Archivio del Tag ‘martirio’
-
A Milano tutta la verità sulla scomparsa di Federico Caffè
Nella notte fra il 14 e il 15 aprile del 1987 lasciò la sua casa di Roma, dove viveva con il fratello. Non fu mai ritrovato: la scomparsa di Federico Caffè rimane tuttora un mistero irrisolto. Non per tutti, però: «La sua sparizione è strettamente connessa con due omicidi eccellenti, quello di Olof Palme e quello di Thomas Sankara». Lo afferma Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” che illumina insospettabili retroscena sulla massoneria di potere che ha imposto l’attuale globalizzazione. Clamorose rivelazioni in vista, a quanto pare, nell’ambito del convegno promosso a Milano il 3 maggio dal Movimento Roosevelt. Del professor Caffè – vero e proprio cervello dell’economia keynesiana nel dopoguerra – parlerà anche un suo illustre allievo, l’economista Nino Galloni, svelando ulteriori dettagli inediti sul giallo della sua scomparsa. Tema dell’assise: presentare pubblicamente il Movimento Roosevelt come laboratorio politico nato per uscire dal tunnel del neoliberismo e riconquistare la perduta sovranità democratica. La ricetta? Il socialismo liberale di Carlo Rosselli, marginalizzato già durante il fascismo dagli stessi socialisti. Due eredi di questa dottrina – lo svedese Palme e l’africano Sankara – furono assassinati nel giro di pochi mesi, a cavallo della sparizione di Caffè.Cosa c’era in ballo? Il nuovo assetto del mondo: l’imminente crollo dell’Urss e l’avvento della “dittatura” tecnocratica di Bruxelles, fondata sull’austerity. Fino al dilagare del neoliberismo globalizzato, dominato dalla finanza predatoria. Nel saggio “Il più grande crimine”, Paolo Barnard indica una data precisa per l’inizio della grande restaurazione, da parte dell’élite antidemocratica: il 1971, anno in cui a Wall Street l’avvocato d’affari Lewis Powell fu incaricato dalla Camera di Commercio Usa di redigere il famigerato Memorandum per la riconquista del potere da parte dell’oligarchia, costretta sulla difensiva per decenni in tutto l’Occidente grazie alla storica avanzata del progressismo liberale, socialista e sindacale. Era il segnale della “fine della ricreazione”: da allora, sempre meno diritti – per tutti. Ci vollero anni, naturalmente, per passare ai fatti. E’ del 1975 il manifesto “La crisi della democrazia”, commissionato dalla Trilaterale a Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki. La tesi: troppa democrazia fa male. Parola d’ordine: togliere agli Stati il potere di spesa, necessario per alimentare il welfare e quindi il benessere diffuso.Cinque anni dopo esplosero Ronald Reagan negli Stati Uniti e Margaret Thatcher nel Regno Unito. Cattivi maestri: l’austriaco Friedrich von Hayek e l’americano Milton Friedman, economista della Scuola di Chicago. Stesso dogma: tagliare il debito pubblico, rinunciare al deficit. Pareggio di bilancio: meno soldi al popolo, all’economia reale. Un incubo, culminato con i recentissimi orrori del rigore europeo, capace di martirizzare la Grecia lasciando gli ospedali senza medicine per i bambini. Come si è potuti arrivare a tanto? In molti modi, e attraverso infiniti passaggi. Il primo dei quali è tristemente noto: la demolizione di John Maynard Keynes, il più eminente economista del ‘900. Se il lascito di Marx aveva forgiato la coscienza sociale degli operai, sfruttati dal capitalismo selvaggio, l’inglese Keynes escogitò un sistema perfetto per rimettere in equilibrio capitale e lavoro, attraverso la leva finanziaria strategica dello Stato. Ereditando un’America messa in ginocchio dalla Grande Depressione del 1929, Roosevelt con il New Deal fece esattamente il contrario di quanto gli aveva consigliato la destra economica: anziché tagliare la spesa per “risanare” i conti pubblici, mise mano a un deficit illimitato per creare lavoro.L’altra mossa, decisiva, fu il Glass-Steagall Act: netta separazione tra banche d’affari e credito ordinario, per evitare che i risparmi di famiglie e imprese finissero ancora una volta nella roulette della Borsa. Un atto eroico, la guerra contro la finanza speculativa, rinnegato – a distanza di mezzo secolo – dal “progressista” Bill Clinton, subito dopo il famoso sexgate che l’aveva travolto, l’affare Monica Lewinsky. Nel frattempo, in Europa, era stato Tony Blair a rottamare il socialismo liberaldemocratico dei laburisti, inaugurando – con Clinton – la sciagurata “terza via” che avrebbe condotto l’ex sinistra a smarrire se stessa. Desolante il caso italiano: passando per Romano Prodi, lo smantellatore dell’Iri, si va dal Massimo D’Alema che nel 1999 si vantava di aver trasformato Palazzo Chigi in una merchant bank, realizzando il record europeo delle privatizzazioni, per arrivare all’infimo Bersani, capace nel 2011 si sottomettere il Pd al governo Monti, sottoscrivendo i tagli senza anestesia, il Fiscal Compact, la legge Fornero sulle pensioni e il pareggio di bilancio in Costituzione.Una pesca miracolosa, quella condotta dall’élite tra le fila dell’ex sinistra: a partire dallo storico divorzio fra Tesoro e Bankitalia con la regia di Ciampi, la vera “notte della Repubblica” (attacco ai diritti del lavoro, flessibilità e precarizzazione) è stata condotta con la complicità di personaggi come Visco, Bassanini, Padoa Schioppa, Amato, lo stesso Ciampi e altri baroni della nuova tecnocrazia “incoronata” da Mani Pulite, al servizio delle potenze straniere intenzionate a saccheggiare il Belpaese grazie alla “cura” finto-europeista. Lo spiegò lo stesso Galloni in una memorabile intervista a “ByoBlu”: la deindustrializzazione dell’Italia fu pretesa della Germania come compensazione, in cambio della rinuncia al marco. Era stata la Francia di Mitterrand a imporre l’euro ai tedeschi, pena il veto francese alla riunificazione delle due Germanie. Cominciava una festa, per molta parte d’Europa, caduta la Cortina di Ferro grazie a Gorbaciov. Per l’Italia, invece, il sogno si sarebbe trasformato in un incubo. Supremo regista della grande illusione, Mario Draghi: a bordo del Britannia di mise a disposizione dei poteri che progettavano la svendita del paese, venendo poi premiato prima come governatore di Bankitalia e poi come presidente della Bce.Oggi, grazie a tutto questo, è diventato “normale” che un governo italiano non riesca a ottenere un deficit del 2,4% (irrisorio), ed è “fisiologico” che il fantasma dell’ex sinistra – il Pd – trovi giusto che siano i commissari Ue, non eletti da nessuno, a poter calpestare un esecutivo regolarmente eletto. Peggio: è stato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a spiegare – bocciando la nomina di Paolo Savona come ministro dell’economia – che sono i mercati, e non gli elettori, ad avere l’ultima parola. Contro questa palude si muove il laboratorio politico rappresentato dal Movimento Roosevelt. Obiettivo: ribaltare il tavolo delle convenzioni dogmatiche degli ultimi trent’anni, risvegliando la politica dormiente fino a portarla a riscrivere le regole. La prima: Europa o meno, il popolo deve tornare sovrano. Tradotto: le elezioni devono poter decidere chi governerà davvero, e come. E a dire di no a un governo eletto potrà essere solo, domani, un governo federale europeo a sua volta emanato democraticamente dall’Europarlamento, sulla base di una Costituzione democratica che oggi l’Ue non sa neppure cosa sia. Chi l’ha detto che il deficit non può superare il 3% del Pil? Il Trattato di Maastricht va gettato nella spazzatura, ecco il punto. Bel problema: da dove cominciare?La prima cosa da fare è dire finalmente la verità: lo sostiene Magaldi, che il Movimento Roosevelt l’ha creato. Rivelazioni e denunce continue, da parte sua. Mattarella? Un paramassone che obbedisce al massone Visco di Bankitalia, a sua volta un burattino del massone Draghi. Di Maio che omaggia la Merkel, dopo aver ceduto sul deficit gialloverde? Brutto segno: tenta di accreditarsi presso le superlogge come la Golden Eurasia, quella della Cancelliera, sperando così di sopravvivere al prevedibile declino dei 5 Stelle. Grande occasione perduta, il governo del non-cambiamento, di fatto prono ai diktat della Disunione Europea che sta mandando in malora l’economia del continente. Fenomeno vistoso: si sta impoverendo la classe media alla velocità della luce, come dimostrano i Gilet Gialli in Francia, dove qualcuno – dice sempre Magaldi – ha pensato bene di dare alle fiamme persino un simbolo nazionale come Notre-Dame. Sono sempre loro, i registi occulti della strategia della tensione europea: hanno seminato il terrore nelle piazze per spianare la strada all’austerity dei governi.Rosselli, Palme e Sankara: ecco, da dove ripartire. Socialismo liberale: il grande premier svedese voleva “tagliare le unghie al capitalismo”. Stava per essere eletto segretario generale dell’Onu: poltrona da cui avrebbe vegliato anche sull’Europa, impedendo che si arrivasse a questo aborto di Unione Europea. Certo, c’è dell’altro: qualcuno nel frattempo avrebbe fatto entrare la Cina nel Wto senza pretendere nessuna garanzia, da Pechino, sui diritti dei lavoratori. Risultato: concorrenza sleale sui prezzi delle merci e grande crisi della manifattura occidentale. E qualcun altro, l’11 settembre del 2001, avrebbe fatto saltare in aria le Torri Gemelle a New York. Obiettivo: poter invadere l’Iraq e l’Afghanistan, fabbricando il fantasma del terrorismo jihadista (Al-Qaeda, Isis) con cui ricattare il mondo. Bagni di sangue (Libia, Siria) o rivoluzioni colorate (Georgia, Ucraina), o magari primavere arabe (Tunisia, Egitto): il risultato non cambia, si punta sempre sul caos. Così l’Italia si scanna sui migranti e il Pd attacca Salvini anziché Macron. E nessuno guarda al di là del mare.Lo fa Ilaria Bifarini, anche lei attesa al convegno di Milano con il suo saggio “I coloni dell’austerity”, ovvero “Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”. Negli anni ‘80, quando Olof Palme faceva della Svezia il paradiso europeo del welfare, l’africano Thomas Sankara trasformava l’Alto Volta coloniale nel coraggiosissimo Burkina Faso, il “paese degli uomini liberi”, con una promessa: nessuno, qui, morirà più di fame. Lo disse ad alta voce, nel 1987, davanti ai leader africani: chiediamo all’Occidente di cancellare il debito dell’Africa. Tre mesi dopo fu ucciso, su mandato francese. In Africa, il giovane Sankara godeva di un prestigio immenso, pari a quello di Palme in Europa. Con loro ancora al potere, non avremmo visto né questa Ue né i barconi dei migranti. Il premier svedese era stato freddato un anno prima, da un killer rimasto sconosciuto. Non così i mandanti: “La palma svedese sta per cadere”, telegrafò alla vigilia dell’omicidio Licio Gelli, il capo della P2, avvertendo il parlamentare statunitense Philip Guarino. Lo scrive, nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, lo stesso Gianfranco Carpeoro, altro esponente “rooseveltiano” impegnato nell’assise milanese, da cui ora si attendono precise rivelazioni sulle connessioni tra i delitti Palme e Sankara e la scomparsa di Caffè. Erano uomini da eliminare: troppo ingombranti, per chi voleva instaurare – in Europa e nel mondo – il regno del caos e dei profitti stellari, al prezzo dell’impoverimento generale.Tutto questo, purtroppo, è molto massonico. Lo sostiene Gioele Magaldi, che nel suo saggio spiega che nel 1980 tutte le superlogge – anche quelle progressiste – aderirono al patto “United Freemasons for Globalization”. Una tregua armata, dopo che negli anni Sessanta erano stati uccisi Bob Kennedy e Martin Luther King: un ticket fantastico, che le Ur-Lodges democratiche avrebbero voluto alla Casa Bianca, come presidente e vice. E’ come se la stessa mano provvedesse a uccidere gli avversari che non si possono corrompere né intimidire. Per inciso, aggiunge Magaldi, erano massoni anche Palme e Sankara, così come Gandhi, Mandela e lo stesso Yitzhak Rabin, assassinato da manovalanza estremista. Quanto al convegno di Milano, chiosa Magaldi, non si tratta di limitarsi a celebrare la memoria di giganti come Rosselli e Palme, Sankara e Caffè: l’intenzione è quella di creare una nuova agenda politica, in base alla quale nessuno possa più fingere di essere progressista mentre soggiace alla post-democrazia Ue. Una sfida a viso aperto: c’è da fare una rivoluzione culturale. Il pareggio di bilancio? E’ un crimine politico contro il popolo. Sarebbe ben lieto di spiegarlo autorevolmente lo stesso Caffè, se fosse ancora qui, in questa Italia le cui televisioni spacciano per verità le frottole quotidiane di personaggi come Elsa Fornero e Carlo Cottarelli, mestieranti nostrani del peggior neoliberismo.(Il convegno “Nel segno di Olof Palme, Carlo Rosselli, Thomas Sankara e contro la crisi globale della democrazia” è promosso dal Movimento Roosevelt venerdì 3 maggio 2019 a Milano, col patrocinio del Comune, presso la sala conferenze del Museo del Risorgimento a Palazzo Moriggia, via Borgonuovo 23 (zona Brera), dalle ore 10 alle 17.30. Interverranno Angelo Turco, Gioele Magaldi e l’ambasciatore italiano in Svezia Marco Cospito, insieme a Felice Besostri, Nino Galloni, Paolo Becchi, Gianfranco Carpeoro, Otto Bitjoka, Marco Moiso, Sergio Magaldi, Egidio Rangone, Danilo Broggi, Pierluigi Winkler, Giovanni Smaldone, Michele Petrocelli, Aldo Storti, Marco Perduca e Lorenzo Pernetti. Nel corso dell’evento, introdotto da brevi rappresentazioni teatrali su Sankara e Rosselli offerte da Ricky Dujany e Diego Coscia, verrà presentato il bestseller di Ilaria Bifarini “I coloni dell’austerity”, mentre Carlo Toto e Paolo Mosca anticiperanno il trailer del docu-film “M: il Back-Office del Potere”. Tra i dirigenti del Movimento Roosevelt interverranno anche Daniele Cavaleiro, Roberto Alice, Fiorella Rustici, Zvetan Lilov, Alberto Allas, Roberto Luongo, Roberto Hechich, Massimo Della Siega e Roberto Peron. Per informazioni: segreteria generale e presidenza del MR. Coordinamento ufficio stampa e relazioni esterne: Monica Soldano, 348.2879901).Nella notte fra il 14 e il 15 aprile del 1987 lasciò la sua casa di Roma, dove viveva con il fratello. Non fu mai ritrovato: la scomparsa di Federico Caffè rimane tuttora un mistero irrisolto. Non per tutti, però: «La sua sparizione è strettamente connessa con due omicidi eccellenti, quello di Olof Palme e quello di Thomas Sankara». Lo afferma Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” che illumina insospettabili retroscena sulla massoneria di potere che ha imposto l’attuale globalizzazione. Clamorose rivelazioni in vista, a quanto pare, nell’ambito del convegno promosso a Milano il 3 maggio dal Movimento Roosevelt. Del professor Caffè – vero e proprio cervello dell’economia keynesiana nel dopoguerra – parlerà anche un suo illustre allievo, l’economista Nino Galloni, svelando ulteriori dettagli inediti sul giallo della sua scomparsa. Tema dell’assise: presentare pubblicamente il Movimento Roosevelt come laboratorio politico nato per uscire dal tunnel del neoliberismo e riconquistare la perduta sovranità democratica. La ricetta? Il socialismo liberale di Carlo Rosselli, marginalizzato già durante il fascismo dagli stessi socialisti. Due eredi di questa dottrina – lo svedese Palme e l’africano Sankara – furono assassinati nel giro di pochi mesi, a cavallo della sparizione di Caffè.
-
Salvini è al top ma rischia: non ha una visione per il futuro
Avanti il prossimo. Giù nella scarpata ci sono le icone semoventi di Silvio Berlusconi, Beppe Grillo, Matteo Renzi, per dire solo dei più noti e dei più recenti. Ora il primo in alto, davanti al precipizio, nel cono di luce, è Matteo Salvini e tutti gli occhi sono puntati su di lui e sull’orologio che segna il suo tempo, per vedere quanto dura, se ci sono segni e scricchiolii sinistri, se comincia a scivolare pure lui nel burrone. È inesorabile la macchina dell’oblio e del rigetto che macina leader, li brucia, li consuma e poi li vomita, li spara in cielo e poi ricadono in terra, per una misteriosa forza di gravità che coincide con la precarietà, tramite overdose. La parabola dei leader è veloce, la loro esposizione mediatica è la causa del loro folgorante successo e pure del loro precipitoso declino. È una legge inesorabile della politica senza fondamenti, della leadership emozionale. La cosa più terribile è che non lasciano traccia, le scie dei rimpianti durano poco e poi restano a una minoranza scarsa, sempre più scarsa. È irripetibile il loro momento d’oro, le stesse cose che una volta conquistavano consensi e perfino entusiasmi, diventano a un certo punto insopportabili cliché; basta, non ne possiamo più di quel repertorio, quella faccia, quella voce. A volte fiducie immeritate si risolvono in sfiducie esagerate. Ma quando entri nel ciclo dei consumi mediatici di leader e di parole, tutto è liquido meno la legge che governa il ciclo, che invece è ferrea, inesorabile.Salvini rischia grosso a questo punto, e gli va detto anche – e vorrei dire soprattutto – da chi pensa che, al momento, sia il leader preferibile, migliore, o “meno peggio”. Ha raggiunto il tetto dei consensi virtuali e della condivisione, per la sua capacità di intrecciare messaggi a forte valenza simbolica, linee largamente condivise di una ideologia emozionale, capitalizzando l’odio che converge contro di lui. L’odio polarizza, genera spartiacque tra chi detesta e chi ama o finisce con l’amare il leader detestato, offeso, massacrato. Salvini usa bene l’effetto di ritorno dell’odio che raccoglie, in un’operazione martirio che in un paese di derivazione cattolica funziona sempre. Salvini parla chiaro e dice quel che la gente vuol sentirsi dire, offre obbiettivi simbolici, non potendo offrire grandi risultati pratici. E riesce a far giungere alla gente un messaggio: io vorrei realizzare quella rivoluzione che voi aspettate e che vi ho promesso, ma non ho i numeri per farlo, ho un alleato che non è d’accordo, anzi mi ostacola. Ergo, datemi più forza ed io sarò in grado di farlo. Dunque riesce a coltivare il malessere presente, l’onda d’indignazione verso la sua demonizzazione, ma anche l’orizzonte d’attesa della gente.Ma poi avviene un passaggio misterioso, repentino, dapprima implicito e poi clamoroso, e il sostegno inverte direzione. Accadde a Matteo Renzi e tutti lo citano come il Precedente da Manuale. Qui le interpretazioni divergono: ci sono quelli che catalogano gli errori compiuti da Renzi per spiegarne il cambiamento di fortuna, così radicale e così repentino; e ci sono quelli che invece sostengono l’ineluttabilità della legge che governa i media, il potere e le opinioni della gente; quella fatale, inarrestabile parabola da cui è impossibile sottrarsi. Tra le due versioni propendo per una soluzione-matrioska: la prima spiegazione, specifica e personale, è dentro l’altra, generale se non epocale. Nell’epoca dell’effimero tutto è effimero, nell’epoca dei consumi tutto è oggetto di consumo, nell’epoca del presente assoluto e tirannico, tutto passa in fretta e diventa passato. Ma questa considerazione di ordine generale non può consegnarci al puro fatalismo dell’abbandono. Allora provo a dire: ma non è che il problema è la stoffa di cui sono fatti questi leader, ovvero il materiale di cui sono composti i loro successi? Non si presentano, sin dall’inizio, con la loro forza-limite di cavalcare l’onda emotiva del momento come yogurt con la scadenza scritta sulla fronte?E allora implicito viene il suggerimento: e se qualcuno provasse la via diversa, se uno provasse a far seguire agli appelli estemporanei i disegni duraturi, se qualcuno provasse a lasciar traccia ad agire non solo sulla cresta dell’onda ma in profondità? So quanto sia difficile, in un’epoca del genere, e so quanto sia veramente ardito riuscire a usare l’appeal dell’istantaneo emotivo come una buccia che però protegge un midollo di sostanza. Ma è l’unica possibilità di non finire rapidamente e inopinatamente di proiettarsi nel futuro e di restare in piedi. Legarsi a idee, temi, prospettive che non passano. Temi grandi, decisivi, epocali e culturali, che riguardano le civiltà, i popoli, la storia, la forza delle idee e le cose che durano. Scommessa difficile ma è l’unica che si può opporre alla rapida obsolescenza della merce-leader. Pensaci Salvini, anche se sei stretto tra le elezioni europee, l’Iva, il marasma e l’assedio generale. Pensaci, anche se ti trovi tra un alleato presente che è il concorrente futuro e un alleato passato che vuol farsi futuro. Sei lì, in alto, il primo sulla vetta, e ricevi spinte da dietro e incitazioni dal basso. Difficile restare lì a lungo, bisogna cambiar gioco, cambiare posizione, muoversi a lato, guardare in alto. Pensaci, Matteo, se ne sei capace.(Marcello Veneziani, “Salvini è all’apice ma davanti al burrone”, da “La Verità” del 19 aprile 2019; articolo ripreso dal blog di Veneziani).Avanti il prossimo. Giù nella scarpata ci sono le icone semoventi di Silvio Berlusconi, Beppe Grillo, Matteo Renzi, per dire solo dei più noti e dei più recenti. Ora il primo in alto, davanti al precipizio, nel cono di luce, è Matteo Salvini e tutti gli occhi sono puntati su di lui e sull’orologio che segna il suo tempo, per vedere quanto dura, se ci sono segni e scricchiolii sinistri, se comincia a scivolare pure lui nel burrone. È inesorabile la macchina dell’oblio e del rigetto che macina leader, li brucia, li consuma e poi li vomita, li spara in cielo e poi ricadono in terra, per una misteriosa forza di gravità che coincide con la precarietà, tramite overdose. La parabola dei leader è veloce, la loro esposizione mediatica è la causa del loro folgorante successo e pure del loro precipitoso declino. È una legge inesorabile della politica senza fondamenti, della leadership emozionale. La cosa più terribile è che non lasciano traccia, le scie dei rimpianti durano poco e poi restano a una minoranza scarsa, sempre più scarsa. È irripetibile il loro momento d’oro, le stesse cose che una volta conquistavano consensi e perfino entusiasmi, diventano a un certo punto insopportabili cliché; basta, non ne possiamo più di quel repertorio, quella faccia, quella voce. A volte fiducie immeritate si risolvono in sfiducie esagerate. Ma quando entri nel ciclo dei consumi mediatici di leader e di parole, tutto è liquido meno la legge che governa il ciclo, che invece è ferrea, inesorabile.
-
Rai e cultura restano al Pd: nessuno “racconta” i gialloverdi
Ma dov’è la rivoluzione culturale di un governo che si è presentato come una svolta radicale rispetto all’establishment, alle “élite” e ai poteri precedenti? Dieci mesi sono pochi per cambiare ma sono abbastanza per indicare una direzione, per delineare almeno un’intenzione, l’avvio di un nuovo percorso. E invece non s’intravede l’accenno di un inizio. Né sul piano delle idee e dei programmi né sul piano degli uomini e dei criteri di selezione. Totale continuità, piatta prosecuzione dell’ancien régime, conformità al politically correct, permanenza dell’egemonia culturale precedente. Vedete la Rai, vedete le istituzioni e i luoghi della cultura, vedete il clima generale. Come già accadde al tempo del centro-destra, oltre l’ossequio formale al governo in carica, magari l’intervista-marchetta al leader di turno e il trattamento di favore ad personam ai personaggi governativi, la narrazione generale è sempre la stessa, gli uomini che la somministrano sono pressoché gli stessi, i criteri e le priorità sono rimasti invariati. Nei telegiornali la musica non è cambiata, l’impostazione è la stessa.Sembra che al Tg1 il carneade che ne ha assunto la guida vada a lezioni private dal predecessore. Ad eccezione del Tg2 diretto da Gennaro Sangiuliano, sembra che tutto sia rimasto invariato in tutte le testate, a partire dalla linea, salvo lo spazio inevitabile alle iniziative del governo e un minuto di celebrità ai suoi esponenti. Il linguaggio è lo stesso e la suddivisione degli spazi risulta sbilanciata ancora a favore della sinistra: in generale le voci filogovernative vengono di solito sommerse e doppiate dal coro invariante e polemico delle opposizioni. In media: due opinioni governative contro quattro antigovernative. La formula è stanca e si ripete in modo meccanico, le dichiarazioni dei microfonisti di partito suonano come nenie e mantra, testi imparati a memoria da foche ammaestrate. Non diverso è il clima che si respira nelle reti televisive, dove l’immagine della Rai resta ancorata a personaggi-simbolo, come Fabio Fazio che cercando il martirio ha perfino aumentato le dosi del suo sinistrismo becero e untuoso per rimarcare la sua gloriosa opera di Dissidente Eroico, pagato pochi milioni di euro per dire, fare, invitare tutto ciò che è contrario a quel che dice, pensa e fa l’opinione “salviniana” oggi prevalente in Italia.Ma il coro resta lo stesso ed è linciaggio se qualcuno osa dire qualcosa di buon senso, come per esempio, restituire la compagnia di giro della sinistra televisiva a un suo canale dedicato, come era RaiTre, evitando lo sconfinamento che ferisce la maggioranza degli utenti non allineati al loro catechismo. Pagano un canone e non vogliono subire un canone ideologico. Ma il discorso sulla Rai fa il paio con le istituzioni culturali rimaste invariate nei loro assetti. Un esempio tra tanti, la Dante Alighieri in cui è stato confermato il fondatore della comunità di sant’Egidio ed ex-ministro dei governi di sinistra, Andrea Riccardi; ma la stessa cosa accade nelle direzioni dei musei e degli istituti culturali in Italia e all’estero, rimasti d’impronta renziana e franceschiniana, o all’Enciclopedia italiana, il cui direttore generale, il dalemiano Massimo Bray, è anche presidente della Fondazione per il Libro, la Musica e la Cultura. Per non dire del ruolo dell’Anpi e di altri organismi politicamente orientati a sinistra nelle scuole, nelle istituzioni pubbliche e nelle ricerche finanziate con denaro pubblico.Non basta l’egemonia culturale nelle università o nell’editoria, i festival del libro, gli organismi culturali ma anche ciò che dipende direttamente dal governo, resta tutto invariato. Certo, alcuni ruoli non sono in scadenza, altri non dipendono direttamente dal governo, ma tutto resta come prima. Qualcosa faticosamente si muove a livello locale, ma la spiegazione di questa diversità è semplice: nei governi locali non ci sono i grillini che sono il cavallo di troia del politically correct, i portatori sani di cultura radical-progressista. Oltre l’acquiescenza e la complicità dei grillini quali sono i motivi di questa neutralità o remissività sul piano culturale? Paura di attacchi e quieto vivere; ignoranza della materia; assenza di nomi e conoscenze alternative; penuria di visione culturale, di strategia e lungimiranza. Non capiscono, i governativi, che nessuna rivoluzione sarà mai possibile se non parte e non passa dalle idee, dai luoghi chiave in cui si forma e si stratifica il consenso, dai messaggi, dalla cultura e dalla mentalità.Pensare di cambiare un paese solo a colpi di tweet e boutade, appelli di pancia e grandi annunci di leggi e riforme, senza nessun racconto, nessuna profonda trasformazione, nessun cambiamento di verso e di simboli, è una puerile, rovinosa illusione. Così facendo e persistendo, passeranno senza lasciar traccia quando il vento cambierà e gli umori si sposteranno su altri temi e altre facce. Non è bastata la lezione del centro-destra che non ha lasciato eredità di alcun tipo sul piano culturale-istituzionale? Tutto questo accade mentre Zingaretti e gli altri esponenti della sinistra, con sprezzo del ridicolo, continuano a denunciare la spartizione dei posti e l’occupazione vorace delle poltrone da parte del governo. Col supporto e la risonanza della stampa e propaganda fiancheggiatrice. Se lo occupano loro è norma, se lo fanno gli altri è anomalia. Ma il ridicolo è che nemmeno lo fanno, e restano quasi dappertutto le tanto detestate “élite” del precedente establishment. Accusati di spartirsi le poltrone che restano saldamente sotto i glutei sinistri…(Marcello Veneziani, “La rivoluzione apparente”, da “La Verità” del 4 aprile 2019; articolo ripreso sul blog di Veneziani).Ma dov’è la rivoluzione culturale di un governo che si è presentato come una svolta radicale rispetto all’establishment, alle “élite” e ai poteri precedenti? Dieci mesi sono pochi per cambiare ma sono abbastanza per indicare una direzione, per delineare almeno un’intenzione, l’avvio di un nuovo percorso. E invece non s’intravede l’accenno di un inizio. Né sul piano delle idee e dei programmi né sul piano degli uomini e dei criteri di selezione. Totale continuità, piatta prosecuzione dell’ancien régime, conformità al politically correct, permanenza dell’egemonia culturale precedente. Vedete la Rai, vedete le istituzioni e i luoghi della cultura, vedete il clima generale. Come già accadde al tempo del centro-destra, oltre l’ossequio formale al governo in carica, magari l’intervista-marchetta al leader di turno e il trattamento di favore ad personam ai personaggi governativi, la narrazione generale è sempre la stessa, gli uomini che la somministrano sono pressoché gli stessi, i criteri e le priorità sono rimasti invariati. Nei telegiornali la musica non è cambiata, l’impostazione è la stessa.
-
Pietà per Michael Jackson, viveva come se fosse già morto
A dieci anni dalla morte di Michael Jackson, un film in uscita mette a soqquadro la memoria della pop star e getta lunghe ombre di pedofilia sulla sua controversa figura. Due ex-adolescenti lo accusano di abusi sessuali e il mondo nuovamente si divide tra i suoi perduranti fan e i suoi detrattori, i suoi famigliari e i suoi accusatori, mentre fioccano denunce e querele. Non entrerò nel merito della questione, ma mi soffermerò sul mito di questo cantante. Quando morì, nel 2009, Michael Jackson era già morto da tempo immemorabile e passava la sua vita di cadavere ad amministrare la sua sontuosa decomposizione, il suo mito e le sue apparizioni. Mandava videoclip dall’aldilà, a volte canzoni, spargeva aneddoti e immagini sconcertanti, in una danza scatenata, musicale e farmaceutica, sanitaria e giudiziaria, intorno alla sua bara. Studiava da morto da parecchi anni, annunciava tumori e paralisi, simulava morti e resurrezioni, e dissimulava le malattie troppo banali come la vitiligine, esibiva mutazioni raccapriccianti e malattie genetiche esclusive, come si addice agli dei; ma la sua divinità non sprigionava l’aura dell’immortalità, era una morte prolungata per ripararsi dalla vita, le sue offese e le sue invadenze.Non era mai capitato ma ci fu un mercato nero per procurarsi a caro prezzo un invito ai suoi funerali; e mai espressione come mercato nero fu più azzeccata per indicare un traffico di soldi illeciti intorno al funerale di un nero pentito. Funerali rinviati per gestire la gigantesca dimensione del cordoglio, a più di dieci giorni dalla morte. Fu un’icona e un prototipo di chi si rivolge alla tecnica e ai farmaci per manipolare la vita e risolvere i problemi che un tempo affidava alla religione, alla filosofia e al mito. Non esprimo giudizi morali di condanna per la sua vita né giudizi musicali di celebrazione davanti al suo corpo irriconoscibile, al suo naso ridotto ad una presa elettrica, alle sue labbra simili alla fessura di un bancomat, a un viso sfigurato che perde quel che Lévinas riteneva essere l’inalterabile specificità di una persona: il volto. Non aveva volto, Jackson. Quel che gli era rimasto addosso era una specie di mascherina estetico-funeraria, un incrocio tra il visage dall’estetista e la cera mortuaria da obitorio. Non voglio soffermarmi sulle accuse di pedofilia che lo hanno accompagnato anche in vita e tantomeno abbracciare gli alibi dei suoi fan che ebbe un’infanzia difficile e da ricco finanziò opere benefiche in favore dell’infanzia.Sbianchettandosi in quel modo orrendo tradì la sua identità e quella di tutti i neri della terra. Offese la negritudine. Quel suo essere un Ogm umano, geneticamente modificato per sfuggire alla sua identità, quel suo razzismo biologico, masochista, contro la sua origine, suscita un’infinita, irredimibile pietà. Quel suo stuprarsi la vita, resettare l’origine e la memoria, rivelava pena e strazio di vivere. E la sua immensa ricchezza, la sua straordinaria fama, non alleviavano quella pena, semmai la ingigantivano, la facevano più clamorosa e cosmica, fino a renderlo il testimonial planetario della condizione umana che volta le spalle al cielo e alla terra, cioè alla vita e all’immortalità, per vivere una gloriosa parodia di morte prolungata, uno spettacolo di agonia anestetizzata. Alla sua morte pensarono di asportargli il cervello per capire di che era morto. Ma al di là del referto medico, chi studia l’animo umano in rapporto alla vita e al suo svanire già lo sa. Jackson è morto di rifiuto della condizione umana e terrena, rifiuto della realtà, del mondo, orrore della vita e dei suoi limiti, ricusazione del fato.È martire della società postumana, transgenica e transumana, che si illude di sopravvivere alla vita rinunciando a viverla, che si sottrae agli urti, all’invecchiamento e alla realtà per preservarsi pura e incontaminata in una surreale esistenza asettica che coincide con un’eutanasia. Fuori dall’età che avanza, fuori dal mondo. Terrore di contatti con gli umani. Odori umani troppo umani, schifo per le cose e per i cibi, cordone sanitario per ripararsi dalla vita e da quella rude e primitiva verità che è la natura. Figli nati senza incontro carnale, senza eros; della vita resta solo un’icona incorporea. E per sottrarsi alle passioni umane, analgesici e anoressia. Jackson era la proiezione su maxischermo di una condizione mentale diffusa tra chi vuol modificare la sua vita e allontanarsi dalla natura, dalla finitudine, dal declino: tatuaggi e chirurgie, pillole e lifting, alcol e droga, diete e radicali modifiche del proprio look, perché si soffre la propria identità, voglia di autocrearsi e di sottrarsi al carcere del proprio corpo. Antiche eresie, religioni gnostiche degenerate, paradisi artificiali che somigliano all’inferno. La cura di sé sfocia nell’imbalsamazione già da vivo.Il suo simulacro è quella cassa a ossigeno scelta per la toilette funeraria. E la sua location più appropriata era quella sua villa che si chiamava non a caso Neverland e che, non a caso, non riescono a vendere. La terra che non c’è per una vita che non c’era. Neverlife. Il simbolo più efferato di questa condizione postumana è il suo stomaco: era vuoto di cibi e pieno di pillole e sostanze contro il dolore, contro la depressione, contro l’ansia, contro i contagi. Nel suo stomaco si raccoglieva come un’urna il male occidentale, i suoi fantasmi, la sua paura di invecchiare, di morire, di soffrire, di contagiarsi, di finire in solitudine e di restare incarcerati nei limiti della condizione umana. Un rifiuto del destino, un odio del fato, che è stato fatale. Neverlife è l’epitaffio più sensato per titolare la compilation della sua vita. Ha speso la vita a organizzare il suo funerale. Non infierite ora a dieci anni dalla morte riesumando la sua vera o presunta pedofilia. Abbiate pietà di quell’uomo che si inflisse già da morto la pena di una vita sontuosa in fuga da se stesso, dal mondo, dagli umani.(Marcello Veneziani, “Michael Jackson, il nero pentito”, da “La Verità” del 17 marzo 2019; articolo ripreso sul blog di Veneziani).A dieci anni dalla morte di Michael Jackson, un film in uscita mette a soqquadro la memoria della pop star e getta lunghe ombre di pedofilia sulla sua controversa figura. Due ex-adolescenti lo accusano di abusi sessuali e il mondo nuovamente si divide tra i suoi perduranti fan e i suoi detrattori, i suoi famigliari e i suoi accusatori, mentre fioccano denunce e querele. Non entrerò nel merito della questione, ma mi soffermerò sul mito di questo cantante. Quando morì, nel 2009, Michael Jackson era già morto da tempo immemorabile e passava la sua vita di cadavere ad amministrare la sua sontuosa decomposizione, il suo mito e le sue apparizioni. Mandava videoclip dall’aldilà, a volte canzoni, spargeva aneddoti e immagini sconcertanti, in una danza scatenata, musicale e farmaceutica, sanitaria e giudiziaria, intorno alla sua bara. Studiava da morto da parecchi anni, annunciava tumori e paralisi, simulava morti e resurrezioni, e dissimulava le malattie troppo banali come la vitiligine, esibiva mutazioni raccapriccianti e malattie genetiche esclusive, come si addice agli dei; ma la sua divinità non sprigionava l’aura dell’immortalità, era una morte prolungata per ripararsi dalla vita, le sue offese e le sue invadenze.
-
Blackout e aiuti bruciati, la stampa Usa smaschera Guaidò
Aiuti umanitari per il Venezuela bruciati oltre confine: non da Maduro, ma dal rivale Guaidò, con l’obiettivo di incolpare il governo di Caracas. E’ la stampa Usa ad accusare lo stesso Guaidò (e Washington) sia per l’auto-distruzione degli aiuti che per il drammatico blackout inflitto al Venezuela, con almeno 14 pazienti deceduti negli ospedali. Le denunce del “New York Times” e di “Forbes”, scrive Gennaro Carotenuto sul suo blog, attestano che in Venezuela la guerra è già cominciata, e che le false notizie dominano incontrastate la costruzione dell’opinione pubblica. «Le guerre di nuova generazione fanno morti come e più di quelle che si combatterono con la clava, la balestra o il fucile Chassepot», scrive Carotenuto. «Rispetto alla gravità del blackout in Venezuela, ai media italiani è piaciuto a scatola chiusa sposare la tesi dell’inettitudine chavista», dato che i chavisti «sono per definizione tutti incapaci, sanguinari e corrotti». Al contrario, «vari media statunitensi hanno preso molto sul serio e considerano credibile che il blackout in Venezuela sia stato causato da un cyber-attacco informatico Usa». Se così fosse, aggiunge Carotenuto, «saremmo di fronte a un atto di guerra», nell’ambito di un conflitto “di quarta generazione”. Tanto per chiarire: «Fossero stati gli hacker russi, parleremmo di terrorismo».
-
Chi smaschera il debito ci rimette la vita: Sankara insegna
Sono passati trent’anni anni da quando il presidente rivoluzionario del Burkina Faso, ribattezzato “il Che Guevara africano”, venne ucciso – secondo la ricostruzione ormai ufficiale – dal suo ex braccio destro nonché successore Blaise Campaorè, verosimilmente appoggiato dai francesi e da altre forze internazionali. Come ricorda Ilaria Bifarini nel suo blog, Sankara era divenuto un personaggio «troppo scomodo, per il piano egemonico mondiale messo in atto dai poteri finanziari internazionali attraverso lo strumento del debito». Studiosa di economia (“bocconiana redenta”), nonché autrice di saggi di successo – dalla crisi neoliberista dell’euro a quella dei migranti – Ilaria Bifarini rievoca il celebre “discorso sul debito” tenuto da Sankara nel 1987 ad Addis Abeba all’assemblea dell’Oua, l’Organizzazione per l’Unità Africana. Un’orazione memorabile, «di una forza e di una chiarezza straordinarie», che rappresenta «un appello a tutti i rappresentanti internazionali a considerare le cause e la reale natura del debito, che non è altro che una nuova e ancora più pervasiva forma di schiavitù, quella finanziaria». Lasciateci in pace, disse Sankara: non abbiamo bisogno degli aiuti della Banca Mondiale e del Fmi, di cui gli africani poi diventano prigionieri.«Con una lucidità e una lungimiranza degne di un vero rivoluzionario – scrive Ilaria Bifarini – Sankara anticipa quanto solo ora alcuni economisti hanno trovato il coraggio di proporre». Ovvero: «Annullare il debito, per permettere alla popolazione di continuare a vivere». Disse Sankara: «Loro, i finanziatori, certo non moriranno se noi non ripagheremo il debito, mentre il nostro popolo sì». La soluzione? Incentivare l’economia nazionale fondata sulla produzione diretta di beni, limitando le importazioni. Lo stesso Sankara, ricorda Bifarini, si vantò dell’abito che indossava – una camicia di cotonella, prodotta dagli artigiani burkinabé. Riguardando il video di quello storico discorso, la Bifarini annota: «La platea è sconcertata ma applaude, la forza trascinatrice è quella di un rivoluzionario, la lungimiranza di un visionario». Solo due mesi e mezzo dopo, a soli 37 anni, Sankara verrà assassinato. Era perfettamente cosciente del rischio che correva: «È possibile – disse – che, a causa degli interessi che minaccio, a causa di quelli che certi ambienti chiamano “il mio cattivo esempio”, con l’aiuto di altri dirigenti pronti a vendersi la rivoluzione, potrei essere ammazzato da un momento all’altro. Ma i semi che abbiamo seminato in Burkina e nel mondo sono qui», aggiunse.Quei semi, sappiatelo, «nessuno potrà mai estirparli: germoglieranno e daranno frutti». Concluse: «Se mi ammazzano, arriveranno migliaia di nuovi Sankara». Purtroppo, osserva Ilaria Bifarini, la sua profezia «si è avverata solo a metà», e i nuovi Sankara «verranno uccisi sul nascere». Proprio a Sankara, il Movimento Roosevelt dedica un importante convegno, in programma il 3 maggio a Milano. Tema: il modello Sankara come antidoto alla crisi dei migranti. In altre parole: restituire piena sovranità all’Africa, in modo da fermare l’esodo dei profughi economici. Nel convegno, la figura di Sankara sarà equiparata a quelle di Carlo Rosselli, martire antifascista e fautore del socialismo liberale, e del premier svedese Olof Palme, assassinato a Stoccolma nel 1986 da un killer tuttora sconosciuto. Olof Palme aveva impegnato lo Stato nel supportare le aziende svedesi in difficoltà, imponendo l’azionariato diffuso tra gli stessi operai, e si era battuto per la libertà dell’Africa protestando – prima di chiunque altro – per la scandalosa detenzione di Nelson Mandela. Come Sankara, Palme sapeva bene a quali risultati avrebbe condotto il neoliberismo coloniale nel continente nero, che costò la vita al giovane presidente del Burkina Faso.Temi di strettissima attualità, come sappiamo, che la stessa Ilaria Bifarini ha sviscerato nel saggio “I coloni dell’austerity”: è proprio l’imperialismo neoliberista a depredare l’Africa, spingendo verso l’Europa i “privilegiati” che possono pagarsi il viaggio della speranza sui barconi. Sono migranti attratti dal miraggio di un’Europa che in realtà non ha più intenzione di accoglierli, alle prese a sua volta con le contorsioni di una crisi più finanziaria che economica, innescata dall’ideologia neoliberista e privatizzatrice che ha inquinato la politica. In che modo? Mettendo fine al socialismo liberale ispirato da Rosselli, di cui proprio il carismatico Olof Palme era il leader più autorevole. Da allora, l’Europa ha cominciato a parlare una sola lingua: quella del Trattato di Maastricht, che ha impoverito gli europei e allineato il vecchio continente allo schema di dominio che – dopo la breve e illusoria parentesi della decolonizzazione – ha finito per schiavizzare l’Africa di Sankara.Sono passati trent’anni anni da quando il presidente rivoluzionario del Burkina Faso, ribattezzato “il Che Guevara africano”, venne ucciso – secondo la ricostruzione ormai ufficiale – dal suo ex braccio destro nonché successore Blaise Campaorè, verosimilmente appoggiato dai francesi e da altre forze internazionali. Come ricorda Ilaria Bifarini nel suo blog, Sankara era divenuto un personaggio «troppo scomodo, per il piano egemonico mondiale messo in atto dai poteri finanziari internazionali attraverso lo strumento del debito». Studiosa di economia (“bocconiana redenta”), nonché autrice di saggi di successo – dalla crisi neoliberista dell’euro a quella dei migranti – Ilaria Bifarini rievoca il celebre “discorso sul debito” tenuto da Sankara nel 1987 ad Addis Abeba all’assemblea dell’Oua, l’Organizzazione per l’Unità Africana. Un’orazione memorabile, «di una forza e di una chiarezza straordinarie», che rappresenta «un appello a tutti i rappresentanti internazionali a considerare le cause e la reale natura del debito, che non è altro che una nuova e ancora più pervasiva forma di schiavitù, quella finanziaria». Lasciateci in pace, disse Sankara: non abbiamo bisogno degli aiuti della Banca Mondiale e del Fmi, di cui gli africani poi diventano prigionieri.
-
Solo il Papa Buono si oppose all’orrore Usa in America Latina
Che l’America Latina debba essere proprietà privata degli Stati Uniti fu deciso nel 1823 dal presidente americano James Monroe, che nella sua celebre “dottrina” già aveva definito le terre che vanno dal Messico alla Patagonia come proprietà naturale degli Usa, cioè terre che per una “naturale legge di gravità politica” sarebbero prima o poi cadute nel “giardino di casa” di Washington (citaz. Chomsky). L’unico ostacolo, prevedeva Monroe, erano gli inglesi, le cui flotte erano a quel tempo troppo potenti per permettere la conquista yankee, ma che prima o poi si sarebbero ritirate, predisse il presidente. E infatti è accaduto. Quello che sta succedendo in queste ore in Venezuela è, in una sua parte, banale: il Padrone non molla mai, e siamo da capo, cioè all’intervento illegale N. 300 degli Stati Uniti in America Latina secondo la dottrina di Monroe. Naturalmente, agli Usa devono conformarsi i vassalli – cioè gli Stati latinoamericani oggi in mano a pupazzi del Fondo Monetario Internazionale, come il gruppo di Lima, poi la Gran Bretagna e anche noi della Ue. E la cosa farsesca è che, mentre in America si strilla isterici per le presunte interferenze di Putin a favore di Trump, accade che come nulla fosse il ministro degli esteri americano Mike Pompeo telefona al neo-autoproclamato presidente del Venezuela, Juan Guaidò, 24 ore prima dell’annuncio della sua candidatura a presidente. Ma va’?Prima domanda: “Ma se Pompeo fa questo, allora perché Putin non avrebbe potuto telefonare a Trump 24 ore prima dell’annuncio della sua candidatura?”. Poi, la risposta alla domanda “cosa si saranno detti?” la si può fare a una scatoletta di tonno, fiduciosi di avere la risposta giusta. E siccome è noto che – da Kennedy, finanziatore dell’orrendo golpe in Brasile; a Kissinger, finanziatore dei golpe dappertutto; passando per Carter e Reagan, torturatori del Nicaragua in particolare; i Bush contro Haiti in particolare; Bill Clinton, finanziatore degli squadroni della morte in Colombia; fino a Obama, sostenitore del golpe in Honduras e armatore della nuove basi militari – siccome è noto che, dicevo, Washington ci tiene così tanto agli ideali democratici che vanno esportati nel suo “giardino di casa”, è notizia di oggi che Mike Pompeo ha nominato il “neocon” Elliot Abrams come suo inviato speciale in Venezuela, giusto per dar l’impressione di essere equidistanti. Abrams è un neo-nazista, un pregiudicato (graziato da Bush I), che ha finanziato il genocidio in Guatemala del generale Rios Montt, che ha passato le bustarelle dello scandalo Iran-Contras sotto Reagan e che organizzò il fallito golpe contro Chavez nel 2002. E’ “the Monroe doctrine on steroids”, si direbbe in slang.Ma vedete, l’articolo N. 231 di oggi sul Venezuela e tutti i dettagli da Google-journalism non vi servono a molto. Piuttosto va dato ancora un po’ di retroterra per capire Maduro e come uscirne. In un indicibile paradosso, le tragedie dell’America Latina iniziarono nel XVI secolo con la conquista nel nome del Vaticano, ma ebbero la loro unica speranza di terminare proprio grazie al Vaticano, quello del Concilio Secondo di Papa Giovanni XXIII nel 1959. Fra le maggiori istanze che esso annunciò, ve n’era una di portata rivoluzionaria scioccante: l’opzione della Chiesa dei Poveri. Dall’infame Costantino, nel IV secolo, la Chiesa aveva scelto senza ombra di dubbio l’opzione per i ricchi e per i potenti e il tripudio per lo sterminio dei poveri e dei dissidenti, non stop per i 1.700 anni successivi anni fino al grande Papa Giovanni XXIII (poi ci è ricascata, ahimè). Questo pontefice, invece, di colpo invertì gli ordini di squadra: no, disse, la Chiesa ora sceglie i poveri. Quasi nessuno qui da noi ci fece molto caso; ovvio, eravamo italiani in pieno boom economico. Ma nell’America Latina invece il messaggio del Concilio Secondo prese piede in modo sorprendente sotto forma della Teologia della Liberazione. Cos’era?In due parole: si trattò di ampi numeri di preti e suore, e qualche rarissimo caso nei ranghi ecclesiastici superiori, che proprio ispirati dal Concilio Vaticano Secondo si spogliarono di ogni bene e semplicemente fecero quello che fece Cristo, cioè lottarono nelle bidonville dei poverissimi, morirono per e accanto a loro, e ovviamente entrarono in aperto conflitto con i superiori, cioè i loro vescovi, arcivescovi e cardinali, fra cui anche il buon Bergoglio. Nota: lunga e fetente storia per questo mistificatore, che sempre tenne i piedi in 3 staffe. Un minino stette coi suoi gesuiti teologi della liberazione (ne tradì due in circostanze orribili e silenziò molti altri), ma poi in maggioranza stette invece zitto con le dittature, e alla fine fu un fedele facilitatore del Fondo Monetario Internazionale di Washington fino al Papato. Ma torniamo alla storia. Nel 1962, il venerato (da voi…) presidente Usa J.F. Kennedy notò questi clamorosi fatti e scosse il capo. Ma scherziamo? Adesso ’sti quattro preti straccioni si mettono a fare i “socialisti” contro gli interessi degli investitori americani? Ma che crepino (non poté “prepensionare” Giovanni XXIII perché era troppo popolare).Quindi Kennedy per primo (ma nel mezzo fu assassinato) e poi il suo successore Lyndon B. Johnson diedero il semaforo verde (per usare un’espressione tutta americana) al peggior terrore neonazista della storia del Brasile, quando con la cacciata del democratico Goulart i militari ripresero il potere nel paese (1964) inaugurando la notoria stagione del National Security States, quella cioè dei golpe fascisti latinoamericani per tre decadi successive. Nei files segreti dell’epoca, oggi desecretati e disponibili presso i National Security Archives di Washington, si possono leggere le euforiche parole dell’ambasciatore statunitense in Brasile Lincoln Gordon, un uomo del “democratico” Kennedy, che definì il golpe dei torturatori «una grande vittoria per il mondo libero» e «un punto di svolta per la storia» (un intero capitolo del mio “Perché ci odiano” della Rizzoli è dedicato a questi abomini). Spiacenti, caro Papa Giovanni XXIII, la tua Opzione per i Poveri deve morire, disse Jfk. E fu olocausto di massacri, torture, campi di concentramento, furti di risorse per trilioni di dollari, tutto di fila in America Latina fino alla fine anni ’90 e proprio a partire dalla nascita della Teologia della Liberazione laggiù.Fra l’altro quest’anno ricorre il 30esimo anniversario di uno degli ultimi atti di macellazione post-Jfk della giustizia in America Latina, cioè la strage di sei accademici gesuiti teologi della liberazione e di due loro domestiche da parte degli squadroni della morte Atlacatl in Salvador nel 1989. Nota: col benestare evidente e più volte espresso nei fatti dell’infame Papa Wojtyla, l’uomo piantato a Roma da Washington non solo per abbattere l’Urss ma proprio per disintegrare l’Opzione per i Poveri in America Latina, visto che rodeva nelle tasche delle corporations, degli hedge funds e degli asset manager americani (e nostri). E arriviamo a Maduro oggi, passando, come già scritto sopra, per tutti i presidenti Usa di fila che mai hanno smesso di finanziare e armare ogni porcheria antidemocratica a sud del Texas (ripeto: da Kennedy, finanziatore del golpe in Brasile; a Kissinger, finanziatore dei golpe dappertutto; passando per Carter e Reagan, torturatori del Nicaragua in particolare; i Bush contro Haiti in particolare; Bill Clinton, finanziatore degli squadroni della morte in Colombia; fino a Obama, sostenitore del golpe in Honduras e armatore della nuove basi militari).Washington non molla, e oggi col naufragio delle rivoluzioni “bolivariane” in America Latina, siamo a questa realtà: l’85% del continente è tornato nelle mani delle destre-stuoini del Fondo Monetario. Ma qui l’onestà intellettuale impone un “ma”… Verissimo che la guerra di sanzioni americane contro Cuba e Venezuela è un abominio della legalità internazionale e ruba miliardi all’anno a quei due paesi. Verissimo che la fetente lustrascarpe del Fmi, cioè la Ue, non è capace di un belato di giustizia internazionale da nessuna parte (Palestina, Siria, Egitto, Yemen, America Latina) mentre ruggisce contro le pecorelle Piigs. Verissimo che quella che fu la culla della democrazia, la Gran Bretagna, ha di nuovo sputato sulla propria storia bloccando l’oro di Maduro in un momento drammatico per il Venezuela. Ma… è altrettanto verissimo che l’America Latina, almeno nella leadership (ma non solo), non ce la può fare, come si dice gergalmente. E inizio da questo: sono “cattolici dentro”, anche quando sono comunisti. Dal 2001/2 fino a ieri, le sinistre latinoamericane hanno avuto in mano quasi tutto per salvare il continente e per finalmente usare le loro immani risorse e le loro monete sovrane sganciate dal dollaro per rafforzare la base sociale povera, cioè il 90% degli elettori.Gli Usa erano in ritirata ormai decennale sia economica che militare, e in affanno, anzi, panico, proprio mentre dall’altra parte esplodeva il potere degli “astri benevoli” dell’America Latina di sinistra, cioè Cina e Russia a far da contraltare. Ma cosa è successo invece? Siamo minimamente onesti, per favore: i leader latinoamericani hanno sbagliato economie nel 100% dei casi, e con una pervicacia sbalorditiva, limitandosi a programmi-elemosina per la base sociale povera, cioè il 90% (vi ricorda qualcuno? RdC?). Hanno fatto parrocchie a sinistra come a destra nel 100% dei casi. Come ogni bravo “cattolico dentro” sono stati ipocriti da vomitare, corrotti da barzellette, e alla fine (in Brasile in modo cosmico) hanno rubato il rubabile. Chiunque non sia un partigiano in malafede si è accorto che sia in Brasile ma soprattutto in Venezuela l’elettorato di maggioranza detesta la sinistra come la destra, derubato e tradito da entrambi, oggi. Nomi come Maduro e Guaidò non rappresentano più nulla, sono screditati alla morte, e figurano solo nei media per via di quel 10% a testa di esagitati che riescono ancora a far comparire davanti alle telecamere in piazza, mentre l’80% sta a casa a sbattere la testa contro il muro. Quindi?Quindi di certo nel mondo dei sogni andrebbe messo uno stop immediato ai 196 anni d’illegalità della dottrina Monroe (con la pietosa Ue al seguito); di certo l’unica via è oggi il negoziato, visto che laggiù la scelta realistica per quella povera gente è fra lo schifo di Maduro e lo schifo di Guaidò. Ma come sempre dico in quasi totale isolamento da decenni (come nel caso dei paesi africani), finché le sinistre, intese come base di popolo, non accetteranno di guardarsi dentro e di capire come hanno fatto a diventare ovunque nel mondo delle tali schifezze, mafie, parrocchie e traditrici di lotte centenarie, possiamo pure continuare a gridare “yankee go home!”, ma in America Latina le maggioranze continueranno a sbattere la testa contro il muro. O le sinistre imitano l’immenso atto di autocritica di Giovanni XXIII e anch’esse ritornano a una vera storica Opzione per i Poveri (si spera con maggior successo oggi), oppure non si andrà da nessuna parte (neppure qui da noi).(Paolo Barnard, “Da Monroe a Papa Giovanni XXIII a Kennedy, fino a Obama, e allora si capisce il disastroso Maduro”, dal blog di Barnard del 29 gennaio 2019).Che l’America Latina debba essere proprietà privata degli Stati Uniti fu deciso nel 1823 dal presidente americano James Monroe, che nella sua celebre “dottrina” già aveva definito le terre che vanno dal Messico alla Patagonia come proprietà naturale degli Usa, cioè terre che per una “naturale legge di gravità politica” sarebbero prima o poi cadute nel “giardino di casa” di Washington (citaz. Chomsky). L’unico ostacolo, prevedeva Monroe, erano gli inglesi, le cui flotte erano a quel tempo troppo potenti per permettere la conquista yankee, ma che prima o poi si sarebbero ritirate, predisse il presidente. E infatti è accaduto. Quello che sta succedendo in queste ore in Venezuela è, in una sua parte, banale: il Padrone non molla mai, e siamo da capo, cioè all’intervento illegale N. 300 degli Stati Uniti in America Latina secondo la dottrina di Monroe. Naturalmente, agli Usa devono conformarsi i vassalli – cioè gli Stati latinoamericani oggi in mano a pupazzi del Fondo Monetario Internazionale, come il gruppo di Lima, poi la Gran Bretagna e anche noi della Ue. E la cosa farsesca è che, mentre in America si strilla isterici per le presunte interferenze di Putin a favore di Trump, accade che come nulla fosse il ministro degli esteri americano Mike Pompeo telefona al neo-autoproclamato presidente del Venezuela, Juan Guaidò, 24 ore prima dell’annuncio della sua candidatura a presidente. Ma va’?
-
A chi giovano le sconcertanti minacce rivolte a Mentana?
Tutto si può imputare, a Enrico Mentana, tranne che la mancanza di cordialità e di umana empatia. E’ un affabile surfer, il direttore del telegiornale de La7, nel mare tempestoso delle fake news ufficiali: magari dribbla le verità più scomode e sta ben attento a non uscire mai dalla cornice disegnata dagli spin doctor dell’establishment, ma almeno non partecipa alle crocifissioni rituali che il sistema infligge, con acrimonia, a questo e a quello, attraverso propagandisti con la bava alla bocca, travestiti da giornalisti. Di tutto si sentiva la mancanza, oggi in Italia, fuorché di un bel costume da martire, tagliato su misura per l’Enrico nazionale. Alla bisogna ha prontamente provveduto la mano (anonima, ovviamente) che gli ha indirizzato minacce mafiose, evocando l’oscura escatologia della forca che attenderebbe, un giorno, i malfattori della disinformazione. La minaccia è stata accolta così seriamente da mobilitare nientemeno che il primo ministro, dichiaratosi preoccupato per l’incolumità della libera informazione – che evidentemente nel nostro paese esiste ancora, secondo Giuseppe Conte.Par di sentire l’eco di antiche, orrende canzoni. Del tipo: negli anni di piombo, giornalisti come Indro Montanelli finirono all’ospedale “gambizzati” (mentre altri, come Walter Tobagi e Carlo Casalegno, non ebbero altrettanta fortuna). Nel saggio “Gli stregoni della notizia”, Marcello Foa – ora presidente della Rai – accusa frontalmente la categoria a cui appartiene: l’autocensura quotidiana, praticata in ossequio al potere, mina il giornalismo. Gli toglie prestigio e credibilità, e alla fine indebolisce il sistema democratico stesso, privandolo delle verità indispensabili alla buona salute dell’opinione pubblica. Oggi ci si mette a ridere, al solo ricordo della fialetta agitata da Colin Powell alle Nazioni Unite, per sembrare più convincente nel vendere la bufala delle armi di sterminio di Saddam. Ma il sorriso sparisce subito, se solo si prova a far presente – anche a Mentana – che architetti e ingegneri americani hanno dimostrato, in modo ormai incontrovertibile, che le Torri Gemelle non possono essere crollate in quel modo solo per l’impatto di aerei dirottati.Con Enrico Mentana ha ingaggiato una sorta di leale duello a distanza, a viso aperto, un personaggio come il regista e video-reporter Massimo Mazzucco, autore del primo documentario d’inchiesta sull’11 Settembre, “Inganno globale”, trasmesso proprio da Mentana nel 2006 in prima serata, su Canale 5. Bei tempi, dice Mazzucco, quando l’Enrico faceva ancora il giornalista, e quindi dava spazio anche all’altra campana, la versione non ufficiale dei fatti. Col tempo, non ha solo silenziato le indagini indipendenti sull’11 Settembre. Si è allineato all’establishment su tutto: dalla politica all’economia, sposando in modo acritico la teologia dell’austerity. Vale anche per il cosiddetto complottismo declassato a gossip. Invece di indagare giornalisticamente sulle scie che stranamente imbrattano i cieli da alcuni anni, suscitando interrogativi nella popolazione (e persino interrogazioni in Parlamento), si preferisce ridere di “quelli che credono alle scie chimiche”. Le famiglie italiane sono state terremotate dall’obbligo vaccinale per bambini e neonati? E certo, lo vuole “la scienza”. E la sanità della Regione Puglia, che ha scoperto che il 40% dei bimbi vaccinati ha subito reazioni avverse? E non è “scienza” l’ordine dei biologi, che ha scoperto vaccini “sporchi” e inefficaci, perché privi degli agenti immunizzanti?Mazzucco si occupa anche di vaccinazioni – come tanti, sul web – cercando di mettere insieme notizie e ragionamenti logici. Consultando i maggiori fotografi internazionali, nel documentario “American Moon” ha dimostrato che le immagini del mitico allunaggio del 1969 furono girate in studio. Si è occupato anche di cannabis, Mazzucco, scoprendo che c’era la lobby del petrolio dietro la storica decisione di criminalizzare di punto in bianco l’uso della canapa, oggi rivalutata in campo oncologico. E sempre a proposito di salute, lo stesso Mazzucco si è occupato anche di cancro, rivelando che – da cent’anni – i medici che avrebbero imparato a guarire i pazienti colpiti da tumori vengono semplicemente ignorati e silenziati, quando non messi all’indice. Milanese come Mentana, Mazzucco è nato come fotografo, assistente di Oliviero Toscani. Poi è passato al cinema, lavorando per anni – da regista e sceneggiatore – negli studios della De Laurentiis, a Hollywood. Fino a quel maledetto lunedì 11 settembre 2001, quando ha visto il seguente spettacolo: due aerei hanno potuto centrare le Torri Gemelle senza che nessun F-16 si fosse levato il volo, quantomeno nell’eternità di tempo trascorsa tra il primo e il secondo impatto.Quella mattina, a proteggere la superpotenza più armata del mondo c’erano solo due velivoli pronti a decollare, muniti di missili, più altri due di riserva. Tutti gli altri – centinaia – erano stati trasferiti per esercitazioni concomitanti, lontanissimo da New York. Una circostanza più che anomala: mai prima verificatasi, nella storia degli Usa (né mai più ripetutasi, infatti). Nel saggio “La guerra infinita”, uscito nel 2003, Giulietto Chiesa ricorda che l’ordine di attacco per l’Afghanistan era sulla scrivania di George W. Bush già il 9 settembre 2001, lo stesso giorno in cui i terroristi del “signore della guerra” Gulbuddin Hekmatyar uccisero l’unico legittimo leader agfhano, Ahman Shah Massoud. Troppo ingombrante, Massoud: campione della resistenza nazionale, prima contro l’Urss e poi contro i Talebani, sarebbe stato facilmente acclamato come nuovo presidente, una volta riconquistata Kabul. Gli assassini di Massoud – disse Benazir Bhutto – erano protetti dall’Isi, l’intelligence militare del Pakistan, succursale della Cia. «Mi candido alle elezioni», annuciò la Bhutto, «per ristabilire la verità». Saltò in aria in piena campagna elettorale, il 27 dicembre 2007, dilaniata da una bomba.Spesso, Enrico Mentana ha espresso nostalgia per il suo primo amore, la politica estera. Che fine ha fatto, dopo tanti anni, la voglia di scavare dietro la verità ufficiale della geopoltica? Mentana ha fatto la storia del giornalismo televisivo italiano: giovane esponente del Psi approdato in Rai grazie a Bettino Craxi, nel 1991 – a soli 37 anni – accettò la grande scommessa prospettatagli da Berlusconi: creando l’allora rivoluzionario Tg5, mandò in pensione il letargico e paludato Tg1, imponendo un nuovo tipo di informazione, brillante e fulminea, che già anticipava la velocità attuale del web, l’immediatezza istantanea dei social. Una volta approdato a La7, Mazzucco gli rinfaccia di essersi sprofondato nella nuova poltrona: poteva essere “il primo degli ultimi”, la maggiore delle voci indipendenti (in piena coerenza con la sua storia professionale) e invece si è rassegnato a essere “l’ultimo dei primi”, mestamente allineato al coro.Le residue illusioni sono cadute dando uno sguardo allo strombazzatissimo giornale online che Mentana ha aperto, in proprio, con il lodevole intento di dare spazio ai giovani giornalisti. Sulla nuova testata, “Open”, le notizie di apertura sono però di questo tenore: “Suoni e visioni: Google lancia l’Interpreter Mode, è l’inizio della fine degli interpreti umani?”. Ora, Mentre Mazzucco e gli altri ex estimatori augurano la buonanotte al fu Enrico Mentana, c’è però chi gli augura tutt’altro: “Presto vi puniremo, sappiamo tutto di voi, punirvi è un dovere”. Questo il messaggio che Mentana ha ricevuto, firmato “Boia chi molla”, con tanto di svastica. L’Italia ribolle di risentimenti, in parte fuori controllo: il governo gialloverde ha provato a metterci una pezza, ma con risultati deludenti. La stessa Europa sta franando, dai Gilet Gialli alle convulsioni post-Brexit. La tensione è in aumento ovunque, dopo gli opachi attentati domestici di marca Isis. Si avvicinano le europee, insieme alla temuta recessione. Cresce il caos? Manca solo il fantasma peggiore: quello del terrorismo. Qualcuno – non si sa chi – lo rianima prontamente, riuscendo a trasformare in quasi-eroe persino lo sbiadito, reticente Enrico Mentana.Mala tempora currunt: su pressione dell’oligarca tedesco Günther Oettinger, commissario Ue, il Parlamento di Strasburgo ha gettato le basi per un vero e proprio bavaglio del web, che impone il filtro dei contenuti sulle maggiori piattaforme (Google, Facebook, YouTube) e mette virtualmente fine alla libera circolazione dei link. E’ di questo che ha paura, il mainstream, dopo le ultime sconfitte subite: il referendum di Renzi e l’euro-diserzione del Regno Unito, la vittoria di Trump e quella dei gialloverdi. Comunque vada a finire, se mai dovesse sciaguratamente prendere corpo una reale minaccia di tipo terroristico contro la cosiddetta libera informazione, ci ritroveremmo di fronte a un copione già scritto: ancora più potere ai media mainstream, e un’ulteriore emarginazione dei media indipendenti, comodamente criminalizzabili in blocco. Come ha da poco ricordato lo stesso Mazzucco, l’imbecille di turno non manca mai. Il problema non è lui, ma chi poi lo manipolerà. Storia: le prime Br erano un fenomeno spontaneo. Quelle che uccisero Moro, non più.Di tutte le guerre striscianti in corso oggi, quella per l’informazione è la più cruciale: senza l’appoggio “militare” del mainstream, uno come Monti sarebbe stato preso a pesci in faccia, nel 2011. I vari Cottarelli e Moscovici possono sfilare tranquillamente in passerella davanti alle telecamere: nessun grande giornale e nessun telegiornale prenderà mai in seria considerazione le voci, anche molto autorevoli, che smontano ogni giorno le loro tesi. E’ una vera e propria emergenza democratica, quella dell’informazione manipolata. Lo dimostra, ogni giorno di più, il deficit di credibilità che oggi colpisce i giornalisti, una categoria di cui ormai la maggioranza della popolazione non si fida più. Attaccarli in modo sgangherato e proditorio non può che rafforzarli, puntellandone la pericolante attendibilità. Saranno ancora loro a scendere nell’arena delle prossime europee, ciascuno scrupolosamente “embedded”, precisamente istruito dai club come l’Aspen, il Bilderberg e la Trilaterale, sempre così premurosi nel fabbricare il consenso quotidiano attorno all’oligarchia neoliberista che ha silenziosamente svuotato le nostre democrazie, appaltate a politici di cartone trasformati in star da ex giornalisti che di tutto si occupano, tranne che delle vere ragioni della grande crisi.(Giorgio Cattaneo, “A chi giovano le sconcertanti minacce rivolte a Enrico Mentana?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 17 gennaio 2019).Tutto si può imputare, a Enrico Mentana, tranne che la mancanza di cordialità e di umana empatia. E’ un affabile surfer, il direttore del telegiornale de La7, nel mare tempestoso delle fake news ufficiali: magari dribbla le verità più scomode e sta ben attento a non uscire mai dalla cornice disegnata dagli spin doctor dell’establishment, ma almeno non partecipa alle crocifissioni rituali che il sistema infligge, con acrimonia, a questo e a quello, attraverso propagandisti con la bava alla bocca, travestiti da giornalisti. Di tutto si sentiva la mancanza, oggi in Italia, fuorché di un bel costume da martire, tagliato su misura per l’Enrico nazionale. Alla bisogna ha prontamente provveduto la mano (anonima, ovviamente) che gli ha indirizzato minacce mafiose, evocando l’oscura escatologia della forca che attenderebbe, un giorno, i malfattori della disinformazione. La minaccia è stata accolta così seriamente da mobilitare nientemeno che il primo ministro, dichiaratosi preoccupato per l’incolumità della libera informazione – che evidentemente nel nostro paese esiste ancora, secondo Giuseppe Conte.
-
Barnard: Julian Assange verso la morte. E voi codardi, zitti
Ci ha rivelato verità indicibili, rendendoci più consapevoli e quindi più liberi. Ma ora Julian Assange può crepare, nella sua stanzetta-prigione, senza che nessuno muova un dito per salvarlo: giornali, attivisti, intellettuali, politici, governi. Si è immolato per tutti, con le esplosive rivelazioni affidate a WikiLekas. Sperava di suscitare un’ondata di protesta capace di scuotere il potere. E immaginava che l’indignazione lo avrebbe protetto dalla vendetta dell’establishment. Ma si sbagliava: Julian Assange sta morendo giorno per giorno: l’ambasciata ecuadoregna di Londra, che finora l’ha tenuto al riparo dall’estradizione, potrebbe non tutelarlo più. È così forte, la pressione degli Usa – sull’Ecuador, e sulle autorità britanniche – che le teste di cuoio inglesi potrebbero fare irruzione nella sede diplomatica e caricare Assange, il martire dell’informazione libera, sul primo volo per Washington. È sconvolgente il report che Paolo Barnard fornisce da Londra, dove ha trascorso le feste natalizie presidiando il “carcere” di Assange, agitando vistosi cartelli. Desolazione e solitudine. Peggio: i giornalisti del “Guardian”, i primi a presentare Assange come un eroe, ora confessano di essere intimiditi e ricattati. Per questo nessuno rimetterà in prima pagina il direttore di WikiLeaks. Julian Assange è praticamente già morto. Alla faccia dei diritti civili e dei diritti umani di cui l’Occidente si vanta.Dopo aver fatto da sentinella per 11 giorni sotto la finestra dove il giornalista australiano è sostanzialmente detenuto, Paolo Barnard getta la spugna. La denuncia che affida al suo blog è tale da coprire di vergogna l’intera opinione pubblica mondiale, a cominciare da attivisti per molti aspetti valorosi – come lo stesso John Pilger – che, dopo aver santificato Assange, oggi (nel momento del bisogno) lo hanno di fatto abbandonato al suo destino. Nessuna seria mobilitazione è in corso – in nessun paese – per premere sui governi in modo da scongiurare il peggio, ovvero: evitare che sia sottoposto a un processo “medievale”, negli Stati Uniti, l’uomo che sperava di migliorare il mondo (per la maggior libertà di tutti noi) rischiando in prima persona pur di rendere pubblico il lato oscuro del potere. Dal 2007, WikiLeaks ha pubblicato oltre un milione e 200.000 documenti riservati: dalla guerra in Afghanistan fino alle rivelazioni sulla corruzione in Kenya. Grazie a WikiLeaks il mondo ha scoperto come vengono torturati i prigionieri catturati dagli Usa e detenuti a Guantanamo.Nel 2010, il network di Assange ha svelato alla grande stampa (“New York Times”, “The Guardian”, “Der Spiegel”) il contenuto di alcuni documenti riservati, dai quali emergono aspetti nascosti della guerra in Afghanistan: l’uccisione di civili, l’occultamento dei cadaveri, l’esistenza di un’unità segreta americana dedita a «fermare o uccidere» i Talebani anche senza un regolare processo. Inevitabile che Julian Assange venisse perseguitato con il più ovvio dei pretesti, come l’accusa di “stupro” spiccata contro di lui nel 2010 dal tribunale di Stoccolma. Strano stupro: avrebbe avuto rapporti sessuali “non protetti”, ma con donne consenzienti. Il 7 dicembre 2010, Assange si presentò spontaneamente a Scotland Yard, dove venne arrestato (su mandato di cattura europeo). Dopo nove giorni di carcere venne rilasciato su cauzione. Il vero pericolo, fin da allora, è la possibile richiesta di estrazione negli Usa, una volta che Assange fosse trasferito in Svezia: l’accusa per spionaggio, negli Stati Uniti, può costare l’ergastolo e anche la pena di morte.Il fondatore di WikiLeaks è segregato dal giugno del 2012 nell’ambasciata londinese dell’Ecuador, paese a cui aveva chiesto asilo politico. Lo status di rifugiato gli è stato concesso il 16 agosto 2012 dal governo di Rafael Correa, temendo che la Gran Bretagna lo arrestasse per estradarlo a Stoccolma. Nel gennaio 2016, il gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla Detenzione Arbitraria ha decretato che la permanenza forzata di Assange nell’ambasciata è configurabile come “detenzione arbitraria e illegale” da parte di Gran Bretagna e Svezia. Anche per questo, l’11 gennaio 2018 l’Ecuador ha confermato di aver concesso ad Assange la propria cittadinanza. Ricapitolando: l’uomo che rappreasenta la miglior fonte giornalistica del mondo è costretto a vivere in una stanzetta, da sei anni, per sottrarsi al pericolo di subire un processo sommario e magari di essere condannato a morte, una volta estradato negli Usa dopo il trasferimento in Svezia. E intanto sta franando anche il fragile diaframma che finora lo ha protetto. Il problema? Non c’è più Rafael Correa, alla guida dell’Ecuador.Il nuovo governo del paese centramericano è oggi totalmente pro-Usa, ricorda Paolo Barnard: e il neo-eletto presidente Lenìn Moreno ha definito il direttore di WikiLeaks «un sasso che mi sono ritrovato nella scarpa», e gli è totalmente ostile. Ormai la vita di Assange, nei pochi metri quadri in cui è ospitato, è diventata «un vero inferno di proibizioni e limiti». Assange è isolato dal mondo, senza cure, vessato dagli agenti interni. «Lo stanno demolendo nella psiche e nel corpo per costringerlo ad arrendersi e a uscire». L’autorevole “British Medical Journal” ha mandato uno specialista a visitarlo e ha denunciato come «drammatiche» le sue condizioni di salute, fisiche e mentali, dopo 6 anni di questo tipo di prigionia. E la situazione sta precipitando, avverte Barnard: «Da poche settimane si è venuto a sapere che ora esiste ufficialmente in America un’imputazione (cosiddetta segreta), cioè un capo d’accusa, contro Assange, cosa che prima mai era stata rivelata, ma che tutti temevano».Ciò significa che ora «la Gran Bretagna è sotto un’enorme pressione per estradarlo», appena uscisse dall’ambasciata. Peggio: potrebbe essere addirittura «prelevato di forza, col permesso dell’Ecuador». Il timore dell’esistenza di questa imputazione tenuta nascosta aggiunge Barnard, è stato precisamente il motivo per cui Julian Assange da 6 anni è costretto a vivere segregato nell’unica ambasciata che gli ha dato asilo, ma che ora gli è nemica. Ce ne sarebbe abbastanza per mobilitare almeno l’opinione pubblica, attraverso la stampa. E invece, scrive Barnard, arriva un’altra amara sopresa: i giornali non parlano più di Assange, perché sono stati minacciati. «Il prestigiosissimo inglese “The Guardian” – scrive Barbard – è il quotidiano che sotto la direzione di Alan Rusbridger lanciò gli scoop di WikiLeaks nel mondo, vendendo oceani di copie e sventolando Assange come un eroe del giornalismo». Ma ora, aggiunge, accade qualcosa d’incredibile. «Dal 2013, il quotidiano adotta un altro “whistleblower” di fama mondiale, Edward Snowden, e inizia a mollare Assange».In altre parole: si rischia di meno a parlare di Snowden, l’uomo che ha smascherato lo spionaggio di massa della Nsa, e che ora vive comunque al sicuro, a Mosca, protetto dalla Russia di Putin. È probabilissimo che, senza l’esempio di Assange, Snowden non avrebbe mai trovato il coraggio di uscire allo scoperto. Ma il “Guardian” sembra averlo dimenticato. E c’è di peggio: Barnard cita un editorialista del quotidiano inglese, Luke Harding, che si era lanciato in una crociata per tentare di dimostrare la presunta collusione di Putin con Trump nelle presidenziali 2016. Harding, che era già stato screditato per non aver prodotto praticamente una singola prova (ma solo illazioni), ora pubblica ora uno “scoop” proprio sul “Guardian”: Paul Manafort, il gran manager elettorale di Trump, secondo Harding avrebbe visitato Assange all’ambasciata diverse volte, e questo proverebbe che in realtà WikiLeaks ha davvero subdolamente pubblicato le nefandezze della Clinton per aiutare Donald, sotto ordini di Mosca. «La stampa mondiale riprende il cosiddetto scoop di Harding, e questo sembra essere il colpo di grazia per Julian. Ma in meno di 48 ore il tutto cade a pezzi», scrive Barnard. «In una settimana Harding viene demolito, al punto che il “Washington Post” scrive che il suo scoop sembra sempre più “una bufala”».Il 1° gennaio, lo stesso Barnard ha piantonato la sede del “Guardian” con un cartello appeso al collo. Il testo: “Sono un giornalusta. Assange era l’eroe del Guardian. Ora lo hanno degradato a falsario. Perché?”. Il sit-in di Barnard, a tre metri dall’ingresso della redazione del giornale, non passa inosservato: reporter, segretarie e tecnici rallentano, per leggere il suo cartello. Il secondo giorno, scrive, le cose si mettono male: «La security diviene ostile (“abbiamo ordini”), i colleghi che entrano ed escono evitano il contatto visivo, vengo fotografato da una guardia “sotto richiesta della direzione”». Nonostante ciò, alcuni giornalisti inglesi si fermano a parlare con il collega italiano, co-fondatore di “Report” con Milena Gabanelli. Le loro ammissioni sono penose: «Sì, dicono, c’è un ordine di squadra di mollare e screditare Assange; è una questione decisa dal gruppo editoriale, al top; si parla di pressioni insostenibili da parte del ministero degli esteri britannico e degli Usa; c’è addirittura shock, fra i giornalisti del “Guardian”, per questa decisione».Questo gli dicono, i cronisti inglesi. Uno di loro, Damien Gayle, addirittura rilancia su Twitter l’appello di Barnard per Assange, e giorni dopo gli confesserà: «Sono stato in ansia a twittarti, ma dovevo farlo perché la libertà di dissenso dovrebbe essere l’anima stessa del mio giornale. Spero non mi licenzino». È amaro, Barnard, dopo la sua generosa missione londinese: unico giornalista italiano (senza più giornali che lo pubblichino) a interessarsi della sorte del “prigioniero” più famoso del mondo. Osserva: «Sono convinto che tentare d’incriminare un direttore di testata, Julian Assange e WikiLeaks, per aver rivelato al mondo documenti riservati o dei servizi segreti su alcune nefandezze e crimini contro l’umanità di vari poteri attraverso l’uso delle “soffiate” (i “whistleblowers”), per poi punirlo con pene devastanti, può essere la fine del giornalismo». Infatti, aggiunge, «nessun “whistleblower” mai più avrà il coraggio di farsi avanti per svelare le porcherie segrete dei governi o delle corporations, e senza di loro il giornalista diviene al meglio un testimone di fatti, ma mai sarà in grado di rivelare la vere e profonde fonti degli eventi».La verità sul motivo per cui oggi praticamente tutti i governi del mondo appoggiano l’estradizione di Assange negli Usa – dopo le rivelazioni di WikiLeaks sulle porcherie elettorali della Clinton, sulle stragi americane in Iraq e Afghanistan o sulle reti di spionaggio della Cia su civili e aziende – non è assolutamente quella che ci raccontano, cioè che WikiLeaks avrebbe irresponsabilmente pubblicato segreti di Stato e di fatto aiutato Trump o l’Isis. Macché: il vero motivo, sottolinea Barnard, è questo: «Il potere rimane forte quando resta nell’oscurità. Una volta esposto alla luce del sole, comincia a evaporare». La frase non è di Barnard, ma dall’insigne politologo americano Samuel Huntington, co-autore del famigerato saggio “La crisi della democrazia” con cui il committente, la Commissione Trilaterale, a metà degli anni Settanta detterà le regole per lo svuotamento delle nostre democrazie. La frase sul potere, che diventa fragile se viene fatto uscire allo scoperto, Huntington l’ha scritta nel libro “American Politics. The promise of disharmony”, uscito nel 1983. «E’ questo il peccato mortale per cui oggi stanno distruggendo Julian Assange», sottolinea Barnard. «E’ solo per questo».Nonostante le imprecisioni di cui è responsabile, infatti, «WikiLeaks è l’unica pubblicazione al mondo che davvero ha devastato questo principio di dominio dei poteri, pubblicandone alla luce del sole le azioni più inconfessabili. E lo ha fatto grazie ai “whistleblowers”, e solo grazie a loro». Quindi, insiste Barnard, «se Assange sarà estradato negli Usa – il paese che nel nome della Sicurezza Nazionale (sotto cui sarebbe processato Assange) tortura, stermina innocenti coi “drones”, nega ogni diritto di legge ai detenuti e straccia ogni singola convenzione Onu sui diritti umani – questo direttore di testata sarà macellato come nessun giornalista prima, secondo l’infame principio del “ne ammazzi uno per avvisarne cento”. Impossibile che riceva un giusto processo in America, oggi».Inutilmente, Barnard ha fatto appello a tutti gli attivisti fino a ieri schierati con Assange, suggerendo loro di battere due strade di enorme peso, riguardo all’esilio coatto (e precario) del fondatore di Wikileaks. Primo atto d’accusa: la violazione, da parte della Gran Bretagna, dei princìpi della Magna Carta e dell’Habeas Corpus, cioè «i due pilastri della giurisprudenza mondiale, nati 800 anni fa proprio in Inghilterra». Seconda strada: la possibilità di accusare Londra in base alla Convenzione dell’Onu contro la Tortura, ratificata dagli inglesi nel 1987. Il trattato dice esplicitamente dice che tortura è “estrema sofferenza, sia fisica che mentale, inflitta di proposito a un individuo”. Il che è esattamente «ciò che i governi britannici stanno facendo ad Assange da 6 anni, confinato in semi-isolamento, privato di cure mediche, senza luce naturale e sorvegliato con ferocia a ogni mossa». Risposte? Nessuna. Salvo l’onesta e penosa ammissione di Damien Gayle, del “Guardian”: abbiamo paura di essere licenziati, se solo proviamo a riparlare di Assange.Era il 2011 quando un parlamentare socialista norvegese, Snorre Valen, osò candidare Julian Assange al Premio Nobel per la Pace: «Wilikeaks – disse – è il paladino della libertà di espressione e della trasparenza nel XXI secolo». Parole oggi improponibili, impensabili. Lo conferma la costernazione di Paolo Barnard, dopo 11 giorni spesi a Londra nella solitaria difesa del “prigioniero”. «Torno a casa – scrive – con la conferma di ciò che ho sempre pensato: ha vinto la Commissione Trilaterale, quando nel 1975 decise che il popolo andava reso “apatico” con l’esplosione dei mass media sia ortodossi che “alternativi” (oggi i social), dove infuriano epiche leggende mentre nessuno davvero fa un cazzo nelle strade perché è fatica e rischio, dove si creano i miti Vip per il palcoscenico, e dove i veri eroi rimangono soli come cani». Ha vinto Huntington, ha perso Assange? Peggio: abbiamo perso tutti, in partenza, se non siamo capaci di muovere un dito per tutelare un campione dell’informazione. Ad Assange, peraltro, lo stesso Barnard non ha mai fatto sconti: certi “leak” possono davvero aver messo in pericolo alcuni esponenti dell’intelligence, violandone la segretezza. In cambio, però, il mondo ha potuto aprire gli occhi su realtà sconvolgenti. Non è strano che l’establishment tenti di soffocare Assange, in modo che la sua punizione sia d’esempio per chiunque altro volesse imitarlo. Lo scandalo vero è il silenzio assordante dell’opinione pubblica, per la quale Assage ha messo in gioco la sua vita.Ci ha rivelato verità indicibili, rendendoci più consapevoli e quindi più liberi. Ma ora Julian Assange può crepare, nella sua stanzetta-prigione, senza che nessuno muova un dito per salvarlo: giornali, attivisti, intellettuali, politici, governi. Si è immolato per tutti, con le esplosive rivelazioni affidate a WikiLekas. Sperava di suscitare un’ondata di protesta capace di scuotere il potere. E immaginava che l’indignazione lo avrebbe protetto dalla vendetta dell’establishment. Ma si sbagliava: Julian Assange sta morendo giorno per giorno: l’ambasciata ecuadoregna di Londra, che finora l’ha tenuto al riparo dall’estradizione, potrebbe non tutelarlo più. È così forte, la pressione degli Usa – sull’Ecuador, e sulle autorità britanniche – che le teste di cuoio inglesi potrebbero fare irruzione nella sede diplomatica e caricare Assange, il martire dell’informazione libera, sul primo volo per Washington. È sconvolgente il report che Paolo Barnard fornisce da Londra, dove ha trascorso le feste natalizie presidiando il “carcere” di Assange, agitando vistosi cartelli. Desolazione e solitudine. Peggio: i giornalisti del “Guardian”, i primi a presentare Assange come un eroe, ora confessano di essere intimiditi e ricattati. Per questo nessuno rimetterà in prima pagina il direttore di WikiLeaks. Julian Assange è praticamente già morto. Alla faccia dei diritti civili e dei diritti umani di cui l’Occidente si vanta.
-
Abolire le lezioni di storia: i docenti non insegnano niente
Un po’ di giorni fa, le associazioni dei docenti di storia e l’Istituto Storico per la Storia della Resistenza hanno lanciato un grido di dolore contro la proposta di abolire la traccia di storia fra quelle degli esami di Stato, additando l’incultura di chi ha fatto l’infausta proposta ed hanno colto l’occasione per la solita geremiade sulle cattedre perse, della marginalizzazione delle ore di insegnamento della storia ridotte ad una sola negli istituti tecnici, eccetera. La commissione ministeriale che ha approvato questa riforma degli esami di Stato è certamente composta da allevatori di bestiame capitati non si sa come in quella posizione, non discuto. Ma bisogna riconoscere che qualche ragione ce l’hanno: è un fatto che nell’ultimo decennio (più o meno) la traccia è stata scelta solo dall’1% dei candidati. E la cosa, cari colleghi, non vi dà nessun sospetto? Se il 99% degli studenti scansa la traccia di storia, non dipenderà dal fatto che la storia gli è stata insegnata con i piedi? Non cominciamo con le solite scuse sulla vulgata corrente che marginalizza le materie umanistiche e disincentiva i giovani a studiare la storia, su quella trappola infernale che è Internet, eccetera eccetera; il punto è che i nostri docenti non riescono ad interessare i ragazzi alla materia in questione.E questo si inserisce nel problema più generale dei troppi insegnanti che, magari, conoscono la materia ma non la sanno insegnare, e questo vale per tutte le discipline. In estate lessi di una classe di un istituto livornese dove erano stati bocciati o rimandati 40 studenti su 41, e un imbecille di docente confessava come giustificazione: «Non riusciamo a farli studiare». Come dire che “non sappiamo fare il nostro mestiere”, visto che il compito del docente è proprio quello di motivare i ragazzi a studiare. Morale: licenziamo in blocco i docenti di quella classe e faremo una cosa santa. Ma, si dice, della storia ha bisogno non solo la cultura ma anche la democrazia, perché, si dice, la storia ha un alto valore formativo. Ecco: il punto è proprio questo: la storia, così come viene insegnata, ha ancora questo valore formativo? Direi proprio di no. Per il modo in cui è ora mal insegnata non ha alcun valore culturale e, meno che mai, professionale. La storia non serve a “far bella figura in società” o ad assecondare una qualche voglia individuale di intrattenimento. La storia ha una funzione precisa nella spiegazione e critica del presente e, solo a questa condizione, è elemento utile al dibattito politico e culturale.Frugare a caso nel passato non serve a niente, quello che serve è risalire lungo la catena dei nessi causa effetto-che spieghino l’attuale stato di cose e servano da lente di ingrandimento per individuare cosa va conservato e cosa mutato nell’attuale ordinamento. Ora, c’è qualcuno che ha il coraggio di sostenere che l’attuale insegnamento serva a questo? Quanti docenti sarebbero in grado di spiegare il passaggio dalla formula merce-denaro-merce a quella denaro1-merce-denaro2 e spiegarne la portata storica? Quale insegnante saprebbe spiegare le conseguenze della decisione di Nixon sulla non convertibilità del dollaro nel 1971? Quanti docenti hanno una pur vaga idea del pensiero politico di Gandhi, Sukarno, Kemal Ataturk o sanno chi sono stati Nasser, Al Qutb o Franz Fanon? E chi saprebbe presentare adeguatamente il processo di codificazione dello Stato moderno europeo o il passaggio dalla decretazione alla legge? Ne dubito fortemente, perché i nostri docenti in massima parte sono filosofi o letterati che non capiscono nulla di diritto o economia e poco di sociologia o politologia.D’altro canto, i libri di testo che hanno a disposizione non parlano di certe cose e ripropongono la solita sbobba identica a se stessa da almeno 60 anni. Sì, ci abbiamo appiccicato a forza qualche capitolo sulla storia delle donne, dei giovani o dell’ambiente (che nessun docente trova il tempo di spiegare e che sono posti senza alcun legame con tutto il resto) ma la struttura resta quella di sempre, nella quale è possibile distinguere con chiarezza i suoi vari strati alluvionali: alla base il catechismo della “religione della Patria” con i suoi martiri (Menotti, Speri, Bandiera) e il suo glorioso cammino verso l’unità; poi il capitolo sulla Prima Guerra Mondiale per lo più di derivazione fascista; quindi la grande cupola dell’insegnamento crociano con il suo culto per l’analogia e il suo insopportabile moralismo, per cui il fine della storia è il giudizio morale (insomma, il voto in condotta a chi ci ha preceduto) e la sua totale insensibilità ai dati istituzionali ed economici; infine un po’ di catechismo antifascista.Beninteso: sono antifascista da sempre, non ritengo affatto che l’antifascismo sia un valore superato, ma non sopporto alcun tipo di catechismo. Si può capire che nel primo trentennio della Repubblica fosse necessario radicare la condanna del fascismo, ma vogliamo capire che la storia del fascismo va studiata in riferimento al tipo di modernità che si è costruita in questo paese? E che dopo il fascismo ci sono stati 70 anni di storia che sono bellamente ignorati dai nostri manuali? E senza che questo attenui di un etto la condanna del fascismo. L’antifascismo va benissimo, ma facciamolo vivere nel quadro del presente e non trasformiamolo in un polveroso museo di memorie. Insomma, è accettabile che il nostro insegnamento ignori cose come la decolonizzazione, la strategia della tensione, il Sessantotto, i mutamenti dell’ordine monetario, il crollo dell’Urss e dell’ordinamento bipolare, la trasformazione imperiale della presidenza americana, le rivoluzioni di Cina, Indonesia, Algeria, Vietnam, le guerre mediorientali, eccetera eccetera? Caro colleghi, ma in che secolo vivete?E non si tratta solo di recuperare il passato più recente, ma di leggere con altri occhi anche tutto il resto della storia alla luce dell’attuale ordinamento del mondo. Ad esempio, siamo sicuri che la storia degli Assiri, dei Babilonesi, dei Fenici sia così importante, mentre si trascurano del tutto le ben più importanti civiltà di India e Cina? Certo che la storia romana dobbiamo studiarla, ma è necessario beccarsi tutta la solfa delle dinastie gallo-romane, l’elenco completo delle battaglie di Cesare, gli imperatori più insignificanti, e non tentare una comparazione con le parallele vicende dell’India? Il medioevo va studiato, ma è così fondamentale dare tanto spazio alla lotta per le investiture, piuttosto che dare uno sguardo all’evoluzione dell’economia cinese a metà del XIV secolo, con il passaggio all’economia del riso e con il parallelo affermarsi del dispotismo asiatico? E, nella storia moderna, si potrebbe restringere un po’ il solito elenco di guerre e battaglie, ma dare più spazio alla nascita del diritto commerciale o al colbertismo. Quanto alla storia contemporanea, va bene che si parli della Shoà, ma non sarebbe più urgente e importante parlare del colonialismo e del suo residuo permanente? Magari ci riuscirebbe di capire meglio un fenomeno come il terrorismo jhadista.Tutto questo, però, presupporrebbe un corpo docente ben altrimenti formato. Anche l’istituzione del corso di laurea in storia è stato un vero disastro: nessun insegnamento di economia, diritto, scienza della politica, una infarinatura appena di sociologia, psicologia e antropologia e, in cambio, una valanga delle storie più minute e meno utili. Solito schema per le storie generali all’interno del solito eurocentrismo. Un marziano che scendesse sulla Terra e leggesse i nostri manuali di storia per farsi unìidea, capirebbe che l’unico protagonista della storia è sempre stato l’uomo bianco, salvo qualche rapida comparsata di qualche altro; che la storia umana ha seguito un unico cammino rettilineo, e che gli umani si sono sempre preoccupati solo dell’aspetto ideologico, dedicando di tanto in tanto qualche cenno di attenzione ai processi materiali. Cari colleghi, diciamolo, voi non fate storia, fate una noiosissima antiquaria. E non parliamo dell’aspetto metodologico: quanti docenti hanno idea di cosa sia la scienza della complessità o sarebbero spiegare cosa è un modello di simulazione e come funziona (anche un semplice wargame)? Quanti se la sentirebbero di accennare un approccio comparatistico? E quanti potrebbero provare una spiegazione dei processi storici in termini di psicoanalisi di massa? Lasciamo perdere.Già sento la risposta: «Dobbiamo rispettare i programmi ministeriali». Già, l’annosa piaga dei programmi ministeriali che mi fanno pensare che sia arrivato il momento di sbarazzarci della scuola statale (non ho detto della scuola pubblica, ma di quella statale): un modello organizzativo che ha avuto i suoi meriti ma che oggi, forse, è il caso di superare. In ogni caso, non mi è capitato di leggere di nessuna protesta dei docenti, dei loro sindacati, delle loro associazioni disciplinari contro i famigerati programmi ministeriali, pecoronescamente applicati. Tutto ciò premesso, come si fa a sostenere che l’attuale insegnamento della storia abbia una qualche utilità e possa riscuotere più di qualche sbadiglio dei ragazzi? Capisco la difesa più che della storia, degli impiegati statali incaricati di spiegare la “storia” da cui cercano “di tirare quattro paghe per il lesso”, ma se l’insegnamento della storia deve essere questo, forse è meglio che lo aboliamo del tutto. E forse i ragazzi odieranno di meno la storia e qualcuno inizierà a studiarla per proprio conto.(Aldo Giannuli, “Una modesta proposta sull’insegnamento della storia: aboliamolo. Lettera aperta ai colleghi storici”, dal blog di Giannuli del 30 ottobre 2018).Un po’ di giorni fa, le associazioni dei docenti di storia e l’Istituto Storico per la Storia della Resistenza hanno lanciato un grido di dolore contro la proposta di abolire la traccia di storia fra quelle degli esami di Stato, additando l’incultura di chi ha fatto l’infausta proposta ed hanno colto l’occasione per la solita geremiade sulle cattedre perse, della marginalizzazione delle ore di insegnamento della storia ridotte ad una sola negli istituti tecnici, eccetera. La commissione ministeriale che ha approvato questa riforma degli esami di Stato è certamente composta da allevatori di bestiame capitati non si sa come in quella posizione, non discuto. Ma bisogna riconoscere che qualche ragione ce l’hanno: è un fatto che nell’ultimo decennio (più o meno) la traccia è stata scelta solo dall’1% dei candidati. E la cosa, cari colleghi, non vi dà nessun sospetto? Se il 99% degli studenti scansa la traccia di storia, non dipenderà dal fatto che la storia gli è stata insegnata con i piedi? Non cominciamo con le solite scuse sulla vulgata corrente che marginalizza le materie umanistiche e disincentiva i giovani a studiare la storia, su quella trappola infernale che è Internet, eccetera eccetera; il punto è che i nostri docenti non riescono ad interessare i ragazzi alla materia in questione.
-
Si è spento Crozza (il comico, non Maurizio). Lo rivedremo?
Una delle cose più tristi a cui possa capitare di assistere è la morte, artistica, di un grande comico. Maurizio Crozza lo è stato per anni, pennellando deliziose caricature sulle maschere del potere, dal vanesio Renzi iper-dentuto al micidiale avatar DiMa.Ios, docile ventriloquo dell’infido e spregiudicato burattinaio Beppe Grillo. Minniti e Briatore, De Luca e Berlusconi, gli imbarazzanti “gnomi” leghisti, il cannibale Feltri. Sembrava alzare progressivamente l’asticella, il nazionalpopolare e intelligente Crozza, fino al giorno cui osò l’inosabile: all’indomani del massacro francese del Bataclan, 13 novembre 2015 (venerdì 13, anniversario del martirio dei Templari), il super-guitto genovese mise in scena una rappresentazione intensamente drammatica, inoltrandosi nel grottesco – dalle parti del teatro brechtiano – alludendo (temerariamente) a una regia “domestica” del terrorismo targato Isis, orchestrato da “men in black” come l’inquietante, cinico manager della fantomatica “InCool8”, vera e propria multinazione dell’orrore. Quella fu l’ultima volta in cui Maurizio Crozza, sui teleschermi, andò oltre il collaudato, gustosissimo cliché della parodia riservata ai piccoli eroi quotidiani del mainstream nazionale, politico e mediatico. Ma per scendere sotto il minimo sindacale c’è voluto il maledetto, temutissimo governo gialloverde.La puntata di “Fratelli di Crozza” andata in onda il 28 settembre su “La9” lascia addosso un senso di sgomento, quasi di lutto, per la perdita – irrimediabile? – di una voce critica a cui il pubblico s’era ormai abiutato. Quando si trasforma in pedestre propagandista del pensiero unico, tanto per cominciare, un comico non fa più ridere. Se poi insiste, per tutta la puntata, a prendere di mira solo il governo in carica, chiunque capisce che c’è qualcosa di profondamente stonato, nella sua perfomance. La satira, si sa, è efficace quando spara cannonate contro il potere. E solo un cieco, oggi, potrebbe non vedere che il potere – quello vero – non siede a Palazzo Chigi o nei ministeri, ma sta altrove: è nei giornali e nelle televisioni, alla Banca d’Italia, al Quirinale, alla Bce, nel direttivo di Confindustria, negli uffici della Commissione Europea e nei santuari della Borsa. E’ un assedio impressionante, quello che sta subendo il governo Conte: non si era mai visto un tale accanimento contro un esecutivo nazionale (ottimo, pessimo o mediocre che fosse). Va da sé: tanto zelo, nel contrastarlo, induce a sospettare che il governo in carica, comunque lo si valuti, stia creando effettivamente problemi all’establishment, all’oligarchia del denaro che – ormai l’hanno capito anche i sassi – tiene in ostaggio intere nazioni. Possibile che il brillante Maurizio Crozza non ne tenga conto? Ebbene, sì.Nel fatale autunno 2018, non pago di presentarsi al suo pubblico ormai nelle malinconiche vesti di ex comico, Crozza sale in cattedra come un Mario Monti qualsiasi, tentando di spacciare per verità di fede – alla platea – l’incresciosa storiella neoliberista dello Stato equiparato alla famiglia: che imperdonabile imprudenza, fare debiti, se poi i soldi bisogna restituirli. Ha mai sentito parlare di sovranità monetaria, Crozza? E’ convinto che Mario Draghi disponga di appena 100 soldi, finiti i quali resterebbe in bolletta? Si è mai chiesto, Crozza – feroce, col ministro Toninelli alle prese con la grana del viadotto Morandi – come fece, l’Italia, a costruire quel viadotto genovese? Crede che il governo dell’epoca abbia usato i risparmi della nonna saggiamente accantonati sotto il materasso? E poi: non si rende conto, Crozza, che il 70% degli italiani lo sostiene, questo precario governo che denuncia l’impostura dell’austerity? Non riesce a spiegarselo, il perché? Non sospetta che, forse, gli italiani abbiano fiutato il grosso imbroglio con il quale sono stati raggirati per decenni, dai cantori del rigore altrui? Tutto questo accade mentre un altro mattatore del piccolo schermo, Fazio Fabio, ospita stabilmente l’oligarca Carlo Cottarelli, presentandolo come neutrale scienziato dell’economia. La differenza? Cottarelli e Fazio non faranno ridere, ma almeno non sono accreditati come comici. Maurizio Crozza, invece, a far ridere non ci prova neppure più.Una delle cose più tristi a cui possa capitare di assistere è la morte, artistica, di un grande comico. Maurizio Crozza lo è stato per anni, pennellando deliziose caricature sulle maschere del potere, dal vanesio Renzi iper-dentuto al micidiale avatar DiMa.Ios, docile ventriloquo dell’infido e spregiudicato burattinaio Beppe Grillo. Minniti e Briatore, De Luca e Berlusconi, gli imbarazzanti “gnomi” leghisti, il cannibale Feltri. Sembrava alzare progressivamente l’asticella, il nazionalpopolare e intelligente Crozza, fino al giorno in cui osò l’inosabile: all’indomani del massacro francese del Bataclan, 13 novembre 2015 (venerdì 13, anniversario del martirio dei Templari), il super-guitto genovese mise in scena una rappresentazione intensamente drammatica, inoltrandosi nel grottesco – dalle parti del teatro brechtiano – alludendo (temerariamente) a una regia “domestica” del terrorismo targato Isis, orchestrato da “men in black” come l’inquietante, cinico manager della fantomatica “InCool8”, vera e propria multinazione dell’orrore. Quella fu l’ultima volta in cui Maurizio Crozza, sui teleschermi, andò oltre il collaudato, gustosissimo cliché della parodia riservata ai piccoli eroi quotidiani del mainstream nazionale, politico e mediatico. Ma per scendere sotto il minimo sindacale c’è voluto il maledetto, temutissimo governo gialloverde.
-
Il potere è una religione: vuole il nostro odio, e lo censura
Mi chiedi la mia opinione sul potere. E certo intendi il potere apparente dell’uomo sull’uomo, quello che muove la ruota terrestre. Comma primo: il potere esige, vuole determinatamente farsi odiare dal suddito, dall’impotente sottomesso. Secondo comma: il potere proibisce l’odio stesso che esige. Vuole contemporaneamente farsi odiare, nell’intimo del suddito al quale ha strappato un irrisorio consenso, e farsi ammirare e amare all’esterno, nelle manifestazioni rituali. Gli chiede quindi tutto: amore, odio; reverenza, paura, silenzio, imprecazione, giuramento; obbligazione, ipocrisia; rispetto, distanza, dispetto; e così via. Il potere attira a sé tutto il sottomesso e lo colloca all’opposto di sé, nell’impotenza garantita da leggi e regolamenti che il potere emana contro i sudditi. Il suddito deve essere totalmente tale, non uomo, non umano, ma insetto, unità funzionale, sensore di un’anima-gruppo che produce, raccoglie e mette a memoria (del potere) le esperienze e le fatiche di tutti i sudditi, di generazione in generazione. E questa anima-gruppo, nella quale tutto confluisce e si trasforma irriconoscibilmente, è l’organizzazione, lo Stato.Per ottenere la plenitudine della potenza, il potere garantisce di essere tramite tra i sudditi e il Potere, la Divinità, l’Oltre, un oltreprima invisibile per il suddito ma garantito dalla Storia, dai Sacri Libri, dalla Tradizione, dalla paura. Solo il potere conosce, eredita e può gestire il Potere. In tal modo, il potere è la sola religione. La sola religione è il potere… Nella immobilità di questo statuto, che fonda il potere sovrano e la sudditanza totale, sono diverse ma coincidenti le dichiarazioni con le quali il potere si fa erede e garante del Potere: il suo preambolo d’investitura può riferirsi alla Tradizione o alla Rivoluzione, a Dio o al Popolo, allo Spirito o al Sangue, a un Santo o ad un Vendicatore assunti o al cielo dei Martiri o a quello degli Eroi. Le differenze sono puramente formali e vogliono apparire evidenti nei rituali di investitura e di celebrazione – che è una autocelebrazione del potere – allo scopo, non dichiarato per quanto è implicito, di separare i sudditi di un potere dai sudditi degli altri poteri e di proibire ad essi la consapevolezza che la sottomissione e l’impotenza sono totali, che il potere ha questa sola religione, comunque travestita, e tutta la geografia è del potere.In quanto religione, cioè in quanto potere tendenzialmente assoluto, il potere non promana dai sudditi, anche se ad essi chiede periodicamente una ratifica formale, ma proviene dall’alto, che è il potere stesso in precedenti codificazioni, discende dall’oltre, divino per assioma o divinizzato per abitudine indotta e obbligata. Ai sudditi non spetta, quindi, che un comportamento religioso, cioè ubbidienza, paura, ossequio, sacrificio, silenzio su ogni argomento e progetto che sia dichiarato lesivo od offensivo del potere. La sua maestà è sacra. La sua storia è, per definizione culturale, la sola storia dei sudditi. A compenso e tacitazione di questa espropriazione tendenzialmente assoluta delle singolarità, il potere ammette ma riservandosene la punizione esemplare – la bestemmia, la ribellione segreta, la rabbia momentanea, la fuga od evaporazione psichica all’interno ingovernabile del suddito. Il misticismo e la demenza sono i due modi apparentemente estremi della stessa evasione dall’invivibile storico, ossia dal potere totalmente subito.Appartiene al potere, in certi casi, provocare sia il misticismo che la demenza e garantire l’emarginazione degli evasi immaginari ora in conventi e ora in istituzioni psichiatriche, ora in ghetti e ora in carcere. Le evasioni reali sono immediatamente perseguite. In quanto il potere è religiosamente totale, non ammette scampo. Il suddito può odiarlo in segreto – il potere glielo proibisce per concederglielo meglio. Ma all’esterno, nel rituale pubblico, deve soltanto ubbidire – il potere glielo obbliga per dargli quella sola libertà impotente, l’odio. Nessuna legge o consuetudine permette l’odio manifesto al potere, e nessuna legge o consuetudine lo perdona appena si manifesti. L’odio non è mai neppure nominato come possibile, come non è mai neppure nominata l’ubbidienza come comportamento obbligato. Ma nessuna legge perdona la disubbidienza manifestata, a reprimere la quale ogni legge del potere è dedicata. La legge è dunque pura e totale emanazione del potere da ubbidire e della sudditanza come pura e totale ubbidienza, da prima della nascita a dopo la morte. Infatti la nascita e la morte, in quanto atti religiosi, cioè accadenti all’interno del potere, che significano l’iscrizione o la cancellazione di un suddito, sono possessi del potere stesso. In tal modo esso espropria dell’origine e della fine, e abbiamo visto dell’intera esistenza, i suoi sudditi naturali.La volontà del potere sostituisce, con un atto ufficiale, la non volontarietà sia del nascere che del morire in quel tempo e in quello spazio. Il tempo e lo spazio sono possessi del potere divisi con altri poteri confinanti nel tempo e nello spazio. I sudditi non hanno altro spazio e altro tempo che quelli notarizzati e garantiti dal potere. Anche i morti sono suoi sudditi. E i nascituri, immediatamente trasferiti nei suoi registri e nei suoi dati statistici, ricevono una garanzia di esistenza in quanto sudditi incancellabili del potere. Tutto quanto ti ho detto è impossibile ad intendersi, prima ancora che ad accettarsi, essendo la verità stessa del potere, cioè quello che innanzitutto il potere proibisce di sapere. Per il potere, infatti, tutto il sapere è interno al potere e da lui derivato. È proibito sapere che cos’è il potere. Ed è tanto proibito che il potere stesso non lo sa, se lo proibisce. In tal modo il potere ha anche una buona coscienza. Perciò la cattiva coscienza resta tutta ai sudditi che essi possono tenere per sé in silenzio e senza redenzione.Non si è mai sufficientemente attenti all’orrore del potere, al karma del ruolo emergente. Chi si inchina ad adorare un potente adora, in realtà, se stesso, l’immagine di una potenza agognata, invidiata e impossibile. Appena ti lasci adorare, sei un potente; appena ti compiaci dell’adorazione, sei un potente che ammette il suddito e in quel momento lo crea, incatenato a quel ruolo. La stessa catena ti lega e ti inganna, senza scampo. La verità interiore dice: niente è adorabile se non ciò che non si può adorare; niente è alto se non ciò che ti innalza; tutta la potenza è in un filo d’erba, e si fa calpestare; tutto il potere del mondo è una tua immagine agognata, invidiata e impossibile: in realtà, il potere è magia, ma il vero mago ha potere solo su se stesso ed è suddito solo di se stesso.(Estratto dal libro “L’uomo zero” di Pietro Cimatti, edito da Astrolabio-Ubaldini – 160 pagine, euro 10,33 – ripreso da “La Crepa nel Muro” il 19 agosto 2018).Mi chiedi la mia opinione sul potere. E certo intendi il potere apparente dell’uomo sull’uomo, quello che muove la ruota terrestre. Comma primo: il potere esige, vuole determinatamente farsi odiare dal suddito, dall’impotente sottomesso. Secondo comma: il potere proibisce l’odio stesso che esige. Vuole contemporaneamente farsi odiare, nell’intimo del suddito al quale ha strappato un irrisorio consenso, e farsi ammirare e amare all’esterno, nelle manifestazioni rituali. Gli chiede quindi tutto: amore, odio; reverenza, paura, silenzio, imprecazione, giuramento; obbligazione, ipocrisia; rispetto, distanza, dispetto; e così via. Il potere attira a sé tutto il sottomesso e lo colloca all’opposto di sé, nell’impotenza garantita da leggi e regolamenti che il potere emana contro i sudditi. Il suddito deve essere totalmente tale, non uomo, non umano, ma insetto, unità funzionale, sensore di un’anima-gruppo che produce, raccoglie e mette a memoria (del potere) le esperienze e le fatiche di tutti i sudditi, di generazione in generazione. E questa anima-gruppo, nella quale tutto confluisce e si trasforma irriconoscibilmente, è l’organizzazione, lo Stato.