Archivio del Tag ‘Maria Elena Boschi’
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Italia tradita e svenduta, e le stellette stanno a guardare
Dopo gli Stati Generali tenuti in segreto, il Conte annuncia che gli interventi per l’economia dovranno aspettare ancora mesi. Il Quirinale sta a guardare, come pure i militari, che hanno giurato di difendere la Patria e la Costituzione, mentre il governo abbandona e tradisce l’Italia. La tradisce in senso non giuridico, ma etimologico: il verbo tradire, tradisco, vene dal latino tràdere, trado, che significa passare di mano, consegnare. Conte, il Pd, i 5S, stanno spezzando le reni all’Italia, cioè rinviano, rinviano, non intervengono, la lasciano precipitare economicamente e socialmente, come da mandato europeo, in modo che poi cada in mano ai capitali stranieri, soprattutto tedeschi: riempiti di debiti, fallimenti e disoccupati, gli italiani fra un poco accetteranno, anzi invocheranno qualsiasi cosa, qualsiasi ‘condizionalità’, per tirare un poco il fiato: accetteranno Mes, Troika, diktat, grecizzazione, cessione di infrastrutture e assets strategici. Forse anche dei monumenti. Era questo l’obiettivo, no?Il grande presidente Napolitano mi correggerebbe: «Non è tradimento, perché non esiste più una sovranità, una fedeltà nazionale italiana: esiste solo una sovranità e una fedeltà europea». Lo vada a insegnare alla Corte Costituzionale tedesca, la quale, nella storica sentenza del 5 maggio scorso, ha detto che la sovranità e la Costituzione tedesca esistono ancora e prevalgono su quelle europee. Dopo il disastro in arrivo, Conte & soci non saranno molto popolari, non avranno più possibilità di farsi rieleggere normalmente dagli italiani; potranno continuare la loro carriera politica solo in un modo: facendosi sostenere dalla forza dei conquistatori stranieri, ed è appunto con essi che si sono alleati: Colao innanzitutto, che li rappresenta oggi come li ha sempre rappresentati nelle operazioni di cessione di industrie strategiche agli stranieri. Conte & soci si sono alleati con gli stranieri contro gli italiani. Cacciano il ferro a fondo.Nel Parlamento snobbato da Conte, che fa proclami senza lasciarsi interrogare, la Boschi si vanta che Mattarella ipsissimus avrebbe esortato a questo nuovo corso. E le stellette stanno a guardare. Forse è meno peggio così. L’importante è che resti aperta la dogana per andarsene da questo schifo.(Marco Della Luna, “Le stellette stiano a guardare” dal blog di Della Luna del 18 giugno 2020).Dopo gli Stati Generali tenuti in segreto, il Conte annuncia che gli interventi per l’economia dovranno aspettare ancora mesi. Il Quirinale sta a guardare, come pure i militari, che hanno giurato di difendere la Patria e la Costituzione, mentre il governo abbandona e tradisce l’Italia. La tradisce in senso non giuridico, ma etimologico: il verbo tradire, tradisco, vene dal latino tràdere, trado, che significa passare di mano, consegnare. Conte, il Pd, i 5S, stanno spezzando le reni all’Italia, cioè rinviano, rinviano, non intervengono, la lasciano precipitare economicamente e socialmente, come da mandato europeo, in modo che poi cada in mano ai capitali stranieri, soprattutto tedeschi: riempiti di debiti, fallimenti e disoccupati, gli italiani fra un poco accetteranno, anzi invocheranno qualsiasi cosa, qualsiasi ‘condizionalità’, per tirare un poco il fiato: accetteranno Mes, Troika, diktat, grecizzazione, cessione di infrastrutture e assets strategici. Forse anche dei monumenti. Era questo l’obiettivo, no?
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Tutti i mafiosi sono Sì Tav: la ‘ndrangheta nella Torino-Lione
Non tutti i SìTav sono mafiosi, certo. In compenso, tutti i mafiosi sono Sì Tav. Lo afferma il sociologo Marco Revelli su “Volere la Luna”, mettendo in ridicolo le Madamine e la massa in arancione mobilitata soprattutto dal Pd attraverso Sergio Chiamparino, raccontando che il Piemonte rimarrebbe isolato dall’Europa se non si costruisse l’inutile ferrovia Torino-Lione, doppione perfetto dell’attuale linea italo-francese che già attraversa la valle di Susa. Cos’è successo, nel frattempo? Una serie di arresti hanno permesso di far emergere il retroterra mafioso che inquinerebbe molti appetiti cantieristici. «A differenza di tanta brava gente», scrive Revelli, i mafiosi «non hanno falsa coscienza e non credono alle favole». Ovvero: «Sanno benissimo che un’opera inutile, dannosa, e soprattutto molto, ma molto, costosa, serve solo a chi la fa. E fanno di tutto per essere tra chi la fa». Revelli sottolinea il recente arresto di Roberto Rosso, esponente del centrodestra piemontese, tra i più accaniti supporter della Torino-Lione: «E’ accusato di “scambio elettorale politico-mafioso” per l’acquisto di pacchetti di voti da rappresentanti di primo piano in Piemonte della cosca dei Bonavota (nomen atque omen) di Vibo Valentia». Insieme al collega Agostino Ghiglia, ricorda Revelli, il 20 maggio proprio Rosso aveva srotolato dal balcone del municipio di Torino uno striscione SìTav e il simbolo “Giorgia Meloni – Fratelli d’Italia”.Lo stesso Rosso aveva esortato il centrodestra a non disertare la seconda manifestazione delle Madamine, il 17 maggio, per non lasciare al solo Chiamparino «il verbo SìTav» (per Forza Italia ci sarà Lara Comi, ora arrestata «con l’accusa di corruzione e truffa ai danni dell’Ue», e per il Pd sarà presente Maria Elena Boschi). Ancora lo scorso 10 novembre, continua Revelli, Rosso (nel frattempo promosso assessore regionale “alla legalità” nella giunta di Alberto Cirio), aveva festeggiato il compleanno della prima manifestazione SìTav «con una bicchierata insieme al collega Mino Giachino e al forzista Paolo Zangrillo, ancora una volta invocando il pugno duro della “giustizia” contro i delinquenti dei centri sociali e i “fautori dell’illegalità” della val di Susa». Mai fare d’ogni erba un fascio, ammette Revelli, per di più se – nel caso di Rosso – si parla di un procedimento giudiziario ancora all’inizio, ben lontano da una condanna. «Sono convinto che, in quella piazza sbagliata, erano certo tante le persone in buona fede, quelli che credevano davvero alla “fake” secondo cui senza il super-treno e soprattutto il super-tunnel da 57 chilometri Torino resterebbe del tutto scollegata dall’Europa», scrive Revelli. In tanti s’erano bevuto la bufala di Chiamparino, «secondo cui al fondo di quella galleria si potrebbe contemplare il sol dell’avvenire anziché il ghigno degli affaristi transfrontalieri».Di fatto, però, «dal momento in cui sono incominciate le maxi-indagini sulla penetrazione della ‘ndrangheta in Piemonte, non ce n’è stata una che non abbia tirato nella rete qualche pesce più o meno grosso di ‘ndrina coinvolto con gli appalti Tav o fortemente interessato ad essi, tanto da interferire più o meno pesantemente con le politiche locali, comunali, regionali, di valle o di comprensorio». Così – continua Revelli – è stato per la maxi-indagine “Minotauro”, in cui era incappato Giovanni Toro, condannato a sette anni (quello del «la mangio io la torta Tav»), la cui ditta aveva asfaltato la strada per i mezzi della polizia nel cantiere della Val Clarea «e il cui uomo di fiducia, Bruno Iaria (condanna a cinque anni), capo della locale ‘ndrina di Cuorgné, era stato capocantiere per la ditta di Fernando Lazzaro (anch’egli finito in carcere) che eseguiva i primi lavori di insediamento a Chiomonte». Così anche per l’indagine “San Michele” della procura di Torino, che portò a rivelare le azioni intimidatorie compiute dalla ‘ndrina di San Mauro Marchesato al fine di favorire ditte vicine «agli interessi della cosca nei lavori di costruzione della Tav Torino-Lione». In quel caso, aggiunge Revelli, è stata la stessa Corte di Cassazione a certificare che «la ‘ndrangheta era interessata a lavori di costruzione del Tav Torino-Lione in valle di Susa».L’ultima retata, nell’ambito dell’inchiesta “Fenice”, non ha portato solo all’arresto di Rosso: ha scoperchiato anche «un fitto intreccio di interessi, da parte della ‘ndrangheta, a che i lavori per il Tav in valle Susa riprendessero e “il cantiere di val Clarea andasse avanti”». Interessi documentati dall’impegno di due presunti ‘ndranghetisti di rango, Francesco Viterbo (quello che dice «io i giudici li metterei tutti sopra una barca e poi gli sparerei») e Onofrio Garcea, «figura importante della ’ndrangheta a Genova (condannato in attesa di Cassazione), ma da tempo attivo a Torino», dove sarebbe stato «spedito a riorganizzare le file dell’organizzazione mafiosa nell’area di Carmagnola, scompaginate a marzo dall’operazione “Carminius”». C’erano anche loro, nella piazza torinese delle Madamine, a tutelare i propri affari futuri? Forse, semplicemente, «se ne stavano tranquilli a casa a sghignazzare – come gli imprenditori ignobili per il terremoto dell’Aquila – a vedere tanta brava gente lavorare per loro e a contemplare lo scempio paesaggistico e sociale del cantiere in Val Clarea».Non tutti i SìTav sono mafiosi, certo. In compenso, tutti i mafiosi sono Sì Tav. Lo afferma il sociologo Marco Revelli su “Volere la Luna“, mettendo in ridicolo le Madamine e la massa in arancione mobilitata soprattutto dal Pd attraverso Sergio Chiamparino, raccontando che il Piemonte rimarrebbe isolato dall’Europa se non si costruisse l’inutile ferrovia Torino-Lione, doppione perfetto dell’attuale linea italo-francese che già attraversa la valle di Susa. Cos’è successo, nel frattempo? Una serie di arresti hanno permesso di far emergere il retroterra mafioso che inquinerebbe molti appetiti cantieristici. «A differenza di tanta brava gente», scrive Revelli, i mafiosi «non hanno falsa coscienza e non credono alle favole». Ovvero: «Sanno benissimo che un’opera inutile, dannosa, e soprattutto molto, ma molto, costosa, serve solo a chi la fa. E fanno di tutto per essere tra chi la fa». Revelli sottolinea il recente arresto di Roberto Rosso, esponente del centrodestra piemontese, tra i più accaniti supporter della Torino-Lione: «E’ accusato di “scambio elettorale politico-mafioso” per l’acquisto di pacchetti di voti da rappresentanti di primo piano in Piemonte della cosca dei Bonavota (nomen atque omen) di Vibo Valentia». Insieme al collega Agostino Ghiglia, ricorda Revelli, il 20 maggio proprio Rosso aveva srotolato dal balcone del municipio di Torino uno striscione SìTav e il simbolo “Giorgia Meloni – Fratelli d’Italia”.
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Sardine contro Uomo Nero, così i ladri festeggiano in eterno
Le Sardine ce l’hanno con Salvini, non con il cancro che ha sfigurato l’Italia mettendola in ginocchio. Ce l’hanno con Salvini, non con Prodi che ha smembrato l’Iri, facendo finire all’asta tutto quello che faceva funzionare il paese, dalla Montedison ad aziende come l’Ilva. Non ce l’hanno con Monti, che ha deturpato la Costituzione “più bella del mondo” piegandola al pareggio di bilancio, cioè all’obbligo di cessare di sostenere l’economia italiana. Ce l’hanno con Salvini, le Sardine, e non con Bersani, che – pur di sfrattare Berlusconi da Palazzo Chigi – accettò di lesionare il tessuto sociale ed economico sostenendo il governo Monti, la legge Fornero, il Fiscal Compact. Ce l’hanno con Salvini, non con Ciampi che tolse al paese il supporto finanziario della banca centrale, prima ancora di togliergli tutto il resto, vincolandolo alla tagliola di Maastricht che, da allora, ci ha fatto sprofondare nella crisi eterna: la fuga delle aziende e dei cervelli, le super-tasse, la catastrofe della disoccupazione e i tagli sanguinosi al welfare, fino alle buche nelle strade che oggi regalano all’Italia europea un aspetto sinistramente balcanico, con infrastrutture fatiscenti e viadotti che crollano seminando strage.Ce l’hanno con Salvini, le Sardine, e non con D’Alema e compagni che hanno regalato a piene mani le autostrade, i trasporti, l’industria, la telefonia e tutto il resto, nella foga di obbedire al potere internazionale che imponeva loro di liberarsi di quel che faceva dell’Italia la quarta potenza industriale del mondo, invidiata e temuta: un paese da cui non scappava nessuno, e dove l’avvenire dei figli era migliore di quello dei genitori. Ce l’hanno con Salvini, le Sardine, non con la Fiat che ora lascia l’Italia senza più un’industria nazionale dell’auto, dopo aver campato per decenni grazie ai cospicui contributi dello Stato. Ce l’hanno con Salvini, non con il sordomuto Zingaretti e il furbetto Renzi, il misterioso Conte che (non votato da nessuno) discute amabilmente con la Germania la revisione del Mes, il virtuale Fondo Monetario Europeo che domani potrebbe accollare ai contribuenti il debito dello Stato, radendo al suolo banche e risparmi. Ce l’hanno con Salvini, le Sardine, e non con Draghi, che della spremitura di carne umana negli ultimi decenni ha fatto una ragione di vita, una sorta di oscura religione, coadiuvato in Italia dall’ineffabile Giorgio Napolitano.Ce l’hanno con Salvini e non con Grillo e Di Maio, che in pochi mesi hanno tradito ogni promessa fatta agli elettori, cedendo su tutta la linea, dal gasdotto Tap all’obbligo vaccinale, dalle trivelle in Adriatico al Muos di Niscemi, dagli F-35 al Tav in valle di Susa. Ce l’hanno con Salvini, le Sardine, e non coi prestanome che in Parlamento obbediscono a Big Pharma nell’imporre vaccinazioni in batteria: in Puglia il 40% dei vaccinati è alle prese con reazioni avverse, e per la prima volta nella storia italiana 130.000 bambini sono stati esclusi dalle scuole materne. Ce l’hanno con Salvini, il Cazzaro Verde mirabilmente rappresentato dal formidabile “Fatto Quotidiano”, e non con l’omertà degli scaldasedie, reticenti e inerti di fronte alle preoccupazioni di cittadini e sindaci per l’avvento del wireless 5G. Ce l’hanno con Salvini, che attraverso Armando Siri (prontamente squalificato, con un avviso di garanzia) aveva studiato un piano per abbattere drasticamente le tasse, restituendo ossigeno alle aziende. Ce l’hanno con Salvini, non col governo-ombra che si prepara a eliminare il contante, nel tentativo di attribuire all’idraulico Rossi, quell’infame, l’origine dei mali atavici della nazione.L’Italia è a pezzi, sbocconcellata da Francia e Germania, ma le Sardine ce l’hanno con Salvini, il controverso nocchiero dell’unico partito italiano non integralmente compromesso con lo sport nazionale del tradimento della patria, del popolo un tempo sovrano. Coltivano livore, le Sardine, scagliandosi contro un politico oggi apprezzato da una robusta maggioranza di elettori, dandogli del pericoloso buffone, anche se è l’unico – grazie ad economisti come Borghi, Bagnai e Rinaldi – ad aver almeno provato a dare un nome alla malattia che da decenni corrode e devasta famiglie e imprese. Sanno, le Sardine, che il bieco Nemico dell’Umanità fa il pieno di voti grazie allo sfacelo in cui siamo finiti, ma non si domandano chi l’ha provocato, lo sfacelo, negli anni in cui l’Uomo Nero andava ancora all’asilo. Più in là del naso non sembrano arrivare, le Sardine: a loro basta vederlo cadere, l’Uomo Nero, magari appeso a testa in giù come a piazzale Loreto, dopo esser stato preso, letteralmente, “a sprangate sui denti”. Può dormire sonni tranquilli, chi ormai fa dell’Italia quello che vuole: da oggi, sul futuro del paese vigileranno le Sardine democratiche e antifasciste. Si sprecano i brindisi, lassù: dopo i Calenda e le Boschi, i Grillo e le Raggi, siamo alle Sardine. Branco, ovviamente, visto che il film (la caccia al mostro) è di gran lunga il più adatto per distrarre gli spettatori, mentre si svaligia la loro casa.(Giorgio Cattaneo, Libreidee, 25 novembre 2019).Le Sardine ce l’hanno con Salvini, non con il cancro che ha sfigurato l’Italia mettendola in ginocchio. Ce l’hanno con Salvini, non con Prodi che ha smembrato l’Iri, facendo finire all’asta tutto quello che faceva funzionare il paese, dalla Montedison ad aziende come l’Ilva. Non ce l’hanno con Monti, che ha deturpato la Costituzione “più bella del mondo” piegandola al pareggio di bilancio, cioè all’obbligo di cessare di sostenere l’economia italiana. Ce l’hanno con Salvini, le Sardine, e non con Bersani, che – pur di sfrattare Berlusconi da Palazzo Chigi – accettò di lesionare il tessuto sociale ed economico sostenendo il governo Monti, la legge Fornero, il Fiscal Compact. Ce l’hanno con Salvini, non con Ciampi che tolse al paese il supporto finanziario della banca centrale, prima ancora di togliergli tutto il resto, vincolandolo alla tagliola di Maastricht che, da allora, ci ha fatto sprofondare nella crisi eterna: la fuga delle aziende e dei cervelli, le super-tasse, la catastrofe della disoccupazione e i tagli sanguinosi al welfare, fino alle buche nelle strade che oggi regalano all’Italia europea un aspetto sinistramente balcanico, con infrastrutture fatiscenti e viadotti che crollano seminando strage.
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Giorni contati per il Conte-bis, Mario Draghi a Palazzo Chigi?
Campane a morto per Giuseppe Conte, ormai in rotta con Di Maio e incalzato ogni giorno dall’abile manovratore Renzi. Occhio, avverte Zingaretti: se il Vietnam contro il premier e il governo giallorosso non si arresta, il Pd potrebbe rompere e tornare al voto, ricandidando come primo ministro proprio il professor-avvocato di Volturara Appula, l’unico – secondo l’impalpabile “fratello di Montalbano” – ad avere chance elettorali. Non la pensano così personaggi televisivi come Alan Friedman, secondo cui Conte sarebbe «un uomo vuoto», e lo stesso Paolo Mieli, per il quale “l’avvocato degli italiani” avrebbe ormai i giorni contati, non disponendo di un reale peso parlamentare da opporre alle intemperanze dei renziani e al crescente malpancismo di un Di Maio emarginato da Grillo e contestato dai suoi. Lo scrittore Gianfranco Carpeoro l’aveva vaticinato a settembre: qui si rischia di tornare a votare entro tre mesi, al più tardi a gennaio. Ora Carpeoro rilancia: il governo traballa, e le elezioni anticipate potrebbero essere evitate solo dall’eventuale piano-Draghi, cioè l’ipotesi di potere che vorrebbe insediato a Palazzo Chigi il presidente uscente della Bce, il cui ruolo dietro le quinte potrebbe essere destinato a crescere, incidendo direttamente sull’Italia ex gialloverde, delusa dal modestissimo Conte-bis e spiazzata dalla fulminea alleanza tra Renzi e Grillo.
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Dezzani: il M5S, piano Usa nato per sterilizzare la protesta
Quando una nuova arma è perfezionata è abitudine sperimentarla in qualche poligono di tiro lontano da occhi indiscretti. Ma le armi convenzionali sono solo uno degli strumenti cui il sistema ricorre per esercitare il proprio dominio, scriveva l’analista geopolitico Federico Dezzani nel lontano 2015, quando a Palazzo Chigi sedeva il Matteo Renzi prima maniera, non ancora alleato dei grillini. Eppure, già allora, proprio di quelli Dezzani si occupava, definendo il Movimento 5 Stelle “la stampella del potere”. Tre anni dopo, i grillini sono andati al governo con Salvini ma piazzando lo sconoscito Conte nella sala dei bottoni. E oggi, puntualissimi, sono negli stessi ministeri ma con l’odiato Renzi e il “partito della Boschi”. Colpa di Salvini? Ma va là, direbbe Dezzani, che già quattro anni fa aveva le idee chiarissime sulla vera funzione del MoVimento, che infatti ha ricondotto all’ovile le pecorelle populiste facendo loro ingoiare persino l’inchino supremo alla Grande Germania, con l’elezione di Ursula von der Leyen a capo della Commissione Europea. A maggior ragione acquista sapore, oggi, la rilettura dell’analisi del profetico Dezzani: quello di Grillo era solo un bluff, fin dall’inizio. Operazione sofisticata, che ha ingannato milioni di elettori.
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E’ già cominciata la rottamazione del governo Renzi-Grillo
Italia Viva, ovvero: la carica dei Morti Viventi. A sfottere Renzi ci si mette anche Leonardo Pieraccioni. Su Twitter, l’attore e regista toscano posta un fotomontaggio mostra i transfughi del Pd, capitanati da Matteo Renzi tra Maria Elena Boschi e Ivan Scalfarotto, in versione “walking dead”. Più seria la “minaccia” di Piero Fassino, stavolta nei confronti di Salvini: mister “abbiamo una banca”, stavolta, pronostica il trionfo imminente del leader della Lega. «Proponendosi come l’alternativa a Salvini, Renzi finirà per offrirgli una rendita di posizione che il leader della Lega sfrutterà per uscire dal proprio isolamento», dice l’ex sindaco di Torino ed ex segretario Pd, in un’intervista alla “Stampa”. Con Fassino non si scherza: le sue leggendarie profezie si avverano regolarmente, ma al contrario (memorabile la porta sbattutta in faccia a Grillo, che tentò di candidarsi alle primarie del Pd: «Se vuol fare politica, si faccia un partito suo»). Scherzi a parte, Fassino attacca duramente Renzi: «Non ha mai fatto i conti con le sconfitte, e oggi fonda un partito per riproporre le scelte dei suoi governi, senza tener conto che quando passi dal 40 al 18% non puoi dire che è colpa del fuoco amico».
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5 Stelle, l’inganno mortale taglia le gambe al cambiamento
Alzi la mano chi non ha mai pensato, neppure per un attimo, che i grillini potessero fare sul serio. A prima vista, la loro sembrava una rivolta democratica genuina: che infatti ha attratto migliaia di sinceri attivisti, prima ancora che milioni di elettori. C’è chi ricorda che, in Italia, la discesa in campo di Grillo ha rotto l’equilibrio stagnante dei finti avversari, centrodestra e centrosinistra, imponendo un nuovo tipo di lessico nuovista (senza il quale, per dire, non sarebbe mai nato nemmeno il populismo rottamatore di Renzi, a sua volta erede del populismo paternalistico di Berlusconi). Non mancarono però le voci profetiche come quelle di Paolo Barnard, fin dall’inizio avverso ai pentastellati: servì loro su un piatto d’argento l’agenda della Modern Money Theory di Warren Mosler per il recupero della sovranità nazionale, ma li vide fuggire atterriti non appena i loro padroni Grillo e Casaleggio mostrarono di non gradire l’idea che qualcuno potesse affrontare davvero i nodi della tragedia economica nazionale. In piccolo, il parmense Federico Pizzarotti – cacciato a pedate – fornì per primo, a sue spese, un bel compendio della democraticità del MoVimento, al di là del mitico “uno vale uno” fischiettato dai ragazzi del coro. E questo, quando ancora non avevano cominciato a deludere nel modo più sfacciato i loro elettori, imboccando il viale del tramonto che li ha portati oggi a diventare gli sparring partner di Matteo Renzi e Maria Elena Boschi, insieme al loro finto premier osannato dagli anti-italiani di tutta Europa.L’ingloriosa agonia del Movimento 5 Stelle – 17% alle europee, votato da meno di un italiano su dieci e letteralmente sparito dai radar alle regionali – è da ascrivere all’impietoso confronto tra le mirabolanti promesse del 2018 e l’incresciosa cronachetta gialloverde, impregnata di codardia verso Bruxelles e costellata di tradimenti sfrontati. Leggasi obbligo vaccinale, F-35 e spese militari, Muos di Niscemi e Ilva di Taranto, gasdotto Tap, trivelle petrolifere in Adriatico, Tav Torino-Lione in valle di Susa. «Avete mai avuto la sensazione di essere presi per il culo?», domandò il rocker Johnny Rotten. «Affermativo», rispondono oggi i milioni di italiani che – dall’Alpe al Lilibeo – hanno smesso di votare 5 Stelle. Perché lo fecero, nel 2018, pur vedendo benissimo che le iperboliche fanta-promesse di Di Maio non sarebbero mai state realizzabili, se non in minima parte? Probabilmente speravano proprio in quella “minima parte”, non immaginando che si sarebbero invece ridotte a zero. C’era un equivoco, alla base dell’epocale malinteso. Ovvero: la speranza che, da qualche parte, i soldi necessari alle riforme sociali (le famose coperture) potessero spuntare. Dove? Nell’unico posto possibile: in un deficit adeguato, strappato in un energico negoziato con Bruxelles. Sarebbe stato il minimo sindacale, per avvicinare l’Italia alla generosissima flessibilità concessa alla Francia. Per non parlare del debito-fantasma cui attinge la Germania, truccando i bilanci alla faccia dell’austerity altrui.Di che pasta fosse, la fermezza grillina, lo si è visto con Di Maio, Conte e Tria. Ma c’erano precedenti allarmanti: come il trasloco tentato da Grillo nel 2016 per trasferire il gruppo europarlamentare pentastellato tra gli ultra-euristi dell’Alde, gli amici di Mario Monti, dopo aver sbandierato in Italia lo spauracchio di un referendum sull’euro. Acquattato nel suo apparente buen retiro di Genova, l’Elevato si sveglia sempre al momento opportuno per impartire i suoi diktat indiscutibili: l’idea di piazzare Conte a Palazzo Chigi, l’ordine di far eleggere Ursula von der Leyen alla Commissione Europea e lo sdoganamento improvviso del Pd renziano come alleato di governo. Un atto politico violento, quest’ultimo, come di consueto imposto dal centralismo di stampo sovietico con cui il signor Grillo, proprietario del marchio 5 Stelle, gestisce i sottoposti. Sapeva di poter contare sulla docilità dei parlamentari, terrorizzati dai sondaggi di fronte all’incubo delle elezioni anticipate. E non ha esitato a esibire lo spettacolo dell’amore per le poltrone, inflitto ai militanti che parlamentari non sono e, a differenza di deputati e senatori, non hanno stipendi d’oro a rischio di evaporazione. Ancora una volta, il pastore ha portato le pecore dove voleva. E l’ha fatto a reti unificate: tutta l’Europa ha visto di che sostanza è fatto il nostro ribellismo all’amatriciana in salsa pentastellata.Il colpo inferto dai 5 Stelle alla dolente democrazia italiana non è irrilevante: hanno dimostrato che si possono maneggiare valori forti – giustizia sociale, trasparenza, condivisione – facendone tranquillamente strame, dopo aver ingannato gli elettori. Al punto da indurre molti osservatori a ritenere che l’abbaglio collettivo del MoVimento non sia mai stato altro, fin dall’inizio, che un’abile operazione di gatekeeping per dirottare con sapienza il malcontento sociale verso lidi innocui. Malcontento peraltro esasperato dal neoliberismo globale, la “lotta di classe a rovescio” che ha drenato risorse dal basso verso l’alto, interpretato in Europa da politici come Angela Merkel e la sua candidata Ursula von der Leyen, a cui non a caso è giunto in soccorso proprio il partito-caserma di Grillo. Neoliberismo feroce, altro che “reddito di cittadinanza”: Stato minimo, tagli al welfare, erosione dei risparmi, fine della classe media, precarizzazione del lavoro. In cambio, piccole battaglie di cartapesta come quella sulla riduzione dei parlamentari (funzionale, anche quella, alla diminuzione della rappresentatività democratica). Amara lezione, dai 5 Stelle: gli italiani che sognavano il cambiamento hanno imparato a non fidarsi più di chi lo promette, chiunque sia, specie se alza la voce nelle piazze. Un vero capolavoro politico, per la gioia dell’oligarchia che detesta la sovranità democratica.Alzi la mano chi non ha mai pensato, neppure per un attimo, che i grillini potessero fare sul serio. A prima vista, la loro sembrava una rivolta democratica genuina: che infatti ha attratto migliaia di sinceri attivisti, prima ancora che milioni di elettori. C’è chi ricorda che, in Italia, la discesa in campo di Grillo ha rotto l’equilibrio stagnante dei finti avversari, centrodestra e centrosinistra, imponendo un nuovo tipo di lessico nuovista (senza il quale, per dire, non sarebbe mai nato nemmeno il populismo rottamatore di Renzi, a sua volta erede del populismo paternalistico di Berlusconi). Non mancarono però le voci profetiche come quelle di Paolo Barnard, fin dall’inizio avverso ai pentastellati: servì loro su un piatto d’argento l’agenda della Modern Money Theory di Warren Mosler per il recupero della sovranità nazionale, ma li vide fuggire atterriti non appena i loro padroni Grillo e Casaleggio mostrarono di non gradire l’idea che qualcuno potesse affrontare davvero i nodi della tragedia economica nazionale. In piccolo, il parmense Federico Pizzarotti – cacciato a pedate – fornì per primo, a sue spese, un bel compendio della democraticità del MoVimento, al di là del mitico “uno vale uno” fischiettato dai ragazzi del coro. E questo, quando ancora non avevano cominciato a deludere nel modo più sfacciato i loro elettori, imboccando il viale del tramonto che li ha portati oggi a diventare gli sparring partner di Matteo Renzi e Maria Elena Boschi, insieme al loro finto premier osannato dagli anti-italiani di tutta Europa.
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Giuseppe, stai sereno: Renzi, addio al Pd e avviso a Conte
Giuseppe, stai sereno: «Sosterrò convintamente il governo Conte-bis». Così Matteo Renzi, nell’annunciare al premier il divorzio dal Pd: «Formeremo due gruppi parlamentari, uno di 25 deputati alla Camera e un altro tra i 12-15 senatori a Palazzo Madama. Due nuovi soggetti che saranno decisivi per la maggioranza e per il governo», afferma l’ex rottamatore, decisivo – insieme a Grillo – per la nascita del governo giallorosso, e ora (più che mai) vero padrone dell’esecutivo. Un governo-mostro, voluto da Bruxelles e dell’establishment italiano per centrare tre obiettivi: fermare la corsa di Salvini, rinnovare le centinaia di super-cariche di Stato in scadenza nel 2020 e ipotecare il successore di Mattarella al Quirinale. Campane a morto per Zingaretti, e doccia fredda anche dai sondaggi. Mentre il nuovo partito di Renzi faticherebbe a raggiungere il 5%, secondo la Swg (rilevazione diffusa da Mentana su “La7”) la Lega “scippata” del voto sta dominando la scena (34%), con Fratelli d’Italia al 7% e Forza Italia poco sotto il 6%. Galleggia attorno al 20% il fantasma del Movimento 5 Stelle, mentre il Pd (al 21,5%) ora subirà il salasso renziano. «Solo chi è a digiuno di politica – dice Renzi – non capisce questa mia scelta». Nell’esecutivo ha alcuni dei suoi che molto probabilmente lo seguiranno: due ministre, Teresa Bellanova (agricoltura) e Elena Bonetti (famiglia), la viceministra Anna Ascani e il sottosegretario Ivan Scalfarotto.Secondo il “Fatto Quotidiano”, tra i deputati accreditati nel club renziani figura Roberto Giachetti, dimessosi dalla direzione Pd, che porterà con sé la Ascani insieme a Nicola Carè, Luciano Nobili, Gianfranco Librandi e Michele Anzaldi. Con Renzi la fedelissima Maria Elena Boschi insieme a Mattia Mor e Marco Di Maio. Poi Ettore Rosato, Luigi Marattin, Lucia Annibali, Silvia Fregolent, Mauro Del Barba e Gennario Migliore. Tra i senatori si parla di Francesco Bonifazi, Tommaso Cerno, Davide Faraone, Nadia Ginetti, Eugenio Comincini e Mauro Laus. «Nessun timore della concorrenza al centro di un’eventuale soggetto creato da Carlo Calenda insieme a Matteo Richetti». Dario Franceschini, tra i registi del Conte-bis, evoca i peggiori fantasmi del Novecento: «Negli anni Venti le divisioni dei partiti li resero deboli fino a far trionfare Mussolini, la storia dovrebbe insegnarci a non ripetere gli errori». Alcuni renziani, peraltro, resteranno nel Pd come spine nel fianco di Conte e Zingaretti: restano al loro posto Luca Lotti e Lorenzo Guerini, neo-ministro della difesa, insieme al sindaco fiorentino Dario Nardella. Secondo l’arcinemico Enrico Letta, la scissione è «una cosa non credibile», perché «non c’è alcuno spazio per una scissione a freddo». Per Luigi Zanda, lo strappo è «un trauma».Al “Times”, Renzi ha dichiarato: «Siamo 1 a 0 contro il populismo: è importante sconfiggere Salvini fra la gente, non solo politicamente». Operazione ampiamente annunciata, nelle scorse settimane, dal saggista Gianfranco Carpeoro: «Il grande potere massonico reazionario delle Ur-Lodges, a cui Renzi si era rivolto inutilmente quando era premier, gli aveva promesso di farlo finalmente entrare nel grande giro se fosse riuscito a sabotare il governo gialloverde». C’è riuscito mostrando straordinaria prontezza, aiutato dalla cinica disinvoltura del suo “socio”, Beppe Grillo, che ha “suicidato” i 5 Stelle nell’abbraccio col Pd. Ora siamo al secondo step: azzoppati i gialloverdi, Renzi passa a demolire il Pd zingarettiano. Messaggio rivelatore: le sue rassicurazioni a Conte. «Renzi è un fuoriclasse, nell’arte politica dell’imbroglio», ricorda Carpeoro: dopo aver giocato Bersani, Berlusconi e Letta, aveva giurato agli italiani che si sarebbe ritirato dalla politica dopo aver perso il referendum del 2016. Ora promette fedeltà a Conte. Capeoro rinnova il suo pronostico: il governo durera 90 giorni, al più tardi cadrà a gennaio. Su Palazzo Chigi incombe Mario Draghi, mentre Romano Prodi sogna il Quirinale. E intanto Salvini ha ripreso a volare nei sondaggi.Giuseppe, stai sereno: «Sosterrò convintamente il governo Conte-bis». Così Matteo Renzi, nell’annunciare al premier il divorzio dal Pd: «Formeremo due gruppi parlamentari, uno di 25 deputati alla Camera e un altro tra i 12-15 senatori a Palazzo Madama. Due nuovi soggetti che saranno decisivi per la maggioranza e per il governo», afferma l’ex rottamatore, determinante – insieme a Grillo – per la nascita del governo giallorosso, e ora (più che mai) vero padrone dell’esecutivo. Un governo-mostro, voluto da Bruxelles e dell’establishment italiano per centrare tre obiettivi: fermare la corsa di Salvini, rinnovare le centinaia di super-cariche di Stato in scadenza nel 2020 e ipotecare il successore di Mattarella al Quirinale. Campane a morto per Zingaretti, e doccia fredda anche dai sondaggi. Mentre il nuovo partito di Renzi faticherebbe a raggiungere il 5%, secondo la Swg (rilevazione diffusa da Mentana su “La7”) la Lega “scippata” del voto sta dominando la scena (34%), con Fratelli d’Italia al 7% e Forza Italia poco sotto il 6%. Galleggia attorno al 20% il fantasma del Movimento 5 Stelle, mentre il Pd (al 21,5%) ora subirà il salasso renziano. «Solo chi è a digiuno di politica – dice Renzi – non capisce questa mia scelta». Nell’esecutivo ha alcuni dei suoi che molto probabilmente lo seguiranno: due ministre, Teresa Bellanova (agricoltura) e Elena Bonetti (famiglia), la viceministra Anna Ascani e il sottosegretario Ivan Scalfarotto.
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Carpeoro: Draghi a Palazzo Chigi e poi Prodi al Quirinale
«Ancora state a sentire quel che dicono i politici? Prendete i 5 Stelle: non si erano presentati come quelli che dovevano aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno? E se io mi presentassi come Brigitte Bardot, sarei credibile?». Come dire: è peggio il politico cialtrone o l’elettore che gli crede? Con il consueto gusto per il paradosso, Gianfranco Carpeoro regala fotogrammi personalissimi di quest’Italia scassata e tragicomica: «Potremmo trovarci Mario Draghi a Palazzo Chigi e Romano Prodi al Quirinale. Servirà una buona dose di bicarbonato». Massone, saggista, attento osservatore dei retroscena del potere, Carpeoro conferma le sue previsioni: il Conte-bis «durerà appena 90 giorni, al più tardi andrà a casa a gennaio». Magari per “merito” di Matteo Renzi, sponsor del governo giallorosso al 50% con Beppe Grillo, che ha spinto i suoi parlamentari tra le braccia del vituperatissimo Pd. E’ serio, tutto questo? Forse no, però resta un fatto: questa è la minestra che passa il convento. «E Renzi è stato ancora una volta il più lesto ad approfittarne, anche se Salvini aveva comunque preparato a tavolino la caduta dell’esecutivo gialloverde, d’intesa con Zingaretti».Constatazioni a margine: una volta di più – dice Carpeoro, in video-chat su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights” – bisogna ammettere che Renzi «è un autentico fuoriclasse, nell’arte politica di fregare il prossimo». E’ riuscito a tagliare le gambe a Zingaretti mantenendo il controllo dei parlamentari Pd, ma anche a costringere i 5 Stelle al matrimonio d’interesse con l’odiato “partito di Bibbiano”, oltre a che ad allontanare le elezioni anticipate per le quali scalpitava Salvini. Ora sembra rimasto escluso dai giochi di potere per la conquista dei sottosegretari. Ma è solo apparenza, avverte Carpeoro: «Siete sicuri che volesse davvero metterci i suoi fedelissimi, in questi posti? Lui e la Boschi l’avevano detto subito: non ci sarebbero entrati, nel Conte-bis». Hanno un piano alternativo? «Probabile. Tra un po’, Renzi potrebbe staccarsi dal Pd e creare gruppi parlamentari autonomi». Un’eventuale accelerazione dell’instabilità non farebbe che dare consistenza alla “profezia” di Carpeoro: elezioni anticipate in primavera. E poi magari un bel governo tecnico, con Draghi al posto di Conte. Gran finale: Prodi al Quirinale dopo Mattarella? «Sicuramente Prodi ci spera». Ma lui e Draghi non sono la stessa cosa: «La finanza laica e la finanza cattolica restano aree di potere distinte, anche se poi magari a volte fanno le stesse cose».Su un punto, Carpeoro insiste: oltre a Grillo, decisivo per far convergere i pensastellati verso l’inciucio, il vero regista italiano del Conte-bis è Matteo Renzi. Ma non doveva essere ampiamente defunto? «Sia che si tratti di lui o di Berlusconi, o di chiunque altro sia al vertice, il vizio imperdonabile di molti italiani sta nella demonizzazione di chi comanda: l’uomo al governo viene sommerso di insulti». Col Cavaliere, prima ancora delle notti brave di Arcore, si parlò di maxi-tangenti inesistenti e persino di mafia. «Poi però s’è visto che tipo di ruolo fosse persino quello di Dell’Utri: in realtà Berlusconi fu minacciato, dalla mafia». A Craxi tirarono le monetine, mentre Renzi è stato denigrato in modo spietato. «Tutto questo – dice Carpeoro – perché non si voleva ammettere che avesse la stoffa del leader e che fosse arrivato ai vertici». Vizio italico: scatenare la macchina del fango, per negare l’evidenza. In controluce: debolezza politica del sistema. «Si ricorre all’insulto quando non si ha il coraggio di sfidare l’avversario sul terreno politico». Non che abbia ben governato, Renzi. Idem Berlusconi. Ma chi ha fatto loro la guerra, ora dov’è? I 5 Stelle sono a tavola col “partito della Boschi”. E il governo è appaltato allo sconosciuto Conte, amico di Macron e della Merkel più che degli italiani. Bel risultato, davvero.«Ancora state a sentire quel che dicono i politici? Prendete i 5 Stelle: non si erano presentati come quelli che dovevano aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno? E se io mi presentassi come Brigitte Bardot, sarei credibile?». Come dire: è peggio il politico cialtrone o l’elettore che gli crede? Con il consueto gusto per il paradosso, Gianfranco Carpeoro regala fotogrammi personalissimi di quest’Italia scassata e tragicomica: «Potremmo trovarci Mario Draghi a Palazzo Chigi e Romano Prodi al Quirinale. Servirà una buona dose di bicarbonato». Massone, saggista, attento osservatore dei retroscena del potere, Carpeoro conferma le sue previsioni: il Conte-bis «durerà appena 90 giorni, al più tardi andrà a casa a gennaio». Magari per “merito” di Matteo Renzi, sponsor del governo giallorosso al 50% con Beppe Grillo, che ha spinto i suoi parlamentari tra le braccia del vituperatissimo Pd. E’ serio, tutto questo? Forse no, però resta un fatto: questa è la minestra che passa il convento. «E Renzi è stato ancora una volta il più lesto ad approfittarne, anche se Salvini aveva comunque preparato a tavolino la caduta dell’esecutivo gialloverde, d’intesa con Zingaretti».
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Grillo decisivo: dalla “rivoluzione” alla palude giallorossa
Vuoi vedere che c’è un nesso tra il voltafaccia di Grillo, improvvisamente innamoratosi del “partito di Bibbiano e della Boschi”, e le indagini su suo figlio Ciro, indiziato per stupro, emerse solo dopo l’accordo per il Conte-bis anche se i fatti risalirebbero a luglio? L’ipotesi è maliziosamente ventilata su “Micidial” da Massimo Bordin, vicino all’elettorato dei 5 Stelle: chi votò Di Maio nel 2018 lo fece «perché contrario alla politica del governo precedente, guidato da un partito – il Pd – a torto o a ragione considerato la quintessenza del “sistema”». Come accettare che ora il M5S vada a braccetto con Renzi? Voltagabbana, d’accordo: ma non è che li hanno minacciati? Suona perlomeno sospetto, sostiene Bordin, il perfetto sicronismo tra le rotture simmetriche di Salvini e Grillo per staccare la spina al governo gialloverde. Alla richiesta di Salvini (elezioni anticipate), Grillo ha risposto a stretto giro di posta, sdoganando improvvisamente il Pd. Ma a parte le dietrologie di Bordin, dichiaratamente sopra le righe («questo pezzo è ironico e vietato ai cretini: dunque non leggetelo, se non avete senso dell’umorismo») c’è chi pensa che il M5S non sia mai stato altro, fin dall’inizio, che un semplice contenitore di dissenso, per dirottare la rabbia popolare verso esiti innocui. Solo gatekeeping per elettori ingenui? Non la pensa così Gioele Magaldi: senza i 5 Stelle, dice, la politica italiana sarebbe ancora congelata nel vecchio freezer.Eminente dietrologo, autore del saggio “Massoni” in cui smaschera i maggiori protagonisti della politica italiana rivelandone l’identità supermassonica (l’affiliazione alle superlogge internazionali), Magaldi inforca gli occhiali della politologia per rivendicare giustizia per i 5 Stelle: solo la “discesa in campo” di Grillo – sostiene, in video-chat su YouTube – ha reso fluido il panorama politico italiano, prima ingessato nel finto scontro tra centrodestra e centrosinistra. Due forze che hanno paralizzato per decenni qualsiasi riforma progressista, sottoponendo entrambe il paese alla ricetta imposta dal neoliberismo imperante, somministrato agli europei (sotto forma di austerity) attraverso la tecnocrazia di Bruxelles. Taglio dei deficit, aumento delle tasse, privatizzazioni e precarizzazione del lavoro. Vero obiettivo, fissato dall’élite neo-oligarchica della massoneria reazionaria: impedire allo Stato di continuare a produrre benessere diffuso. Il sociologo Luciano Gallino la chiamò “lotta di classe alla rovescia”, sintetizzando: è stata un’operazione storica, che ha drenato risorse dal basso verso l’alto, grazie alla finanziarizzazione globalizzata dell’economia che ha impoverito la classe media, erodendo i risparmi e costringendo i giovani alla disoccupazione o alla precarietà di lavoretti iper-flessibili e sottopagati. Risultato automatico: il boom dei grillini e ora della Lega.E’ stato proprio Grillo, ricorda Magaldi, a terremotare la palude italiana: senza di lui, staremmo ancora a parlare (in modo sempre più surreale) di destra e sinistra. Terminologie sepolte dalla storia e dall’attualità, oggi tornate in voga in modo abusivo: il nuovo ministro dell’economia Roberto Gualtieri, in quota alla componente teoricamente “di sinistra” del governo “giallorosso”, in realtà «viene dai bassi ranghi della cucina neoliberista e neoaristocratica europea», vale a dire «la destra economica più reazionaria». Non a caso, Gualtieri fu addirittura «applaudito da Christine Lagarde», la lady di ferro del Fmi che mise in ginocchio il popolo greco, costringenolo alla fame. Per contro, tra le fila della Lega spiccano gli unici economisti virtualmente “di sinistra” sulla scena politica, come i keynesiani Alberto Bagnai (Senato) e Antonio Maria Rinaldi (Parlamento Europeo). Meglio rottamarla, la dicotomia destra-sinistra, se serve solo a imbrogliare le carte. E il primo a farlo – ricorda sempre Magaldi – fu proprio Beppe Grillo, dieci anni fa, con il movimento creato insieme a Gianroberto Casaleggio. Lo stesso Magaldi, peraltro, non ha mai fatto sconti ai grillini, colpevoli di troppe confusionarie incongruenze e qualche imperdonabile ipocrisia. Per esempio, quella sulla massoneria: demonizzata in pubblico ma frequentata sottobanco.«Era massone, Gianroberto Casaleggio», dice Magaldi: «E fu lui stesso a dirmi che non intendeva rivelarlo». Il figlio, Davide, lo ha smentito a mezzo stampa: «Mio padre non è mai stato massone». Casaleggio junior, però, si è sottratto all’invito di Magaldi: «Partecipi con me a un incontro pubblico: gli spiegherò quando e come suo padre fu iniziato massone, e perché non voleva che si sapesse». Da Casaleggio a Di Maio, il passo è breve: «In modo ipocrita e anche incostituzionale, i 5 Stelle hanno vietato ufficialmente ai massoni l’accesso al Movimento e all’area gialloverde, pur sapendo che il primo governo Conte era imbottito di massoni, da Tria a Moavero, per non parlare dei sottosegretari». Primo: discriminare qualcuno per la sua appartenenza è contrario alla Costituzione. Secondo: era massone Meuccio Ruini, coordinatore della Costituente. «Niente di strano: se l’Italia fosse meno ipocrita, ammetterebbe che la stessa democrazia – libertà, diritti, suffragio universale – è una conquista storica della massoneria». Ma a parte i grembiulini, a sconcertare è stato il vuoto politico dei 5 Stelle. Ai tanti proclami non è mai seguito quasi nulla. In un solo anno, i grillini al governo hanno disatteso tutte le loro promesse: elettori traditi sull’obbligo vaccinale, sul Muos e gli F-35, sulle trivelle in Adriatico, sull’Ilva di Taranto, sul gasdotto Tap, e infine anche sul Tav Torino-Lione. Politica alternativa? Non pervenuta. Mai una parola chiara sul paradigma economico da adottare. Un caso?A proposito di gatekeeping: già nel 2016, Grillo tentò in modo tragicomico di traslocare il gruppo europarlamentare, lasciando l’Ukip populista di Farage per gli ultra-euristi dell’Alde. E questo, dopo aver agitato lo spettro di un referendum sull’euro. Almeno a parole, la Lega lo ha affrontato davvero, il problema-Bruxelles (i grillini, mai). Era stato Salvini, infatti, a candidare all’economia Paolo Savona: già ministro con Ciampi – e non a caso temuto da Draghi e Juncker – Savona avrebbe avuto l’autorevolezza necessaria a rinegoziare condizioni favorevoli all’Italia. Azzoppato sul nascere, il governo gialloverde si è ridotto alla misera elemosina del “reddito di cittadinanza” trasformato in un’amara beffa, mentre solo la Lega (con le pensioni facilitate da Quota 100) ha messo mano, davvero, all’economia delle famiglie. La Flat Tax? Sabotata con le dimissioni forzate del suo ideatore, Armando Siri, e poi insabbiata da Tria e da Conte insieme all’altro escamotage leghista per aggirare l’euro-rigore, cioè l’introduzione di moneta parallela (“minibiot”, crediti fiscali scambiabili). Dai grillini, nessuna vera battaglia. Ma peggio: i 5 Stelle hanno gatto harariki facendo eleggere la tedesca Ursula von der Leyen, candidata della Merkel, alla Commissione Europea: un ceffone plateale, rifilato a Salvini (e agli italiani).Checché ne pensi Bordin, che evoca il possibile giallo politico sul figlio di Grillo, non stupisce più di tanto il voltafaccia del Beppe nazionale, che ora ha costretto Di Maio a ingoiare Renzi e accettare Conte come nuovo “leader di fatto”, perfetto supplente per la smarrita scolaresca grillina, terrorizzata all’idea di perdere la poltrona in caso di elezioni anticipate. Nemmeno Salvini, peraltro, sarebbe sufficiente a cambiare le regole del gioco. A differenza della maggioranza degli osservatori, Magaldi sostiene comunque che il leader della Lega abbia scelto accuratamente di rompere, consapevole del fatto che, viceversa, sarebbe finito in trappola: la nuova finanziaria lo avrebbe costretto a deludere gli elettori, grazie all’azione frenante esercitata da Conte su ordine dei poteri eurocratici anche attraverso i consueti terminali italiani, dal Quirinale a Bankitalia. Ci si sono messi anche i giornali, che hanno gonfiato la barzelletta del Russiagate, polpetta avvelenata cucinata da servizi segreti (di quelli italiani la delega è rimasta a Conte, non al ministro dell’interno). Ma neppure i magistrati hanno scherzato: quelli siciliani hanno accusato Salvini di “sequestro di persona” per aver impedito lo sbarco di migranti (che in realtà erano liberi di andarsene altrove). E quelli di Genova hanno condannato la Lega a versare 49 milioni di euro allo Stato: il conto esorbitante di un ammanco presunto, solo teorico, calcolato in base ai rimborsi elettorali pluriennali, e non legato alla cifra contestata a Bossi (inferiore al milione di euro) quando Salvini era solo consigliere comunale a Milano. Messaggio chiarissimo: tagliare i fondi a un partito, impedendogli materialmente di fare politica, significa privare gli elettori di precisi diritti democratici. Evidente il fine: sbarazzarsi di Salvini, con ogni mezzo. Magari il più classico: la congiura di palazzo all’italiana, attingendo all’endemico trasformismo parlamentare, alla faccia degli elettori.Attenzione: Salvini non ha subito gli eventi. Secondo Magaldi, al contario, li ha calcolati con precisione e tempismo. Se ha tardato tanto a staccare la spina (Giorgetti premeva per la rottura già alle europee) è stato per lasciare pochissimo tempo all’inciucio, di fronte allo spettro dell’aumento dell’Iva nel caso saltasse la finanziaria: se avessero voluto davvero evitare le elezioni, o almeno un super-rimpasto (cacciando Conte e Tria) i “traditori” avrebbero dovuto ribaltare la loro posizione dalla sera alla mattina, di fronte agli italiani – come infatti è avvenuto. Risultato: lo sconcio è visibile dalla Luna. E questo pone Salvini (non vittima, ma regista dell’operazione) in una posizione privilegiata: potrà demolire ogni giorno gli eroi del Conte-bis, preparandosi all’incasso. Non senza prima “aver studiato”, aggiunge Magaldi: Salvini sa benissimo che la sua Lega – già profondamente migliorata, rispetto al Carroccio nordista di Bossi – non è ancora adeguata alla guida del paese. Per molti aspetti è assai meglio della concorrenza, ma non basta: occorre crescere ancora in senso keynesiano, per sfidare la Disunione Europea – non con l’arma spuntata del sovranismo, opportunistico e miope, ma chiedendo a Bruxelles una Costituzione democratica capace di restituire vera sovranità ai cittadini europei.Senza riscrivere i trattati non si va da nessuna parte: il Conte di turno non potrà che replicare gli inchini di Letta, Renzi e Gentiloni, sperando solo nelle briciole (come quelle che ora probabilmente saranno elargite, assolutamente insufficienti a rilanciare l’economia italiana). Primo passo: chiedere di stralciare dal bilancio le misure salva-Italia. E cioè: taglio del cuneo fiscale per le aziende, abbattimento delle tasse per tutti, investimenti produttivi e rigenerazione delle infrastrutture strategiche. Temi su cui insiste il Movimento Roosevelt presieduto da Magaldi, tra i padri del cantiere politico del “Partito che serve all’Italia”. Obiettivo: rianimare la prospettiva progressista, resuscitando la democrazia sostanziale. «Non serve creare l’ennesimo partitino autoreferenziale», chiarisce Magaldi: occorre un partito di massa, capace di cavalcare «le praterie che si sono aperte». Alle europee un elettore su tre ha votato Lega, ma quasi metà degli aventi diritto ha disertato le urne: italiani nauseati dal Pd, delusi dai 5 Stelle, non convinti da Salvini. Magaldi appare fiducioso: presto o tardi, sembra dire, la verità risulterà evidente anche ai più sprovveduti. E chi ancora dorme sarà svegliato dalle “meraviglie” del Conte-bis, condannato in partenza a obbedire ai diktat di chi ha messo l’Italia nei guai. Con buona pace dei grillini, che hanno sconcertato il loro elettorato. Oggi risalirebbero nei sondaggi manistream? Strano: alle ultime regionali sono letteralmente scomparsi. E ora il voto in Umbria e in Emilia dirà cosa resta, davvero, del grande bluff pentastellato.08:37 11/09/2019Vuoi vedere che c’è un nesso tra il voltafaccia di Grillo, improvvisamente innamoratosi del “partito di Bibbiano e della Boschi”, e le indagini su suo figlio Ciro, indiziato per stupro, emerse solo dopo l’accordo per il Conte-bis anche se i fatti risalirebbero a luglio? L’ipotesi è maliziosamente ventilata su “Micidial” da Massimo Bordin, vicino all’elettorato dei 5 Stelle: chi votò Di Maio nel 2018 lo fece «perché contrario alla politica del governo precedente, guidato da un partito – il Pd – a torto o a ragione considerato la quintessenza del “sistema”». Come accettare che ora il M5S vada a braccetto con Renzi? Voltagabbana, d’accordo: ma non è che li hanno minacciati? Suona perlomeno sospetto, sostiene Bordin, il perfetto sicronismo tra le rotture simmetriche di Salvini e Grillo per staccare la spina al governo gialloverde. Alla richiesta di Salvini (elezioni anticipate), Grillo ha risposto a stretto giro di posta, sdoganando improvvisamente il Pd. Ma a parte le dietrologie di Bordin, dichiaratamente sopra le righe («questo pezzo è ironico e vietato ai cretini: dunque non leggetelo, se non avete senso dell’umorismo») c’è chi pensa che il M5S non sia mai stato altro, fin dall’inizio, che un semplice contenitore di dissenso, per dirottare la rabbia popolare verso esiti innocui. Solo gatekeeping per elettori ingenui? Non la pensa così Gioele Magaldi: senza i 5 Stelle, dice, la politica italiana sarebbe ancora congelata nel vecchio freezer.
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La Merkel assume Conte, il cameriere della Trattoria Italia
«Da quando l’Unione Europea di Merkel e Macron lo ha promosso cameriere capo della trattoria Italia, il professore di Volturara Appula si è montato la testa: si è persuaso di valere quanto Winston Churchill», scrive Pietro Senaldi, direttore di “Libero”, a proposito di Giuseppe Conte, il candidato del Vaticano scelto dai poteri forti per affondare il governo gialloverde, licenziare Salvini e riportare il controllo dell’Italia sotto la custodia del Pd, che ha perso tutte le elezioni degli ultimi anni (politiche, regionali, europee). Non si nasconde Angela Merkel, madrina di Conte, a cui l’allora premier gialloverde spiegava, in birreria, come avrebbe impedito a Salvini di governare. La cancelliera – racconta Goffredo De Marchis su “Repubblica” – non ha perso tempo: ha telefonato al Pd per ordinare che il Conte-bis si faccia ad ogni costo. «Il retroscena – scrive Andrea Indini sul “Giornale” – la dice lunga sulle pressioni internazionali per non far tornare gli italiani al voto». Obiettivo: «fermare la formazione di un esecutivo sovranista», specie ora che la Merkel ha subito in Sassonia l’exploit di “Alternative für Deutschland”, al 27% stando agli exit poll. «La Merkel perde a casa sua e impone il governo in Italia», sintetizza lo stesso Salvini, sempre sul “Giornale”.Nel frattempo, a Roma, in soli quattro giorni di trattative si è già capito che le liti per formare il governo-vergogna non sono che l’antipasto: «Cinquestelle e Pd sono destinati a fare a cazzotti per tutta la durata della loro esperienza insieme», scrive Senaldi, sul giornale di cui Vittorio Feltri è direttore editoriale. «I dissidi sono tali che stavolta Conte sarà costretto a lavorare, non potrà fare il semplice portavoce di idee altrui». Di fatto, «c’è grande attesa per le poltrone più che per il programma, che arriverà da Bruxelles o direttamente da Berlino». Continua Senaldi: «L’impomatato ricandidato a Palazzo Chigi si è fatto garante presso il Quirinale e il Pd (tra i due soggetti non c’è molta differenza) dell’accordo col M5S». Problema: «In realtà lui i Cinquestelle non li controlla. Si fa forte dell’investitura che gli ha dato Grillo, ma il comico guru è un bipolare, un giorno dice una cosa ma subito dopo già ne pensa un’altra». Altre carte, Conte non ne ha in mano: è vero che ha alle spalle Bergoglio, Merkel e Macron, ma – sul piano tattico – quello romano si annuncia come una specie di Vietnam: «Sull’ambiguità di Casaleggio junior non può contare, mentre la trimurti pentastellata ha interessi divergenti e non voga al suo comando».Di Battista? «Vuole tornare al voto per recuperare uno stipendio». Quanto a Di Maio, «già fatto quasi fuori dal M5S, non può acconsentire all’ulteriore ridimensionamento al governo che per lui vorrebbero i dem, il Colle, i grillini e il premier stesso». Roberto Fico tifa per l’inciucio, ma senza lasciare la comoda poltronissima della Camera. «L’esperienza giallorossa sarà burrascosa», vaticina Senaldi. I grillini? Sono «una maionese impazzita peggio del Pd, che al confronto è un monolite di coerenza e compattezza privo di individualismi». Per Senaldi, «Zingaretti e compagni fanno lo stesso errore che fu di Bersani e Renzi e li trattano come politici normali: propongono, mediano, ragionano. Non serve a nulla: per spuntare qualcosa col M5S bisogna imitare Salvini, altro politico senza schema, che li ascoltava, diceva loro di sì e poi faceva quello che voleva lui». Il Pd inoltre ha un altro guaio, speculare a quello dei 5 Stelle: «Neppure i dem hanno un vero segretario che può condurre i negoziati, visto che l’accordo è sponsorizzato da Renzi e che Zingaretti non entrerà nel governo. Ecco spiegato il caos, alimentato dalla figura di Conte, che virtualmente ha acquisito potere». Ma il professore «è considerato troppo vicino a Mattarella e all’Europa, quindi i grillini non gli vogliono consegnare le chiavi della macchina e rivendicano un vicepremier».Morale, la trattativa langue e la rissa sembra senza fine: «Siamo certi che continuerà anche dopo il varo del governo, che difficilmente durerà molto», dice ancora Senaldi, anche se la rediviva Daniela Santanchè, ora in quota a Fratelli d’Italia, confida al “Fatto Quotidiano”: «Non mi sento di escludere che alla fine Forza Italia decida di astenersi sulla fiducia a Conte, dando dunque soccorso a questa alleanza tra perdenti che darà vita a un governo tra trombati, in cui la “golden share” appartiene a gente come Matteo Renzi e Maria Elena Boschi». In questa situazione, dice ancora Senaldi, quando si inizierà a parlare di programmi, sarà il caos, «e non solo perché, mettendo insieme i venti punti di Di Maio e i cinque di Zingaretti non si fa neppure un ambo». Non ci sarebbe da stupirsi se i nuovi alleati di governo “si menassero” più dei precedenti, aggiunge il direttore di “Libero”: «La sintesi dei progetti di M5S e Pd (più immigrati, meno sicurezza, più spesa e meno etica per tutti) ha l’instabilità nel dna. È improbabile poi che, dopo anni passati a cercare di diventare una sinistra riformista, il Pd si consegni mani e piedi a Fratoianni e Boldrini, i cui voti però saranno indispensabili per prolungare la vita del governo». Gli sponsor dell’esecutivo giallorosso affermano che deve partire per salvare l’Italia? «Viste le premesse, pare destinato ad affondarla ancora di più».Il Quirinale, chiosa Senaldi, «potrebbe risparmiarci questo spettacolo: i film horror con il finale già scritto non valgono la pena». In proposito, sempre “Libero” si rivolge direttamente al Colle: «Sergio Mattarella sembrava essere stato chiaro: il governo che Conte sta cercando di costituire dovrà avere unità di vedute e di intenti». Vedute e intenti che però, «in questo matrimonio, dove i coniugi non hanno alcuna intenzione di unirsi, sembrano parecchio differenti». Non bastava l’inimicizia del passato: Pd e M5S non potranno mai andare d’accordo, soprattutto nella lunga battaglia per le poltrone. E qui, secondo “Libero”, il ruolo del presidente della Repubblica è fondamentale. Costantino Mortati, giurista e costituzionalista eletto nel ‘46 deputato per la Dc, diceva: «Compito del presidente della Repubblica è quello di accertare la concordanza tra corpo elettorale e parlamentare». Il quotidiano di Senaldi e Feltri riprende le parole di Mortati: il Colle «assolve a tale ruolo attraverso l’impiego dell’istituto dello scioglimento anticipato, quando vi siano elementi tali da renderlo necessario o anche solo opportuno in termini di gravi disarmonie fra attività degli eletti e sentimento del popolo». Perché ostinarsi col mostruoso Conte-bis, che ha contro la maggioranza degli elettori? «La storia – scrive “Libero” – sembra insegnare parecchio, e forse ogni tanto va ascoltata. Come in questo caso, dove gli italiani hanno il diritto di dire la loro».«Da quando l’Unione Europea di Merkel e Macron lo ha promosso cameriere capo della trattoria Italia, il professore di Volturara Appula si è montato la testa: si è persuaso di valere quanto Winston Churchill», scrive Pietro Senaldi, direttore di “Libero”, a proposito di Giuseppe Conte, il candidato del Vaticano scelto dai poteri forti per affondare il governo gialloverde, licenziare Salvini e riportare il controllo dell’Italia sotto la custodia del Pd, che ha perso tutte le elezioni degli ultimi anni (politiche, regionali, europee). Non si nasconde Angela Merkel, madrina di Conte, a cui l’allora premier gialloverde spiegava, in birreria, come avrebbe impedito a Salvini di governare. La cancelliera – racconta Goffredo De Marchis su “Repubblica” – non ha perso tempo: ha telefonato al Pd per ordinare che il Conte-bis si faccia ad ogni costo. «Il retroscena – scrive Andrea Indini sul “Giornale” – la dice lunga sulle pressioni internazionali per non far tornare gli italiani al voto». Obiettivo: «fermare la formazione di un esecutivo sovranista», specie ora che la Merkel ha subito in Sassonia l’exploit di “Alternative für Deutschland”, al 27% stando agli exit poll. «La Merkel perde a casa sua e impone il governo in Italia», sintetizza lo stesso Salvini, sempre sul “Giornale”.
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Giornali muti sulla crisi italiana, ma pronti a sbranare Feltri
Basso impero, l’avrebbe definito Giorgio Bocca. Il giornalismo italiano? Scomparso, ridotto a recitare veline di palazzo. Eppure a quanto pare esiste ancora, se è vero che due cronisti – Sandro Ruotolo e Paolo Borrometi – si appellano addirittura all’Ordine dei giornalisti, letteralmente indignati. Contro il silenzio del mainstream? Contro le bugie quotidiane del sistema radiotelevisivo? Contro l’omertosa reticenza delle redazioni di fronte a qualsiasi evento di rilievo, italiano e internazionale? Macché. Ce l’hanno con Vittorio Feltri, che si è permesso di insolentire nientemeno che il commissario Montalbano, cioè un personaggio letterario, proprio mentre il suo autore – Andrea Camilleri – lotta in ospedale tra la vita e la morte. Borrometi è un giornalista coraggioso, messo in pericolo dalla mafia. Ruotolo, popolare in Tv, è lo storico inviato di Michele Santoro. «Le parole di Vittorio Feltri su Andrea Camilleri e le sue opere – scrivono, in una lettera al presidente dei giornalisti italiani, Carlo Verna – hanno rappresentato per noi la goccia che ha fatto traboccare il vaso». E cos’avrebbe mai detto, Feltri, di così inaccettabile? «Mi dispiace, perché un uomo anche vecchio che muore suscita in te un certo dolore. Però – ecco il passaggio sotto accusa – mi consolerò pensando al fatto che Montalbano non mi romperà più i coglioni».Le parole di Feltri sono andate in onda sulla Rai nella trasmissione radiofonica “I lunatici”, di Radio Due, condotta da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio. «Quel terrone mi ha stancato», dice Feltri, riferendosi al commissario siciliano interpretato in televisione da Luca Zingaretti. Tutte le volte che gli capita di vedere Montalbano in Tv, aggiunge il direttore di “Libero”, gli torna subito alla mente il fratello dell’attore, cioè il neosegretario Pd Nicola Zingaretti, che «non è proprio il massimo della simpatia». Aggiunge Feltri: «Questa però è una mia opinione un po’ così, scherzosa». Quanto all’anziano autore di Montalbano, invece, Feltri si esprime in questi termini: «Camilleri, che ha avuto successo dopo i 70 anni, in me suscita ammirazione perché è stato un grande narratore, che peraltro si inserisce nella tradizione siciliana della letteratura insieme a scrittori come Pirandello e Sciascia». Ma niente da fare, a Borrometi e Ruotolo non basta: «Abbiamo deciso di autosospenderci dall’Ordine Nazionale dei Giornalisti perché ci consideriamo incompatibili con l’iscrizione di Vittorio Feltri all’albo professionale», scrivono, anche se poi è il presidente stesso, Scarpa, a precisare: è solidale con loro, però dall’Ordine non ci si può “autosospendere”, ma solo cancellare.«Riteniamo gli scritti e il pensiero del direttore Feltri veri e propri crimini contro la dignità del giornalista», scrivono i due. «Ne va della credibilità di ognuno di noi e della nostra categoria. Adesso basta. O noi o lui». E aggiungono: «Quel “terrone che ci ha rotto i coglioni” per noi figli del Sud è inaccettabile. Non è in gioco la libertà di pensiero. Sono in gioco i valori della nostra Costituzione». Accusano: «Ogni suo scritto trasuda di razzismo, omofobia, xenofobia. “Dopo la miseria portano le malattie” (rivolto ovviamente ai migranti), l’ormai tristemente celebre “Bastardi islamici” o, uscendo dal seminato delle migrazioni, robaccia come “Più patate, meno mimose” in occasione dell’8 marzo (e le diverse varianti dedicate anche a Virginia Raggi, con il “patata bollente”) o “Renzi e Boschi non scopano”. Poi gli insulti a noi del sud con il celebre “Comandano i terroni” e infine il penultimo, di qualche mese fa, “vieni avanti Gretina” (dedicato alla visita a Roma di Greta Thunberg)». L’idea che il direttore di “Libero” offre, concludono Borrometi e Ruotolo, «è che si possa, impunemente, permettersi questo avvelenamento chirurgico». A Feltri imputano mancanza di senso del limite, deontologia, misura, buon senso e addirittura dignità. «Continuiamo a batterci contro la censura e gli editti, ma non possiamo accettare tra noi chi istiga all’odio. Ne va della nostra credibilità».Nato a Modica (Ragusa), Borrometi vive sotto scorta da quando è stato aggredito, in Sicilia, per le sue scomode inchieste sul business mafioso. Cronista dell’Agi, è stato trasferito a Roma per metterlo al riparo dalle continue minacce. Il potere lo conosce da vicino: Borrometi è stato ricevuto a Palazzo Chigi da Gentiloni, a Palazzo Madama da Pietro Grasso e in Vaticano da Papa Francesco, mentre Mattarella l’ha fatto “Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica italiana”. Anche Ruotolo vive sotto scorta, dopo le minacce ricevute nel 2015 dal Clan dei Casalesi. Napoletano, è stato a fianco di Santoro dai tempi di “Samarcanda”, fine anni Ottanta. Nel 2013 si è candidato con Antonio Ingroia nella lista “Rivoluzione civile”, rimasta fuori dal Parlamento. Nel corso della campagna elettorale, al termine di un dibattito televisivo si è rifiutato di stringere la mano a Simone Di Stefano (CasaPound) dichiarandosi «orgogliosamente antifascista». E adesso, insieme a Borrometi, tuona contro Feltri: «O lui, o noi». Suona quasi come un appello perché il reprobo sia espulso dall’Ordine dei giornalisti, organismo che peraltro esiste solo in Italia, retaggio dell’occhiuta sorveglianza di Mussolini sulla stampa nazionale. A proposito: perché non abolirlo, l’inglorioso ordine professionale, visto che bastano e avanzano le leggi vigenti per tutelare sia i giornalisti che le vittime del propagandismo squadristico truccato da giornalismo?Ma il tema – libertà dell’informazione, senza recinti polverosamente post-fascisti – non sfiora Rutolo e Borrometi (non oggi, almeno). Il nemico si chiama Vittorio Feltri, monumento nazionale del giornalismo-contro (contro i giornalisti conformisti, in primis). Fieramente ostico, scontroso, sulfureo – spesso urticante, volutamente sgradevole – Feltri affonda i suoi strali quotidiani nella melassa inguardabile del mainstream gracidante, dei colleghi appiattiti sull’imbarazzante galateo del pensiero unico (politicamente corretto, ma per nulla giornalistico). Spariti Bocca, Biagi e Montanelli, è proprio la mediocrità desolante dei replicanti – i vari Giannini, Floris, Berlinguer, Formigli, Annunziata – a fare di Feltri il gigante che probabilmente non è. Amico personale della Fallaci, Feltri ha seguito la grandissima giornalista nella cecità assoluta dimostrata dall’Oriana nazionale di fronte all’11 Settembre, senza vedere che lo “scontro di civiltà” era una montatura terroristica interamente occidentale. Già berlusconiano e sempre controcorrente, pronto alla solitudine delle polemiche più aspre, a Feltri non difetta certo il coraggio: semmai, come quasi tutti gli altri, non ha compreso per tempo la reale natura del “golpe” neoliberale del 2011, dietro la maschera di Mario Monti. E ancora oggi, purtroppo, fatica a discernere tra debito pubblico e debito reale del sistema-paese, anche lui criminalizzando il deficit dello Stato, in un paese da decenni in avanzo primario: lo sa, Feltri, che lo Stato incassa con le tasse più di quanto non spenda per i cittadini?Quanto ai suoi detrattori – tantissimi, quasi tutti i suoi colleghi – va detto che, in questi anni, hanno brillato per renitenza professionale e alto tradimento dei lettori e dei telespettatori: se il famoso Ordine avesse un senso, quanti di loro avrebbero diritto di farne parte? Che c’azzeccano, con la categoria giornalistica, la Monica Maggioni reclutata dalla Trilaterale nonostante fosse dirigente Rai? E che dire di Lilli Gruber, ospite fissa del Bilderberg? Non hanno niente da dire, su questo, gli illustri Sandro Ruotolo e Paolo Borrometi? Pensano davvero che siano gli eccessi polemici e le cadute di stile a compromettere la dignità professionale dei “cani da guardia della democrazia”? Dicono ancora qualcosa i nomi di Bob Woodward e Carl Bernstein (“Washington Post”) che nel remoto 1972 – ben prima dell’odierna era glaciale – fecero crollare la presidenza Nixon con lo scandalo Watergate? Vinsero il Pulitzer, ovviamente, ma non erano al guinzaglio di alcuna corporazione post-mussoliniana. Un altro Pulitzer, il connazionale Seymour Hersh, è stato franco quanto l’insopportabile Feltri: se i giornalisti non avessero abdicato al loro compito fondamentale, in questi anni avremmo avuto meno guerre e meno stragi, perché – di fronte a una stampa con la schiena diritta – il potere non avrebbe osato spingersi oltre certi limiti.Bassa macelleria fondata sulla menzogna sistematica, praticabile solo a patto di non avere noie, dalla stampa. Un caso mondiale, emblematico? Le inesistenti “armi di distruzioni di massa”, pretesto per invadere l’Iraq di Saddam ponendo le premesse per una destabilizzazione geopolitica di tipo stragistico, cominciata con l’abbattimento delle Twin Towers e culminata coi tagliagole dell’Isis a seminare il terrore sia in Medio Oriente che nel cuore dell’Europa, con attentati sinistramente massonici (non islamici) nella loro spietata simbologia. Chi lo dice? Gioele Magaldi, per esempio: un autore che per l’italico mainstream resta oscuro quanto il suo besteller, “Massoni”, letteralmente ignorato da tutti i talkshow nonostante facesse nomi e cognomi, da Napolitano in giù, come inutilmente ricordato persino in Parlamento dai 5 Stelle. Dove sono, i giornalisti italiani, quando qualcuno si espone per svelare i retroscena della crisi che sta sventrando il paese? Oggi sono tutti a fischiare comodamente il puzzone di turno, Matteo Salvini, mettendo nel mazzo – per buon peso – lo stesso Feltri, notorio estimatore del capo leghista. Tutto fa brodo, pur di non avvistare il pericolo: va benissimo anche lo scalpo di Armando Siri (solo indagato, tuttora) per colpire la Flat Tax e il governo gialloverde, che ha avuto l’improntitudine di pensare che l’Italia si potesse governare anche senza sottomettersi alle mafie politiche locali, succursali delle mafie politiche europee.Per il mainstream che odia Salvini e detesta Feltri, il supermassone occulto Mario Draghi, quasi onnipotente signore d’Europa dopo l’esordio sul Britannia da cui collaborò alla svendita del paese, resta essenzialmente Super-Mario, ipotetico futuro premier quando finalmente il vero potere si sarà scrollato di dosso gli intrusi dell’ultima ora, i pasticcioni gialloverdi. Il governo non è libero di decidere nulla – ha ammesso Pino Cabras, parlamentare pentastellato, in un convegno del Movimento Roosevelt a Londra – perché nei ministeri e nei palazzi-chiave, cominciando dal Quirinale, domina il Deep State. Qualcuno, della libera stampa italiana pronta ad azzannare Feltri per gli sberleffi a Montalbano, si è peritato di rilanciare la notizia? Gli specialisti dell’antimafia sono coraggiosamente impegnati sul fronte della micro-mafia nazionale. Ma i loro colleghi come si regolano, con la vera macro-mafia, quella eurocratica, che da trent’anni ha dichiarato guerra all’Italia sbaraccando la Prima Repubblica? Divorzio fra Tesoro e Bankitalia, Sme, Trattato di Maastricht, Fiscal Compact, pareggio di bilancio. L’ex potenza industriale mediterranea ha perso il 25% del suo potenziale in una manciata di anni. Crisi, recessione, esasperazione. Dov’erano, i giornalisti, mentre tutto questo accadeva? E dove sono oggi? Nel solito posto: comodi, in platea, a distrarre il pubblico. Che screanzato, quel Feltri. Sia messo al bando, perché sciupa la foto di gruppo del glorioso giornalismo italiano.(Giorgio Cattaneo, “Con che coraggio attacca Feltri – per le battute su Montalbano – il giornalismo italiano che da trent’anni non dice la verità sulla crisi del paese?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 21 giugno 2019).Basso impero, l’avrebbe definito Giorgio Bocca. Il giornalismo italiano? Scomparso, ridotto a recitare veline di palazzo. Eppure a quanto pare esiste ancora, se è vero che due cronisti – Sandro Ruotolo e Paolo Borrometi – si appellano addirittura all’Ordine dei giornalisti, letteralmente indignati. Contro il silenzio del mainstream? Contro le bugie quotidiane del sistema radiotelevisivo? Contro l’omertosa reticenza delle redazioni di fronte a qualsiasi evento di rilievo, italiano e internazionale? Macché. Ce l’hanno con Vittorio Feltri, che si è permesso di insolentire nientemeno che il commissario Montalbano, cioè un personaggio letterario, proprio mentre il suo autore – Andrea Camilleri – lotta in ospedale tra la vita e la morte. Borrometi è un giornalista coraggioso, messo in pericolo dalla mafia. Ruotolo, popolare in Tv, è lo storico inviato di Michele Santoro. «Le parole di Vittorio Feltri su Andrea Camilleri e le sue opere – scrivono, in una lettera al presidente dei giornalisti italiani, Carlo Verna – hanno rappresentato per noi la goccia che ha fatto traboccare il vaso». E cos’avrebbe mai detto, Feltri, di così inaccettabile? «Mi dispiace, perché un uomo anche vecchio che muore suscita in te un certo dolore. Però – ecco il passaggio sotto accusa – mi consolerò pensando al fatto che Montalbano non mi romperà più i coglioni».