a disintegrarsi». Un punto di vista tecnico largamente condiviso nel dossier degli “Architetti & Ingegneri”. Il governo sostiene che le colonne portanti delle torri si sarebbero deformate diversi minuti prima del crollo? I tecnici indipendenti smentiscono: non si sono visti affatto gli «inconfondibili segni d’avvertimento» e le «grandi deformazioni» che ci si aspetterebbe prima di un crollo.Se questo processo è avvenuto, scrivono i professionisti, allora è stato invisibile. Ed è avvenuto nel singolo istante in cui le strutture sono crollate. Secondo Kevin Ryan, un ex direttore della Underwriters Laboratories, «la diffusione dell’instabilità avrebbe richiesto molto più tempo e non risulterebbe nella caduta libera delle sezioni superiori sulle strutture inferiori». Il Nist, ricorda Di Stefano, afferma che il Wtc 1 è crollato in appena 11 secondi, mentre la Torre 2 in 9 secondi. Sempre il Nist afferma che la “caduta libera” delle Torri Gemelle è dimostrata dai video, in quanto «i piani inferiori al livello del crollo hanno offerto una minima resistenza alla tremenda energia rilasciata dalla massa dell’edificio che stava cadendo». Per gli scienziati indipendenti, autori di un primo esposto insieme a familiari delle vottime, le motivazioni del Nist «non erano scientificamente valide». L’autorità non avrebbe affatto spiegato le cause tecniche: che cosa è realmente accaduto, e perché. In altre parole, come poi lo stesso Nist fu costretto ad ammettere, gli esperti del governo «non erano in grado di fornire una spiegazione completa del crollo totale».Un’altra osservazione che mette in forte dubbio i risultati del Nist, continua Di Stefano nella sua ricostruzione, riguarda l’assoluta mancanza di decelerazione durante il crollo delle torri. «Una mancanza di decelerazione – riporta il dossier – indicherebbe con assoluta certezza che la struttura inferiore è stata distrutta da un’altra forza, prima che la parte superiore la raggiungesse». Il primo studio a mettere in dubbio i risultati ufficiali (“Il colpo mancante”) è stato firmato da Anthony Szamboti, ingegnere meccanico, e Richard Johns, professore di filosofia della scienza. La tesi: il Nist aveva calcolato male la resistenza delle colonne all’interno delle Torri Gemelle. Successivi studi hanno accertato che «la costante accelerazione e la mancanza di una osservabile decelerazione, per se stesse, costituiscono una irrefutabile evidenza che siano stati usati esplosivi per distruggere le Torri Gemelle». Inoltre, una delle caratteristiche più evidenti della distruzione delle Twin Towers è stata la quasi totale polverizzazione del cemento. L’allora governatore di New York, George Pataki, scrisse nella sua relazione sul disastro: «Non c’è cemento. C’è veramente poco cemento. Tutto quello che si vede è alluminio e acciaio. Il cemento è stato polverizzato».Oltre a questo, continua Di Stefano, le strutture d’acciaio delle torri erano quasi interamente smembrate. A parte alcuni muri esterni ancora in piedi alla base di ogni edificio, virtualmente tutti gli scheletri d’acciaio erano rotti in diversi pezzi, con la parte centrale separata dalle colonne esterne. «Che cosa potrebbe mai spiegare la quasi totale polverizzazione di circa 3 milioni di metri quadrati di solette di cemento e il quasi totale smembramento di 220 piani di struttura d’acciaio? Il Nist non fornisce alcuna spiegazione e la sola forza di gravità non appare plausibile. Anche perché, viene spiegato nel dossier, l’energia necessaria per polverizzare il cemento e smembrare le strutture d’acciaio è calcolabile in 1.255 gigajoule. Una misura decisamente lontana dagli stimati 508 gigajoule di potenziale energia gravitazionale contenuta negli edifici». L’enorme nuvola di cemento polverizzato che ha sommerso Manhattan «diventa ancora più incomprensibile se si pensa che il crollo è avvenuto “essenzialmente in caduta libera”». Secondo il dottor Steven Jones, ex professore di fisica presso la Brigham Young University, «il paradosso è facilmente risolvibile con l’ipotesi della demolizione esplosiva, là dove gli esplosivi facilmente rimuovono i materiali dei piani inferiori, incluse le colonne portanti, permettendo di fatto un crollo in caduta libera».Altro fattore “inspiegabile”, il lancio di materiali verso l’alto e lateralmente, piuttosto distanti dal perimetro degli edifici. Secondo la Fema, i materiali dei due edifici sono stati lanciati fino a oltre 150 metri dalla base di ogni torre. In video prodotto dal fisico David Chandler, si nota l’espulsione esplosiva di materiali dalla Torre 1, «continui e molto estesi», anche alla velocità di 170 chilometri orari. «Il palazzo – afferma – è stato progressivamente distrutto, a partire dalla cima, da ondate di esplosioni che hanno creato una spessa coltre di detriti». E aggiunge: «Insieme alla nuvola di polvere vi sono pesanti travi e intere sezioni di frammenti d’acciaio che sono stati lanciati fuori dal palazzo: alcuni sono finiti così lontano, come due campi di football dalla base della torre». A chi sostiene che l’espulsione “esplosiva” di quei frammenti sia stata un semplice prodotto del crollo, il professor Chandler risponde: «Non abbiamo visto isolate travi lanciate all’esterno. Noi abbiamo visto la maggior parte della massa dell’edificio ridotta in piccoli pezzi di pietrisco e polvere fina, espulsa esplosivamente in tutte le direzioni».Secondo lo scienziato Kevin Ryan, l’espulsione esplosiva dei materiali dalle Torri Gemelle è spiegabile soltanto come «scoppi ad alta velocità di detriti espulsi da precisi punti degli edifici». L’ipotesi della demolizione, afferma Ryan, «suggerisce che questi scoppi di detriti siano il risultato della detonazione di cariche esplosive piazzate in punti chiave della struttura, per facilitare la rimozione della resistenza». E specifica: «Ognuno di questi scoppi era costituito da un’improvvisa e secca emissione che appariva provenire da un preciso punto, espellendo approssimativamente tra i 15 e i 30 metri dal lato del palazzo, in una frazione di secondo». Dai fotogrammi estratti da un video, «possiamo stimare che uno di questi scoppi è durato complessivamente 0,45 secondi: questo ci fornisce una velocità media di circa 52 metri al secondo». Rileva Di Stefano: «E’ significativo che il Nist non abbia nemmeno parlato di questi scoppi nella sua relazione finale, mentre nelle sue “Faq” cita gli scoppi come “sbuffi di fumo”, sostenendo che “la massa crollante del palazzo aveva compresso l’aria sottostante – quasi come l’azione di un pistone – forzando il fumo e i detriti fuori dalle finestre mentre i piani inferiori crollavano sequenzialmente».Secondo Ryan, la spiegazione del Nist non è valida. «I piani delle torri – sostiene lo scienziato – non erano containers chiusi e altamente pressurizzati in grado di generare alte pressioni abbastanza forti da far scoppiare le finestre. La massa crollante avrebbe dovuto agire come un disco piatto che esercita una pressione uniforme su tutti i punti. Ma le sezioni superiori, esse stesse disintegrate come si vede nei video, non possono esercitare una pressione uniforme». Anche prendendo in considerazione un ipotetico perfetto container e una pressione uniforme, usando la “Legge del Gas Ideale” per calcolare il cambiamento della pressione, «possiamo determinare che la pressione dell’aria non potrebbe aumentare abbastanza per far scoppiare le finestre». Tanto più che «gli scoppi contenevano detriti polverizzati, non fumo e polvere». Inoltre, «i detriti del palazzo da 20 a 30 piani sotto la zona del crollo, non potevano essere polverizzati ed espulsi lateralmente dalla pressione dell’aria».Oltre al ricco materiale fotografico e televisivo riguardante la distruzione delle Torri Gemelle, continua Rino Di Stefano, bisogna considerare anche il numero delle testimonianze raccolte dai vigili del fuoco (Fdny, New York Fire Department) nella loro relazione, più di 10.000 pagine di dichiarazioni giurate di oltre 500 pompieri. In più, come documentato dal dottor Graeme McQueen, ben 156 testimoni oculari hanno parlato esplicitamente delle esplosioni che hanno visto e sentito durante il crollo delle torri. Tra questi, 121 sono pompieri e 14 sono agenti della polizia portuale (Port Authority Police Department). Altri 13 sono giornalisti presenti sul posto. In caso di normali incendi, si registrano quattro tipi di esplosioni: da vapore, da impianti elettrici, da fumo e da combustione. I vigili del fuoco di New York «sanno riconoscere questi fenomeni, anche perché sono irregolari e certamente non sincronizzati». Invece, nel caso delle Torri Gemelle, «i testimoni hanno parlato di esplosioni precise e distanziate di pochi secondi l’una dall’altra», tanto che alcuni si sono spinti ad affermare che «le Torri Gemelle sono state distrutte dalle esplosioni».«Si è arrivati al punto che è infuriata una discussione sulla percezione che abbiamo avuto circa il fatto che il palazzo sembrava fosse stato fatto saltare in aria con delle cariche», racconta Cristopher Fenyo in un’intervista rilasciata al “Wtc Task Force”. «In effetti, ho pensato che stava esplodendo», ricorda John Coyle, un altro testimone: «Questo è ciò che ho pensato in seguito per diverse ore. Penso che chiunque a quel punto pensasse che quei palazzi fossero esplosi». Nonostante il Nist si ostini ad ignorare le testimonianze, sostenendo invece che non ci siano prove di esplosioni nelle Torri Gemelle, il professor McQueen, riferendosi alla relazione dei vigili del fuoco di New York, afferma: «Abbiamo avuto 118 testimoni su 503 intervistati. Circa il 23% del gruppo sono testimoni delle esplosioni. A mio avviso, questa è un’alta percentuale di testimoni, specialmente considerando che a queste persone non sono state rivolte domande circa le esplosioni e, nella maggior parte dei casi, neanche sono state poste domande circa il crollo delle torri». In conclusione, il dossier sostiene che il Nist, decidendo di non indagare a fondo su quelle che sono state le vere cause del crollo delle Torri Gemelle, ha condotto una “piccola analisi” sul comportamento tenuto dalle strutture edilizie, ignorando volutamente qualunque prova ne potesse derivare. Di conseguenza, il Nist non è riuscito a fornire convincenti prove scientifiche.Poi c’è il “mistero” del crollo, quasi simmetrico dell’Edificio 7, a parecchia distanza dalle due torri colpite dagli aerei. La terza torre, ricorda Di Stefano, è crollata su se stessa intorno alle 17 dell’11 settembre 2001, senza essere stata colpita da nessun jet o comunque coinvolta nel crollo delle altre due torri principali. Per il Nist, l’evento è normale e rientra nella logica delle cose. L’incendio si sarebbe esteso anche al terzo edificio del complesso, indebolendone le strutture e facendolo crollare. «Oltre alla spiegazione verbale, il Nist non ha fornito alcuna motivazione strutturale o scientifica». Secondo David Chandler, docente di fisica, questa spiegazione non regge. «La caduta libera – afferma – non è compatibile con qualunque scenario naturale che abbia a che fare con la debolezza, la deformazione o la frantumazione delle strutture, in quanto in ognuno di questi scenari ci sarebbero grandi forze di interazione con le sottostanti strutture, che avrebbero fatto rallentare la caduta… Il crollo naturale risultante da caduta libera, semplicemente non è plausibile». Per Chandler, il crollo del Wtc 7 è la prova lampante della demolizione controllata. Il Nist obietta: non vi fu vera “caduta libera”, poiché 18 piani dell’edificio sono crollati in 5,4 secondi, cioè con un margine del 40% più lungo (circa 1,5 secondi) rispetto al tempo stimato della caduta libera. Ma Chandler taglia corto: «Il crollo non è avvenuto per il cedimento di una colonna, o di alcune colonne o di una sequenza di colonne. Tutte le 24 colonne interne e le 58 perimetrali sono state rimosse simultaneamente nell’arco di otto piani e in una frazione di secondo. In questo modo la metà superiore dell’edificio è rimasta intatta».Così come le Torri Gemelle, anche la struttura metallica dell’Edificio 7 è stata completamente smembrata. E i detriti hanno formato un compatto cumulo di rifiuti lungo il perimetro del palazzo. Anche in questo caso, sospetta Di Stefano, lo smembramento dell’edificio si può spiegare soltanto con la demolizione controllata. Lo spiegava già nel 1996 Stacey Loizeaux, della Controlled Demolition Inc., azienda specializzata: i demolitori agiscono da due a sei piani, a seconda dell’altezza del palazzo, per colpire le colonne portanti e far crollare l’edificio su se stesso, riducendo anche la grandezza degli eventuali detriti. Inoltre, più che di “esplosione” si dovrebbe parlare di “implosione”, in quanto il palazzo deve crollare senza uscire dal proprio perimetro. Come, appunto, è accaduto nel caso del Wtc 7. Altra omissione del Nist, le testimonianze: l’agenzia governativa sostiene che non esistano, ma è smentita da svariati video. «Improvvisamente ho guardato verso l’alto e ho visto che il palazzo crollava su se stesso», racconta Craig Bartmer, ex agente della polizia di New York. «Ho cominciato a correre e per tutto il tempo ho sentito “thum, thum, thum, thum, thum”. Credo di riconoscerla, un’esplosione, quando la sento».Conferma un volontario, Kevin McPadden: «Abbiamo sentito delle esplosioni, come ba-booom! Era un suono distinto, ba-boom. Si poteva sentire un rombo nel terreno, come se ci si volesse aggrappare a qualcosa». La reporter televisiva Ashleigh Banfield della “Msnbc” era sul posto. Nel servizio in diretta a un certo punto si sente una forte esplosione e lei dice: «Oh, mio Dio… Ci siamo». Circa 7 secondi dopo, il Wtc 7 è crollato. E appena un’ora dopo la distruzione delle Torri Gemelle, le autorità hanno cominciato a parlare del crollo dell’Edificio 7 con un alto grado di sicurezza e di precisione. «Le loro anticipazioni erano talmente certe – scrive Di Stefano – che alcuni giornali hanno scritto del crollo del Wtc 7 ancora prima che avvenisse». Una previsione azzeccata? Non esattamente: «Quando i filmati video furono esaminati con calma, ci si accorse che la notizia era basata su una precisa conoscenza dei fatti. Dal momento che gli ingegneri si definivano sbalorditi per quanto era accaduto al Wtc 7, come facevano le autorità a “predire” un evento che neanche gli ingegneri sapevano spiegarsi quattro anni e mezzo dopo?». Del resto, aggiunge Di Stefano, «ci sono prove inconfutabili di esplosioni avvenute nell’edificio: durante una ripresa televisiva, la “Cnn” ha registrato l’inconfondibile suono di un’esplosione proveniente dal Wtc 7 e l’urlo di un operaio che avvertiva come l’edificio “stava esplodendo”, pochi secondi prima del crollo. Nonostante tutto questo, il Nist si è rifiutato di prendere in considerazione qualunque prova».Secondo la Nfpa 921, cioè la guida ufficiale americana le cui norme devono essere seguite in caso di indagini inerenti eventuali incendi o esplosioni, è necessario valutare tutte le possibili fonti per accertare le cause dei disastri sui quali si indaga. Una di queste fonti, da prendere in considerazione nell’eventualità di fusione dell’acciaio, è la termite. Si tratta – spiega Di Stefano – di una miscela esplosiva altamente incendiaria, a base di polvere di alluminio e triossido di ferro, in grado di sciogliere istantaneamente l’acciaio. Normalmente, la termite viene usata per saldare i binari e per usi militari (all’interno delle granate). «Ebbene, per evitare di parlare della termite nel caso dell’11 Settembre, il Nist si è rifiutato di adottare la consueta procedura della Nfpa 921», secondo “Architetti e Ingegneri” «negando, ignorando o accampando spiegazioni di carattere speculativo, non basate su analisi di tipo scientifico». E questo, afferma il dossier, «in quanto non esiste alcuna plausibile e logica spiegazione della presenza di reazioni chimiche ad alta temperatura, se non quella di una demolizione controllata, usando meccanismi a base di termite».Secondo il Nist, i rivoli di metallo fuso che fuoriuscivano già dalla Torre 2 prima del crollo totale, erano di alluminio fuso. «C’è un problema, però. Come si vede distintamente dai video sul disastro di New York, i rivoli di metallo fuso che fuoriuscivano dalle Torri Gemelle erano di un giallo-fuoco brillante, mentre l’alluminio fuso è di colore argenteo». Come spiega il dottor Steven Jones nel suo “Why Indeed Did the Wtc Buildings Completely Collapse” (Perché davvero gli edifici del Wtc sono completamente crollati), «il color giallo implica un metallo fuso con una temperatura approssimativa di 1000 °C, evidentemente al di sopra di quella che l’incendio da idrocarburi avvenuto all’interno delle Torri avrebbe potuto produrre». Inoltre, «il fatto che il metallo liquido tendesse ad una sfumatura color arancio in prossimità del terreno esclude ulteriormente la presenza di alluminio». Non appena si è reso conto che la sua posizione era indifendibile, il Nist ha cercato di correre ai ripari sostenendo che «il color arancio era dovuto al fatto che l’alluminio liquido si era mescolato con solidi materiali organici, cambiando colore». Ma Jones smentisce categoricamente: «L’alluminio fuso non altera affatto il suo colore».A complicare la situazione, ci sono altre testimonianze. Leslie Robertson, uno dei progettisti delle Torri Gemelle, racconta: «Eravamo al livello B-1 e uno dei vigili del fuoco ha detto: “Credo che questo dovrebbe interessarvi”. E ci ha mostrato un grosso blocco di cemento sul quale scorreva un piccolo rivo di acciaio fuso». Ma non è l’unico testimone. Il capitano Philip Ruvolo ricorda la scena a cui assistette insieme ad altri vigili del fuoco: «Se guardavi sotto, vedevi acciaio fuso, acciaio fuso che scorreva giù, lungo i canali delle inferriate, come se fossimo stati in una fonderia, come lava». Secondo il Nist, il più alto grado di temperatura raggiunto nelle Torri in fiamme è stato di 1.100 gradi. Ma l’acciaio delle strutture non comincia a fondere con meno di 1.482 gradi. Come si spiega, dunque, la presenza del metallo fuso? «Il Nist semplicemente non risponde, ignorando il problema». Altro guaio: come riportato da James Glanz e Eric Lipton sul “New York Times” già nel febbraio del 2002, i detriti delle Torri Gemelle (analizzati dal Worcester Polytechnic Institute) hanno rivelato la presenza di residui di zolfo combinatosi con l’acciaio, «formando un composto che si scioglie a temperature più basse». Com’era potuto accadere? La risposta, per Steven Jones, sta proprio nella termite, l’esplosivo della demolizione controllata: quel composto infiammabile, dice, «viene prodotto quando lo zolfo è aggiunto alla termite, e questo fa in modo che l’acciaio fonda a una temperatura molto più bassa e più velocemente, grazie alla solforazione e all’ossidazione dell’acciaio attaccato».Ancora una volta, aggiunge Di Stefano, il Nist ha ignorato l’evidenza, rispondendo che di fatto non era più possibile analizzare rottami di acciaio provenienti dall’Edificio 7, in quanto tutti i detriti erano stati portati via da un pezzo, già all’inizio delle indagini. La situazione si aggrava ulteriormente, con vari studi tecnici: il primo, “The Rj Lee Report” (maggio 2004), rileva nella polvere «sfere di ferro e vescicole di particelle di silicio», prodotte a temperature altissime. Il microscopio elettronico ha individuato «sferette di ferro» nella polvere della Torre 2 (“The Usgs Report, prodotto nel 2005 dall’Us Geological Survey). Un terzo studio, del 2008, prodotto da otto scienziati, ha confermato la presenza di sfere di ferro, più silicati e sfere disciolte di molibdeno, materiale che fonde a 2.623 gradi. Ma le sorprese non sono finite, continua Di Stefano. Nell’aprile del 2009, un gruppo di scienziati guidati dal dottor Niels Harrit, un esperto di nano-chimica che ha insegnato per oltre 40 anni all’Università di Copenaghen, ha pubblicato sulla rivista internazionale “Open Chemical Physics Journal” un articolo che denuncia la presenza di “materiali termitici attivi” scoperti nella polvere della catastrofe dell’11 Settembre. «Questo studio ha rivelato la presenza di nano-termite (e cioè una specie di termite esplosiva progettata a livello di nano-particelle) nella polvere seguita al disastro».I campioni da analizzare furono prelevati in due riprese: il primo venti minuti dopo il crollo del Wtc 1, gli altri due nel giorno successivo. Lo studio giunse alla conclusione che i grattacieli di Mahnattan, le due Torri Gemelle più l’Edificio 7, «furono tutti distrutti da demolizione controllata e altri materiali incendiari». Inutile dire che, anche questa volta, le autorità hanno ignorato i ricercatori indipendenti. «In tutti i modi il Nist ha provato a ribattere alla pioggia di critiche di chi portava prove e fatti a dimostrazione che le tre Torri siano state intenzionalmente distrutte con esplosivi», conclude Di Stefano. «Il problema è che, in realtà, non ci sono prove a supporto della teoria che gli incendi abbiano fatto crollare edifici a struttura metallica come quelli». Il Nist ha anche fornito modelli digitali per dimostrare le proprie tesi, «ma sono sempre mancate le prove scientifiche per poter affermare senza possibilità di dubbio che, in effetti, siano proprio stati gli incendi ad abbattere quei giganti della moderna edilizia e ad uccidere quasi tremila persone». Servirebbe una nuova indagine, ma c’è un problema a monte. Enorme: «L’americano medio non può e non vuole accettare l’idea che il proprio governo sia implicato in un atto criminale di quelle proporzioni». L’unica certezza è che le 2.974 vittime degli attentati (2.999 se si calcolano anche quelle morte in seguito) restano ancora in attesa di giustizia: di fronte all’America, e all’umanità intera.Le torri del World Trade Center di New York non sarebbero state distrutte dall’impatto di due aerei di linea, ma da un’operazione di “demolizione controllata”, condotta con esplosivi militari a base di nano-termite. Un’accusa pesantissima, che costringe a rileggere sotto una nuova e drammatica luce l’attentato dell’11 Settembre 2001, confermando i sospetti iniziali sull’assoluta inattendibilità della versione ufficiale. A muoverla è l’associazione americana no-profit “Architects & Engineers for 9/11 Truth”, architetti & ingegneri per la verità sull’11 Settembre. E’ costituita dai 2.363 architetti e ingegneri statunitensi che nell’autunno 2016 hanno firmato una petizione indirizzata al Congresso Usa per riaprire una vera investigazione indipendente sulla distruzione del World Trade Center. Lo ricorda Rino Di Stefano in un’accurata ricostruzione, sul suo blog, del maxi-attentato di New York che ha innescato le guerre in Afghanistan e in Iraq, seguite dai conflitti a catena in Libia e Siria, in cui la sigla terroristica iniziale, Al-Qaeda, ha lasciato il posto alla sua filiazione diretta, Isis, in una spirale di violenza e orrore che, da allora, ha giustificato l’impiego sistematico di eserciti, impensabile prima dell’11 Settembre.
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Google oscura il web pro-Trump: colpo di Stato in arrivo?
«In una escalation repressiva della libertà di parola degna di una Cina comunista, Google ha lanciato una purga per smantellare i siti web che appoggiano il presidente Trump». Lo denuncia Mike Adams, tra gli “editor” del sito “NaturalNews.com”, «cancellato da Google, attraverso la rimozione di oltre 140.000 pagine di contenuti che trattano di prevenzione di malattie, terapie nutrizionali, ricerche scientifiche sulla contaminazione ambientale e molto altro». La rete è in subbuglio per questa evidente violazione della libertà di espressione, dopo che la censura di Google denunciata da “Natural News” è diventata virale sui social, nelle interviste radio e negli articoli su tutti i media indipendenti. “Natural News”, dice Adams in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, è stato presa di mira, probabilmente, perché non solo ha pubblicamente previsto la vittoria del presidente Trump molto prima che si verificasse, ma ha apertamente appoggiato le politiche di Trump «atte a proteggere l’America, drenare la palude e ripristinare la repubblica». Ma l’oscuramento di “Natural News” è solo «la prima mossa di una vasta purga della libertà di parola da parte di Google per mettere a tacere le voci pro-Trump in tutta la rete».Dopo il primo annuncio di Adams, che denunciava «la scioccante censura di “Natural News” da parte di Google», l’editor è stato contattato da diversi gestori di siti che affermano di essere stati messi offline anch’essi più o meno nello stesso momento. Il sito “Is My Website Penalized” (il mio sito è penalizzato?) mostra che almeno 470 siti web sono stati declassati o addirittura bannati da Google nell’ultimo mese. «Probabilmente molti di questi 470 siti meritavano di essere messi offline per codice maligno o infezioni da malware», ammette Adams, che però esclude che il problema riguardasse “Natural News”, come confermato da Google Search Console. «Natural News è stato bannato attraverso una “decisione umana” che non ha alcuna giustificazione ed è stata emanata senza alcun preavviso né possibilità di appello». Di fatto, continua Adamas, «qualcuno di Google ha semplicemente deciso che non gli piacevano i contenuti di “Natural News”, e ha premuto l’interruttore “memory hole” (buco della memoria) sull’intero sito in un attimo, un po’ come quando hanno fatto detonare gli esplosivi ad alto potenziale per abbattere l’Edificio 7», cioè il palazzo di Manhattan crollato l’11 Settembre senza essere stato colpito né dagli aerei, né dagli incendi.«Questo – continua Adams – si aggiunge al sabotaggio economico commesso contro “InfoWars”», quando Adroll, la piattaforma per la pubblicità di Google, «ha tolto la pubblicità a “InfoWars” senza preavviso», con un danno, secondo “InfoWars”, di 3 milioni di dollari. «Due giorni prima, “Breitbart News” è stato preso di mira con la rimozione di Milo Yiannopoulos, grazie a dei video-leaks orchestrati da gruppi di facciata legati a George Soros». Attenzione: «E’ il preludio di un’enorme false-flag o di un golpe contro il presidente Trump?». La faccenda è serissima, sottolinea Mike Adams: «Per quale ragione Google si darebbe tanto disturbo impegnandosi nella oltraggiosa censura e nel sabotaggio economico di due dei maggiori media indipendenti al mondo, in un’azione censoria consecutiva che quasi grida “urgenza!”?». La risposta è ovvia: «Qualcosa di grosso sta per essere messo in atto contro Trump, e le maggiori voci a sostegno di Trump vengono silenziate in modo sistematico, una ad una, per essere certi che nessun media indipendente possa contrastare la narrazione ufficiale che verrà propagandata dai media spacciatori di fake news (Cnn, WashPo, Nyt, etc.)». Per Adams, «questo non è altro che fascismo». Succede «quando le multinazionali eseguono gli ordini dello Stato Profondo che pianifica di causare disordini di massa o morte per rimuovere Trump dal potere». Tra gli altri “pericoli”, secondo Adams, c’è anche la possibilità che Trump «possa rendere pubblica la verità sui legami con la pedofilia di importanti politici di Washington».«In una escalation repressiva della libertà di parola degna di una Cina comunista, Google ha lanciato una purga per smantellare i siti web che appoggiano il presidente Trump». Lo denuncia Mike Adams, tra gli “editor” del sito “NaturalNews.com”, «cancellato da Google, attraverso la rimozione di oltre 140.000 pagine di contenuti che trattano di prevenzione di malattie, terapie nutrizionali, ricerche scientifiche sulla contaminazione ambientale e molto altro». La rete è in subbuglio per questa evidente violazione della libertà di espressione, dopo che la censura di Google denunciata da “Natural News” è diventata virale sui social, nelle interviste radio e negli articoli su tutti i media indipendenti. “Natural News”, dice Adams in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, è stato presa di mira, probabilmente, perché non solo ha pubblicamente previsto la vittoria del presidente Trump molto prima che si verificasse, ma ha apertamente appoggiato le politiche di Trump «atte a proteggere l’America, drenare la palude e ripristinare la repubblica». Ma l’oscuramento di “Natural News” è solo «la prima mossa di una vasta purga della libertà di parola da parte di Google per mettere a tacere le voci pro-Trump in tutta la rete».
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Thomas Mann e il prossimo Hitler invocato da noi umiliati
Il romanziere tedesco Thomas Mann era «cittadino di un popolo che nel 1925 ancora rappresentava un apice della civiltà e della cultura mondiale». Solo vent’anni dopo, «divenne uno degli abomini della civiltà mondiale». Cosa lo trasfigurò a tal punto? La crisi. Che è sempre “indotta” e trasferisce immense ricchezze nelle mani di pochi, impoverendo tutti gli altri. Dopo la Brexit e l’exploit di Trump, Paolo Barnard invita a rileggere il Thomas Mann che rievocava «la follia dell’iperinflazione tedesca», capace di tracciare «una linea diretta» verso il Terzo Reich: «In quei giorni la negoziante che senza battere un ciglio chiedeva 100 milioni di marchi per un uovo, dimostrava che nulla più al mondo l’avrebbe potuta scioccare». Fu durante la crisi, aggiunge Mann, che «i tedeschi persero la capacità di confidare in se stessi, e impararono ad aspettarsi ormai qualsiasi cosa dalla politica, dallo Stato, dal destino». Milioni di cittadini, «rapinati dei loro stipendi e risparmi, divennero le masse su cui lavorò Goebbels». Oggi ci risiamo? Deflagra «la furia sommessa di centinaia di milioni di occidentali», verso l’avvento del prossimo Hitler: «Trump, Le Pen, Hofer, Orbán, Petry o Wilders sono per adesso solo il primo tratto di quella linea».La crisi della Repubblica di Weimar, scrive Barnard nel suo blog, insegna che «quando i popoli si sentono traditi e abbandonati proprio dalle classi politiche che avrebbero dovuto proteggerli», finisce che «si gettano per esasperazione nelle mani del vendicatore, quello che poi fa l’Apocalisse». La negoziante tedesca citata da Thoman Mann oggi «rappresenta i milioni di noi», ormai rassegnati «alla morte dei redditi, delle pensioni, di ogni singolo diritto che fino a ieri sembrava scontato», consapevoli che i bambini «saranno servi delle gleba, letteralmente», e che «dei milionari non-eletti sono il loro vero governo», mentre «il politico di casa non può più neppure parlare, senza il permesso di cento cravatte blu a Bruxelles o a Manhattan». I cittadini «si lamentano, disperati»? Vengono «tranciati a metà da parole come razzista, fascista, retrogrado, nemico della modernità, ignorante bifolco» che non capisce le “riforme”. Sono centinaia di milioni, oggi, quelli ridotti come la negoziante tedesca di Thomas Mann: «Lo siamo, e ormai siamo impossibili da scioccare, non spostiamo più un gomito». Però «siamo furenti, come lo erano i tedeschi allora».Ieri come oggi, la crisi priva i cittadini di ogni «capacità di confidare in se stessi». Anche la crisi di Weimar, da cui nacque la catastrofe della Seconda Guerra Mondiale, fu innescata «dalla consapevole follia predatoria delle potenze, senza la minima considerazione dei costi sugli esseri umani». Nel 1919, ricorda Barnard, un giovane brillante economista della delegazione inglese al Trattato di Versailles – dove i vincitori della Prima Guerra Mondiale decisero le sanzioni e la spoliazione della Germania – rassegnò le dimissioni orripilato. Scrisse un volume storico chiamato “Le Conseguenze Economiche della Pace”, dove denunciò la follia predatoria degli Alleati, denunciò che nulla veniva fatto per l’occupazione in Europa, e avvertì che il popolo tedesco sarebbe stato schiacciato delle austerità impostegli. Predisse il peggio, e indovinò tutto. Era John Maynard Keynes, il maggior economista del ‘900. Siamo di nuovo lì: la finanza-barracuda «non ha un secondo di considerazione per i costi umani sui popoli, sulle classi medie ormai divenute straccioni, sugli anziani, sugli ammalati, sui bambini».Oggi, come allora, l’espressione “piena occupazione” è scomparsa anche dai sindacati, non solo da Washington o da Bruxelles. Entrambe le crisi sono «alimentate dalla pervicace insistenza delle potenze nel ripetere gli errori micidiali e il sadismo sociale». L’economista americano Randall Wray, sempre nel parallelo fra Weimar e oggi, scrive: «Il Trattato di Versailles fu una follia sanguinaria dei vincitori, ma ci ricorda adesso il comportamento della Germania della Merkel ai danni del Sud Europa». Pervicace insistenza nell’errore, appunto: «Guardate oggi cosa gracchiano la Ue o ancora i democratici americani dopo Brexit e Trump», sono «recidivi fino al crimine contro l’umanità». E’ un’Europa che, «invece di capire il ‘Quarto Reich’ in arrivo, fa le riunioni per punire Brexit e Trump, tutti a culo in aria di fronte al volto deforme di Angela Merkel». E Obama? Dopo aver «distrutto la vita di milioni di americani», ancora fa lezioncine contro “il nazionalismo populista”, applaudito dal solito codazzo italiano («De Benedetti, Pd, Benigni, Saviano, Severgnini, Travaglio, Vincenzo Boccia, il “Sole 24 Ore”»), mentre intanto «la furia sommessa di oceani umani cresce», avvicinando «l’Apocalisse di un nuovo Hitler». E’ un vecchio film: «Abbiamo già visto a cosa poi si abbandonano i milioni di furenti, impoveriti, esclusi, ridicolizzati e ignorati quando arriva l’uomo forte. Si abbandonano alla “politica della mannaia”, quella che li vendica, certo, ma mozza teste, diritti, ricchezza, intelligenza, compassione e civiltà senza più distinguere nulla».Il romanziere tedesco Thomas Mann era «cittadino di un popolo che nel 1925 ancora rappresentava un apice della civiltà e della cultura mondiale». Solo vent’anni dopo, «divenne uno degli abomini della civiltà mondiale». Cosa lo trasfigurò a tal punto? La crisi. Che è sempre “indotta” e trasferisce immense ricchezze nelle mani di pochi, impoverendo tutti gli altri. Dopo la Brexit e l’exploit di Trump, Paolo Barnard invita a rileggere il Thomas Mann che rievocava «la follia dell’iperinflazione tedesca», capace di tracciare «una linea diretta» verso il Terzo Reich: «In quei giorni la negoziante che senza battere un ciglio chiedeva 100 milioni di marchi per un uovo, dimostrava che nulla più al mondo l’avrebbe potuta scioccare». Fu durante la crisi, aggiunge Mann, che «i tedeschi persero la capacità di confidare in se stessi, e impararono ad aspettarsi ormai qualsiasi cosa dalla politica, dallo Stato, dal destino». Milioni di cittadini, «rapinati dei loro stipendi e risparmi, divennero le masse su cui lavorò Goebbels». Oggi ci risiamo? Deflagra «la furia sommessa di centinaia di milioni di occidentali», verso l’avvento del prossimo Hitler: «Trump, Le Pen, Hofer, Orbán, Petry o Wilders sono per adesso solo il primo tratto di quella linea».