Archivio del Tag ‘marginalità’
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Della Luna: anche senza tagli, il Parlamento non è sovrano
La “decostruzione” parlamentare è un processo in atto e inevitabile: i Parlamenti «sono ormai marginali, in un mondo in cui il capitale finanziario apolide, concentrato in mani private, ha conquistato il potere di dettare i modelli di sviluppo e di regolare e riformare lo Stato e le istituzioni anziché essere regolato da essi». Lo afferma Marco Della Luna, commentando il taglio dei parlamentari voluto dai grillini, a cui si sono rassegnati anche gli altri principali partiti, dal Pd alla Lega. «Principi costituzionali quali la sovranità popolare e il lavoro come fondamento della repubblica, contrastanti col capitalismo finanziario – dice Della Luna – sono materialmente inattuabili e narrativamente derisi come sovranismo e populismo». E i partiti, che si dice li incarnino? «In realtà restano dentro il modello del finanz-capitalismo: non lo criticano, anzi neanche ne parlano, lo accettano tacitamente come la realtà, l’unica realtà». Ciò premesso, aggiunge l’analista, l’enfasi sul taglio dei parlamentari (se sia giusto o sbagliato), e sulla riforma elettorale (se farla maggioritaria o proporzionale) ha senso sul piano della logica costituzionale, ma poco peso sul piano pratico, per due ragioni: ormai l’Italia è completamente scavalcata, e gli stessi parlamentari si limitano a eseguire ordini di scuderia imposti dal mondo economico.Al Parlamento italiano, precisa Della Luna, rimangono da prendere «solo decisioni secondarie, perlopiù spartitorie, da quando quelle importanti (a cominciare dal modello generale di Stato, ossia quello liberista-capitalista) sono prese da organismi extranazionali, indipendenti dall’elettorato, i quali anche producono il grosso della legislazione». Inoltre, nella cultura e nella prassi consolidata, i parlamentari, agiscono comunque «come rappresentanti non del popolo, ma degli interessi loro propri e di chi li fa eleggere, ossia di segreterie di partito e sponsor economici». E sul piano della logica costituzionale? «Il taglio dei parlamentari sarebbe di per sé indifferente, se non fosse presentato come un taglio di spese per poltronisti». E invece, a questo siamo arrivati: «Insegnare al popolo che i suoi rappresentanti sono parassiti poltronisti implica insegnargli che votare è tempo perso». Questo “insegnamento”, aggiunge Della Luna, «concorre al processo generale di decostruzione del Parlamento ed è contrario alla Costituzione vigente, basata com’è sul principio della democrazia rappresentativa, e sul principio che la politica regola l’economia e non viceversa».Per Della Luna, si tratta di un “insegnamento” in realtà «commissionato dalla grande finanza ai suoi portatori d’acqua, agli operai analfabeti nella vigna del signor Banchiere, che è il vero parassita delle nazioni, che promuove l’insegnamento che i parassiti siano invece i parlamentari, celando così il parassitismo proprio». Sempre sul piano della logica costituzionale, «è evidente che la Costituzione italiana ammette soltanto una legge elettorale proporzionale, per la semplice ragione che il Parlamento ha funzioni non soltanto di votare la fiducia al governo e le leggi ordinarie, ma anche di garanzia, ossia di eleggere gli organi di garanzia (capo dello Stato, membri della Consulta, del Csm, delle commissioni di controllo) e di votare le regole fondamentali, come le leggi e le riforme costituzionali, la stessa legge elettorale, le leggi sulla cittadinanza, i trattati in cui si dispone della sovranità nazionale». La stessa prescrizione costituzionale di maggioranze qualificate per l’elezione del capo dello Stato e per le riforme costituzionali «perderebbe senso, se il 60% dei parlamentari andasse a chi rappresenta solo il 40% dei votanti». Avendo il Parlamento queste funzioni di garanzia, «è costituzionale solo una legge elettorale proporzionale».Ma proprio questa distinzione tra funzioni ordinarie e funzioni di garanzia. Aggiunfe Della Luna, indica la soluzione al dilemma di come avere insieme governabilità e rappresentanza, ossia di come avere maggioranze parlamentari più chiare e stabili, e insieme un Parlamento capace di svolgere le funzioni di garanzia. Per Della Luna basterebbe «assegnare a una Camera, eletta con un sistema maggioritario, le funzioni ordinarie», mentre «all’altra Camera, eletta con sistema proporzionale, le funzioni di garanzia». Avremmo così «una Camera della governabilità e un Senato delle garanzie». La prima Camera potrebbe essere sciolta anticipatamente dal capo del governo, salvo che sia votata una fiducia costruttiva; la seconda Camera invece si scioglierebbe soltanto alla sua scadenza. «Ulteriormente, per aumentare la stabilità e la coesione dei governi, scoraggiando i ricatti», sarebbe bene che il capo del governo fosse «un cancelliere che nomina e revoca i ministri, i viceministri e i sottosegretari».La “decostruzione” parlamentare è un processo in atto e inevitabile: i Parlamenti «sono ormai marginali, in un mondo in cui il capitale finanziario apolide, concentrato in mani private, ha conquistato il potere di dettare i modelli di sviluppo e di regolare e riformare lo Stato e le istituzioni anziché essere regolato da essi». Lo afferma Marco Della Luna, commentando il taglio dei parlamentari voluto dai grillini, a cui si sono rassegnati anche gli altri principali partiti, dal Pd alla Lega. «Principi costituzionali quali la sovranità popolare e il lavoro come fondamento della repubblica, contrastanti col capitalismo finanziario – dice Della Luna – sono materialmente inattuabili e narrativamente derisi come sovranismo e populismo». E i partiti, che si dice li incarnino? «In realtà restano dentro il modello del finanz-capitalismo: non lo criticano, anzi neanche ne parlano, lo accettano tacitamente come la realtà, l’unica realtà». Ciò premesso, aggiunge l’analista, l’enfasi sul taglio dei parlamentari (se sia giusto o sbagliato), e sulla riforma elettorale (se farla maggioritaria o proporzionale) ha senso sul piano della logica costituzionale, ma poco peso sul piano pratico, per due ragioni: ormai l’Italia è completamente scavalcata, e gli stessi parlamentari si limitano a eseguire ordini di scuderia imposti dal mondo economico.
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La scuola sacrifica la storia? Sforna cittadini senza memoria
Uno degli effetti più dannosi e inavvertiti della riforma Gelmini, voluta e attuata con spietata determinazione dal secondo governo Berlusconi nel 2008, è il depotenziamento dell’insegnamento della storia in tutte le scuole di ogni ordine e grado. Fino alla riforma Gelmini la storia, secondo il modello del pedagogista Jerome Bruner, veniva insegnata in modo circolare, riprendendola daccapo e in modo completo in ogni ciclo scolastico (elementari, medie, superiori). La ragione era semplice e sensata: man mano che il bambino cresce, aumenta la sua capacità di afferrare la complessità degli eventi umani e la ripetizione consente di approfondire progressivamente la conoscenza della disciplina, sedimentandola sempre meglio. Ora invece i bambini italiani incontrano gli eventi storici una sola volta nel loro percorso scolastico di otto anni fra elementari e medie. Se hanno fortuna, nel migliore dei casi hanno a 14 anni nozioni vaghe o elementari dei processi storici; se per sfortuna imbroccano nell’insegnante sbagliato, possono ignorare completamente interi pezzi del passato. Arrivano così spesso alle superiori con un enorme buco nero alle spalle. Pochi di loro sanno che cosa sia la Rivoluzione Francese, la formazione degli Stati assoluti, il Risorgimento o la Seconda Guerra Mondiale. Figuriamoci la storia antica e medioevale.In più, la riforma ha fatto ulteriori “regali” agli studenti delle superiori: ha tolto un’ora alla disciplina nel biennio, aggiungendole però anche la geografia nell’orario ridotto (si tratta di quell’ibrido sconcertante che si chiama “geostoria”); ha rimodulato la distribuzione del programma di storia in modo che, invece di cominciare dalla metà del Trecento, in terza si cominci da Carlo Magno (cinque secoli prima); ha creato classi di 27-30 alunni. Risultato: il Novecento resta per forza fuori dalle scuole italiane, se non trattato di corsa e solo fino ad una sintesi estrema della Seconda Guerra Mondiale; il numero eccessivo di alunni impedisce sia di verificare oralmente la loro conoscenza in modo adeguato sia di proporre qualunque approfondimento; l’insegnamento di questa fondamentale materia si è ridotto a poche nozioni, prive di ogni inquadramento critico o di ogni valenza educativa. Poche informazioni, da mandare a memoria con fastidio e senza comprenderle, dato anche il progressivo e inesorabile scadimento dei manuali scolastici e dato il buco nero di conoscenze alle spalle.Perciò non stupisce che gli studenti italiani non scelgano il tema di storia all’esame di Stato. Soltanto che il ministro, invece di toglierlo dalla prova conclusiva, sancendo così la definitiva marginalità della storia nel curriculum formativo degli studenti italiani, dovrebbe chiedersi perché il tema di storia ha così poco appeal. E se fosse saggio, correrebbe ai ripari. Un’intera generazione di studenti che non conosce la storia se non in modo superficiale, e che ignora tutte le vicende salienti del Novecento, è pronto per qualunque regime che si fondi sull’ignoranza della gente. Che lo abbiano fatto apposta, dopo quello che abbiamo letto nel libro “Massoni” di Gioele Magaldi, può apparire tutt’altro che un’idea stravagante. E’ un pezzo della strategia neoliberista di impoverire e depotenziare la scuola pubblica, fondamentale organo costituzionale, secondo la definizione del padre costituente Piero Calamandrei. Per questo, tornare ad un insegnamento vivo, approfondito, critico della storia è fondamentale. Si tratta di una delle principali proposte del Movimento Roosevelt per una scuola davvero democratica.(Patrizia Scanu, “Senza storia non c’è memoria, salviamo l’insegnamento della storia”, dal blog del Movimento Roosevelt del 20 gennaio 2019).Uno degli effetti più dannosi e inavvertiti della riforma Gelmini, voluta e attuata con spietata determinazione dal secondo governo Berlusconi nel 2008, è il depotenziamento dell’insegnamento della storia in tutte le scuole di ogni ordine e grado. Fino alla riforma Gelmini la storia, secondo il modello del pedagogista Jerome Bruner, veniva insegnata in modo circolare, riprendendola daccapo e in modo completo in ogni ciclo scolastico (elementari, medie, superiori). La ragione era semplice e sensata: man mano che il bambino cresce, aumenta la sua capacità di afferrare la complessità degli eventi umani e la ripetizione consente di approfondire progressivamente la conoscenza della disciplina, sedimentandola sempre meglio. Ora invece i bambini italiani incontrano gli eventi storici una sola volta nel loro percorso scolastico di otto anni fra elementari e medie. Se hanno fortuna, nel migliore dei casi hanno a 14 anni nozioni vaghe o elementari dei processi storici; se per sfortuna imbroccano nell’insegnante sbagliato, possono ignorare completamente interi pezzi del passato. Arrivano così spesso alle superiori con un enorme buco nero alle spalle. Pochi di loro sanno che cosa sia la Rivoluzione Francese, la formazione degli Stati assoluti, il Risorgimento o la Seconda Guerra Mondiale. Figuriamoci la storia antica e medioevale.
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Italia in declino da 25 anni, privatizzati 170.000 miliardi
E’ opinione diffusa tra gli accoliti della sinistra italiana che i mali economici del Belpaese siano stati in larga misura acuiti e creati dai governi presieduti da Silvio Berlusconi. Mentre un’altra grossa fetta della popolazione è convinta che si debba viceversa far risalire le cause del declino alla pazza spesa pubblica della stagione dei governi del Pentapartito, quindi grosso modo in quel periodo storico che va dal 1980 alla nascita della cosiddetta e fantomatica Seconda Repubblica (1993). Quest’ultima tesi è quella che va per la maggiore negli ambienti dei liberali moderati che indistintamente possono essere collocati all’interno del centro-destra o del centro-sinistra. In questa piccola analisi ci occuperemo invece di quel periodo che va dalla fine degli anni ’80 fino alla fine dei ’90. Scopriremo come e perché le cause di tutti i nostri mali economici siano da attribuire alle politiche intraprese durante quegli anni. Anni che hanno visto il crollo del nostro Pil e del valore della lira contro il marco tedesco e dollaro Usa e il drammatico avvento delle privatizzazioni. L’Italia perderà terreno nei confronti della Francia (-21%), della Germania (-29,3%), della Gran Bretagna (-11,1%), del Giappone (-27,7%) e degli Stati Uniti (-25,8%). Per ricchezza prodotta il nostro paese raggiungerà il suo punto più elevato nel 1986 entrando a pieno titolo al quinto posto delle nazioni del G6 e scavalcando anche la Gran Bretagna per 47 miliardi delle vecchie lire.L’Italia raggiunse un altro storico traguardo nel 1991 allorquando in piena Tangentopoli divenne la quinta potenza industriale del pianeta e sfiorando il quarto posto nella classifica delle nazioni più ricche. Fu l’ultimo capitolo di una stagione che vedeva la politica ancora con le redini per poter intervenire nei processi economici del paese. L’epitaffio più prestigioso prima che il pool di Mani Pulite facesse piazza pulita della classe dirigente e imprenditoriale con il chiaro intento di aprire la strada a potentati economici e finanziari di marca anglosassone. Si chiudeva la stagione dell’intervento pubblico e di tutti quei meccanismi partecipativi che permisero alla nostra economia di vivere i fasti del boom economico degli anni ’70 e del consolidamento degli ’80. Gran merito di questo successo va attribuito alle strutture, alle leggi e a quegli istituti (Iri su tutti) creati durante il fascismo che in un modo e nell’altro sopravvissero ancora nei decenni successivi al Ventennio. Nel 1987 l’Italia entra nello Sme (Sistema monetario europeo) e il Pil passa dai 617 miliardi di dollari dell’anno precedente ai 1.201 miliardi del 1991 (+94,6% contro il 64% della Francia, il 78,6% della Germania, l’87% della Gran Bretagna e il 34,5% degli Usa). Il saldo della bilancia commerciale è in attivo di 7 miliardi mentre la lira si rivaluta del +15,2% contro il dollaro e si svaluta del -8,6% contro il marco tedesco.Tutto questo, come detto, ha un suo apice e un suo termine coincidente con la nascita della Seconda Repubblica. La fredda legge dei numeri ci dice difatti che dal 31 dicembre del 1991 al 31 dicembre del 1995, solo quattro anni, la lira si svaluterà del -29,8% contro il marco tedesco e del -32,2% contro il dollaro Usa. La difesa ad oltranza e insostenibile del cambio con la moneta teutonica e l’attacco finanziario speculativo condotto da George Soros costarono all’Italia la folle cifra di 91.000 miliardi di lire. In questi quattro anni il Pil crescerà soltanto del 5,4% e sarà il fanalino di coda della crescita all’interno del G6. In questi anni di governi tecnici la crescita italiana perderà terreno nei confronti della Francia (-21%,), della Germania (-29,3%), della Gran Bretagna (-11,1%), del Giappone (-27,7%) e degli Usa (-25,8%). Sono questi gli anni più tragici per l’economia italiana. Da allora la crescita, quando c’è stata, si è contabilizzata sulla base di cifre percentuali da prefisso telefonico. L’Italia perse in pochi mesi la classe politica del trentennio precedente che venne rimpiazzata nei posti strategici soprattutto da gente proveniente da noti istituzioni bancarie che seguirono – facendo addirittura meglio – alla lettera l’esempio thatcheriano.Non è un caso che proprio la Gran Bretagna della Lady di ferro perse, nel periodo che va dal 1981 al 1986, il 29% di crescita nei confronti dell’Italia, il 4.9% nei confronti della Francia e il 5% nei confronti della Germania. La fredda legge dei numeri che una volta per tutte smentisce chi ancora oggi glorifica la svolta liberista intrapresa dalla Thatcher. Svolta liberista che a partire dai governi tecnici e di sinistra colpì pesantemente l’Italia. Tutte le riforme strutturali avviate in quegli anni portarono il nostro paese a perdere posizioni che mai più avrebbe riguadagnato. A seguire, tutte le privatizzazioni con relativo valore al momento della cessione in miliardi di lire dell’epoca: 1993 Italgel, Cirio-Bertolli-De Rica, Siv (2.753 miliardi); 1994 Comit, Imi, Ina, Sme, Nuovo Pignone, Acciai Speciali Terni (12.704 miliardi); 1995 Eni, Italtel, Ilva Laminati piani, Enichem, Augusta (13.462 miliardi); 1996 Dalmine Italimpianti, Nuova Tirrenia, Mac, Monte Fibre (18.000 miliardi); 1997 Telecom Italia, Banca di Roma, Seat, Aeroporti di Roma (40.000 miliardi); 1998 Bnl + altre tranche (25.000 miliardi); 1999 Enel, Autostrade, Medio Credito Centrale (47.100 miliardi); 2000 Dismissione Iri (19.000 miliardi).Con la scusa di reperire capitali in vista della futura introduzione della moneta unica, il governo presieduto da Romano Prodi (17 maggio 1996 – 20 ottobre 1998) iniziò a spingere sull’acceleratore delle privatizzazioni e sulle cartolarizzazioni, ovvero la sistematica svendita del patrimonio di tutti gli italiani. Il governo Prodi non riuscì a completare la sua missione perché ad ottobre del 1998 cadde, ma con una mossa a sorpresa, evitando di fatto il ricorso alle urne, si diede l’incarico di creare una nuova maggioranza all’ex comunista Massimo D’Alema, che che proseguì la barbarie fin quando gli fu permesso (aprile del 2000) e conseguentemente proseguito dal governo “tecnico” Amato, quest’ultimo finito con la chiamata alle urne nel maggio del 2001. Questa fu la stagione legata alla più colossale svendita del patrimonio pubblico italiano. Furono incassati 178.019 miliardi di lire, pari a 91 miliardi di euro. “Meglio” della liberale Inghilterra della Thatcher. Milioni di posti di lavoro cancellati negli anni a venire che fecero perdere quella crescita che viceversa aveva contraddistinto i decenni precedenti.Le privatizzazioni non sono mai cessate. Dopo il 2000 proseguirono e continuano ancor oggi a piè sospinto. Cambia solo la ragione per la quale i governi ci dicono che dobbiamo procedere obbligatoriamente per questa strada: l’abbattimento del debito pubblico. Vale a dire come far passare il fatidico cammello attraverso la cruna dell’ago. Ma le privatizzazioni non solo non sono servite a nessuna delle cause fin qui addotte, ma come detto prima, cancellano posti di lavoro abbassando l’occupazione reale nell’arco di qualche anno. Nessuna delle ex aziende pubbliche ristrutturate dai privati ha difatti provveduto ad assumere più dipendenti della vecchia gestione. Centinaia di migliaia di posti di lavoro persi in favore del precariato e di tutti quei contratti a termine che hanno tolto certezze e diritti. Un altro elemento che oggi favorisce questa continua barbarie ai danni del lavoro ci è data dall’immigrazione favorita e voluta dalla Ue, accompagnata dal solito finto e perfido buonismo, che ha la funzione di servire sempre alla stessa finalità: alzare la disoccupazione marginale per far accettare ai lavoratori salari e diritti calanti. L’Italia ha avuto nel suo passato degli ottimi spunti che ci hanno posto ai vertici delle nazioni più competitive, e questo malgrado le cassandre che enfatizzavano gli aspetti legati all’elevata corruzione, alla criminalità organizzata e all’ignavia tipica dei mediterranei.Un paese che era vivo e presente, con il giusto slancio per affrontare qualsiasi sfida posta a livello internazionale. E questo era stato ampiamente compreso dai nostri diretti competitor, Germania, Gran Bretagna e Francia in testa che hanno fatto di tutto per smantellarci pezzo dopo pezzo. Nel 1997 il Pil italiano ha ancora una brutta caduta e passa dai 1.266 miliardi dell’anno precedente ai 1.199 miliardi. Recupera qualcosa nel ’98 (1.225 miliardi) per poi scendere ancora a 1.208 miliardi di dollari nel 1999. L’intero periodo segna una decrescita complessiva del -4,6%. L’11 dicembre del 2001, dopo 15 anni di negoziati, la Cina entrava a far parte del Wto (World Trade Organization), l’organizzazione mondiale del commercio. Da allora tutto è cambiato. Le economie anglosassoni, grazie alla deregolamentazione dei mercati voluta da Bill Clinton e Tony Blair, si sono votate esclusivamente sul finanziario. Si è creata di fatto una asimmetria tra rendita finanziaria e profitto capitalistico che ha favorito la Cina, che con i presupposti della concorrenza sleale ha sparigliato tutti, soprattutto nel campo manifatturiero, da sempre fiore all’occhiello dell’Italia. Chi non ha retto questi primi tragici anni del terzo millennio o ha chiuso i battenti o ha delocalizzato la produzione proprio nel paese del Dragone. Dal 2001 in poi i protagonisti dell’economia mondiale saranno altri. L’Italia esce mestamente dal G6 accompagnata verso un ruolo di marginalità politico-economica sempre maggiore.(Giuseppe Maneggio, “Il declino nazionale? Tutto è cominciato negli anni ‘90”, da “Il Primato Nazionale” del 18 marzo 2015).E’ opinione diffusa tra gli accoliti della sinistra italiana che i mali economici del Belpaese siano stati in larga misura acuiti e creati dai governi presieduti da Silvio Berlusconi. Mentre un’altra grossa fetta della popolazione è convinta che si debba viceversa far risalire le cause del declino alla pazza spesa pubblica della stagione dei governi del Pentapartito, quindi grosso modo in quel periodo storico che va dal 1980 alla nascita della cosiddetta e fantomatica Seconda Repubblica (1993). Quest’ultima tesi è quella che va per la maggiore negli ambienti dei liberali moderati che indistintamente possono essere collocati all’interno del centro-destra o del centro-sinistra. In questa piccola analisi ci occuperemo invece di quel periodo che va dalla fine degli anni ’80 fino alla fine dei ’90. Scopriremo come e perché le cause di tutti i nostri mali economici siano da attribuire alle politiche intraprese durante quegli anni. Anni che hanno visto il crollo del nostro Pil e del valore della lira contro il marco tedesco e dollaro Usa e il drammatico avvento delle privatizzazioni. L’Italia perderà terreno nei confronti della Francia (-21%), della Germania (-29,3%), della Gran Bretagna (-11,1%), del Giappone (-27,7%) e degli Stati Uniti (-25,8%). Per ricchezza prodotta il nostro paese raggiungerà il suo punto più elevato nel 1986 entrando a pieno titolo al quinto posto delle nazioni del G6 e scavalcando anche la Gran Bretagna per 47 miliardi delle vecchie lire.
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Realacci e 5 Stelle: salvi i piccoli Comuni, non chiuderanno
Se i piccoli Comuni italiani sopravviveranno come tali, forse sarà anche merito della legge caldeggiata e firmata anche dal Movimento 5 Stelle, approvata dal Senato in via definitiva a fine settembre dopo quattro anni dall’inizio dell’iter, avviato in modo congiunto dalla grillina Patrizia Terzoni dall’ambientalista Ermete Realacci, deputato Pd. «È una notizia di quelle storiche, perché da anni il Parlamento prova ad approvare una legge che tuteli gli oltre 5.500 piccoli Comuni», esultano i 5 Stelle sul blog di Grillo. Si tratta di una legge, ricordano, in ballo da ben 15 anni, ogni volta arenatasi su un binario morto. «Quando parliamo di piccoli Comuni non li consideriamo aree marginali», precisano i 5 Stelle: «Ci riferiamo al 70% dei Comuni italiani, che hanno una popolazione pari o inferiore ai 5 mila abitanti». Piccoli centri, che però occupano qualcosa come il 54,4% per cento del territorio italiano, e ospitano il 16,6% della popolazione nazionale: «Si tratta di oltre 10 milioni di persone», per le quali proprio il municipio rappresenta un baluardo irrinunciabile di autogoverno democratico: sono gli abitanti a eleggere (e controllare) i propri amministratori.«Tra i principali risultati ottenuti dai parlamentari – spiegano i 5 Stelle – ci sono i finanziamenti per il ripristino dei cammini storici che collegano i piccoli Comuni, il recupero dei borghi con interventi antisismici e diverse misure a sostegno dei prodotti tipici locali, come ad esempio la vendita diretta all’interno di punti commerciali, l’incentivo della filiera corta e la valorizzazione delle attività pastorali di montagna finalizzate alla produzione di formaggi di qualità». I grillini spiegano che, nell’ultimo passaggio al Senato, hanno accettato la trasformazione degli emendamenti che avevano preparato, «e questo per non rischiare che la legge, modificata, dovesse tornare alla Camera e lì insabbiarsi». Come esempio citano l’impegno per la riduzione degli imballaggi, anche attraverso progetti sperimentali nelle mense di enti pubblici e privati. «Il testo non è perfetto e di certo poteva essere migliorato – ammettono – ma rappresenta comunque un piccolo ma importante passo verso la ricostruzione e la valorizzazione dei piccoli Comuni».Attraverso la difesa dell’Italia dei campanili, il Movimento 5 Stelle sostiene di lavorare «per promuovere un cambiamento di paradigma che permetta ai borghi di ripopolarsi, anche per esempio attraverso la concessione di terreni abbandonati a realtà imprenditoriali giovanili». Difficile quantificare un risultato sicuramente simbolico e positivo, in una situazione come quella di oggi, in cui il potere decisionale è drasticamente centralizzato, a partire dall’imposizione delle tariffe per i servizi vitali, con i Comuni costretti ad aumentare le imposte per compensare i drammatici tagli dei trasferimenti statali imposti dalla “legge di stabilità” e dalle altre disposizioni-capestro, improntate all’austerity e originate in primo luogo dalla politica di rigore determinata dall’euro. Se non altro, la sopravvivenza dei piccoli Comuni contente ai cittadini di sentirsi democraticamente rappresentati e di provare a farsi sentire, attraverso portavoce in fascia tricolore – come i sindaci della valle di Susa che, dal 2005, affiancando i militanti NoTav, riuscirono a fermare (per anni) il progetto Tav Torino-Lione “in nome del popolo italiano”.Se i piccoli Comuni italiani sopravviveranno come tali, forse sarà anche merito della legge caldeggiata e firmata anche dal Movimento 5 Stelle, approvata dal Senato in via definitiva a fine settembre dopo quattro anni dall’inizio dell’iter, avviato in modo congiunto dalla grillina Patrizia Terzoni dall’ambientalista Ermete Realacci, deputato Pd. «È una notizia di quelle storiche, perché da anni il Parlamento prova ad approvare una legge che tuteli gli oltre 5.500 piccoli Comuni», esultano i 5 Stelle sul blog di Grillo. Si tratta di una legge, ricordano, in ballo da ben 15 anni, ogni volta arenatasi su un binario morto. «Quando parliamo di piccoli Comuni non li consideriamo aree marginali», precisano i 5 Stelle: «Ci riferiamo al 70% dei Comuni italiani, che hanno una popolazione pari o inferiore ai 5 mila abitanti». Piccoli centri, che però occupano qualcosa come il 54,4% per cento del territorio italiano, e ospitano il 16,6% della popolazione nazionale: «Si tratta di oltre 10 milioni di persone», per le quali proprio il municipio rappresenta un baluardo irrinunciabile di autogoverno democratico: sono gli abitanti a eleggere (e controllare) i propri amministratori.
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Ma Di Maio, aspirante paramassone, finirà peggio di Renzi
E’ davvero interessante interrogarsi su qual è il candidato del Movimento 5 Stelle a Palazzo Chigi, posto che – se le cose non cambiano – verrà fuori un Parlamento in cui il M5S sarà in beata solitudine col 25-30% ma il governo lo faranno gli altri? Ed è bella, democratica e avvincente una competizione interna ai 5 Stelle dove Di Maio non ha nessun avversario? E’ questa la democrazia che si garantisce a coloro che avevano qualche chance di competere per batterlo? E’ questa la democrazia interna che vogliamo, nei partiti e nei movimenti? E’ la democrazia che vogliamo per il nostro paese? Direi di no. Di Maio non avrà l’occasione che ha avuto Renzi: non diventerà mai presidente del Consiglio: il Movimento 5 Stelle rappresenta oggi una porzione significativa di elettorato, inferiore al 30%. E fintanto che la sua proposta politica sarà confusa e le sue capacità di governo pari a quelle dimostrate a Roma, senza nessuna disponibilità ad alleanze con altri soggetti, è destinato a non governare. Di Maio non è un massone, aspira a diventare un supermassone, come aspirava Renzi: ma, se non hanno aperto le porte a Renzi quand’era primo ministro, figuriamoci se le apriranno a Di Maio, che è soltanto un ragazzo di modesta cultura e di una qualche buona sorte, visto che si è trovato nel posto giusto al momento giusto, insieme ad altri, sul palcoscenico.Non vedo giovani molto promettenti, purtroppo, nelle prime file del M5S. Ho conosciuto persone più interessanti tra i parlamentari e i dirigenti. Ma i vari Di Maio, Di Battista e Fico non mi sembrano dei fulmini di guerra: modesti, sul piano culturale e sulla visione del progetto. Di Maio si agita molto, va spesso a Londra bussando a club massonici e paramassonici, ma è destinato a essere bruciato forse in modo ancora più squallido di quanto non sia accaduto a Matteo Renzi. Questo, naturalmente, se Di Maio rimane quello che è, cioè il narcisistico e inconsistente portavoce di un movimento che non ci ha ancora dato modo di comprendere qual è il suo progetto per il governo dell’Italia. Noi non vogliamo che i nostri rappresentati siano i vari Di Maio, Renzi, Alfano. Questi hanno già dato, e male: noi abbiamo una classe politica che non appassiona più nessuno, la gente che va a votare è sempre meno. C’è bisogno di una nuova formazione politica. Queste persone, al di là dei loro limiti personali, sono anche persone formate male, cresciute male in 25 anni dove s’è persa tutta la sapienza politica accumulata negli anni dal dopoguerra in avanti.C’è bisogno di recuperare l’idea di partiti veri, “pesanti”. C’è bisogno di recuperare il senso in cui il socialismo possa integrarsi col liberalismo. C’è bisogno di capire che ad una ideologia pervicace e occulta come quella neoliberista, che perverte i giochi istituzionali in Europa e nell’intera rete globale, va contrapposta un’altra ideologia, radicalmente democratica, che pretenda che tutti i meccanismi di democrazia siano sostanziali. Il Movimento Roosevelt combatte su questi fronti. Lasciamo agli altri di gingillarsi con le false primarie, con le false investiture di leader che non saranno mai eletti, con questo teatrino che rende gli uni condannati ad un eterno consociativismo (vedi Berlusconi, Renzi, Gentiloni, Alfano: questi teatranti ormai maleodoranti della politica italiana) e gli altri, cioè il Movimento 5 Stelle, condannato all’opposizione per l’eternità. Peccato che i tempi del XXI Secolo sono rapidi: se uno resta sempre all’opposizione, rischia – più rapidamente che nel passato – di logorare il rapporto con la popolazione, che alla fine non lo vota più.(Gioele Magaldi, dichiarazioni rilasciate a David Gramiccioli nella diretta “Massoneria On Air” su “Colors Radio” il 25 settembre 2017, annunciando la nascita ufficiale del Pdp, Partito Democratico Progressista. «Auspichiamo – dice – che tutti i cittadini che sono stanchi tanto del centrodestra che del centrosinistra (ma anche del M5S in questa sua versione inconcludente) confluiscano copiosi nella nuova formazione» alla quale sta lavorando Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt, impegnato a Roma il 4 novembre per un convengno sulla Costituzione «con proposte rivoluzionarie per migliorarla, non certo nel senso tentato da Renzi») e con l’assemblea costituente del Pdp. Il nuovo soggetto politico aprirà inoltre un cantiere di formazione politica, il Master Roosevelt in Scienze della Polis, e si prepara a celebrare a Milano, nel gennaio 2018, un convegno sull’eminente figura del socialdemocratico svedese Olof Palme, assassinato nel 1986 a Stoccolma mentre era premier, in procinto di essere eletto segretario generale all’Onu).E’ davvero interessante interrogarsi su qual è il candidato del Movimento 5 Stelle a Palazzo Chigi, posto che – se le cose non cambiano – verrà fuori un Parlamento in cui il M5S sarà in beata solitudine col 25-30% ma il governo lo faranno gli altri? Ed è bella, democratica e avvincente una competizione interna ai 5 Stelle dove Di Maio non ha nessun avversario? E’ questa la democrazia che si garantisce a coloro che avevano qualche chance di competere per batterlo? E’ questa la democrazia interna che vogliamo, nei partiti e nei movimenti? E’ la democrazia che vogliamo per il nostro paese? Direi di no. Di Maio non avrà l’occasione che ha avuto Renzi: non diventerà mai presidente del Consiglio: il Movimento 5 Stelle rappresenta oggi una porzione significativa di elettorato, inferiore al 30%. E fintanto che la sua proposta politica sarà confusa e le sue capacità di governo pari a quelle dimostrate a Roma, senza nessuna disponibilità ad alleanze con altri soggetti, è destinato a non governare. Di Maio non è un massone, aspira a diventare un supermassone, come aspirava Renzi: ma, se non hanno aperto le porte a Renzi quand’era primo ministro, figuriamoci se le apriranno a Di Maio, che è soltanto un ragazzo di modesta cultura e di una qualche buona sorte, visto che si è trovato nel posto giusto al momento giusto, insieme ad altri, sul palcoscenico.
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Magaldi: gli Occhionero bruciati per imporre 007 infedeli?
Lo scandalo della cyber-security con l’arresto dei fratelli Occhionero? Fatto scoppiare ad arte, per imporre un nuovo super-controllore gradito a Renzi (e all’ultra-destra massonica cui il leader Pd guarderebbe) ma sgradito agli ambienti della massoneria internazionale progressista. E’ la tesi, dirompente, enunciata dal massone Gioele Magaldi, gran maestro del Grande Oriente Democratico e autore del saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata”, pubblicato da Chiarelettere a fine 2014 ma completamente oscurato dai grandi media, nonostante rivelasse – in modo del tutto inedito – i più segreti retroscena del “back office” del potere, consentendo una clamorosa rilettura dell’intera storia del ‘900, inclusa quella italiana, mettendo in luce il ruolo del “convitato di pietra”, la massoneria, nella sua versione apolide, quella delle 36 Ur-Lodges che reggerebbero i grandi giochi mondiali. «Ho più volte offerto di esibire prove concrete, un dossier di 6.000 pagine – protesta Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio” – ma nessuno si è finora azzardato a smentirmi». Contro la “congiura del silenzio”, Magaldi ora interviene anche sull’ultimo caso di cronaca, quello dei fratelli Occhionero, indicando una regia interamente massonica dietro alla vicenda. Nomi eccellenti? Mario Draghi, Marco Carrai, Anna Maria Tarantola, Mario Monti. E l’onnipresente, ma invisibile, Michael Ledeen.«Giulio e Francesca Romana Occhionero hanno agito in piena sintonia e reciproca consapevolezza di quello che ciascuno faceva», dichiara Magaldi ad “Affari Italiani”. I due «sono stati coperti e protetti, per anni, accumulando molti dati sensibili a favore di chi li proteggeva e ispirava». Avrebbero accumulato, per conto terzi, «una mole infinitamente più grande di dati rispetto a quella sinora scoperta dagli investigatori». Per Magaldi, Giulio Occhionero «ambiva a far parte di una specifica Ur-Lodge», una superloggia sovranazionale, la “White Eagle”, «operante principalmente tra Usa, Regno Unito, Malta e il Medio Oriente». Della “White Eagle”, dice ancora Magaldi, fa parte Ledeen, il politologo statunitense la cui storia si è intrecciata più volte con quella italiana, anche sul caso Moro. Un altro studioso di formazione massonica, Gianfranco Carpeoro, nel libro “Dalla massoneria al terrorismo” (Revoluzione-UnoEditori) collega Ledeen anche a Licio Gelli e all’omicidio del leader socialista svedese Olof Palme, attribuendo a Ledeen anche la militanza nel B’nai B’rith, la super-massoneria israeliana controllata dal Mossad. Ma che c’entra, tutto questo, con il caso dei due italiani accusati di cyber-spionaggio?«Al fratello Occhionero – spiega Magaldi, sempre intervistato da “Affari Italiani” – stava stretta l’appartenenza ad una loggia, la “Paolo Ungari-Nicola Ricciotti Pensiero e Azione” all’Oriente di Roma, che fa parte di una obbedienza ordinaria e nazionale come il Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani». Per Magaldi, il Goi sarebbe «una di quelle entità massoniche ormai in stato di declino e di relativa marginalità, rispetto a quei circuiti delle superlogge che ho iniziato a descrivere nel libro “Massoni”», di cui sta per uscire il sequel, intitolato “Globalizzazione e Massoneria”. In realtà, aggiunge Magaldi, Giulio Occhionero e la sorella Francesca Romana «coltivavano l’ambizione di essere ammessi a una specifica superloggia sovranazionale, la “White Eagle”». Per questo, «hanno agito su commissione di personaggi collegati come affiliati o come ‘compagni di strada/aspiranti affiliati’ di questa Ur-Lodge». Chiarisce Magaldi: «La massoneria sempre meno rilevante del Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani c’entra poco, con questa intricata vicenda». Lo “spionaggio” ai danni di alcuni dignitari del Goi «era soprattutto un’esigenza personalistica di Giulio Occhionero, qualcosa di irrilevante per i suoi mandanti in ‘super-grembiulino’».Diverso invece il caso della “sorveglianza” del gran maestro del Goi, Stefano Bisi, che per Magaldi «va ricondotta allo spionaggio sul fratello Mario Draghi (mi dicono avvenuta anche su altre utenze rispetto a quelle sin qui individuate dagli investigatori), di cui Bisi è in qualche modo un servizievole esecutore per questioni massoniche di natura locale». Servizievole esecutore? Magaldi afferma che il ruolo di Bisi risale «ai tempi del ‘groviglio armonioso’ legato al Monte dei Paschi di Siena, allorché Draghi, come governatore di Bankitalia, non vigilò adeguatamente su alcune condotte del management della banca senese». E Bisi, come massone e giornalista (caporedattore e poi vicedirettore del “Corriere di Siena”, testata influente nella città toscana, «aveva le mani in pasta in diverse questioni Mps, ispirando la sua azione di concerto con il fratello Draghi e con la sorella libera muratrice Anna Maria Tarantola, capo della Vigilanza di Bankitalia, la quale, in virtù della sua clamorosa ‘mancata vigilanza’ sulle questioni più scabrose in capo a Mps, fu premiata dal massone Mario Monti con la nomina a presidente Rai nel 2012».Ma se questi sono piccoli risvolti italiani, continua Magaldi, «la massoneria che invece c’entra molto, con tutto questo affaire del cyber-spionaggio imputato ai fratelli Occhionero, è quella della Ur-Lodge sovranazionale neoaristocratica “White Eagle”». Chi potrebbe essere il committente del cyberspionaggio? «Se dal nome della superloggia sovranazionale coinvolta andiamo nel particolare dei personaggi che hanno fatto da tramite con Giulio e Francesca Romana Occhionero, la questione si fa clamorosa», sostiene Magaldi. Che aggiunge: «Uno dei personaggi che consiglio agli inquirenti di ascoltare con attenzione su questa vicenda è il massone conservatore e reazionario Micheal Ledeen, appunto affiliato di peso alla “White Eagle”». Un altro personaggio che secondo Magaldi «varrebbe la pena sentire come ‘persona informata dei fatti’ è Marco Carrai, wannabe supermassone, con specifica propensione proprio verso la “White Eagle”, come il suo caro amico Matteo Renzi». Nel lessico libero-muratorio, il “wannabe” è colui che chiede di essere accolto, in questo caso in una superloggia internazionale.Quale potrebbe essere l’obiettivo di questa attività di spionaggio? «Qualcuno, per anni, ha raccolto e utilizzato le informazioni sensibili che i fratelli Occhionero gli hanno passato, coprendone e proteggendone in vario modo le attività», sostiene Magaldi, che svela l’identità delle sue fonti riservate: si tratta di «cari e fraterni amici in capo a importanti strutture di intelligence militare e civile di area euro-atlantica». Queste fonti, continua Magaldi, gli hanno rivelato che «da qualche tempo, Giulio e Francesca Romana Occhionero erano diventati ‘sacrificabili’ per ottenere, cinicamente, attraverso uno scandalo fatto scoppiare ad arte sulla loro vicenda, una ristrutturazione della cybersecurity italiana a livello nazionale». Una ristrutturazione che, «sin qui, non si era potuta realizzare», e che «avrebbe potuto portare al suo vertice una persona gradita a Matteo Renzi, ma sgradita a diversi ambienti massonico-progressisti dell’intelligence italiana e statunitense, con cui quella italiana tradizionalmente collabora in modo privilegiato».Lo stesso Magaldi ha più volte fatto riferimento alla “speciale protezione” di cui avrebbe goduto il nostro paese, specie negli ultimi anni, in cui l’opinione pubblica europea è stata scossa dai devastanti attentati che hanno colpito la Francia. E nel suo libro, Magaldi sottolinea il ruolo decisivo di un super-massone di altissimo rango, come il sociologo Arthur Schlesinger Jr., collaboratore strategico della Casa Bianca, cui l’autore attribuisce un ruolo-chiave, negli anni ‘60 e ‘70, nel tentativo (riuscito) di sventare i tre diversi colpi di Stato che avrebbero posto fine alla democrazia italiana. Anche per questo, probabilmente, Magaldi invita a non sottovalutare i possibili retroscena del cyber-spionaggio, settore delicatissimo da cui dipende, davvero, la sicurezza nazionale, specie in tempi come questi, gremiti di sanguinosi attentati palesemente “inquinati” da settori deviati dell’intelligence. Attraverso i suoi contatti con i «circuiti liberomuratori progressisti sovranazionali», Gioele Magaldi dichiara di impegnarsi a vigilare «affinché nessuno strumentalizzi questo scandalo per far conferire ad ‘amici degli amici’ incarichi tali da mettere in pericolo proprio quella sicurezza nazionale informatica italiana che si pretenderebbe di voler tutelare».Lo scandalo della cyber-security con l’arresto dei fratelli Occhionero? Fatto scoppiare ad arte, per imporre un nuovo super-controllore gradito a Renzi (e all’ultra-destra massonica cui il leader Pd guarderebbe) ma sgradito agli ambienti della massoneria internazionale progressista. E’ la tesi, dirompente, enunciata dal massone Gioele Magaldi, gran maestro del Grande Oriente Democratico e autore del saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata”, pubblicato da Chiarelettere a fine 2014 ma completamente oscurato dai grandi media, nonostante rivelasse – in modo del tutto inedito – i più segreti retroscena del “back office” del potere, consentendo una clamorosa rilettura dell’intera storia del ‘900, inclusa quella italiana, mettendo in luce il ruolo del “convitato di pietra”, la massoneria, nella sua versione apolide, quella delle 36 Ur-Lodges che reggerebbero i grandi giochi mondiali. «Ho più volte offerto di esibire prove concrete, un dossier di 6.000 pagine – protesta Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio” – ma nessuno si è finora azzardato a smentirmi». Contro la “congiura del silenzio”, Magaldi ora interviene anche sull’ultimo caso di cronaca, quello dei fratelli Occhionero, indicando una regia interamente massonica dietro alla vicenda. Nomi eccellenti? Mario Draghi, Marco Carrai, Anna Maria Tarantola, Mario Monti. E l’onnipresente, ma invisibile, Michael Ledeen.
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Italiani analfabeti, 7 su 10 non capiscono quel che leggono
Il 70 per cento degli italiani è analfabeta: legge, guarda, ascolta, ma non capisce. Non è affatto un titolo sparato, per impressionare; anzi, è un titolo riduttivo rispetto alla realtà, che avvicina la cifra autentica all’80 per cento. E questo vuol dire che tra la gente che abbiamo attorno a noi, al caffè, negli uffici, nella metropolitana, nel bar, nel negozio sotto casa, più di 3 di loro su 4 sono analfabeti: sembrano “normali” anch’essi, discutono con noi, fanno il loro lavoro, parlano di politica e di sport, sbrigano le loro faccende senza apparenti difficoltà, non li distinguiamo con alcuna evidenza da quell’unico di loro che non è analfabeta, e però sono “diversi”. Qual è questa loro diversità? Che sono incapaci di ricostruire ciò che hanno appena ascoltato, o letto, o guardato in tv e sul computer. Sono incapaci! La (relativa) complessità della realtà gli sfugge, colgono soltanto barlumi, segni netti ma semplici, lampi di parole e di significati privi tuttavia di organizzazione logica, razionale, riflessiva.Non sono certamente analfabeti “strumentali”, bene o male sanno leggere anch’essi e – più o meno – sanno tuttora far di conto (comunque c’è un 5 per cento della popolazione italiana che ancora oggi è analfabeta strutturale, “incapace di decifrare qualsivoglia lettera o cifra”); ma essi sono analfabeti “funzionali”, si trovano cioè in un’area che sta al di sotto del livello minimo di comprensione nella lettura o nell’ascolto di un testo di media difficoltà. Hanno perduto la funzione del comprendere, e spesso – quasi sempre – non se ne rendono nemmeno conto. Quando si dice che quella di oggi non è più la civiltà della ragione ma la civiltà della emozione, si dice anche di questo. E quando Bauman (morto ieri, grazie a lui per ciò che ci ha dato) diceva che, indipendentemente da qualsiasi nostro comportamento, ogni cosa é intessuta in un discorso, anche l’”analfabetismo” sta nel “discorso”. Cioè disegna un profilo di società nella quale la competenza minima per individuare una capacità di articolazione del proprio ruolo di “cittadino” – di soggetto consapevole del proprio ruolo sociale, disponibile a usare questo ruolo nel pieno controllo della interrelazione con ogni atto pubblico e privato – questa competenza appartiene soltanto al 20 per cento dei nostri connazionali.E’ sconcertante, e facciamo fatica ad accettarlo. Ma gli strumenti scientifici di cui la linguistica si serve per analizzare il rapporto tra “messaggio” e “comprensione” hanno una evidenza drammatica. Non é un problema soltanto italiano. L’evoluzione delle tecnologie elettroniche e la sostituzione del messaggio letterale con quello iconico stanno modificando un po’ dovunque il livello di comprensione; ma se le percentuali attribuibili ad altre societá (anche Francia, Germania, Inghilterra, o anche gli Usa, che non sono affatto il modello metropolitano del nostro immaginario ma piuttosto un’ampia America profonda, incolta, ignorante, estremamente provinciale) se anche quelle societá denunciano incoerenze e ritardi, mai si avvicinano a queste angosciose latitudini, che appartengono soltanto all’Italia, e alla Spagna.Il “discorso” è complesso, e ha radici profonde, sociali e politiche. Se prendiamo in mano i numeri, con il loro peso che non ammette ambiguità e approssimazioni, dobbiamo ricordare che nel nostro paese circa il 25% della popolazione non ha alcun titolo di studio o ha, al massimo, la licenza della scuola elementare. Non é che la scuola renda intelligenti, e però fornisce strumenti sempre più raffinati – quanto più avanti si vada nello studio – per realizzare pienamente le proprie qualità individuali. Vi sono anche laureati e diplomati che sono autentiche bestie, e però è molto più probabile trovare “bestie” tra coloro che laurea e diploma non sanno nemmeno che cosa siano. (La percentuale dei laureati in Italia, poi, é poco più della metà dei paesi più sviluppati.)Diceva Tullio De Mauro, il più noto linguista italiano, ministro anche della Pubblica Istruzione (incarico che siamo capaci di assegnare perfino a chi non ha né laurea né diploma – e questo dato rientra sempre nel “discorso”), che più del 50 per cento degli italiani si informa (o non si informa), vota (o non vota), lavora (o non lavora), seguendo soltanto una capacità di analisi elementare: una capacità di analisi, quindi, che non solo sfugge le complessità, ma che anche davanti a un evento complesso (la crisi economica, le guerre, la politica nazionale o internazionale) é capace di una comprensione appena basilare.Un dato impressionante ce l’ha fatto conoscere ieri l’Istat: il 18,6 per cento degli italiani – cioè quasi uno su 5 – lo scorso anno non ha mai aperto un libro o un giornale, non é mai andato al cinema o al teatro o a un concerto, e neppure allo stadio, o a ballare. Ha vissuto prevalentemente per la televisione come strumento informativo fondamentale, e non é azzardato credere – visti i dati di riferimento della scolarizzazione – che la sua comprensione della realtà lo piazzi a pieno titolo in quell’80 per cento di analfabeti funzionali (che riguarda comunque un universo sociale drammaticamente molto più ampio di questa pur amara marginalità). E da qui, poi, il livello e il grado della partecipazione alla vita della società, le scelte e gli stili di vita, il voto elettorale, la reazione solo di pancia – mai riflessiva – ai messaggi dove la realtà si copre spesso con la passione, l’informazione e la sua contaminazione con la pubblicità e tant’altro che ben si comprende. E’ il “discorso”.Il “discorso” ha al centro la scuola, il sistema educativo del paese, le scelte e gli investimenti per la costruzione di un modello funzionale che superi il ritardo con cui dobbiamo misurarci in un mondo sempre più aperto e sempre più competitivo. Se noi destiniamo alla ricerca la metà di un paese come la Bulgaria, evidentemente c’é un “discorso” da riconsiderare. (Questo testo é un omaggio a Tullio De Mauro, morto nei giorni scorsi, che ha portato la linguistica fuori dalle aule dell’accademia, e l’ha resa uno degli strumenti fondamentali di analisi di una società) .(Mimmo Càndito, “Il 70 per cento degli italiani è analfabeta: legge, guarda, ascolta, ma non capisce”, da “La Stampa” del 10 gennaio 2017).Il 70 per cento degli italiani è analfabeta: legge, guarda, ascolta, ma non capisce. Non è affatto un titolo sparato, per impressionare; anzi, è un titolo riduttivo rispetto alla realtà, che avvicina la cifra autentica all’80 per cento. E questo vuol dire che tra la gente che abbiamo attorno a noi, al caffè, negli uffici, nella metropolitana, nel bar, nel negozio sotto casa, più di 3 di loro su 4 sono analfabeti: sembrano “normali” anch’essi, discutono con noi, fanno il loro lavoro, parlano di politica e di sport, sbrigano le loro faccende senza apparenti difficoltà, non li distinguiamo con alcuna evidenza da quell’unico di loro che non è analfabeta, e però sono “diversi”. Qual è questa loro diversità? Che sono incapaci di ricostruire ciò che hanno appena ascoltato, o letto, o guardato in tv e sul computer. Sono incapaci! La (relativa) complessità della realtà gli sfugge, colgono soltanto barlumi, segni netti ma semplici, lampi di parole e di significati privi tuttavia di organizzazione logica, razionale, riflessiva.
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Sei povero? Tranquillo, la riforma del Senato è pronta
Chissà come sono contenti della riforma del Senato i sei milioni e ventimila poveri assoluti d’Italia, aumentati nell’ultimo anno di un milione e 206 mila unità. E chissà come sono entusiasti del nuovo corso i dieci milioni di poveri “relativi” e come gongolano vedendo che le priorità di chi li governa riguardano il castigo per i senatori dissidenti, le mediazioni di Calderoli e il patto del Nazareno. Faranno la òla, altroché, di fronte al nuovo che avanza. Per ora il “nuovo” è che loro aumentano a ritmo spaventoso, e un altro “nuovo” è che la povertà – anche quella assoluta – riguarda anche gente che lavora. Come dire che il disagio e l’indigenza non sono più (da un bel pezzo) faccende di marginalità, ma componenti strutturali del paese (il 10% di poveri assoluti, quasi il 15% di poveri relativi), componenti strutturali a cui si presentano priorità come “governabilità”, “stabilità” e non, come si sarebbe detto un tempo, pane e lavoro.I dati Istat diffusi ieri, come spesso fanno i numeri, specie se spaventosi, fanno un po’ di giustizia di tanti discorsetti teorici. Uno su tutti: l’eterna, noiosissima, stucchevole diatriba su destra e sinistra. Categorie vecchie: ora va di moda il sopra e sotto, il di fianco, l’oltre, e altre belle paroline utili all’ammuina. Poi, in una pausa della creatività ideologica corrente, arrivano quei numeri a ricordare che la forbice della diseguaglianza continua ad aprirsi, che i poveri aumentano (di moltissimo) e che il paese è ormai due paesi: chi ce la fa e chi non ce la fa. Con in mezzo chi ce la fa a fatica e vive nel terrore del passaggio di categoria, verso la retrocessione, ovviamente. A questi ultimi sono andati gli 80 euro di Renzi: un po ’ di ossigeno ai “quasi poveri” che un tempo si sarebbero detti ceto medio.I numeri dell’Istat sono il solo vero discorso politico sentito in Italia negli ultimi mesi. L’unico che meriti di essere approfondito, un filino più serio dei pranzetti con Verdini, degli incontri in streaming, della pioggia di emendamenti sulla riforma della Costituzione. Un discorso che dovrebbe parlare anche a quella sinistra dispersa e bastonata che si oppone (ah, si oppone?) alle larghe e larghissime intese. Un solo punto, un solo programma, basta una riga: ridurre le distanze, attenuare le differenze, diminuire le diseguaglianze. Le cifre dell’Istat – e le persone che mestamente ci stanno dietro – indicano l’unica vera priorità del paese, altro che Italicum. E sarebbe interessante capire, sia detto per inciso, quanti di quei milioni di nuovi poveri, assoluti o relativi, sono scivolati indietro a causa dell’affievolirsi della parola “diritti”. Parola vecchia, bollata come conservatrice.E così non è più un diritto il lavoro, non è più un diritto la casa, e di scivolata in scivolata, la povertà diventa questione privata, colpa individuale e non, come dovrebbe essere, piaga pubblica e sociale. Il “governo più di sinistra degli ultimi trent’anni” (cfr. Matteo Renzi, febbraio 2014) non solo ha altre priorità, ma pare intenzionato a intaccare alcune forme di welfare (la cassa integrazione in deroga, per dirne una) facilitando, e non contrastando, lo scivolamento verso l’indigenza di altre centinaia di migliaia di italiani. Per questo i numeri dell’Istat sono il solo vero discorso politico sentito negli ultimi tempi: dicono di come oggi una sinistra che lotti contro le diseguaglianze non esista, e di quanto invece ce ne sarebbe bisogno. Come il pane. Appunto.(Alessandro Robecchi, “Sei povero? Calma, la riforma del Senato è quasi pronta”, da “Micromega” del 17 luglio 2014).Chissà come sono contenti della riforma del Senato i sei milioni e ventimila poveri assoluti d’Italia, aumentati nell’ultimo anno di un milione e 206 mila unità. E chissà come sono entusiasti del nuovo corso i dieci milioni di poveri “relativi” e come gongolano vedendo che le priorità di chi li governa riguardano il castigo per i senatori dissidenti, le mediazioni di Calderoli e il patto del Nazareno. Faranno la òla, altroché, di fronte al nuovo che avanza. Per ora il “nuovo” è che loro aumentano a ritmo spaventoso, e un altro “nuovo” è che la povertà – anche quella assoluta – riguarda anche gente che lavora. Come dire che il disagio e l’indigenza non sono più (da un bel pezzo) faccende di marginalità, ma componenti strutturali del paese (il 10% di poveri assoluti, quasi il 15% di poveri relativi), componenti strutturali a cui si presentano priorità come “governabilità”, “stabilità” e non, come si sarebbe detto un tempo, pane e lavoro.
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Il nazionalismo dei poveri e la rinascita della destra
L’impoverimento accelerato della popolazione italiana non si manifesta solo come caduta del reddito, perdita del lavoro, crisi del risparmio. C’è una povertà culturale che si manifesta in connessione diretta con la povertà materiale, tanto più vistosa in un paese i cui tassi d’istruzione risultano fra i più bassi dell’Occidente. Uno dei sintomi più evidenti della povertà culturale dilagante è, scusate il bisticcio di parole, proprio il nazionalismo dei poveri. Emerso dentro alla protesta popolare che si è riconosciuta nel simbolo (non a caso) primitivo dei forconi. E’ la vecchia fandonia dell’Italia “nazione proletaria” a riproporsi in una retorica patriottica che trae forza dal suo essere rudimentale. La formula è sempre la stessa. Basta con le distinzioni fra destra e sinistra. Basta con le associazioni di rappresentanza dei diversi soggetti sociali.La deformazione televisiva di decenni di politica-spettacolo, in cui le identità artificiali vengono enfatizzate fino a obbligarci a prenderle sul serio, impone ormai come unico fattore unificante il linguaggio da stadio. Non a caso l’estrema destra ha condotto un lungo, silenzioso ma sapiente lavoro di reclutamento fra le tifoserie organizzate del calcio. E abbiamo ritrovato gli ultrà fra gli attivisti dei blocchi stradali, là dove si riconosceva perfino nella metrica degli slogan quella matrice elementare. Per giorni e giorni ho sentito ripetere come un mantra, a chiunque mi rivolgessi: «Noi siamo l’Italia, noi siamo il popolo italiano e basta». Un popolo che faceva suoi tutti gli archetipi più beceri di un nazionalismo che credevamo sorpassato dalle dinamiche commerciali, musicali, perfino gastronomiche di un cosmopolitismo entrato a far parte della nostra vita quotidiana.La rabbia interclassista degli impoveriti cerca e (forse) trova un denominatore comune nella denuncia del torto subito in quanto italiani: derubati dalla classe politica; derubati nella sovranità monetaria; derubati nei favoritismi che le istituzioni riserverebbero a chi arriva da fuori. Ho udito nella manifestazione dei Forconi in piazza del Popolo a Roma un operaio romagnolo che raccontava: «Sono iscritto alla Cgil ma non ne posso più del mio sindacato che riserva i posti di lavoro agli stranieri, e non ne posso più della Boldrini che vuole dare le case popolari solo ai rom e agli immigrati». La folla, sciaguratamente, lo applaudiva e poi cantava Fratelli d’Italia.D’accordo, obietterete, quella era una manifestazione in cui si riconosceva una presenza organizzata delle formazioni di estrema destra. O, più precisamente, si delineava una nuova presenza pubblica di quella destra sociale che il populismo berlusconiano non è più in grado di imbrigliare secondo i suoi fini. Ma temo che ci sia anche qualcosa di più profondo. Nel vuoto politico e culturale della crisi di sistema in atto, un paese costretto a fare i conti con la sua crescente marginalità com’è l’Italia contemporanea vede crescere, fra i ceti popolari, l’istinto di aggrapparsi al nazionalismo più becero. Là dove si è infranta la mitologia leghista, è l’eterno fascismo di ritorno a tornare in auge.(Gad Lerner, “Il nazionalismo dei poveri e la rinascita della destra”, articolo apparso su “Nigrizia” e ripreso dal blog di Lerner il 14 gennaio 2014).L’impoverimento accelerato della popolazione italiana non si manifesta solo come caduta del reddito, perdita del lavoro, crisi del risparmio. C’è una povertà culturale che si manifesta in connessione diretta con la povertà materiale, tanto più vistosa in un paese i cui tassi d’istruzione risultano fra i più bassi dell’Occidente. Uno dei sintomi più evidenti della povertà culturale dilagante è, scusate il bisticcio di parole, proprio il nazionalismo dei poveri. Emerso dentro alla protesta popolare che si è riconosciuta nel simbolo (non a caso) primitivo dei forconi. E’ la vecchia fandonia dell’Italia “nazione proletaria” a riproporsi in una retorica patriottica che trae forza dal suo essere rudimentale. La formula è sempre la stessa. Basta con le distinzioni fra destra e sinistra. Basta con le associazioni di rappresentanza dei diversi soggetti sociali.
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Un partito patriottico, contro questi collaborazionisti
Moderatismo significa pensare che il sistema va bene strutturalmente, così come è; e vuol dire anche credere in come il sistema descrive e giustifica se stesso, e che al massimo c’è da migliorarlo e ripararlo. Con lo spodestamento di Berlusconi da parte dei “moderati”, si dissolvono le ultime differenze politiche – sfumature o poco più – sicché ora abbiamo un’unità completa della partitocrazia e un Parlamento quasi interamente uniformato alla strategia “europeista” di totale cessione al capitalismo estero delle leve di economia politica, delle industrie strategiche o di eccellenza nazionali, del controllo dei servizi pubblici essenziali e, ancor più, del sistema creditizio. L’arco moderato è collaborazionista. Fantoccio. Ed è insieme la partitocrazia parassitaria, tassaiola e incompetente che ben conosciamo, la quale ora, essendosi compattata e non avendo competitori, si fa sempre più arrogante e aggressiva con la gente.La Lega è senza armi perché ormai marginale e screditata; mentre il M5S pare arenato, al di là delle contraddizioni interne e degli interrogativi sui veri scopi dei suoi effettivi titolari. Nessuno dei due ha figure di statista o mezzo statista. I partiti della maggioranza hanno superato la crisi senza formulare, nemmeno questa volta, un piano comune degli interventi politico-economici: segno oggettivo che mirano solo alla poltrona e alla greppia e che continueranno a fare le cose come da ordini che riceveranno da Berlino, senza doversi arrovellare per elaborare un programma, che peraltro in tempi differenti hanno dimostrato di essere incapaci di elaborare. Ora la casta può anche riformare la legge elettorale e inscenare nuove elezioni politiche proponendo all’elettorato una falsa dialettica e una falsa alternanza falsamente democratiche, per poi proclamare che l’Italia è finalmente un paese normale.Ma perlomeno, a questo punto, il quadro si è chiarito, abbiamo il bipolarismo reale: un polo è la partitocrazia collaborazionista. L’altro polo è la nazione, la gente, l’interesse collettivo. Lo Stato è ormai veramente e indubitabilmente il nemico della gente e del paese. Come tale è ben diffusamente percepito: strumento di sfruttamento e soprusi, ormai quasi privo di utilità per il popolo. Intanto sta maturando il bubbone del contenzioso sommerso, ossia di tutti i crediti divenuti inesigibili o critici, che le banche dovrebbero segnare in bilancio come tali, ma non lo fanno, perché costerebbe troppo quando non le farebbe, addirittura, saltare. Bankitalia ha completato, giorni fa, un controllo del deterioramento del portafoglio crediti delle banche medie, e sta per iniziare quello sulle banche grosse. Nelle medie, ha trovato che queste non avevano messo in sofferenza crediti per circa 8 miliardi. Ora queste banche sono costrette, per coprire questi crediti deteriorati con la costituzione dei fondi prescritti, a cercare miliardi in giro. Nelle banche grosse troverà di peggio. Ed esse dovranno cercare molti miliardi per coprire le perdite.I capitali stranieri approfitteranno di tutto ciò per acquisire ulteriori quote strategiche nel sistema bancario italiano. E siccome tutto il nostro sistema-paese, aziende in testa, notoriamente dipende dalle banche, mancando di idonei capitali propri, quei capitali stranieri si impadroniranno completamente dell’Italia, facendone un protettorato dedicato alle lavorazioni di bassa e medio-bassa tecnologia, affidate a una forza lavoro di bassa e medio-bassa qualificazione, sottopagata e precaria, alimentata dall’immigrazione, in cui svolgere la parte povera del ciclo produttivo e lasciare la parte minima dei margini di profitto, salvo drenare anche quelli con interessi e tasse.Berlusconi, se non avesse più convenienza a stare buono e giocare diplomaticamente per tutelare le sue aziende di famiglia e la propria libertà, potrebbe, a questo punto, approfittare dello spazio politico che si è aperto, e lanciare un partito patriottico, euroscettico e indipendentista, incentrato sulla tutela degli interessi nazionali e sul recupero della sovranità nazionale, iniziando col ritorno alla lira secondo il modello ante-divorzio tra Bankitalia e Tesoro, per rilanciare gli investimenti e l’occupazione, e pagare i debiti pubblici in moneta sovrana come fanno Usa, Regno Unito, Giappone, ponendo fine alla presente, interminabile e ingiustificabile agonia, coltivata dai collaborazionisti.(Marco Della Luna, “Moderatismo e collaborazionismo”, dal blog di Della Luna del 7 ottobre 2013).Moderatismo significa pensare che il sistema va bene strutturalmente, così come è; e vuol dire anche credere in come il sistema descrive e giustifica se stesso, e che al massimo c’è da migliorarlo e ripararlo. Con lo spodestamento di Berlusconi da parte dei “moderati”, si dissolvono le ultime differenze politiche – sfumature o poco più – sicché ora abbiamo un’unità completa della partitocrazia e un Parlamento quasi interamente uniformato alla strategia “europeista” di totale cessione al capitalismo estero delle leve di economia politica, delle industrie strategiche o di eccellenza nazionali, del controllo dei servizi pubblici essenziali e, ancor più, del sistema creditizio. L’arco moderato è collaborazionista. Fantoccio. Ed è insieme la partitocrazia parassitaria, tassaiola e incompetente che ben conosciamo, la quale ora, essendosi compattata e non avendo competitori, si fa sempre più arrogante e aggressiva con la gente.
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La Germania fa i conti senza l’oste: il partito anti-euro
E’ vero, il partito anti-euro ha mancato l’accesso al Parlamento – però l’ha sfiorato, nonostante la brutale interdizione dei media mainstream. L’attuale risultato di “Alternativa per la Germania” non sarebbe preoccupante, per la Merkel, se le prossime elezioni fossero lontane, ma si voterà per il Parlamento Europeo fra appena nove mesi. E anche se l’assemblea di Strasburgo «conta quanto il Ducato di Hannover al Congresso di Vienna», per Aldo Giannuli si tratterà comunque di un test politico della massima importanza: «Uno sfondamento dell’Afd in quella sede (poniamo con un 9-12%) metterebbe rapidamente in crisi l’eventuale governo di larga coalizione che sembra si stia formando». Attenzione: «Se la propaganda Afd dovesse sfondare verso le grandi praterie dell’elettorato democristiano, potrebbe verificarsi un secondo caso M5S a livello europeo». E questa volta «non nella povera e marginale Italia, ma nella ricca e centrale Germania».
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Il vero peso dell’Italia, occultato dai padrini dell’euro
Opinion maker come Eugenio Scalfari e Giovanni Floris fanno operazioni di «spudorato terrorismo», perché «spaventavano il pubblico dicendo che, fuori dall’euro, l’Italia avrebbe perso qualsiasi peso economico» e hanno usato espressioni come «finiremmo come il Marocco, o l’Egitto, quei posti lì». Sorvolando sul «retrogusto razzistoide» di frasi di quel genere, che possono far presa «solo su chi ha una totale ignoranza della realtà economica del nostro tempo, e in particolare sul peso specifico del nostro paese nel contesto internazionale», Claudio Martini ricorda che l’Italia «è un paese molto importante, ma sopratutto molto ricco». Peccato che, nell’immaginario collettivo di tanti italiani, il nostro paese resta «una provincia piccola e marginale», che presto sarà «scalzata dalla Thailandia», e che comunque «non può reggere il peso dell’avanzata dei paesi emergenti», quindi deve “fare gruppo” con i cugini europei per resistere alla preoccupante ascesa dei “negri”, membri dell’ex “terzo mondo”. «Corollario: se si esce dall’esclusivo club euro si finisce come il Nord Africa».