Archivio del Tag ‘Mario Monti’
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I pm: Deutsche Bank barò sullo spread, rovinando l’Italia
Alla sbarra i responsabili del crollo finanziario dell’Italia, per favorire il commissariamento del paese con la regia di Giorgio Napolitano? La prima banca tedesca, Deutsche Bank, con alcuni dei suoi ex top manager è indagata dalla Procura di Milano per la mega-speculazione in titoli di Stato italiani effettuata nel primo semestre del 2011. Operazione che contribuì a far volare lo spread dei rendimenti tra i Btp e i Bund tedeschi e a creare le condizioni per dimissioni del governo Berlusconi, a cui subentrò l’esecutivo di Mario Monti, con in tasca la ricetta “lacrime e sangue” per l’Italia, dalla legge Fornero sulle pensioni al pareggio di bilancio in Costituzione. Secondo l’“Espresso”, che ricostruisce la vicenda svelandone i dettagli, l’ipotesi di reato è la manipolazione del mercato, avvenuta attraverso operazioni finanziarie finite sotto la lente dei pm per un totale di circa 10 miliardi di euro. Affari realizzati da Deutsche Bank dopo il crac della Grecia, quando la crisi del debito pubblico cominciava a minacciare altri paesi mediterranei, tra cui Italia e Spagna, scrive Marcello Zacché sul “Giornale”.A onor del vero, scrive Zacché, l’indagine sul gruppo bancario di Francoforte è vecchia di due anni, avviata dalla Procura pugliese di Trani (già attivasi in altri procedimenti finanziari come per esempio quello contro le agenzie di rating). E nel settembre scorso è arrivato l’avviso di conclusione delle indagini, con i magistrati pugliesi pronti a chiedere il rinvio a giudizio di cinque banchieri che guidavano il gruppo nel 2011 (tra cui l’ex presidente Josef Ackermann e gli ex ad Anshuman Jail e Jurgen Fitschen) e della stessa Deutsche Bank. Poi però non se n’era saputo più nulla. Ora invece si apprende che l’indagine è stata trasferita a Milano dalla Corte di Cassazione, per motivi di competenza territoriale, su richiesta dei difensori della banca. «Come noto – ricorda il “Giornale” – la vicenda riguarda la forte riduzione negli investimenti in titoli di Stato italiani avvenuta nei primi sei mesi del 2011, quando Deutsche Bank smobilitò 7 dei circa 8 miliardi dei Btp che deteneva, comunicando tutto soltanto il 26 luglio». Una notizia bomba, tanto che il “Financial Times” titolò in prima pagina sulla «fuga degli investitori internazionali dalla terza economia dell’Eurozona».Ora l’indagine che i pm milanesi hanno riaperto ricostruisce l’intera serie di operazioni decise dalla banca tedesca. E, secondo l’accusa, emergerebbe che già alla fine dello stesso mese di luglio del 2011, Deutsche Bank aveva ripreso a comprare Btp (per almeno due miliardi) senza annunciarlo, mentre altri 4,5 miliardi di titoli italiani erano posseduti da un’altra società tedesca acquisita nel 2010 dalla stessa mega-banca. Il 26 luglio, dunque, «Deutsche Bank comunicò le vendite avvenute entro il 30 giugno, ma non gli acquisiti successivi», avendo quindi «venduto prima del crollo dei prezzi, e ricomprato dopo». Una speculazione «che sembra aver fatto perno sulla crisi finanziaria italiana, causandone poi anche quella politica». Mario Monti, incaricato da Napolitano, ha così avuto modo di fare quello che i “mercati” (la Germania) chiedevano da tempo: demolire la domanda interna del paese, il cui Pil è crollato di colpo del 10% insieme alla produzione inustriale, calata vertiginosamente del 25% aprendo la porta all’acquisto, a prezzi di saldo, di alcune tra le migliori firme del made in Italy.Alla sbarra i responsabili del crollo finanziario dell’Italia, per favorire il commissariamento del paese con la regia di Giorgio Napolitano? La prima banca tedesca, Deutsche Bank, con alcuni dei suoi ex top manager è indagata dalla Procura di Milano per la mega-speculazione in titoli di Stato italiani effettuata nel primo semestre del 2011. Operazione che contribuì a far volare lo spread dei rendimenti tra i Btp e i Bund tedeschi e a creare le condizioni per dimissioni del governo Berlusconi, a cui subentrò l’esecutivo di Mario Monti, con in tasca la ricetta “lacrime e sangue” per l’Italia, dalla legge Fornero sulle pensioni al pareggio di bilancio in Costituzione. Secondo l’“Espresso”, che ricostruisce la vicenda svelandone i dettagli, l’ipotesi di reato è la manipolazione del mercato, avvenuta attraverso operazioni finanziarie finite sotto la lente dei pm per un totale di circa 10 miliardi di euro. Affari realizzati da Deutsche Bank dopo il crac della Grecia, quando la crisi del debito pubblico cominciava a minacciare altri paesi mediterranei, tra cui Italia e Spagna, scrive Marcello Zacché sul “Giornale”.
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Galloni: dire no ai boss dell’euro, creato per uccidere l’Italia
Poniamo il caso che un grande economista italiano vi dicesse che l’euro è stato inventato per impedire all’Italia di rafforzarsi: ci credereste? Vi conviene farlo, dice Gianluca Scorla, se questo economista risponde al nome di Nino Galloni, già ricercatore a Berkeley e poi docente universitario a Modena, Milano e Roma. Di scuola post-keynesiana, tra il 1981 e il 1986 è stato collaboratore del professor Federico Caffè, il genio europeo dell’economia progressista. Nell’ultima stagione governativa di Andreotti, il “Divo Giulio” chiamò a sé proprio Galloni per aiutare l’Italia a non rimetterci le penne, in vista del Trattato di Maastricht. Risultato: l’allora cancelliere Kohl ingiuse al nostro governo di allontanare quel funzionario “ribelle”, che si ridusse – in ufficio – a comunicare con Andreotti mediante “pizzini”, per aggirare il rischio di intercettazioni ambientali. Galloni ha lavorato al ministero dell’economia e in quello del lavoro, all’Inpdap e all’Ocse, nonché presso gruppi come Agip, Nuova Satin, Fintext Corporation. E’ stato impegnato nell’Inps, poi nell’Inail. Oggi è vicepresidente del Movimento Roosevelt fondato da Gioele Magaldi. Obiettivo: costringere la politica italiana a leggere la crisi in modo corretto, capendo chi l’ha creata e perché.Sono passi indispensabili, per poterne uscire. Come? Restituendo allo Stato la sua piena sovranità operativa, monetaria e finanziaria, senza la quale ogni soluzione di rilancio non è credibile, è pura propaganda elettorale. Renzi e Berlusconi fanno a gara nel promettere bonus e sgravi fiscali? Stanno semplicemente barando: sanno benissimo che, se prima non si rovescia il tavolo europeo del rigore (che non è tecnico-economico ma solo politico, ideologico), non ci si saranno soldi per sostenere gli italiani. Era il 2014, quando Galloni – dopo aver denunciato il piano di “deindustrializzazione” dell’Italia pianificato via Eurozona dal nostro maggiore competitor, la Germania – ricordava la trama del film horror proiettato in Europa negli ultimi tre lustri. «Dalla fine della primavera del 2001 i grandi ecomomisti, i Premi Nobel, i centri di ricerca, i grandi esperti avevano previsto che “dal prossimo trimestre ci sarà la ripresa”, e che questa ripresa “slitterà al semestre successivo”, poi “all’anno successivo” e poi ancora a quello venturo, senza alcuna spiegazione sulle logiche che avrebbero dovuto guidare questa ripresa». Ma della ripresa, ovviamente, «nemmeno l’ombra», sintetizza tre anni fa Gianluca Scorla, sul “Giornale delle Buone Notizie”.E vi pare possibile che, di trimestre in trimestre, da allora, le banche abbiano emesso 800.000 miliardi di dollari di titoli derivati e altri 3 milioni di miliardi di dollari di derivati sui derivati, quindi di titoli tossici? Già nel 2014 il totale sfiorava i 4 quadrilioni di miliardi di dollari, cifra pari a 55 volte il Pil del mondo. Lacrime e sangue: quante ne hanno davvero versate gli italiani, obbedendo ai diktat degli ultimi governi euro-diretti, da Monti a Gentiloni passando per Letta e Renzi? «Nella fase storica in cui la politica è stata superata dall’economia e le scelte operate seguono il paradigma della speculazione internazionale piuttosto che del rilancio dello sviluppo», riassume Scorla, Galloni racconta come stanno realmente le cose, indicando anche la via da percorrere per risalire la china: utilizzare ogni mezzo (compresi quelli esistenti, non soppressi da Maastricht) per riattivare lo Stato come soggetto necessariamente protagonista dell’economia nazionale: per esempio emettendo moneta metallica o anche “moneta fiduciaria”, non a corso legale fuori dai confini nazionali, ma valida ad esempio per pagare le tasse. «Già solo questo – ricorda Galloni, in un recente intervento al convegno promosso a Roma dal Movimento Roosevelt sulla Costituzione – basterebbe a rimediare allo scellerato obbligo del pareggio di bilancio, introdotto dal governo Monti con i voti di Berlusconi e Bersani».“Chi ha tradito l’economia italiana” (Editori Riuniti) è uno dei recenti saggi ai quali Galloni ha affidato la sua circostanziata denuncia. In estrema sintesi: i 35 anni che vanno dal 1944 al 1979, riassume Scorla, sono lo specchio di uno stabile modello di capitalismo espansionista keynesiano che ha centrato l’obiettivo di massimizzare le vendite, i profitti complessivi e l’occupazione. Nel 1979, in concomitanza con il G7 di Tokyo, l’uscita dal sistema della solidarietà internazionale dà luogo alla genesi di un nuovo tipo di capitalismo, definito di “rivincita dei proprietari”, che durerà fino agli inizi degli anni ’90 con l’avvento della crisi del sistema monetario europeo. «Dalla fine degli anni ’70, la svolta liberista anti-keynesiana trova il suo apice devastatore nella logica del salvataggio bancario, che spinge le istituzioni e le banche stesse ad assoggettarsi, nel tempo, al sistema ultra-speculativo voluto dalla grande finanza». Dal 2001, quindi, «le banche affondano l’acceleratore nell’emissione di derivati e dei derivati sui derivati, generando così i titoli tossici. L’obiettivo raggiunto coincide con la massimizzazione del guadagno, non sul rendimento del titolo ma sul numero delle emissioni».Meglio di chiunque altro, Galloni ha spiegato come – tra il 1980 e l’anno seguente – lo sviluppo del paese fu letteralmente sabotato dal divorzio tra Bankitalia (Ciampi) e il Tesoro (Andreatta): prima ancora dell’euro, la banca centrale abdicò al suo ruolo istituzionale di “prestatore di ultima istanza”, cessando di fungere da “bancomat” del governo, a costo zero. Da allora, il deficit cominciò a essere finanziato – al prezzo di interessi salatissimi – da investitori finanziari privati: cosa che fece letteralmente esplodere, di colpo, il debito pubblico italiano, problema poi impugnato come una clava dal potere neoliberista, fin dall’inizio impegnato a fare la guerra allo Stato. Oggi, dice Galloni, la buona notizia è che l’Italia sta resistendo in modo imprevedibile al massacro sociale imposto da Bruxelles per via finanziaria. E senza alcun intervento da parte della politica: i lavoratori, semplicemente, hanno smesso di andare a votare, gonfiando l’oceano dell’astensionismo. Potremmo vivere un’accelerazione positiva esponenziale, aggiunge Galloni, se solo la politica si decidesse a dire la verità sull’accaduto, a denunciare i nemici del sistema-Italia e a mettere in campo politiche nuovamente espansive, fondate su investimenti strategici sorretti dall’emissione monetaria diretta. Premessa: innanzitutto, è urgente compiere una mossa semplice e drastica, di cui hanno paura tutti – dal Pd a Berlusconi, fino ai 5 Stelle. E cioè: mandare a stendere i poteri che manovrano i fantocci di Berlino, Bruxelles e Francoforte. Dicendo loro: se non si rinegozia tutto, da cima a fondo, l’Italia sospende la vigenza dei trattati europei. Funzionerebbe: perché, senza più il nostro paese, il bunker antieuropeo chiamato Unione Europea crollerebbe un minuto dopo.Poniamo il caso che un grande economista italiano vi dicesse che l’euro è stato inventato per impedire all’Italia di rafforzarsi: ci credereste? Vi conviene farlo, dice Gianluca Scorla, se questo economista risponde al nome di Nino Galloni, già ricercatore a Berkeley e poi docente universitario a Modena, Milano e Roma. Di scuola post-keynesiana, tra il 1981 e il 1986 è stato collaboratore del professor Federico Caffè, il genio europeo dell’economia progressista. Nell’ultima stagione governativa di Andreotti, il “Divo Giulio” chiamò a sé proprio Galloni per aiutare l’Italia a non rimetterci le penne, in vista del Trattato di Maastricht. Risultato: l’allora cancelliere Kohl ingiuse al nostro governo di allontanare quel funzionario “ribelle”, che si ridusse – in ufficio – a comunicare con Andreotti mediante “pizzini”, per aggirare il rischio di intercettazioni ambientali. Galloni ha lavorato al ministero dell’economia e in quello del lavoro, all’Inpdap e all’Ocse, nonché presso gruppi come Agip, Nuova Satin, Fintext Corporation. E’ stato impegnato nell’Inps, poi nell’Inail. Oggi è vicepresidente del Movimento Roosevelt fondato da Gioele Magaldi. Obiettivo: costringere la politica italiana a leggere la crisi in modo corretto, capendo chi l’ha creata e perché.
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Magaldi: l’Italia è salva, grazie a Grasso e ai D’Alema-boys
Sicché sarebbe Pietro Grasso, detto Piero, il formidabile anti-Renzi? O meglio l’anti-Renzusconi, l’eroe carismatico che si opporrà all’ennesimo inciucio che ci attende? Ma mi faccia il piacere, direbbe Totò. Abbiate fede: prima o poi gli italiani avranno finalmente un Parlamento degno – non ancora nella primavera 2018, però. Parola di Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt e promotore del Pdp, Partito Democratico Progressista, che ancora aspetta di nascere su base popolare, mediante assemblea costituente con libera adesione. Obiettivo: fare piazza pulita dei personaggi che hanno condannato il paese al declino, e che – lungi dal farsi da parte – animano l’imbarazzante farsa dell’ennesima campagna elettorale inutile. Nessuno dei tre poli osa raccontare la nuda verità, l’inaccettabile sottomissione ai poteri forti europei che hanno costretto il sistema-Italia a fare harakiri. Renzi e Berlusconi, in attesa di sedersi allo stesso tavolo, fanno a gara a chi le spara più grosse, in termini di promesse elettorali palesemente impossibili da mantenere, sotto il regime di euro-austerity. Mentre il grillino Di Maio – altrettanto lontano dalla realtà – fa il turista a Washington, evitando accuratamente la sponda progressista. E a Roma intanto chi spunta? Pietro Grasso, il nuovo campione degli indimenticabili Bersani e D’Alema, notoriamente amatissimi dagli italiani.«C’è da ridere per non piangere, se il rinnovamento deve partire da Grasso», dice Gioele Magaldi a David Gramiccioli di “Colors Radio” all’indomani della convention romana dei fuoriusciti dal Pd renziano, alleati degli ex-Sel e di gruppi ancora più esigui della sinistra, come quello di Civati. «Già magistrato dignitoso, Grasso è un signore di 72 anni che è stato miracolato da alcune poltrone, come la presidenza del Senato: si è dimesso, tra virgolette, dal Pd, ma non ricordo che si sia erto a difensore della democrazia e dei diritti quando tutti quanti, da destra a sinistra, avallavano il Fiscal Compact varato dal governo Monti, anche con i voti di Bersani, D’Alema, Speranza e compagni, tutti provenienti dalla filiera Pci». Insiste Magaldi: «L’aver pienamente sottoscritto le peggiori le politiche di rigore è davvero il peccato originale di questa sedicente sinistra italiana». E aggiunge: «Chi può pensare, davvero, che il rinnovamento del paese possa venire da un personaggio come Grasso? Non direi che sia stato un presidente del Senato memorabile: e oggi il popolo “de sinistra” dovrebbe entusiasmarsi, plaudire? Immagino quanta eccitazione e quanti fremiti, alla vista di Grasso che arringa le folle. C’è davvero da piangere, da singhiozzare».Per il dopo-elezioni, non c’è bisogno di profezie: sondaggi alla mano, Renzi e il Cavaliere saranno “costretti” a una riedizione del Patto del Nazareno. Larghe intese, ma dalla vita breve: Magaldi prevede «crisi parlamentari sempre più ravvicinate, nei prossimi tempi, perché la situazione è insostenibile: c’è una decadenza dell’Italia che ormai questa classe dirigente nel suo complesso non è in grado di fronteggiare», men che meno «gli spaventapasseri della convention romana della sinistra, vecchi notabili variamente riciclati, che oggi ci vengono a cantare questa canzone stonata: e sono più aristocratici loro, nei rapporti umani e anche nella visione politica, di altri che vengono collocati a destra». Magaldi pensa al futuro Pdp e ragiona da allenatore: «Basta con questa finzione, noi lavoriamo per un partito davvero popolare: non ci interessa la rappresentazione populista, demagogica e squinternata che fa del popolo una macchietta, vogliamo una politica finalmente all’altezza dell’Italia, fondata su sovranità, dignità e diritti». Si tratta di ripartire da zero, per una «credibile rigenerazione politica di un paese malgovernato per 25 anni dai sedicenti centrodestra e centrosinistra». Il punto si svolta? Dire no alla truffa del rigore, dogma ideologico imposto dall’élite finanziaria. E’ la parola d’ordine su cui, promette Magaldi, si costruirà il Pdp, già partire dalla prossima legislatura, parlando anche a parlamentari «disgustati» dello spettacolo in arrivo.Sicché sarebbe Pietro Grasso, detto Piero, il formidabile anti-Renzi? O meglio l’anti-Renzusconi, l’eroe carismatico che si opporrà all’ennesimo inciucio che ci attende? Ma mi faccia il piacere, direbbe Totò. Abbiate fede: prima o poi gli italiani avranno finalmente un Parlamento degno – non ancora nella primavera 2018, però. Parola di Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt e promotore del Pdp, Partito Democratico Progressista, che ancora aspetta di nascere su base popolare, mediante assemblea costituente con libera adesione. Obiettivo: fare piazza pulita dei personaggi che hanno condannato il paese al declino, e che – lungi dal farsi da parte – animano l’imbarazzante farsa dell’ennesima campagna elettorale inutile. Nessuno dei tre poli osa raccontare la nuda verità, l’inaccettabile sottomissione ai poteri forti europei che hanno costretto il sistema-Italia a fare harakiri. Renzi e Berlusconi, in attesa di sedersi allo stesso tavolo, fanno a gara a chi le spara più grosse, in termini di promesse elettorali palesemente impossibili da mantenere, sotto il regime di euro-austerity. Mentre il grillino Di Maio – altrettanto lontano dalla realtà – fa il turista a Washington, evitando accuratamente la sponda progressista. E a Roma intanto chi spunta? Pietro Grasso, il nuovo campione degli indimenticabili Bersani e D’Alema, notoriamente amatissimi dagli italiani.
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D’Alema: gli italiani non fanno più figli. Chissà come mai…
Come mai gli italiani non fanno più figli? Non se lo chiede, Massimo D’Alema, mentre ripropone tranquillamente il più classico teorema mondialista: il nostro futuro saranno i migranti, unica risposta all’impoverimento demografico del Belpaese, sempre più anziano e spopolato. L’ex segretario del Pds è stato un esponente di punta della classe dirigente italiana, in particolare di quella “sinistra post-comunista di governo” che supportò la grande cessione della sovranità nazionale dopo la caduta (per via giudiziaria) della Prima Repubblica. Eppure, alla televisione italiana già immersa nel clima politico della campagna elettorale, D’Alema parla dell’Italia come se fosse un turista distratto, e non l’uomo che sedette per due anni a Palazzo Chigi, peraltro vantandosi di aver realizzato il massimo volume possibile di privatizzazioni, un vero e proprio record europeo. Parla come un osservatore sbadato e impreciso, D’Alema, quando si limita a prendere atto che il bizzarro problema che affligge lo Stivale, da molti anni, è la crisi della natalità, il saldo negativo che rivela la decrescita costante della popolazione. Affrontare il male a monte, occupandosi degli italiani? Aiutarli a scommettere nuovamente sul futuro? Ma no, basta rimpiazzarli con un po’ di profughi africani. Per gli italiani, tuttalpiù, D’Alema ha in mente una cura innovativa e rivoluzionaria: reintrodurre l’imposta sulla prima casa.D’Alema appartiene a pieno titolo alla storia del Novecento: il suo nome è legato per sempre all’infelice stagione che vide incrinarsi i decenni del benessere, preparando il crollo sistemico al quale stiamo assistendo. Ma la vera notizia è che l’ex premier sia ancora in campo nel 2017, tra le fila (meramente anti-renziane) di un sedicente movimento “democratico e progressista”. Quella di D’Alema sembra una voce proveniente dalle catacombe della politica, dal cimitero neoliberista nel quale marcirono e poi morirono, a volte anche assassinate, le migliori idee di progresso sociale, giustizia e solidarietà, incarnate in Europa da giganti del pensiero come Olof Palme, leader della gloriosa socialdemocrazia svedese, artefice del più avanzato welfare del continente. Nel salottino televisivo di Lilli Gruber, D’Alema parla come se nulla sapesse di quanto è avvenuto, in questi anni, al paese a cui oggi si rivolge: la colossale svendita del patrimonio nazionale, i tagli sanguinosi alla spesa sociale, l’austerity, la precarizzazione del lavoro e la piaga della disoccupazione. Dov’era, D’Alema, quando l’Italia organizzava il proprio suicidio socio-economico con il macigno del Fiscal Compact, la legge Fornero sulle pensioni, la crocifissione della Costituzione mediante pareggio di bilancio obbligatorio?L’ex premier post-comunista parla come se non conoscesse Mario Draghi, come se non avesse mai sentito nominare Napolitano e Monti, la Merkel e la spietata Troika che ha ridotto alla fame una nazione come la Grecia. Si limita a descrivere l’Italia come un paese curiosamente in crisi demografica, i cui abitanti – chissà perché – hanno smesso di sposarsi e di metter su famiglia. Il giornalista Paolo Barnard, autore del saggio “Il più grande crimine”, presenta D’Alema come “allievo” di Jacques Attali, eminente politologo francese, già “consigliere del principe” quando lavorava all’Eliseo. Un grande economista transalpino, Alain Parguez, rivela che proprio Attali, oggi padrino di Macron, contribuì a determinare la svolta neo-reazionaria del presidente socialista Mitterrand, “l’inventore” della soglia del 3% (del Pil) come tetto alla spesa pubblica. Una regola artificiosa e nefasta, anti-economica, da allora utilizzata dall’élite finanziaria per scatenare l’attacco frontale alla sovranità di bilancio degli Stati europei, mettendo fine alla loro capacità di realizzare politiche progressiste.Nel suo saggio del 2014 sulla segreta geografia supermassonica del massimo potere (“Massoni”, Chiarelettere), Gioele Magaldi collega D’Alema e Attali sul piano delle loro frequentazioni più riservate: il primo, scrive, milita in due diverse Ur-Lodges, la “Pan-Europa” e la “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”, mentre il secondo nella “Three Eyes”. Secondo Magaldi, le “logge madri” sono strutture esclusive e sovranazionali del back-office del potere, incubatrici di ogni grande decisione finanziaria, economica e geopolitica. Quelle citate, in relazione a D’Alema e Attali, sempre secondo Magaldi (a sua volta “iniziato” alla Ur-Lodge progressista “Thomas Paine”) sono superlogge orientate in senso neo-aristocratico, grandi protagoniste della globalizzazione universale che sta privatizzando il pianeta, senza più altra bandiera che quella del denaro. Se la figura politica di D’Alema resta complessa, legata alla tormentata conversione atlantica degli ex comunisti (D’Alema fu il primo premier italiano proveniente dal Pci, il partito di Togliatti e Berlinguer), può sembrare un mistero l’ipotetica attualità della sua proposta odierna, la sua stessa permanenza nel club degli interlocutori politici italiani.D’Alema sarà addirittura tra i competitori elettorali del 2018, per giunta nel cartello guidato dall’imbarazzante Bersani, che si richiama in modo surreale all’articolo 1 della Costituzione (“fondata sul lavoro”, ma in realtà “affondata” dalla costituzionalizzazione del rigore imposta dal governo Monti, con i voti di Berlusconi e dello stesso Bersani). La surrealtà di questa sedicente sinistra prosegue nell’omaggio ricorrente a Romano Prodi, il super-privatizzatore dell’Iri che riuscì a passare da Palazzo Chigi alla Goldman Sachs, fino alla guida della Commissione Europea, cioè l’organismo che ha inflitto le maggiori sofferenze ai lavoratori europei. Al fantasma di Prodi, peraltro, si oppone quello del Cavaliere, che allatta agnellini per la gioia degli animalisti ed evoca spettacolari candidature securitarie, scomodando alti ufficiali dei carabinieri. Poi naturalmente c’è l’odiato Renzi, per il quale il male italico numero uno resta “la burocrazia” (infatti: il problema di Palermo è il traffico, dice Benigni nel film in cui interpreta il boss mafioso Johnny Stecchino). E i 5 Stelle? Lontani anche loro dalla zona rossa, quella del vero pericolo: il loro mitico “reddito di cittadinanza” lo finanzierebbero semplicemente “tagliando gli sprechi”, non certo bocciando i diktat di Bruxelles. Un quadro pittoresco, nel quale diventa comprensibile persino la sopravvivenza giurassica dello stesso D’Alema, così sbadato da non domandarsi perché l’Italia sia tanto in crisi, al punto da smettere di fare figli.Perché mai gli italiani non fanno più figli? Non se lo chiede, Massimo D’Alema, mentre ripropone tranquillamente il più classico teorema mondialista: il nostro futuro saranno i migranti, unica risposta all’impoverimento demografico del Belpaese, sempre più anziano e spopolato. L’ex segretario del Pds è stato un esponente di punta della classe dirigente italiana, in particolare di quella “sinistra post-comunista di governo” che supportò la grande cessione della sovranità nazionale dopo la caduta (per via giudiziaria) della Prima Repubblica. Eppure, alla televisione italiana già immersa nel clima politico della campagna elettorale, D’Alema parla dell’Italia come se fosse un turista distratto, e non l’uomo che sedette per due anni a Palazzo Chigi, peraltro vantandosi di aver realizzato il massimo volume possibile di privatizzazioni, un vero e proprio record europeo. Parla come un osservatore sbadato e impreciso, D’Alema, quando si limita a prendere atto che il bizzarro problema che affligge lo Stivale, da molti anni, è la crisi della natalità, il saldo negativo che rivela la decrescita costante della popolazione. Affrontare il male a monte, occupandosi degli italiani? Aiutarli a scommettere nuovamente sul futuro? Ma no, basta rimpiazzarli con un po’ di profughi africani. Per gli italiani, tuttalpiù, D’Alema ha in mente una cura innovativa e rivoluzionaria: reintrodurre l’imposta sulla prima casa.
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Dezzani: Draghi punta sui 5 Stelle, scommette contro di noi
Mario Draghi e l’élite economica italiana puntano ormai sui 5 Stelle e scommettono contro l’Italia, per ultimare la svendita dell’industria: il nostro futuro si fa sempre più minaccioso man mano che il 2018 si avvicina. All’incertezza elettorale si somma un quadro europeo ostile: la Germania non ha alcuna intenzione di concederci sconti. Forse Berlino è disposta a sobbarcarsi la Francia per ragioni geopolitiche, mentre dell’Italia le interessa solo il Veneto. Si avvicina «un commissariamento esplicito o subdolo, sulla falsariga del governo Monti», scrive Federico Dezzani. E se in Germania dovesse prevalere una linea ancora più rigorista, «non si potrebbe neanche escludere l’imposizione di un “default ordinato”». Di fronte a questo scenario, sostiene l’analista, l’Italia sarà costretta a scegliere: capitolazione o uscita dall’euro. Un soccorso, per sottrarsi all’attacco della Germania, «può venire soltanto dalle potenze emergenti». I prossimi 12-18 mesi saranno cruciali per il futuro del nostro paese e della stessa Europa, insiste Dezzani: il “nuovo sacco di Roma” è stato già preparato da Germania e Francia. L’Italia deve quindi «stringere una serie di alleanze internazionali per evitare un tristissimo epilogo». Anche perché gli “Stati Uniti d’Europa”, ammesso che qualcuno li abbia mai davvero presi in considerazione, «sono stati ormai scartati da anni».Il vertice a Deauville dell’ottobre 2010, cui parteciparono Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, secondo Dezzani può essere considerato lo spartiacque che separa il progetto dell’Europa allargata da quello dell’Europa franco-tedesca, moderna riproposizione dell’Impero Carolingio. È un disegno che non soddisfa pienamente gli Usa (Dezzani lo deduce dagli attacchi al sistema-Germania, come Volkswagen e Deutsche Bank), ma ha il probabile assenso della Gran Bretagna (da cui il tentativo di fondere Lse-Deutsche Boerse e l’uscita dall’Unione Europea per facilitare i piani federativi di Angela Merkel e Macron). All’interno della coppia franco-tedesca, la posizione dominante spetta ovviamente alla Germania, la cui prestazioni economiche e finanziarie surclassano quelle della Francia. Probabilmente Berlino, se ragionasse in termini meramente egoistici – continua Dezzani – procederebbe con l’integrazione politica della sola area euro-marco (Austria, Olanda, Slovenia, Lussemburgo, Slovacchia, Estonia, Finlandia). «Ma ragioni di natura geopolitica la inducono a sobbarcarsi anche la storica rivale: la Francia dispone ancora di un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, è dotata di testate atomiche e, se abbandonata a se stessa, rischia di scivolare verso pericolose posizioni revanchiste-nazionaliste».In ogni caso, qualsiasi proposta di ulteriore integrazione europea, come l’introduzione di eurobond, è ormai circoscritta all’asse franco-tedesco. «E gli ultimi sviluppi politici in Germania, dove la destra nazionalista è in forte crescita, chiudono la porta a qualsiasi integrazione a 27 (complicando persino la convergenza tra Emmanuel Macron e Angela Merkel)», continua Dezzani. Il “resto” dell’Europa, invece, nell’ottica franco-tedesca ha un valore modesto: «Non dispiacerebbe, se possibile, annettere al neo-impero carolingio la Catalogna, regione sviluppata e contigua alla Francia. Farebbe gola anche quella “Padania” che Gianfranco Miglio sognava di federare alla Germania: il Triveneto, in particolare, è il naturale sbocco della Germania sul Mar Adriatico». E non è un caso se Luca Zaia, esponente della vecchia Lega Nord, «abbia presentato il recente referendum sull’autonomia come “una risposta al plebiscito del 18662”, che separò Venezia ed il suo retroterra all’orbita germanica». La penisola italiana nel suo complesso, però – aggiunge l’analista – non è nei desideri di Berlino. E l’improvvisa ricomparsa dei secessionismi “insulari”, in primis quello sardo, testimonia che altre cancellerie europee (Londra in testa) sono interessate allo “spezzatino” dell’Italia.«Se la Germania non ha intenzione di spendere un centesimo perché Roma rimanga agganciata all’Eurozona – ragiona Dezzani – è solo questione di tempo prima che la situazione dell’Italia, sottoposta a letali dosi di austerità (perché “smetta di vivere al di sopra dei propri mezzi”), si faccia insostenibile». In prossimità del 2018, a distanza di sette anni dall’imposizione delle ricette della Troika, l’Italia è allo stremo: «Il rapporto debito pubblico/Pil ha raggiunto livelli record», mentre «la caduta verticale dell’attività economica ha gonfiato i bilanci delle banche di crediti inesigibili». Gli indicatori occupazionali e demografici, poi, sono drammatici: «Il Sud Italia e alcune aree del Nord stanno sperimentando un vero processo di desertificazione». Se la Germania avesse interesse a tenere la penisola nell’euro, continua Dezzani, dovrebbe immediatamente invertire marcia. «Invece, tutti i segnali che provengono dal Nord vanno nella direzione di un ulteriore inasprimento dell’austerità: il testamento politico di Wolfgang Schäuble, lasciato al prossimo ministro delle finanze (un liberale ultra-rigorista?), contempla apertamente il “default ordinato” per i membri dell’Eurozona». E pesa anche il recente “ammonimento” del vicepresidente della Commissione Europea, il finlandese Jyrki Katainen, sulla «necessità di varare una manovra-bis subito dopo le elezioni». Una conferma: «Berlino non intende fare alcuno sconto all’Italia in materia di riduzione/contenimento del debito».Nel 2018, quindi, per Dezzani l’Italia avrà di fronte due strade: «La capitolazione di fronte all’asse franco-tedesco o l’uscita dall’Eurozona». La prima soluzione equivarrebbe ad inasprire ulteriormente le politiche sul lato dell’offerta (tagli alla sanità e pensioni, licenziamenti). Vorrebbe dire «taglieggiare il risparmio privato (prelievo sui conti o patrimoniale), saccheggiare quel che rimane del patrimonio pubblico (riserve di Bankitalia, immobili e partecipate) e lasciare che le ultime medie-grandi imprese italiane passino in mano straniera». Secondo Dezzani, a premere per questa soluzione è il “partito Draghi” (o “partito Bilderberg”) «che annovera, oltre al governatore della Bce, Ignazio Visco, Giorgio Napolitano, Eugenio Scalfari, Ferruccio De Bortoli, Carlo De Benedetti, Paolo Mieli, Mario Monti, Romano Prodi, gli Agnelli-Elkann». Sempre secondo Dezzani, in viste delle politiche 2016 il “partito Draghi” «punta sulla vittoria elettorale del Movimento 5 Stelle, cui andrebbe sommata in Parlamento la sinistra “prodiana”: il reddito di cittadinanza o provvedimenti analoghi sarebbero ottimi paraventi per completare con discrezione la definitiva spoliazione dell’Italia».La seconda opzione, invece, prevede l’abbandono dell’Eurozona di fronte ai diktat franco-tedeschi sempre più gravosi e umilianti. «L’uscita dalla moneta unica sarebbe emergenziale, dettata dal semplice istinto di sopravvivenza del nostro paese: non esiste al momento “un partito dell’uscita dall’euro” analogo a quello che preme per il commissariamento», osserva Dezzani: «Formazioni come la Lega Nord si sono appropriate della causa anti-euro per meri fini elettorali, senza possedere né prevedere alcun programma concreto per l’Italexit». Se non altro, «la vittoria della destra alle politiche del 2018 favorirebbe senza dubbio questa strada», secondo l’analista, che fa notare che «l’unico “boiardo di Stato” ad aver apertamente contemplato un “piano B” è stato l’economista Paolo Savona, ex-ministro del governo Ciampi». Eppure, nonostante il “partito dell’uscita dall’euro” sia ancora in gestazione, «c’è da scommettere che cresca in fretta nel corso del 2018 e, entro la fine dell’anno, prenda il sopravvento».Il progetto federativo europeo «è ormai morto», ribadisce Dezzani. E quindi, «arrendersi al commissariamento franco-tedesco significherebbe soltanto abbandonare l’Eurozona con 2-3 anni di ritardo, spogliati di ogni ricchezza residua (proprio come i governi Monti-Letta-Renzi hanno favorito il saccheggio del paese, anziché risanare le finanze)». Gli squilibri sul mercato interbancario europeo (ben visibili dai saldi dal sistema Target 2), secondo l’analista «lasciano pensare che nel mondo della finanza continentale ci si stia preparando per una Italexit nel corso dei prossimi dodici mesi». Osserva Dezzani: «Mai le banche tedesche hanno accumulato così tanto denaro presso la Bundesbank e mai, specularmente, le banche italiane si sono indebitate in maniera così alta presso Bankitalia». Un’imminente uscita dall’euro, quindi, per non essere schiacciati: contando su quali alleanze internazionali? «Evaporate in fretta le speranze riposte in Donald Trump, totalmente paralizzato dagli intrighi di Washington, solo le potenze emergenti hanno interesse a sostenere la svolta italiana: un terremoto finanziario, quindi, e geopolitico».Mario Draghi e l’élite economica italiana puntano ormai sui 5 Stelle e scommettono contro l’Italia, per ultimare la svendita dell’industria: il nostro futuro si fa sempre più minaccioso man mano che il 2018 si avvicina. All’incertezza elettorale si somma un quadro europeo ostile: la Germania non ha alcuna intenzione di concederci sconti. Forse Berlino è disposta a sobbarcarsi la Francia per ragioni geopolitiche, mentre dell’Italia le interessa solo il Veneto. Si avvicina «un commissariamento esplicito o subdolo, sulla falsariga del governo Monti», scrive Federico Dezzani. E se in Germania dovesse prevalere una linea ancora più rigorista, «non si potrebbe neanche escludere l’imposizione di un “default ordinato”». Di fronte a questo scenario, sostiene l’analista, l’Italia sarà costretta a scegliere: capitolazione o uscita dall’euro. Un soccorso, per sottrarsi all’attacco della Germania, «può venire soltanto dalle potenze emergenti». I prossimi 12-18 mesi saranno cruciali per il futuro del nostro paese e della stessa Europa, insiste Dezzani: il “nuovo sacco di Roma” è stato già preparato da Germania e Francia. L’Italia deve quindi «stringere una serie di alleanze internazionali per evitare un tristissimo epilogo». Anche perché gli “Stati Uniti d’Europa”, ammesso che qualcuno li abbia mai davvero presi in considerazione, «sono stati ormai scartati da anni».
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Il Sole 24 Ore: votate pure, intanto lo Stato non esiste più
In un paese come l’Italia, anestetizzato e abbindolato dalla propaganda e dalla disinformazione, non si è ancora capito in quale baratro ci hanno portato. E – per quanto possa sembrare incredibile – non lo hanno capito nemmeno quelli che ci hanno trascinato quaggiù. Intendo la classe politica. Infatti, alla vigilia della corsa elettorale, sui giornali si leggono annunci di programmi mirabolanti che stanno per essere sfornati dai diversi schieramenti: dal taglio delle tasse alle pensioni, dal reddito di cittadinanza ai finanziamenti allo stato sociale, dai fondi per la scuola a quelli per lottare contro la disoccupazione fino al ritorno del famoso articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Bene. C’è solo un problema: le chiavi e il portafoglio di casa nostra sono ormai in mano ad altri. In Italia non governano più gli italiani. In maniera molto chiara – quasi brutale – lo ha fatto presente Sergio Fabbrini in un inciso del suo editoriale pubblicato dal “Sole 24 Ore”, dove si legge: «I politici italiani continuano a pensare come se fossero all’interno di uno Stato sovrano indipendente». Attenzione, non sono parole pronunciate da un “pericoloso” sovranista, ma da un commentatore che – come il suo giornale – aderisce all’ideologia dell’Unione Europea. Rileggete quelle parole perché sono vere e drammatiche, sebbene quel commentatore – come la gran parte degli editorialisti dei giornali – ritenga tutto questo un gran progresso.Bisognerebbe domandare agli italiani: a voi è mai stato detto che non siamo più «uno Stato sovrano indipendente»? Vi è mai stata chiesta una chiara autorizzazione a disfarsi della nostra sovranità? Vi sono mai state spiegate le conseguenze? Ci rendiamo conto che siamo praticamente sudditi della “Grande Germania” chiamata Unione Europea? Per la verità alcune voci inascoltate lo hanno gridato ai quattro venti, ma sono state fulminate sui giornali con continue accuse di sovranismo, di populismo e di nazionalismo. Oggi, in questa Italia, un Enrico Mattei verrebbe considerato un pericolo sovranista e nazionalista. Perché costruì l’Eni avendo come bussola il nostro interesse nazionale. Nel 2017 gli sarebbe impossibile. Il giornale della Confindustria ieri c’informava del «radicale cambiamento» che si è verificato ovvero che «lo Stato nazionale non esiste più in Europa» (sic!). Ripeto: non sono parole di Salvini o della Meloni, ma degli stessi europeisti. È la realtà dei fatti. Certo, in teoria è ancora in vigore l’articolo 1 della Costituzione secondo cui “la sovranità appartiene al popolo” italiano. Ma nella realtà non è più così. Lo abbiamo visto nel 2011 quando è stato rovesciato l’ultimo governo scelto dagli italiani e lo vediamo continuamente con la sottomissione alla Ue.Quelli del centrosinistra sono stati così zelanti da andare perfino oltre ciò che l’Europa (o meglio: la Germania) chiedeva, attribuendo alle norme europee valore costituzionale. Giulio Tremonti in una intervista a “Libero” ha spiegato che «la sinistra italiana, tra il 2000 e il 2001» ha introdotto «non richiesta, nell’articolo 117 della Costituzione la formula della nostra sottomissione quando si afferma che il potere legislativo dello Stato è subordinato “ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”, intendendo per ordinamento comunitario non solo i trattati, ma anche i regolamenti e le direttive europee». È un’ idea così geniale che ovviamente gli altri Stati d’ Europa si sono ben guardati dal farsela venire. I volenterosi governanti italiani sono i soli ad averla escogitata. Così siamo obbligati a recepire tutto, bail-in compreso e non importa se contraddice l’articolo 47 della nostra Costituzione sulla tutela del risparmio. Ovviamente la decisiva perdita di sovranità c’ è stata anzitutto quando abbiamo rinunciato alla nostra moneta, errore che paghiamo salatamente.Eppure eravamo stati avvertiti anche da premi Nobel per l’ economia, come Paul Krugman, che nel 1999, sul “New York Times”, scriveva: «Adottando l’euro, l’Italia si è ridotta allo stato di una nazione del Terzo Mondo che deve prendere in prestito una moneta straniera con tutti i danni che ciò implica». Ecco la vera questione: non siamo più uno Stato sovrano e indipendente, non abbiamo più una moneta e ci vengono imposte delle politiche e delle norme che fanno l’interesse nazionale altrui, non il nostro. Ci hanno ridotto a un “fake Stato”. Una colonia. La classe politica che ci ha portato a questo punto, e che adesso fischietta distrattamente facendo finta che esista ancora uno Stato italiano sovrano e indipendente, deve rendere ragione di questa follia, alla luce dei risultati devastanti di questi anni. Se le elezioni non affrontano questo problema saranno soltanto un altro modo per prendere in giro un popolo che è stato impoverito, ingannato, tradito ed espropriato perfino della sua sovranità.(Antonio Socci, “In Italia non governano più gli italiani ma l’Europa, e non fa il nostro interesse”, dal quotidiano “Libero” del 21 novembre 2017).In un paese come l’Italia, anestetizzato e abbindolato dalla propaganda e dalla disinformazione, non si è ancora capito in quale baratro ci hanno portato. E – per quanto possa sembrare incredibile – non lo hanno capito nemmeno quelli che ci hanno trascinato quaggiù. Intendo la classe politica. Infatti, alla vigilia della corsa elettorale, sui giornali si leggono annunci di programmi mirabolanti che stanno per essere sfornati dai diversi schieramenti: dal taglio delle tasse alle pensioni, dal reddito di cittadinanza ai finanziamenti allo stato sociale, dai fondi per la scuola a quelli per lottare contro la disoccupazione fino al ritorno del famoso articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Bene. C’è solo un problema: le chiavi e il portafoglio di casa nostra sono ormai in mano ad altri. In Italia non governano più gli italiani. In maniera molto chiara – quasi brutale – lo ha fatto presente Sergio Fabbrini in un inciso del suo editoriale pubblicato dal “Sole 24 Ore”, dove si legge: «I politici italiani continuano a pensare come se fossero all’interno di uno Stato sovrano indipendente». Attenzione, non sono parole pronunciate da un “pericoloso” sovranista, ma da un commentatore che – come il suo giornale – aderisce all’ideologia dell’Unione Europea. Rileggete quelle parole perché sono vere e drammatiche, sebbene quel commentatore – come la gran parte degli editorialisti dei giornali – ritenga tutto questo un gran progresso.
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Magaldi: carabinieri, massoneria e democrazia-fantasma
Il generale Leonardo Gallitelli «graziosamente indicato da Berlusconi» come suo eventuale successore, se perdurasse l’ostracismo della pessima legge Severino che impedisce al Cavaliere di ricandidarsi? «Ci risiamo, con la retorica della brava persona estranea alla politica: non conosco il generale Gallitelli, ma so che non ci servono onesti incompetenti. Al contrario, occorrono politici a tutto tondo, ben preparati al vero, grande scontro che può salvare l’Italia, quello con Bruxelles». Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt e promotore del futuro Pdp, Partito Democratico Progressista, invoca il ritorno alla democrazia sostanziale, la cui assenza sta producendo danni devastanti a ogni livello: politico, economico e sociale. «Non ho mai risparmiato critiche a Berlusconi, perché non ha neanche mai provato ad attuare le riforme liberali che aveva promesso», premette Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio”. «Gli auguro sinceramente di poter tornare in campo, ma in modo democratico: accettando cioè di confrontarsi con Salvini e la Meloni». Regolari primarie, insomma: «E’ giusto che sia il popolo del centrodestra a scegliersi finalmente il candidato che preferisce». Senza per questo farsi troppe illusioni: «Come Berlusconi, anche la Lega e An hanno già governato a lungo, non riuscendo a risolvere né il problema immigrazione né il rapporto con l’Ue, attualmente ostaggio di eurocrati che si dicono europeisti ma sono i veri nemici dell’Europa».Pur di evitare le primarie, Berlusconi evoca la candidatura di un generale dei carabinieri? Non è il solo a utilizzare il prestigio dell’Arma in chiave elettorale: l’hanno fatto anche Antonio Ingroia e Giulietto Chiesa chiamando il generale Nicolò Gebbia a presentare il progetto della loro “Lista del Popolo”, definita anche “La Mossa del Cavallo” e ribattezzata da Magaldi “la Mossa del Somaro”, con allusione ai portatori d’acqua («i somari, appunto») cui toccherebbe mettere in piedi liste in tutta Italia, in pochissime settimane, «lasciando però l’ultima parola agli autoproclamati leader, di fatto padroni di ogni decisione». Il generale Gebbia, intanto, denuncia il ruolo occulto della massoneria nella politica: lascia anche intendere di esser stato messo da parte, nei ranghi dell’Arma, in quanto non-massone, e propone di obbligare i “grembiulini” a dichiararsi pubblicamente, se intendono concorrere a cariche pubbliche. Magaldi inorridisce: «E perché mai solo i massoni dovrebbero dichiararsi? Perché non anche esponenti di sindacati e associazioni religiose o filosofiche?». Quella contro gli aderenti alla massoneria, dice, sarebbe una grottesca discriminazione: «L’ennesima, in un paese come l’Italia, dove fa comodo fingere di non sapere che è stata proprio la massoneria a dar vita allo Stato unitario e poi a concorrere alla democrazia: era massone conclamato Meuccio Ruini, presidente della “commissione dei 75” che partorì la nostra Costituzione».Massone l’insigne giurista Pietro Calamandrei, massone il martire antifascista Giacomo Matteotti: di cosa stiamo parlando? Nel bestseller “Massoni”, pubblicato da Chiarelettere a fine 2014, Magaldi è stato il primo a rivelare, semmai, il ruolo occulto delle Ur-Lodges sovranazionali nella cabina di regia del vero potere mondiale. Ne fa cenno anche il generale Gebbia, ricordando il ruolo di protezione esercitato da Berlusconi per le truppe italiane schierate a Nassiriya, in Iraq: un intervento risolutivo, ottenuto perché «Bush e Berlusconi facevano parte della stessa loggia». Magaldi corregge l’ufficiale, allora a capo del contingente dispiegato in Iraq: «Bush tentò di affiliare Berlusconi alla superloggia “Hathor Pentalpha”, ma non vi riuscì». Nella “Hathor”, invece, era presente – scrive Magaldi nel suo libro – l’allora ministro della difesa Antonio Martino, peraltro lungamente a capo della Mount Pélerin Society, santuario europeo dell’ordoliberismo finanziario di marca reazionaria. Chiarisce Magaldi: «Ci sono massoni non solo tra i carabinieri, ma anche tra poliziotti e finanzieri. Quando viene iniziato, un massone innanzitutto giura fedeltà alla repubblica italiana. Qualcuno se ne stupisce? Non dovrebbe: proprio la massoneria è stato il maggior fautore dello Stato laico, libero e democratico, basato sul suffragio universale e non più su privilegi di casta».Il generale Gebbia si sente vittima di carabinieri massoni? «Forse dovrebbe interrogarsi sulle sue effettive benemerenze», gli risponde a distanza Magaldi, non entusiasta del profilo politico-culturale che le parole dell’anziano ufficiale lasciano trasparire, evocando la consueta “caccia alle streghe” che contraddistingue tanto mainstream, politico e giornalistico: «Siamo bravissimi a fare i duri con i piccoli massoni di provincia, magari coinvolti in maneggi bancari come quelli di Banca Etruria e Montepaschi, per poi tacere di fronte all’identità supermassonica dei veri massoni di potere», accusa Magaldi. «Rosy Bindi reclama le liste degli aderenti al Grande Oriente d’Italia e Claudio Fava propone addirittura una legge che escluda i massoni dalla politica, privandoli cioè di un fondamentale diritto civile, ma poi tutti fingono di non conoscere la cifra massonica di Mario Draghi e Anna Maria Tarantola, che in qualità di dirigenti di Bankitalia avrebbero dovuto vigilare su Mps». “Dagli al massone?” Sì, ma a patto di sorvolare sui “fratelli” che contano davvero, «per esempio Mario Monti, il devastatore dell’economia italiana, e il suo sodale Giorgio Napolitano».Pura ipocrisia italica, insiste Magaldi: anziché dare la caccia ai “grembiulini” in quanto tali (e non invece ai pericolosi oligarchi nascosti anche nei club più esclusivi della supermassoneria che conta, quella internazionale) saerebbe il caso di mettersi sulle tracce della vera, grande assente dalla scena italiana: la democrazia. Che, appunto, rischia di restare ancora largamente latitante, se è vero che il Pd renziano sembra prepararsi all’ennesimo inciucio con Berlusconi, grazie anche al disastroso Rosatellum. «L’alibi delle larghe intese sarà il solito: fermare il Movimento 5 Stelle, come se fosse un vero pericolo». Purtroppo, continua Magaldi, i 5 Stelle non sono affatto un pericolo, per l’establishment: «Al contrario, sono un movimento soporifero: dove governano, come a Roma, addormentano le istituzioni, che andrebbero invece scosse con robuste dosi di democrazia». Insieme all’economista Nino Galloni, il presidente del Movimento Roosevelt scommette sul ritorno alla sovranità finanziaria, anche monetaria: «Non è possibile che l’Europa sia governata dai cartelli bancari a capo della Bce, e dalle oligarchie private che pilotano le cancellerie. L’Italia, che resta uno dei maggiori contraenti dell’Ue, deve dire semplicemente: ci riprendiamo la nostra sovranità, oppurre arrivederci, ben sapendo che – senza l’Italia – l’Unione Europea non esiste, crolla».Proposta secca: «Una Costituzione Europea politica, validata da referendum popolari». Ipotesi completamente ignorata da Renzi, Berlusconi e 5 Stelle. «Ma sarebbe l’unica soluzione, per poter finalmente cominciare a fare sul serio». Invece, conclude Magaldi, ci tocca assistere anche alla farsa di Bersani e D’Alema, che si appellano all’articolo 1 della Costituzione dopo aver rottamato la Carta, con l’inserimento del pareggio di bilancio. «Chiamare il loro movimento “democratico e popolare”, in antitesi a Renzi, è un insulto all’intelligenza degli italiani: Renzi non ha le colpe di D’Alema e Bersani, non ha lesionato la Costituzione», sostiene Magaldi. «Persino la sua brutta proposta di riforma, quella bocciata dal referendum, non avrebbe fatto i danni delle modifiche costituzionali votate da Bersani: l’abolizione del Senato elettivo non sarebbe stata così devastante, per il paese, quanto l’obbligo costituzionale del pareggio di bilancio, che ha privato l’Italia di un fondamentale strumento di sovranità democratica». Ma non sarà così per sempre, si augura Magaldi: il paese dovrà svegliarsi dal sonno e sbarazzarsi di troppi politici mediocri e inutili, spesso anche cialtroni. Massoni e non, ma tutti agli ordini del vero potere, l’élite neo-feudale della globalizzazione privatizzatrice, «interpretata dai veri antieuropeisti, come la Merkel e gli oligarchi di Bruxelles».Il generale Leonardo Gallitelli «graziosamente indicato da Berlusconi» come suo eventuale successore, se perdurasse l’ostracismo della pessima legge Severino che impedisce al Cavaliere di ricandidarsi? «Ci risiamo, con la retorica della brava persona estranea alla politica: non conosco il generale Gallitelli, ma so che non ci servono onesti incompetenti. Al contrario, occorrono politici a tutto tondo, ben preparati al vero, grande scontro che può salvare l’Italia, quello con Bruxelles». Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt e promotore del futuro Pdp, Partito Democratico Progressista, invoca il ritorno alla democrazia sostanziale, la cui assenza sta producendo danni devastanti a ogni livello: politico, economico e sociale. «Non ho risparmiato critiche a Berlusconi, perché non ha neanche mai provato ad attuare le riforme liberali che aveva promesso», premette Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio”. «Gli auguro sinceramente di poter tornare in campo, ma in modo democratico: accettando cioè di confrontarsi con Salvini e la Meloni». Regolari primarie, insomma: «E’ giusto che sia il popolo del centrodestra a scegliersi finalmente il candidato che preferisce». Senza per questo farsi troppe illusioni: «Come Berlusconi, anche la Lega e An hanno già governato a lungo, non riuscendo a risolvere né il problema immigrazione né il rapporto con l’Ue, attualmente ostaggio di eurocrati che si dicono europeisti ma sono i veri nemici dell’Europa».
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Fake news, un network Facebook depista milioni di italiani
Un nuovo vasto network di disinformazione, fatto di siti web e pagine Facebook, è stato scoperto in Italia da un’analisi informatica e giornalistica di “Buzzfeed”. Il network, scrive “Buzzfeed”, «è proprietà di un imprenditore romano, con legami con un’associazione cattolica assai riservata, La Luce di Maria», ed è uno dei più estesi in lingua italiana tra i network organizzati che compiono operazioni di disinformazione su Facebook. Nel network circolano i contenuti e i temi classici delle propagande populiste, con una sovrapposizione tra post anti-migranti, mondo ultranazionalista, clickbaiting (ossia ricerca ingannevole dei clic, a fini di monetizzazione pubblicitaria). La cosa più interessante e inquietante è che questo network si collega – a valle – con gruppi Facebook di propaganda politica vicini ad altri network, di due aree politiche italiane in particolare, come vedremo più sotto. Facciamo un esempio di questa propaganda: se aprite il sito “direttanews.it” trovate una colonna “politica” che spinge notizie favorevoli ai Cinque Stelle o a CasaPound, oppure che attaccano personaggi come Monti, Visco, Laura Boldrini, Renzi.Il post “Monti-Visco, lo spettro di patrimoniale e nuove tasse da pagare”, per citare solo un caso, diventa virale anche dentro il fan club non ufficiale di big grillini, e sentiamo cosa dice: «Adesso l’incubo che possano essere reintrodotte nuove tasse sembra essere reale. Laura Boldrini, presidente della Camera, aveva espresso parere favorevole all’introduzione di una nuova imposta sul modello della vecchia patrimoniale. E Renzi, nella sua corsa alle elezioni, potrebbe scendere a compromessi con Mdp». Abbiamo verificato che Boldrini – una delle vittime più frequenti di questa “disinformazia” – mai si è espressa sul tema della patrimoniale; come del resto Matteo Renzi. La notizia è falsa ma virale, nel network scoperto da “Buzzfeed” (e nel network pro-M5S, con cui esistono sovrapposizioni). Al cuore del primo network, scoperto da Craig Silverman e Alberto Nardelli, «c’è Giancarlo Colono, e la sua società chiamata Web365». La società controlla 175 domini Internet, e una rete di pagine Facebook. News, salute, calcio, gattini e gossip: la medesima catena di altre galassie di disinformazione, comprese quelle più vicine a precisi partiti politici italiani.Allarmismo, attacchi forsennati ai migranti, xenofobia, false storie, islamofobia sono i temi ricorrenti di questa rete. Assieme – sostiene “Buzzfeed” – a propaganda pro-Putin e anticasta. I due principali siti di “news operations”, «operazioni legate alle notizie», sono “direttanews.it” e “inews24.it”. Ieri le relative pagine Facebook risultavano chiuse. Si tratta di un network che può raggiungere tra gli otto e i dieci milioni di “like” su Facebook, più della somma di due dei tre principali quotidiani italiani. Colono ha dichiarato che uno degli account Facebook sottopostigli da “Buzzfeed”, e più strettamente interconnessi al network, è “fake” (cosa che secondo le “policy” di Facebook sarebbe vietata). Intestato a tale “Roberto Granieri”, è la porta che conduce dal sito “Inews24” fin dentro una serie di gruppi Facebook «aperti o chiusi, di estrema destra, nazionalisti, anti-migranti, anti-Islam, come anche dentro gruppi pro-Putin, pro M5S, e gruppi inneggianti a Matteo Salvini». Una fonte a conoscenza delle analisi di “Buzzfeed” spiega: «Attraverso queste sovrapposizioni il network entra in un altro network, quello delle pagine fan club che usano i nomi dei big grillini». Pagine non ufficiali, giova ripeterlo, ma – per quanto riguarda le pagine filogrilline – a loro volta centralissime in un’altra rete raccontata a lungo da “La Stampa”.(Jacopo Iacoboni, “Xenofobia, Putin, anticasta: in Italia un nuovo network di disinformazione su Facebook”, da “La Stampa” del 22 novembre 2017).Un nuovo vasto network di disinformazione, fatto di siti web e pagine Facebook, è stato scoperto in Italia da un’analisi informatica e giornalistica di “Buzzfeed”. Il network, scrive “Buzzfeed”, «è proprietà di un imprenditore romano, con legami con un’associazione cattolica assai riservata, La Luce di Maria», ed è uno dei più estesi in lingua italiana tra i network organizzati che compiono operazioni di disinformazione su Facebook. Nel network circolano i contenuti e i temi classici delle propagande populiste, con una sovrapposizione tra post anti-migranti, mondo ultranazionalista, clickbaiting (ossia ricerca ingannevole dei clic, a fini di monetizzazione pubblicitaria). La cosa più interessante e inquietante è che questo network si collega – a valle – con gruppi Facebook di propaganda politica vicini ad altri network, di due aree politiche italiane in particolare, come vedremo più sotto. Facciamo un esempio di questa propaganda: se aprite il sito “direttanews.it” trovate una colonna “politica” che spinge notizie favorevoli ai Cinque Stelle o a CasaPound, oppure che attaccano personaggi come Monti, Visco, Laura Boldrini, Renzi.
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Pareggio di bilancio, Orlando: mi vergogno, la Bce ci ricattò
«Se non inserite il pareggio di bilancio nella Costituzione, vi tagliamo i viveri: restate a secco, senza stipendi». Così la Bce di Mario Draghi ricattò il governo, che dovette piegarsi: la norma ammazza-Italia fu varata l’8 maggio 2012 dall’esecutivo guidato dal super-tecnocrate Mario Monti, per avere effetto a partire dal 2014. A rivelarlo è il ministro della giustizia, Andrea Orlando. Lo ricorda “ByoBlu”, il video-blog di Claudio Messora, che rende pubblico un frammento della conversazione tra Orlando, il giurista Gustavo Zagrebelsky e la giornalista Silvia Truzzi, durante la festa del “Fatto Quotidiano” il 2 settembre 2016. «Speriamo che questa confessione muova gli elettori e i cittadini verso la scelta di governi più decisi nella tutela dei loro interessi», scrive “Scenari Economici”, riproponendo le dichiarazioni rese dal ministro, esponente del Pd. «Oggi noi stiamo vivendo un enorme conflitto tra democrazia ed economia. Oggi, sostanzialmente, i poteri sovranazionali sono in grado di bypassare completamente le democrazie nazionali», dice Orlando, in modo esplicito: «I fatti che si determinano a livello sovranazionale, i soggetti che si sono costituiti a livello sovranazionale, spesso non legittimati democraticamente, sono in grado di mettere le democrazie di fronte al fatto compiuto».Aggiunge Orlando: «La modifica – devo dire abbastanza passata sotto silenzio – della Costituzione per quanto riguarda il tema dell’obbligo di pareggio di bilancio non fu il frutto di una discussione nel paese». Quella decisione, continua il ministro, «fu il frutto del fatto che a un certo punto la Banca Centrale Europa, più o meno – ora la brutalizzo – disse: “O mettete questa clausola nella vostra Costituzione, o altrimenti chiudiamo i rubinetti e non ci sono gli stipendi alla fine del mese”». Nessuno aveva mai rivelato questo retroscena, perlomeno in termini così chiari. E spicca, anche nel passaggio seguente, la sincerità politica di Andrea Orlando: «Io devo dire che è una delle scelte di cui mi vergogno di più, mi vergogno di più di aver fatto». E insiste: «Io penso che sia stato un errore approvare quella modifica. Non tanto per il merito, che pure è contestabile, ma per il modo in cui si arrivò a quella modifica di carattere costituzionale». Commenta “Scenari Economici”, il newsmagazine di Antonio Maria Rinaldi: «Vi rendete conto del peso di queste parole? Un’entità non eletta da nessuno può ricattare e piegare un governo democraticamente eletto!».E’ la drammatica verità, confessata – con insolita franchezza, per un politico – da un esponente del governo italiano: un’ammissione di completa impotenza. «I governi nazionali appaiono deboli fantocci nelle mani di poteri superiori», sintetizza “Scenari Economici”: «Nessun rispetto del popolo, nessun rispetto della Costituzione, solo sopraffazione e applicazione della legge del più forte! I politici appaiono solo come piccoli burattini senza coraggio». Il pareggio di bilancio è notoriamente una norma “suicida”, figlia dell’ideologia neoliberista e imposta per amputare, deliberatamente, la capacità di spesa, cioè di investimento. «Il deficit pubblico è, al netto, la ricchezza reale dei cittadini, imprese e famiglie», sottolinea Paolo Barnard. «Al contrario, il pareggio di bilancio prefigura un “saldo zero”: lo Stato non spende per i cittadini più di quanto i cittadini stessi non versino in tasse». Risultato: la morte clinica dello Stato come motore finanziario dell’economia nazionale privata. «E’ perfettamente inutile tagliare le tasse – ricorda l’economista Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt – se prima non si aumenta la spesa pubblica, senza la quale va in sofferenza il comparto economico privato».Tra i silenziosi “approvatori” della norma-killer, per l’economia italiana, figura anche Pierluigi Bersani, allora leader del Pd, che impose al suo gruppo parlamentare di piegare la testa di fronte al ricatto dell’oligarchia eurocratica, pur sapendo che il pareggio di bilancio avrebbe compromesso quella stessa Costituzione in nome della quale, lo scorso 4 dicembre, si alzarono barricate contro la proposta renziana di porre fine al bicameralismo perfetto, sopprimendo il Senato elettivo. Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, ha più volte denunciato l’ipocrisia bersaniana: «Com’è possibile oggi appellarsi esplicitamente all’articolo 1 della Costituzione “fondata sul lavoro”, se si è votato per lesionarla, quella Carta costituzionale, impedendole di garantire posti di lavoro?». Dopo lo strappo con Renzi, Bersani e Speranza hanno dato vita a Mdp insieme a D’Alema, cioè l’uomo che si vantò – da premier – di aver fatto registrare il record europeo nelle privatizzazioni. Oggi, di fronte allo sbando generale della politica – nessun vero programma salva-Italia da Pd, Berlusconi e 5 Stelle – non può che stupire la franchezza di un politico come Andrea Orlando: abbiamo sbagliato, dice, e me ne vergogno.«Se non inserite il pareggio di bilancio nella Costituzione, vi tagliamo i viveri: restate a secco, senza stipendi». Così la Bce di Mario Draghi ricattò il governo, che dovette piegarsi: la norma ammazza-Italia fu varata l’8 maggio 2012 dall’esecutivo guidato dal super-tecnocrate Mario Monti, per avere effetto a partire dal 2014. A rivelarlo è il ministro della giustizia, Andrea Orlando. Lo ricorda “ByoBlu”, il video-blog di Claudio Messora, che rende pubblico un frammento della conversazione tra Orlando, il giurista Gustavo Zagrebelsky e la giornalista Silvia Truzzi, durante la festa del “Fatto Quotidiano” il 3 settembre 2016. «Speriamo che questa confessione muova gli elettori e i cittadini verso la scelta di governi più decisi nella tutela dei loro interessi», scrive “Scenari Economici”, riproponendo le dichiarazioni rese dal ministro, esponente del Pd. «Oggi noi stiamo vivendo un enorme conflitto tra democrazia ed economia. Oggi, sostanzialmente, i poteri sovranazionali sono in grado di bypassare completamente le democrazie nazionali», dice Orlando, in modo esplicito: «I fatti che si determinano a livello sovranazionale, i soggetti che si sono costituiti a livello sovranazionale, spesso non legittimati democraticamente, sono in grado di mettere le democrazie di fronte al fatto compiuto».
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A come Austerity, dal clown Katainen al club Draghi-Padoan
Nei giorni scorsi, in occasione della riunione del collegio dei commissari europei tenutasi a Strasburgo, il vicepresidente finlandese della Commissione Europea, Jyrki Katainen, ha lanciato un monito al governo italiano affinché rispetti l’impegno preso in merito ai conti pubblici e racconti “la verità” agli italiani. «Sostanzialmente – sintetizza Daniela Corda su “Rete Mmt” – ciò che Katainen rimprovera al governo è di non aver tirato abbastanza la cinghia affinché i cittadini e le aziende soffrissero un po’ di più». Nonostante l’austerità portata avanti dell’esecutivo con la “spending review”, e malgrado i tagli selvaggi alla spesa pubblica e il ridimensionamento della spesa in deficit, il risultato per Katainen non è ancora soddisfacente: occorre ancora più rigore, servono «ancora più lacrime e sangue». Si dovrebbe ridurre ulteriormente il rapporto deficit-Pil dello 0,6%, ma nella legge di bilancio presentata lo scorso ottobre il governo Gentiloni si è impegnato per un misero 0,3%. Peccato che proprio il deficit pubblico «è quello che resta ai cittadini e alle aziende al netto delle tasse», ricorda il blog ispirato alla Modern Money Theory, introdotta in Italia da Paolo Barnard. «Una riduzione del deficit comporta un ulteriore impoverimento del settore privato».L’aspetto più sconcertante della vicenda è la pervicacia “sovietica” con cui l’oligarchia finanziaria neo-feudale che la colonizzato le istituzioni europee, piazzando nei posti-chiave personaggi come l’oscuro Katainen, insiste del reiterare la grande menzogna ideologica neoliberista, in base alla quale si restituisce salute all’economia tagliando la spesa pubblica. Dogma bugiardo: è vero esattamente il contrario, come ricorda un grande economista post-keynesiano come Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt. «Il problema non sta neppure nel carico fiscale: non serve tagliare le tasse, se prima non ampli la spesa, perché solo l’investimento pubblico in termini di deficit può rilanciare l’economia, incrementando infine anche il gettito erariale». Una verità palese, che appartiene all’abc della scienza economica, ma che l’oligarchia Ue continua a sovvertire, nonostante la catastrofe che ha provocato, negli ultimi anni, mettendo in sofferenza l’intero continente. Niente si strano, quindi, se ora il “falco” di turno ripete, a pappagallo, che «lo scarso impegno dell’Italia nel consolidamento dei conti metterà a rischio la tenuta del welfare italiano».Katainen, come giù i suoi “colleghi” eurocrati, da Draghi a Monti, prefigura «conseguenze disastrose» se l’Italia non farà harakiri fino in fondo. «Ad aver distrutto il welfare italiano sono proprio le politiche di austerità che stanno a cuore al commissario finlandese», obietta Daniela Corda: «È vero che gli italiani devono conoscere la verità», ma devono sapere che «non è quella di Katainen». Ovvero: «Più il governo si piegherà alle richieste della Commissione Europea, più la situazione economica peggiorerà». Nei prossimi giorni, aggiunge il blog “Rete Mmt”, da Bruxelles arriverà un’altra lettera al governo italiano, con la quale la Commissione Europea chiederà “spiegazioni” sulla legge di bilancio e, come al solito, invocherà “maggiore impegno” sul fronte dei conti pubblici. Quello che la maggior parte degli italiani non sanno, spiega Gioele Magaldi, autore del saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata”, è che l’uomo in prima linea nelle trattative con Bruxelles – il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan – appartiene a pieno titolo «alla rete neo-aristocratica della supermassoneria sovranazionale», quella della Ur-Lodge “Three Eyes”, inserita «nello stesso circuito dell’élite più reazionaria al quale appartiene lo stesso Draghi, insieme a Monti e Napolitano». Sono gli uomini che hanno “firmato” la drammatica escalation dell’austerity nel 2011, col pretesto artificiale dello “spread”: dalla legge Fornero sulle pensioni alla mutilazione della Costituzione, deturpata dall’inserimento dell’aberrante pareggio di bilancio (votato anche da Bersani e compagni).Lo stesso Padoan sta cercando di destreggiarsi tra Roma e Bruxelles, alla ricerca di mediazioni che consentano a Gentiloni e Renzi di non rimetterci l’osso del collo? «Quella stessa élite non è un monolite, in questo periodo alcuni suoi esponenti – come il berlusconiano Antonio Tajani – stanno inviando segnali di insofferenza rispetto al perdurare dell’austerity», segnala il saggista Gianfranco Carpeoro, sodale di Magaldi. Come dire: la “cupola” di potere che ha ridotto l’Ue a una caserma punitiva sta cominciando a mostrare le prime crepe, persino delle file dell’ala più conservatrice? Non è questo, però, il caso dell’oltranzista finlandese Katainen: «Dovremmo pensare alle lettere della Commissione Ue come ai palloncini rossi di “It”, quelli che il mostro del celebre romanzo di Stephen King mostrava ai bambini prima di ucciderli», scrive Daniela Corda. «Jyrki Katainen, in questo momento, potrebbe ben rappresentare “It” nella vita reale. Sta a noi decidere se dare retta a un clown che cerca di abbindolarci con un palloncino rosso e che in realtà vuole ammazzarci con l’austerità, oppure ripudiare il mostro e i suoi artefici studiando la macroeconomia». Solo così, conclude Corda, «possiamo vedere quel palloncino rosso per quello che è: una terrificante politica antisociale e antidemocratica».Nei giorni scorsi, in occasione della riunione del collegio dei commissari europei tenutasi a Strasburgo, il vicepresidente finlandese della Commissione Europea, Jyrki Katainen, ha lanciato un monito al governo italiano affinché rispetti l’impegno preso in merito ai conti pubblici e racconti “la verità” agli italiani. «Sostanzialmente – sintetizza Daniela Corda su “Rete Mmt” – ciò che Katainen rimprovera al governo è di non aver tirato abbastanza la cinghia affinché i cittadini e le aziende soffrissero un po’ di più». Nonostante l’austerità portata avanti dell’esecutivo con la “spending review”, e malgrado i tagli selvaggi alla spesa pubblica e il ridimensionamento della spesa in deficit, il risultato per Katainen non è ancora soddisfacente: occorre ancora più rigore, servono «ancora più lacrime e sangue». Si dovrebbe ridurre ulteriormente il rapporto deficit-Pil dello 0,6%, ma nella legge di bilancio presentata lo scorso ottobre il governo Gentiloni si è impegnato per un misero 0,3%. Peccato che proprio il deficit pubblico «è quello che resta ai cittadini e alle aziende al netto delle tasse», ricorda il blog ispirato alla Modern Money Theory, introdotta in Italia da Paolo Barnard. «Una riduzione del deficit comporta un ulteriore impoverimento del settore privato».
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Se l’Ue perde la Merkel, spietata esecutrice degli oligarchi
Senza Angela Merkel alla testa dell’Europa, chi lotterà contro la svolta a destra di Polonia e Ungheria in materia di immigrazione? Chi scongiurerà una Grexit? Chi, soprattutto, ricatterà-blandirà l’Italia per evitare una sua uscita dall’euro nel 2018? «Il tramonto di Angela Merkel», scrive Federico Dezzani, «risolleva le sorti del 2017 e getta le basi per un 2018 esplosivo: il governatore della Banca Centrale Europa, Mario Draghi, è ormai il solo, vero, ostacolo alla dissoluzione dell’euro». E dire che erano le presidenziali francesi in prinmavera, ad apparire come l’unico appuntamento elettorale del 2017 capace di destabilizzare l’Eurozona: nessuna sorpresa, invece, era attesa dalle elezioni federali tedesche dove, grazie al sistema proporzionale, la riconferma di Angela Merkel alla cancelleria era data per scontata. Il crollo della Spd e il timore degli altri partiti di andare incontro a un destino analogo hanno però vanificato i tentativi di formare una nuova coalizione di governo. «Il ritorno alle urne è probabile», in Germania. «E la Cdu, questa volta, correrebbe senza Angela Merkel», osserva Dezzani. «La caduta dell’ultima “paladina del mondo liberale” imprime nuovo slancio alla disgregazione dell’Unione Europea».Sconfitta Marine Le Pen, ricorda Dezzani nel suo blog, «l’attenzione si è progressivamente spostata alle elezioni italiane del 2018, considerate l’unica incognita per il fantomatico rilancio del processo di integrazione europea». Pochi colpi di scena si aspettavano dalla Germania, «dove le solide prestazioni economiche (rispetto agli altri membri della Ue), il provvidenziale blocco della “via balcanica” (primavera 2016) e l’accomodante sistema proporzionale ponevano le basi per la nascita, senza difficoltà, del quarto governo Merkel». Era improbabile che il voto tedesco del 24 settembre producesse scossoni sull’establishment politico tedesco tali da decretare la fine della cancelliera, pericolosa per la stabilità della già precaria Unione Europea. «Il logoramento di Angela Merkel si è sviluppato in sordina, sfociando in un’aperta crisi politica soltanto a distanza di due mesi dal voto», annota Dezzani. «È stata una caduta a rallentatore, ma non per questo meno rovinosa per gli equilibri europei». Dalle elezioni è uscito un Bundestag «incapace di esprimere un chiaro esecutivo», rendendo infruttuose le consultazioni per l’ipotetica “coalizione Giamaica” formata da Cdu-Csu, Verdi e Liberali.Proprio i liberali, fa notare Dezzani, hanno rifiutato la linea in materia di immigrazione emersa durante in negoziati, «piombando così la Germania nella più grave crisi istituzionale del dopoguerra: le possibilità che Angela Merkel sopravviva all’incidente sono ormai minime». Se a Bruxelles c’è chi tifa per un governo di minoranza ancora presieduto dalla Merkel, «lo scenario più realistico è un rapido ritorno alle urne, dove la Cdu, già indebolita dalla peggiore prestazione elettorale degli ultimi 70 anni, sarebbe obbligata a sbarazzarsi di Angela Merkel», scelta (ma in realtà imposta) come presidente del partito nel lontano 2000 «a discapito di Wolfgang Schäuble, neutralizzato con la “Tangentopoli tedesca”». La ragione del fallimento dei negoziati? «Va cercata nel sistema di potere adottato da Angela Merkel», sistema che oggi «lascia la Cdu senza un delfino pronto a raccogliere la sua eredità». Spiega Dezzani: «Angela Merkel, il cui unico obiettivo è stato sin dai primi anni ‘90 la conquista e la conservazione della cancelleria federale, ha sempre sfruttato, svuotato e, infine, abbandonato qualsiasi alleato. Consumatone uno, ne cercava un altro, assicurandosi soltanto di rimanere al centro della scena politica», peraltro «con grande soddisfazione dei suoi padrini atlantici».Il gioco è andato avanti per 12 anni, pima di rompersi sull’onda dell’emergenza migratoria. L’esordio è del 2005, con la Merkel a capo di una Grande Coalizione con la Spd e i Verdi. Alle elezioni successive, ricorda Dezzani, la Spd ne esce a pezzi: e la cancelliera, di conseguenza, forma il nuovo governo con i liberali. Quindi nel 2013 sono i liberali a crollare, e così la Merkel «riallaccia i rapporti con i socialisti della Spd, ridotti nuovamente a semplice satellite della cancelliera». Trascorrono quattro anni e, nel 2017, la Germania torna al voto: la Spd registra il peggiore risultato di sempre (20%), inducendo la cancelliera a cercare un’intesa con i precedenti alleati liberali, cui deve sommare anche i Verdi per sopperire al salasso di voti subito dalla Cdu-Csu (dal 41% al 32%). Ora, ragionano i liberali: perché mai dovremmo farci spremere e poi gettar via come nel 2009, solo per garantire alla Merkel altri quattro anni alla cancelleria? Merkel: chi tocca muore. Nessuno sopravvive all’alleanza. Questo spiega la volontà generalizzata dei partiti tedeschi di tornare al voto il prima possibile: tutti, sottolinea Dezzani, «vogliono evitare l’ennesimo abbraccio mortale della cancelliera, la cui immagine, oltretutto, è ormai indissolubilmente compromessa dalla crisi migratoria del 2015».Assumendo quindi che il destino di Angela Merkel sia ormai segnato, quali previsioni si possono formulare per la Germania e l’Unione Europea? Dezzani ricorda innanzitutto quali interessi rappresenta la cancelliera, definita dal “New York Times” «the Liberal West’s Last Defender», l’ultima paladina dell’ordine liberale. In virtù del primato economico della Germania, la Merkel è «il politico che ha chiesto e ottenuto il coinvolgimento del Fondo Monetario Internazionale nei “salvataggi europei”, che ha favorito il saccheggio dell’europeriferia da parte della finanza internazionale, che ha avvallato il golpe italiano del 2011, che ha imposto le sanzioni contro la Russia al resto dell’Europa, che ha incentivato la politica migratoria di George Soros, che ha sinora garantito l’integrità dell’Eurozona nel bene e nel male, che ha raccolto la guida dell’ordine mondiale “liberale” dopo l’insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump (surriscaldamento climatico, difesa della globalizzazione, etc)».Per Dezzani, l’uscita di scena della Merkel avrebbe conseguenze traumatiche per il potere Ue: «La Germania si prepara, una volta liberatasi dalla tutela di Angela Merkel, a spostarsi ulteriormente “a destra”: non si intende soltanto un travaso di voti verso i falchi della Cdu-Csu o “Alternativa per la Germania”, ma anche un diverso approccio di Berlino negli affari esteri». Secondo Dezzani, senza la Merkel alla cancelleria federale, «la Germania sarà più nazionalista e “continentale”, meno liberale e atlantica». Parallelamente, «l’uscita di scena di Angela Merkel complica ulteriormente i progetti di integrazione franco-tedeschi, già indeboliti dal rapido sfaldamento della presidenza Macron, e accelera le spinte centrifughe nel resto dell’Europa».Senza Angela Merkel alla testa dell’Europa, chi lotterà contro la svolta a destra di Polonia e Ungheria in materia di immigrazione? Chi scongiurerà una Grexit? Chi, soprattutto, ricatterà-blandirà l’Italia per evitare una sua uscita dall’euro nel 2018? «Il tramonto di Angela Merkel», scrive Federico Dezzani, «risolleva le sorti del 2017 e getta le basi per un 2018 esplosivo: il governatore della Banca Centrale Europa, Mario Draghi, è ormai il solo, vero, ostacolo alla dissoluzione dell’euro». E dire che erano le presidenziali francesi, in primavera, ad apparire come l’unico appuntamento elettorale del 2017 capace di destabilizzare l’Eurozona: nessuna sorpresa, invece, era attesa dalle elezioni federali tedesche dove, grazie al sistema proporzionale, la riconferma di Angela Merkel alla cancelleria era data per scontata. Il crollo della Spd e il timore degli altri partiti di andare incontro a un destino analogo hanno però vanificato i tentativi di formare una nuova coalizione di governo. «Il ritorno alle urne è probabile», in Germania. «E la Cdu, questa volta, correrebbe senza Angela Merkel», osserva Dezzani. «La caduta dell’ultima “paladina del mondo liberale” imprime nuovo slancio alla disgregazione dell’Unione Europea».
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Italia sconfitta: non solo calcio, è il paese a non vincere più
«Personalmente vedo l’uscita dell’Italia dal girone finale dei mondiali di calcio come la Nemesi, la giusta punizione per un paese cantato da Dante quale regno dell’ignavia». Mai definizione fu più azzeccata, per Mitt Dolcino, che ricorda: nel 1996 la sconfitta con la Corea fermò l’invasione dei calciatori stranieri in Italia, concentrandosi sugli italiani e portando in dote il mondiale 15 anni dopo. Che farà l’Italia, ora che anche i giovani italiani scappano? Dettaglio: queste note profetiche, Dolcino le ha scritte (su “Scenari Economici”) prima di conoscere l’esito del catastrofico match di San Siro, conclusosi a reti inviolate tra le lacrime dell’eroe nazionale Buffon. Calcio a parte: un segnale sinistro, simbolico e inquietante, per un’Italia che non riesce più a vincere. Fuor di metafora: «C’è una regola abbastanza affidabile: vittorie ricorrenti nello sport arrivano quando un paese funziona, nel caso del calcio quando l’economia “tira” almeno in certi settori in cui il paese rappresentato eccelle». Questo vale certamente per l’Italia, assicura Dolcino: i 4 mondiali di calcio vinti dalla nazionale azzurra «sono arrivati a seguito di grandi miglioramenti differenziali a livello economico». Anche il mitico “mundial” spagnolo del 1982, quello di Bearzot (con Pertini al seguito) arrivò dopo l’aggancio della ripresa Usa spinta da Reagan.Stesso discorso per i mondiali pre-bellici, continua Dolcino, in cui «la crescita innescata dalle conquiste fasciste – prima di fare la follia di seguire Hitler – aveva dato nuova linfa alla speranza italica». La stessa “ratio” vale anche per il mondiale del 2006, quando l’Italia «era il darling europeo degli anglosassoni, con la proficua guerra in Iraq, mentre Germania e Francia arrancavano nel Vecchio Continente, incazzate con gli italiani troppo filo-Usa». Tutto sommato «anche per Italia ’90 si poteva vincere», visto che «l’economia italiana pre-Tangentopoli tirava alla grande». Dolcino ricorda anche «i trionfi sportivi del venerato Moro di Venezia figlio di Montedison, azienda poi svenduta ai francesi per via di una tangente pagata alla magistratura milanese». Agli sfortunati mondiali Usa 2000 «si poteva vincere sulle ali dell’illusione speranzosa – mal riposta – della scellerata entrata nell’euro». Oggi, invece, «l’Italia è letteralmente annichilita dallo schema che la Germania ha imposto attraverso l’euro, un piano per affossare il più grande alleato Usa non-anglosassone in Europa».Peggio: «L’Italia è prossima al fallimento economico». Nei piani franco-tedeschi «il prossimo anno arriverà la Troika per disporre degli asset nazionali più preziosi, in presenza di una classe politica nazionale non-eletta che, da 4 governi, fa gli interessi stranieri e non quelli italiani». Non poteva conoscere il risultato di Italia-Svezia, Dolcino, quando scriveva: «Pensate davvero che possa vincere i mondiali un paese al collasso, prossimo al fallimento, con l’Inps che deve attingere per oltre 100 miliardi di euro annui ai bilanci statali per non fallire?». Pensate davvero che possa farcela, un paese «con crescita del Pil nulla o quasi, con centinaia di migliaia di disperati che arrivano sulle coste», quelli che per la sinistra «saranno il futuro»? Questo è un paese «con le tasse più alte d’Europa per le imprese». In altre parole: così, non si va da nessuna parte (nemmeno ai mondiali di calcio, infatti). Il parallelo con il pallone è suggestivo e impietoso: «Il Milan del Cavaliere vinceva perchè l’economia tirava, perchè il Cavaliere fu un grande condottiero sportivo, perchè c’erano delle nicchie con enorme valore associato che permettevano al calcio italiano di eccellere».Oggi c’è qualcosa o qualcuno che eccelle in Italia? Voi direte, la Ferrari o qualcosa del genere. Vero, ma allora dovreste tifare Olanda, visto che la sede è là». Colpa delle delocalizzazioni? Certo, «imposte da tasse altissime, come conseguenza del rigore euro-imposto». La fuga delle aziende ormai ha lasciato «il deserto economico (e sociale)», vale a dire «un paese con bassi stipendi, dormitorio di vecchi, a forte emigrazione di italiani capaci e formati, serbatoio di manodopera a basso costo, con masse consumanti ma non risparmianti in quanto il valore aggiunto deve rimanere per forza oltre Gottardo. E tutto questo per preciso volere euro-tedesco». Come non far giungere il nostro sentito grazie agli ultimi quattro premier, tutti rigorosamente non-eletti? Monti e Letta, Renzi e Gentiloni: grazie, «per non aver difeso il paese». Scriveva Dolcino, alla vigilia di Italia-Svezia: «Sappiate che non gioirò per l’eventuale mancata qualifica, spero anzi che l’Italia possa farcela. Ad ogni modo non tutto il male vien per nuocere: se la mancata qualifica potesse essere utile a farvi capire che l’Italia è davvero nella cacca fino al collo – al contrario di quello che i media cooptati al potere europeo vogliono farvi credere, per tenervi tranquilli – beh, questo sarebbe davvero un ottimo risultato. Meglio di una vittoria sportiva».Campane a morto per l’Italia: «Personalmente vedo l’uscita dal girone finale dei mondiali di calcio come la Nemesi, la giusta punizione per un paese cantato da Dante quale regno dell’ignavia». Mai definizione fu più azzeccata, per Mitt Dolcino, che ricorda: nel 1996 la sconfitta con la Corea fermò l’invasione dei calciatori stranieri in Italia, concentrandosi sugli italiani e portando in dote il mondiale 15 anni dopo. Che farà l’Italia, ora che anche i giovani italiani scappano? Dettaglio: queste note profetiche, Dolcino le ha scritte (su “Scenari Economici”) prima di conoscere l’esito del catastrofico match di San Siro, conclusosi a reti inviolate tra le lacrime dell’eroe nazionale Buffon. Calcio a parte: un segnale sinistro, simbolico e inquietante, per un’Italia che non riesce più a vincere. Fuor di metafora: «C’è una regola abbastanza affidabile: vittorie ricorrenti nello sport arrivano quando un paese funziona, nel caso del calcio quando l’economia “tira” almeno in certi settori in cui il paese rappresentato eccelle». Questo vale certamente per l’Italia, assicura Dolcino: i 4 mondiali di calcio vinti dalla nazionale azzurra «sono arrivati a seguito di grandi miglioramenti differenziali a livello economico». Anche il mitico “mundial” spagnolo del 1982, quello di Bearzot (con Pertini al seguito) arrivò dopo l’aggancio della ripresa Usa spinta da Reagan.